di Stefano Parise
Che l'Italia non brilli per livelli di istruzione e di competenza della popolazione adulta è un fatto acclarato da tempo. Ne parlava già Pasquale Villari all'indomani dell'unificazione politica del paese commentando i risultati del censimento nazionale del 1861, che aveva messo impietosamente in luce l'abisso di arretratezza nel quale si dibatteva la stragrande maggioranza della popolazione del neonato Regno d'Italia. Porre rimedio all'alto tasso di analfabetismo (74%) rappresentava - agli occhi della parte più avvertita, ma minoritaria, della classe dirigente dell'epoca - una priorità nazionale, funzionale alle ambizioni di uno stato giovane e alle prese con la necessità di modernizzare la società e l'economia.
Ci volle quasi un secolo per colmare il divario che separava l'Italia dalle nazioni europee più evolute e solo nel 1961 - cioè alla vigilia della riforma della scuola media - la percentuale della popolazione analfabeta scese sotto la soglia del 10%. Oggi l'analfabetismo assoluto è del tutto residuale (l'Istat lo rileva all'1% nel 2011) ma nel frattempo il mondo è profondamente cambiato e le competenze necessarie per vivere e per lavorare nella società globale del XXI secolo sono mutate altrettanto radicalmente: ai saperi di base necessari per vivere in una società prevalentemente contadina si sono sostituite dapprima le competenze utili per lavorare nelle fabbriche e per vivere in realtà urbane sempre più complesse, fino ad arrivare, al principio del terzo millennio, sulla soglia di un mondo dominato dalle tecnologie e orientato verso un'economia completamente fondata sul lavoro intellettuale.
Questo vero e proprio cambio di paradigma ha vanificato gli sforzi compiuti - pur tra mille contraddizioni e inadeguatezze - per riallineare il bagaglio di competenze della popolazione italiana adulta alle esigenze della società del secondo Novecento, rendendole rapidamente obsolete e ricacciando il nostro paese in una situazione che credevamo di esserci lasciati definitivamente alle spalle. All'analfabetismo assoluto si è sostituito quello funzionale, termine con cui si individua l'assenza del minimo di competenze necessarie per vivere e lavorare nella società della conoscenza: una situazione nella quale si troverebbe circa il 70% della popolazione italiana adulta. È cambiato il lessico ma il risultato è lo stesso, l'Italia resta una nazione popolata da una maggioranza di incompetenti, per lo più allegramente ignari di esserlo.
Le dimensioni di questo vero e proprio default italiano dalle radici antiche sono descritte in maniera ampia e ben documentata nel nuovo lavoro di Giovanni Solimine, intitolato significativamente Senza sapere. Il costo dell'ignoranza in Italia (Laterza, 2014). Il libro ricompone con lucidità un quadro dai contorni netti e, sfortunatamente per noi, inequivocabili: stiamo danzando sull'orlo di un vulcano pronto ad esplodere, che rischia di sprofondarci nuovamente nel baratro di povertà e arretratezza dal quale ci siamo allontanati con fatica a partire dal secondo dopoguerra, senza consapevolezza della gravità della situazione né di una reale presa in carico del problema da parte dei governi che si succedono alla guida del paese.
La situazione descritta da Solimine è la cronaca del suicidio di una nazione ripiegata su se stessa, prigioniera di un dibattito asfittico e persino sviato sulle ragioni della crisi economica ed incapace di dare vita a politiche di sviluppo fondate sull'investimento nella ricerca, sulla centralità dei percorsi educativi e di aggiornamento, sull'innovazione applicata in ambito economico e produttivo. Detto in altri termini, non siamo in grado di attivare un circolo virtuoso fra i tre vertici del 'triangolo della cultura' (prendo in prestito una definizione di Umberto Eco) rappresentato dalla creazione, trasmissione e applicazione di nuova conoscenza.
L'Italia, di questo passo, rischia di essere la Pompei del terzo millennio, sotterrata dalla nuvola di lapilli e cenere prodotta dall'incapacità di superare il modello di sviluppo abbracciato dopo la seconda guerra mondiale: uno sviluppo senza conoscenza, orientato alla produzione di beni a bassa intensità tecnologica, tali da non richiedere investimenti in ricerca e innovazione né mano d'opera particolarmente qualificata; una specializzazione produttiva oggi inesorabilmente di retroguardia.
Senza sapere si inserisce in un filone editoriale che negli ultimi anni ha conosciuto una discreta fortuna, arricchendosi di contributi tesi a descrivere il ruolo che l'investimento culturale può giocare nel rilancio del sistema economico e sociale italiani1 e segna un allargamento degli interessi dell'autore che già nel 2010 aveva effettuato un'analisi puntuale delle abitudini e delle attitudini di lettura degli italiani, pubblicata sempre per i tipi di Laterza2.
Solimine effettua una scelta di campo preliminare, concentrandosi in particolare su uno dei vertici del 'triangolo della conoscenza', quello che riguarda la sua trasmissione attraverso il sistema educativo e della formazione continua. La trattazione si articola in cinque capitoli, il primo dei quali dedicato alla descrizione - condotta attingendo a un'ampia messe di fonti statistiche e tenendo conto della letteratura più recente sul tema - del pesante gap di istruzione e di competenza che penalizza la società italiana nel confronto internazionale, frenandone lo sviluppo; il secondo capitolo prende in esame il concetto di benessere e quello di bene comune per poi approfondire il nesso fra politiche culturali e riduzione delle disuguaglianze; il terzo e il quarto capitolo sono dedicati rispettivamente alla Rete come ambiente per l'accesso e la condivisione della conoscenza e ai meccanismi di circolazione, conservazione, mediazione e disseminazione della conoscenza; il quinto analizza la spesa pubblica italiana in cultura ed istruzione delineando una serie di proposte per rendere possibile un rilancio delle politiche pubbliche a sostegno della conoscenza.
Scorrendo le pagine del volume apprendiamo particolari a cui si stenta a credere. Ad esempio, che la misura degli squilibri fra nord e sud non è variata nell'arco degli ultimi 150 anni, a ricordarci che il nostro paese non ha mai superato le proprie divisioni; oppure, che oltre 300.000 minori residenti nelle regioni meridionali non sono mai andati al cinema, non hanno mai fatto sport, acceso un pc o letto un libro durante l'anno; o ancora, che in Italia il numero dei laureati è del 60% più basso che nel Regno Unito mentre quello dei ricercatori è la metà di quelli operanti in Germania, o che l'incidenza della spesa per la cultura sul PIL nel nostro paese è la metà della media europea. Si potrebbe continuare a lungo, ma ci fermiamo per carità di patria, rimandando alla lettura del libro l'approfondimento di ogni dettaglio. Resta il fatto che, come nota anche l'autore, «emerge la politica suicida dei paesi più poveri e arretrati: [...] fra quelli che hanno disinvestito si collocano l'Italia (-14%), la Spagna (- 11%), il Portogallo (- 4,1%) e la Grecia (- 25%)»; non sarà un caso che si tratti dei cosiddetti Pigs, i paesi nei quali le onde della crisi battono con maggiore violenza e che risultano in fondo alle classifiche internazionali per questo tipo di investimenti3.
Nel caso dell'Italia, non basta apprendere che nel medio periodo - gli ultimi vent'anni - l'Italia sia l'unico paese a segnare un avanzamento per assolvere le politiche pubbliche nel campo dell'istruzione e della formazione dall'accusa di disastro colposo e le generazioni di politici che le hanno volute - o al contrario apertamente osteggiate o platealmente ignorate - di alto tradimento per aver sottovalutato quale enorme danno si è inflitto a intere generazioni di italiani. I quali, peraltro, sembrano non accorgersi del conto salato che stanno pagando - e che pagheranno le generazioni dei loro figli e nipoti - e vivono baloccandosi nell'attesa di una salvifica ripresa che assolverà tutti. Una ripresa che non arriverà mai se i livelli di formazione e di competenza della popolazione resteranno così bassi: «Siamo talmente ignoranti da non comprendere perfino quanto sia grave e pericoloso il nostro livello di ignoranza, e da non correre ai ripari», sostiene l'autore, ma non totalmente stupidi - aggiungo - da non comprendere che in Italia l'investimento sulla propria educazione e su quella dei figli è attualmente un gioco a somma negativa: all'estero studiare rende molto di più che in Italia, in termini di reddito e di occupazione, mentre nella società italiana l'istruzione ha completamente perso il suo ruolo di propellente per la mobilità sociale. E ciò, unito all'arretratezza di un sistema economico e produttivo scarsamente votato all'innovazione e incapace di assorbire forza lavoro con elevati livelli di istruzione (altro dato in controtendenza rispetto ai paesi dell'UE), è un freno potentissimo al proseguimento degli studi. E infatti in Italia le iscrizioni all'università e la percentuale di laureati sono in calo costante dal 2006. Con l'aggravante, ben evidenziata da Solimine, che anche nei pochissimi settori in cui l'Italia progredisce, la velocità del cambiamento è inferiore a quella registrata in altri paesi. Se l'Italia cammina, il resto del mondo corre e ciò nella competizione globale equivale a un arretramento: «Vai troppo piano, muoviti muoviti!», urlava il sergente Hartman alla recluta Palla di Lardo nel film Full metal jacket di Stanley Kubrick. E alla fine la recluta, incapace di reagire, si suicida, lasciandosi alle spalle una scia di sangue.
Quale destino ci attende, se la china sulla quale stiamo scivolando non sarà arrestata? Per un economista dovrebbe essere del tutto chiaro che mantenere il paese in uno stato d'ignoranza come quello descritto è poco sostenibile e per nulla conveniente: i costi degli effetti nefasti che si produrranno per i decenni a venire sono molto più alti dell'investimento necessario a rimuoverli una volta per tutte. Ma le voci che si levano in questa direzione sono rare e ancora poco avvertibili, sovrastate dal mantra del taglio alla spesa pubblica e della compressione dei salari (e dei diritti) come unica via d'uscita dalla crisi. Solimine ricorda che
le proiezioni dell'European Centre for the Development of Vocational Training (CEDEFOP) prevedono che nel 2020 [...] l'Italia sarà uno dei paesi con elevata percentuale di forza lavoro in possesso di bassi livelli di qualificazione (37% contro una media UE del 19,5) e [...] sarà penalizzata da una notevole carenza di forza lavoro altamente qualificata.
Questo frutto avvelenato dello spread che si determina fra gli anni di istruzione accumulati dai cittadini di gran parte dei paesi del mondo e quelli degli italiani può essere sintetizzato con un crudo esorcismo: senza un cambio repentino di rotta saremo condannati ad esportare braccia invece che cervelli. Per invertire la tendenza ed abbandonare il modello di sviluppo senza conoscenza, l'autore individua alcuni interventi (definiti, forse con eccesso di prudenza) 'spunti', avvertendo che
sarebbe imperdonabilmente presuntuoso pensare di poter dettare qui le linee di attività che potrebbero farci uscire da una situazione tanto pesante, come quella descritta in questo volumetto, che ha principalmente l'obiettivo di denunciare i limiti - o se preferite, l'assenza - di una politica per la conoscenza4
osservazione condivisibile, poiché non è lecito pretendere dallo studioso ciò che nemmeno gli apparati ministeriali, i think tank che popolano le università o i guru dell'imprenditoria nostrana non sono stati finora in grado di formulare; ma nondimeno osservazione insoddisfacente, perché il contributo di consapevolezza offerto al lettore acquisirebbe maggior forza se corredato da proposte immediatamente operative. E tuttavia gli 'spunti' contenuti nel volume prefigurano una sorta di 'triangolo della formazione' i cui vertici sono rappresentati dalla scuola primaria e secondaria, dall'università e dalle biblioteche. Esso si articola:
É bene sottolineare come Solimine non reputi superata la funzione archiviale della biblioteca, una matrice storica «che non va messa in relazione soltanto alle esigenze di conservazione e tutela della produzione culturale, scientifica, editoriale da tramandare nei secoli, né alle esigenze di pochi studiosi» ma che deve essere riconnessa al rapporto che si instaura fra la raccolta libraria e il suo ambiente, la sua comunità di riferimento: un rapporto che ha una valenza culturale, sociale ed identitaria. La doppia anima della biblioteca - istituto della comunità locale e finestra aperta sul mondo - è la chiave di lettura che, nell'epoca della rete, può evitare che essa diventi un semplice punto d'accesso a un sapere sempre più universale ma sempre più anonimo, purché si sappiano dosare con sensibilità ed equilibrio le due componenti.
Resta il fatto che per rimuovere i fattori strutturali che contribuiscono a rendere inerte o poco reattivo il nostro sistema educativo e per sviluppare la percezione che la cultura e l'istruzione siano il vettore in grado di sospingerci - come afferma Marino Sinibaldi in un recente libro intervista - «un millimetro in là»5, serve in primo luogo rivalutare la cultura come fattore di coesione sociale e la conoscenza come bene in sé, come valore riconosciuto e condiviso.
La domanda che sorge spontanea leggendo il libro di Giovanni Solimine è se l'Italia sia pronta ad assumersi le proprie responsabilità e a mettere al centro del dibattito pubblico e dell'azione di governo il tema delle competenze e del merito come via per uscire dal pantano sociale ed economico nel quale si dibatte, come via per una modernizzazione intelligente, rispettosa ed equa. E la risposta non può essere formulata senza considerare le dinamiche di formazione e selezione delle élites. Un cambio di paradigma non sarà possibile senza una nuova classe dirigente, capace di assumersi la responsabilità storica di andare oltre gli interessi corporativi per perseguire interessi generali di medio/lungo periodo, enucleati e perseguiti all'interno di una visione del futuro dell'Italia come democrazia della conoscenza. Le nuove élites di cui necessita il belpaese non possono più essere il prodotto di fattori ereditari o del persistere di incrostazioni clientelari, corporative, baronali, di piccoli e grandi privilegi consolidati all'ombra protettiva della politica, che nel complesso - come ricordato l'11 agosto scorso sul Corriere della Sera da Ernesto Galli Della Loggia - rappresentano un poderoso agglomerato di interessi favorevoli solo a parole al cambiamento ma in realtà timoroso dei suoi effetti e pronto ad allearsi per contrastarli.
Il ricambio generazionale delle élites, di recente ribattezzato «rottamazione», per essere efficace non può limitarsi a colpire i quadri della politica, della burocrazia o del capitalismo di stato: essa avrà un valore solo se si estenderà al resto della società favorendo l'ascesa di una nuova generazione di imprenditori, dirigenti, professionisti, docenti, operatori culturali selezionata in base alla competenza e in grado di abbracciare la cultura della conoscenza come metodo e come pratica.
La nuova classe dirigente non può che essere il prodotto di una scuola e di una università in grado di accompagnare i meritevoli ai livelli più alti di istruzione, dopo aver rimosso le barriere che ostacolano il percorso dei meno abbienti: una scuola e un'accademia in grado di selezionare in itinere, non in ingresso.
In questo senso il 'triangolo della formazione' descritto da Solimine, con il ripensamento del ruolo dell'università e le funzioni legate all'educazione permanente attribuiti alle biblioteche, rappresenta un efficace strumento per costruire un ecosistema favorevole all'innovazione produttiva, al cambiamento sociale e alla partecipazione civica, che trova una eco puntuale nella Dichiarazione di Lione promulgata dall'IFLA in occasione dell'80ª edizione del congresso mondiale delle biblioteche6: il tema non riguarda solo il nostro paese perché la scommessa di una società più equa perché più consapevole dei diritti, più dinamica perché formata da cittadini istruiti, più inclusiva perché in grado di valorizzare le capacità di ognuno è una sfida globale che si gioca anche garantendo l'accesso universale all'informazione e alle competenze necessarie per farne un uso consapevole. Influenzare la stesura dell'agenda post-2015 dell'ONU, sensibilizzare gli stati membri a considerare l'accesso all'informazione come una condizione essenziale per uno sviluppo equo, sostenibile e duraturo, come si prefigge l'IFLA con questo importante documento, è certamente un modo per favorire anche il cambio di paradigma analizzato e descritto nelle pagine di Senza sapere.
[1] In particolare si ricordano: Ignazio Visco, Investire in conoscenza: per la crescita economica. Bologna: Il Mulino, 2009; Christian Caliandro; Pier Luigi Sacco, Italia reloaded: ripartire con la cultura. Blogna: Il Mulino, 2011; Bruno Arpaia; Pietro Greco, La cultura si mangia!. Parma: Guanda, 2013; Roberto Ippolito, Ignoranti: l'Italia che non sa, l'Italia che non va. Milano: Chiarelettere, 2013.
[2] Giovanni Solimine, L'Italia che legge. Roma-Bari: Laterza, 2010.
[3] I dati si riferiscono all'investimento in istruzione superiore nel periodo 2008-2012. Si veda Giovanni Solimine, Senza sapere: il costo dell'ignoranza in Italia, Roma-Bari: Laterza, 2014, p. 151.
[4] Ivi, p. 157.
[5] Marino Sinibaldi, Un millimetro in là: investire sulla cultura, a cura di Giorgio Zanchini. Roma-Bari: Laterza, 2014.