di Lorenzo Baldacchini
Può applicarsi anche alle biblioteche la nota affermazione di Donald McKenzie, secondo il quale nuovi lettori produrrebbero nuovi testi1? Si può cioè affermare che i nuovi lettori producano nuove biblioteche? Ancora prima di rispondere a questa domanda dovremmo forse avanzare il dubbio che entrambe le proposizioni possano essere rovesciate nel modo seguente:
a) nuovi testi producono nuovi lettori
b) nuove biblioteche producono nuovi lettori.
Tuttavia non è solo per amore delle tesi che si possono definire 'di scuola' che è lecito porsi questi interrogativi. L'epoca nella quale viviamo è infatti caratterizzata da due fenomeni particolarmente significativi che interessano entrambi l'attività del leggere (e quindi le biblioteche, postulato che la lettura e la biblioteca intrattengano ancora un legame piuttosto solido).
Da una parte si manifesta quasi quotidianamente, ormai da anni, una discussione che non di rado è arrivata a coinvolgere i mezzi di comunicazione di massa (stampa periodica e rete in primo luogo) sui destini della lettura, almeno di quella che potremmo definire 'tradizionale', praticata cioè sul supporto della carta stampata. Questo tipo di lettura sarebbe minacciata (e di fatto in qualche modo lo è) dall'esplosione di nuovi media che starebbero segnando un regresso della pratica di leggere lo stampato2. Si sono moltiplicate su questo argomento sia riflessioni di carattere scientifico, che inchieste, pamphlet, gridi di allarme di vari maitres à penser che non di rado hanno ottenuto il risultato di dividere sia gli addetti ai lavori che l'opinione pubblica in 'apocalittici' e 'integrati'3, in una sorta di coazione a ripetere del dejà vu. Il fenomeno in questione, che è stato di volta in volta etichettato come 'crisi' o perfino 'morte' del libro a stampa e della lettura, ha prodotto quasi di risulta un dibattito, talvolta approfondito, talaltra un po' ideologico sul futuro delle biblioteche, destinate secondo alcuni a trasfigurarsi in una sorta di luoghi di fatto immateriali, non più identificabili in spazi fisici occupati da oggetti tridimensionali e da individui che ne fanno un qualche uso per i propri fini. L'emergere di questa prospettiva, che certamente è tutt'altro che priva di qualche riscontro reale, ha prodotto una visione che identifica la biblioteca, in particolare quella pubblica, in una sorta di presidio del libro oggetto e della lettura tradizionale, un po' nostalgicamente rivolta alla salvaguardia di modalità di acquisizione della conoscenza, o meglio della crescita culturale, morale, emotiva ecc., per mezzo di pratiche secolari, come la lettura della carta stampata. Ma per contro, quasi nel tentativo di sfuggire a un destino che si intravede poco roseo, sempre più si sono affacciate ipotesi di 'trasfigurazione' delle biblioteche pubbliche, in luoghi deputati a una non meglio identificata 'socializzazione', dove alla fine può diventare lecita l'introduzione di qualunque tipo di pratica, purché appunto portatrice di forme di socializzazione, con conseguente auspicabile (ma in definitiva forzato, per non dire drogato) aumento dell'utenza, o almeno mantenimento dei suoi livelli attuali. Devo dire che entrambi questi modelli, la biblioteca come presidio incontaminato dell'atto del leggere4 e la biblioteca/centro sociale risultano per nulla convincenti, anzi viziati da una sorta di 'fiato corto', per non dire proprio da visioni che si sarebbe tentati di definire un po'reazionarie.
Ma forse il vizio di fondo consiste nell'approccio che vede nella lettura qualcosa di indifferenziato, privo di quelle vaste articolazioni che invece possono farci cogliere tutta la sua complessità, la sua realtà a tutto tondo. A tal proposito, per inciso, mi viene fatto di rammentare che gli antichi greci utilizzavano numerosi verbi (almeno una dozzina) per indicare l'atto del leggere. Ed è forse da qui, da questa ricchezza infinita dell'atto (degli atti) del leggere che dovremmo far ripartire ogni discorso che termini con la parola biblioteca. Certamente la lettura per 'piacere' è operazione che si diversifica da quella per 'dovere'. E la lettura di un e-book non è tanto facilmente omologabile a quella di un rotocalco cartaceo, o di un palinsesto pergamenaceo, per non dire di quella relativa a un post di Facebook su uno smartphone. Questo vale naturalmente se mettiamo il focus sulla lettura come pratica sociale. Ma invece della realtà fisica della lettura, della sua dimensione materiale, cosa conosciamo veramente?
Accanto a questo primo dei due fenomeni dei quali parlavo - e qui vengo al secondo, molto meno noto al grosso pubblico, perché molto meno visibile sui mass media - se ne colloca un altro. Gli anni iniziali del nuovo millennio sono stati contrassegnati dal fiorire di studi e ricerche che hanno riguardato e riguardano l'atto del leggere come attività cerebrale, anzi per meglio dire neuronale. Una parte di queste ricerche sono state divulgate (absit iniuria verbis) anche presso il pubblico italiano in virtù della traduzione nella nostra lingua di saggi famosi nel mondo scientifico quali I neuroni della lettura di Stanislas Dehaene e soprattutto di Proust e il calamaro di Maryanne Wolf5. Proprio quest'ultimo libro comincia con un'affermazione che potrà suscitare sentimenti di perplessità, se non di vero e proprio sconcerto, in bibliotecarie e bibliotecari: «Non siamo nati per leggere»6. Naturalmente il senso che l'autrice vuole dare a questa constatazione, alla quale è giunta dopo anni di ricerche sue e di studiosi nordamericani ed europei e anche in virtù dell'esperienza personale di un figlio dislessico, non è affatto quella di demolire le fondamenta di progetti benemeriti come Born to read, in italiano Nati per leggere, che hanno visto l'opera appassionata e competente di tanti bibliotecari e bibliotecarie, nonché di pediatri, genitori ecc. sia negli USA che nel nostro paese7. L'affermazione scaturisce invece dai risultati di ricerche che hanno ampiamente dimostrato come il cervello degli umani non sia (ancora?) orientato in modo naturale (nel senso di ereditario per via genetica) verso attività come quella di leggere. Lettura e scrittura esistono infatti da talmente pochi millenni in confronto alla longevità della specie homo sapiens che non hanno prodotto modifiche nel cervello umano trasmissibili geneticamente da individuo a individuo, a differenza di quello che è avvenuto ad esempio, come è ormai certo, per il linguaggio vocale, pratica invece molto più antica e peraltro non assente negli altri primati nonché in altre specie animali. In definitiva, come fa notare la Wolf, quando un bambino impara a leggere, taglia in meno di un biennio un traguardo che la sua specie ha raggiunto in quasi 10.000 anni!
E come è possibile tale sorprendente miracolo? In sostanza il nostro cervello attiva, durante la pratica della lettura, la regione occipito-temporale sinistra, diversa da quelle che si attivano ad esempio per il riconoscimento delle parole parlate e dei volti umani. Tale regione era quella in precedenza utilizzata da nostri antenati cacciatori (che però non di rado erano anche prede) per riconoscere le tracce degli animali cacciati o ai quali sfuggire. Queste attività neuronali sono ormai conoscibili mediante esperienze di cosiddetto imaging cerebrale (consistente in sostanza nel metodo della scintigrafia), che hanno consentito di osservare dal vivo quali aree del cervello entrano in azione e quali sinapsi si creano tra loro durante le varie attività umane e quindi anche durante l'atto del leggere.
Anche se queste indagini sono ancora ben lungi dall'essersi sviluppate completamente, i risultati sin qui conseguiti sono molto significativi. Ma se è vero - per quanto abbiamo detto - che leggere è anche un po' cacciare (ed essere cacciati), questo paradigma non ci porta per caso a individuare la biblioteca come territorio nel quale cerchiamo le nostre prede intellettuali, o nel quale noi stessi diventiamo prede per il pensiero altrui? Non è forse la biblioteca un luogo fondamentale nel quale esercitare l'attitudine a riconoscere delle tracce, per procurarci quel particolare cibo del quale non possiamo fare a meno: quello col quale nutriamo le nostre menti? Non sarà quindi pericoloso sottovalutare il ruolo dell'istituto biblioteca in quella che è stata definita «evoluzione della cultura»8? Altre ricerche hanno raggiunto risultati altrettanto se non ancora più sorprendenti. Sappiamo oggi che alcuni primati, come i babbuini, sono in grado non solo di riconoscere parole scritte di una determinata lingua, ma anche di distinguerle da insiemi casuali di lettere dell'alfabeto. Questo getta una luce nuova sulle basi biologiche delle origini della conoscenza umana9. L'approccio biologico propone che moduli neuronali specializzati si siano evoluti per risolvere problemi specifici incontrati nell'ambiente fisico o sociale, come la memorizzazione dei volti dei membri del proprio clan. Ma, come si è già detto, la comparsa della lettura e della scrittura è troppo recente e la loro diffusione è stata troppo rapida tra i vari gruppi umani per avere richiesto cambiamenti genetici atti a supportarli. Basti pensare ad alcuni esempi come il sistema di scrittura inventato per riprodurre la lingua Cherokee, esclusivamente orale fino all'inizio del XIX secolo, che fu imparato e usato da quella popolazione nel breve volgere di una generazione. Siamo stati inoltre abituati a ritenere che leggere dipenda esclusivamente dal linguaggio. Ma sia linguisti come Roy Harris10, sia ricerche come quella citata sui babbuini e altri animali, come ad esempio i piccioni, inducono a ritenere che non sia proprio così. L'identificazione delle lettere (o degli altri segni logografici o sillabici usati dalle varie scritture) è pertanto un problema visivo e non linguistico11. Ecco una breve descrizione dell'esperimento sulle scimmie citato poco sopra.
Per ottenere pezzi di cibo ambito i babbuini dovevano distinguere parole di 4 lettere, scritte in inglese, da non-parole della stessa lunghezza. Le non-parole erano assemblate con combinazioni di lettere rare o impossibili nella lingua inglese. Le scimmie si rivelavano capaci di imparare non solo una lista specifica di parole, ma anche di determinare se una nuova sequenza di lettere costituiva o meno una parola reale della lingua inglese! Probabilmente gli animali erano in grado di apprendere e memorizzare le combinazioni statistiche delle lettere e di usare questa informazione per ottenere un cibo particolarmente ambito. Dal momento che le scimmie - fino a prova contraria - non parlano e non comprendono nessuna lingua umana, questa scoperta suggerisce decisamente che il modello della lettura basato sulla lingua può essere incompleto e forse sbagliato. Il già citato Harris del resto, partito per confutare Saussure, era arrivato per altra via alla stessa conclusione12.
Come si è già detto l'ipotesi è quindi che la lettura utilizzi circuiti neuronali che si sono evoluti per supportare altre funzioni già presenti negli umani e nei nostri cugini primati. Infatti gli studi di imaging cerebrale già citati hanno indicato quali aree specifiche del cervello funzionino durante la lettura. Solo alcune di queste sono attivate anche dal linguaggio parlato, ma l'area della forma visiva delle parole (indicata dagli scienziati con l'acronimo VWFA, visual word form area) nel solco della regione occipito-temporale sinistra è attivata dalla lettura di caratteri scritti e non dal riconoscimento delle parole parlate. Dal momento che la VWFA non può essersi evoluta specificamente per supportare la lettura, Dehaene e Cohen13 ne deducono che i circuiti del cervello che sono utilizzati per questo scopo sono 'riciclati' negli umani per supportare nuove e specifiche funzioni, tra le quali la lettura.
Ulteriore sostegno a questa tesi viene dall'osservazione che in tutti i sistemi di scrittura le lettere o i grafemi sono composte nella stragrande maggioranza da soli tre tratti14. Può darsi che ciò sia correlato con l'architettura principale costruita dai neuroni nel sistema visivo dei primati e quindi in quello di noi umani. A un livello successivamente più elevato di corteccia visiva i neuroni riassemblano la scena visiva da semplici frammenti in forme elementari che possono essere combinate per formare diversi oggetti. Alcuni di questi neuroni reagiscono all'intersezione di linee che somigliano a lettere dell'alfabeto latino (o a segni di altre scritture) come L, T, V, X, Y ecc. Gli scienziati chiamano questi segni protolettere15. Confrontando l'aspetto delle lettere con la corrispondente struttura ricostruita dai neuroni coinvolti nel riconoscimento di oggetti elementari, si capisce come i sistemi di scrittura possono essere stati più facilmente appresi ed essersi espansi nell'ambito di una cultura. Per dirla con una battuta: esiste una sorta di alfabeto nel cervello delle scimmie16. La scoperta - che abbiamo citato - di Grainger e altri che i babbuini possono imparare a distinguere parole inglesi da non-parole può avere implicazioni importanti in campo educativo e medico (ad esempio nello studio e nella cura della dislessia)17. Ma ci può indurre a riflessioni di carattere generale sulla natura della lettura e della scrittura.
Naturalmente va ribadito che i babbuini non sono in grado (almeno finora) di comprendere il significato dei grafemi riconosciuti e tantomeno di collegarli ai suoni corrispondenti della lingua parlata.
Anche l'ipotesi che tutte le scritture umane, o per meglio dire tutte quelle oggi conosciute, sarebbero basate su meccanismi comuni di assemblaggio di segni formati dalla combinazione di tre tratti non è priva di conseguenze. Questo non vuol dire naturalmente che necessariamente esistano o siano esistiti rapporti di filiazione diretta tra le varie scritture adottate nello spazio e nel tempo, fossero esse basate su sistemi logografici, sillabici o alfabetici. Bensì che le scritture note si sono affermate in base a un sistema visivo comune che rimanda al funzionamento della corteccia cerebrale dell'homo sapiens. Non penso sia esagerato definire questa scoperta quanto meno sorprendente. Che poi meccanismi analoghi siano stati usati in tipografia (magari inconsapevolmente) per assemblare i vari segmenti dei caratteri nella tecnica della fotocomposizione è constatazione che non fa che aggiungere ulteriori elementi di curiosità, da approfondire magari nelle sedi opportune, come una storia 'psicologica' delle tecniche tipografiche. Verrebbe perfino voglia di confrontare l'ipotesi di Changizi con gli studi di Harald Haarmann e di Marija Gimbutas18 sull'esistenza di una protoscrittura europea risalente a qualche migliaio di anni prima della comparsa delle scritture in Mesopotamia, Egitto e Cina e della quale si era totalmente perduta la memoria. Potrebbe essere questa una specie di archetipo da esaminare su basi neuronali? Non sono certo in possesso di strumenti atti a rispondere a una tale domanda, ma non mi sembra giusto evitare di porla.
Parlare di lettura ci ha indotto quasi inevitabilmente a parlare anche di scrittura. In verità gli studi legati alla dimensione psicologica dell'approccio a scritture riprodotte, come quelle rappresentate dai caratteri tipografici, non sono una novità. Già negli anni Cinquanta Cyril Burt aveva condotto e pubblicato saggi su questo argomento, giungendo a definire il concetto di legibility, applicandolo poi per delineare una sorta di gerarchia tra i differenti tipi di carattere utilizzati nei libri di lettura per bambini19. Negli ultimi decenni molti luoghi comuni sulla scrittura sono caduti. Uno di questi è che sia la lingua a modellare la scrittura. Secondo Roy Harris20 potrebbe forse essere il contrario, cioè sarebbe la scrittura a (ri)modellare continuamente la lingua. Ma in ogni caso è da tenere presenta la sua affermazione che è «impossibile un completo isomorfismo tra un qualunque sistema di contrassegni visibili e qualunque sistema di suoni»21.
A questo punto sarei tentato di tornare alle proposizioni derivate dalla citazione iniziale di McKenzie, aggiungendone un'altra: una nuova coscienza di che cosa sono e sono state lettura e scrittura può produrre nuove biblioteche.
Colpisce, ad esempio, nella ricerca di Dehaene la constatazione, sempre formulata in base agli esperimenti neuronali, che le parole note o regolari non devono essere pronunciate mentalmente nel corso della lettura, mentre quelle rare, sconosciute o irregolari sì. Questo comporta ovviamente uno sforzo cerebrale supplementare ogni volta che incontriamo una parola sconosciuta o difficile.
Esisterebbe cioè una sorta di gerarchia neuronale che permetterebbe il riconoscimento delle parole. In sostanza «gli piscologi postulano due vie di lettura: le parole regolari e i neologismi sono riconosciuti da una via di traduzione delle lettere in suoni (conversione grafema-fonema); le parole frequenti o irregolari sono identificate in un lessico mentale che dà accesso all'identità e al significato delle parole». «È quindi legittimo parlare di reti cerebrali del suono e del significato»22. Ma questo sforzo è proprio quello che ci fa crescere dal punto di vista dell'attività cerebrale. Quindi più parole (difficili) conosciamo, meno faticosa diventa l'attività di leggere e - d'altro canto - più si sviluppa la nostra intelligenza. Sembrerebbe una banalità23, ma è una banalità che a mio avviso scardina alle radici un totem dei nostri tempi: quello che il modello della semplificazione rappresenti un percorso necessario al progresso, soprattutto per chi è più svantaggiato. Perché conseguentemente sembra invece che semplificare il linguaggio possa provocare un impoverimento dell'attività cerebrale, condannandoci a sempre minori capacità di comprensione dei testi, fenomeno che peraltro si rileva ormai da anni in tutti i test operati sui giovani in Italia e all'estero.
E le biblioteche? Posto che quanto detto sia giusto, vogliono rendersi complici di questo fenomeno piuttosto diffuso o reagire? Vogliono compiere questa ennesima (e forse definitiva) trahison des clercs? Non dimentichiamo che l'attitudine alla lettura da parte di homo sapiens non è trasmessa geneticamente. Quindi è una pratica che ogni generazione deve riconquistare partendo praticamente da zero. Proprio per questo è una conquista che può essere facilmente perduta. Esaminiamo la questione dal punto vista di un tema d'attualità. Se la biblioteca accentua il suo ruolo di 'piazza'24, finisce inevitabilmente per essere soppiantata da altre e infinitamente più potenti piazze, quelle virtuali. Se questo è il suo destino però è del tutto superfluo investire somme ingenti per costruirne nuove o per ristrutturare e ampliare quelle già esistenti. Tali operazioni si giustificano invece - e sono dunque auspicabili - solo se le biblioteche accentuano proprio il loro ruolo di antitesi alla piazza: cioè di luoghi sottratti alle logiche di mercato e votati all'approfondimento, alla concentrazione, al recupero della memoria culturale, unico antidoto all'indebolimento della memoria individuale. Nelle piazze lo scambio è veloce, superficiale, spesso effimero, non di rado omologante. Per questo scopo la rete è perfetta. In biblioteca lo scambio è (e deve essere) anche sedimentazione, riflessione, lunga durata. Ed è scambio anche con chi non è più tra i vivi. Quest'ultima funzione è definita genialmente da un'espressione di Francisco de Quevedo, «Y escucho con mis ojos a los muertos», ripresa come titolo da Roger Chartier, per la sua lezione inaugurale al College de France del 200725. Bisogna naturalmente evitare antitesi radicali come lentezza/velocità o profondità/superficialità. Però non dobbiamo dimenticare quanto le biblioteche possano contribuire a quella sorta di 'riciclaggio neuronale' di cui parla Dehaene. Esse somigliano un po' al nostro cervello, pieno di discariche apparentemente inutilizzabili, ma che poi si rivelano fondamentali proprio per quelle operazioni di riciclo, indispensabili ai fini di ogni innovazione. Che era poi in fondo quello che sosteneva - da poeta - Pasolini quando parlava della «scandalosa forza rivoluzionaria del passato»26. Quel passato che invece qualcuno - come nell'indimenticabile 1984 di Orwell - vorrebbe come un manoscritto raso e riscritto tutte le volte che sia necessario27.
Nelle applicazioni più superficiali del modello 'piazza' sembra proprio di cogliere una pulsione, non è chiaro quanto consapevole, a 'eradere' parti del passato per calare la biblioteca in una dimensione atemporale28 di eterno presente (quindi senza un futuro!), con una sorta di perdita della sua tridimensionalità, riducendola alla bidimensionalità di uno schermo.
Infine questo approccio superficiale fa sì che sempre più spesso alle biblioteche venga chiesto di svolgere un ruolo di supplenza di servizi sociali, depauperati di risorse ogni giorno cha passa. Non sorprende che questo ruolo di surroga venga guardato con sempre maggiore attenzione dagli amministratori locali. Può rappresentare infatti un'apparente soluzione per problemi che con il corebusiness della biblioteca francamente hanno poco a che vedere. Il clochard che trova rifugio nella biblioteca pubblica infatti non turba affatto l'ordine costituito, anzi lo rafforza e solletica i buoni sentimenti (un po' pelosi in verità) di qualche sindaco o assessore e magari anche dell'opinione pubblica. Intendiamoci: il clochard ha tutto il diritto di accedere alla biblioteca in modo assolutamente libero, anonimo e anche solo per riscaldarsi e ripararsi. Ma se questo tipo di opportunità poi alla fine toglie non tanto spazio o risorse, ma soprattutto attenzione alla biblioteca e alla sua identità, come luogo dell'emancipazione, dove il giovane studente, la casalinga, o la madre/moglie/lavoratrice, il pensionato, l'immigrato trovano gli strumenti che li aiutano a prendere coscienza della loro condizione, questo potrebbe andare ancora meglio a chi li volesse più sudditi eterodiretti, magari da un blog remoto, che cittadini coscienti, consapevoli e autonomi. Questi sono temi scottanti e di non facile soluzione. Temi che hanno molto a che vedere a mio avviso con quello che sarà il futuro di un paese come il nostro, privo di risorse economiche 'primarie' e i cui destini sono quindi legati alle sue capacità di investimento in conoscenza29. Ma non è pensabile che a queste sfide le biblioteche pubbliche rispondano oggi con i corsi di uncinetto o con quelli sulla confezione del tortellino, domani magari con i centri-massaggio, proponendo l'importazione di modelli già in buona parte ripensati nei luoghi d'origine, con il rischio di provocare invece una sorta di impoverimento culturale, con la scusa di attirare nuova utenza. Perché invece così proprio il cerchio dell'isolamento presto si potrebbe chiudere e la biblioteca si confinerebbe in una sorta di amaro e forzato happy end dove forse bisognerà concludere che «tutti vissero infelici e contenti».
Ultima consultazione siti web: 25 novembre 2014.
[1] La citazione esatta, nella traduzione italiana è «[ ] i nuovi lettori creano naturalmente nuovi testi» alla quale l'autore aggiunge «che i nuovi significati sono una funzione delle loro forme». Cfr. Donald F. McKenzie, La bibliografia e la sociologia dei testi. Milano: Sylvestre Bonnard, 1999, p. 34.
[2] Per un panorama della situazione italiana si veda naturalmente Giovanni Solimine, L'Italia che legge. Roma-Bari: Laterza, 2010. Ma si tengano presente anche Gino Roncaglia, La quarta rivoluzione: sei lezioni sul futuro del libro. Roma: Laterza, 2010 e i saggi di Robert Darnton, Il futuro del libro. Milano: Adelphi, 2011.
[3] Il riferimento è ovviamente al notissimo saggio di Umberto Eco, Apocalittici e integrati: comunicazioni di massa e teorie della cultura di massa. Milano: Bompiani, 1964.
[4] Jesper Svembro, La Grecia arcaica e classica: l'invenzione della lettura silenziosa. In: Storia della lettura nel mondo occidentale, a cura di Guglielmo Cavallo, Roger Chartier. Roma-Bari: Laterza, 1995, p. 3-36.
[5] Stanilsas Dehaene, I neuroni della lettura. Milano: Raffaello Cortina, 2009; Marianne Wolf, Proust e il calamaro: storia e scienza del cervello che legge. Milano: Vita e pensiero, 2009.
[6] Ivi, p. 9.
[7] Naturalmente rimando ai siti di questi progetti: http://borntoread.org/, http://www.natiperleggere.it/
[8] Luigi Luca Cavalli Sforza, L'evoluzione della cultura. Torino: Codice, 2010.
[9] Michael L. Platt; Geoffrey K. Adams, Monkey see, monkey read, «Science», 336 (2012), p. 168-169.
[10] Roy Harris, La tirannia dell'alfabeto: ripensare la scrittura. Roma: Stampa alternativa & Graffiti, 2003.
[11] Jonathan Grainger [et al.], Orthographic processing in baboons (Papio papio), «Science», 336 (2012), p. 245-248.
[12] Roy Harris, La tirannia dell'alfabeto cit., p. 155-159.
[13] Stanislas Dehaene; Laurent Cohen, Cultural recycling of cortical maps, «Neuron», 56 (2007), n. 2, p. 384-398; iid., The unique role of the visual word form area in reading, «Trends in cognitive sciences», 15 (2011), n. 6, p. 254-262.
[14] Mark A. Changizi [et al.], The structures of letters and symvbols throughthuman history are selected to match those found in objects in natural scenes, «The American Naturalist», 167 (2006), n. 5, p. E117-E139.
[15] Stanilsas Dehaene, I neuroni della lettura cit., p. 153-158.
[16] Ibidem.
[17] Per una curiosa combinazione (ma sarà davvero tale?) mi viene in mente che tra i più antichi manualetti stampati per imparare a leggere e scrivere usati in Italia, ve n'erano alcuni indicati col titolo di Babuino. Cfr. Piero Lucchi, La Santacroce, il Salterio, il Babuino: libri per imparare a leggere nel primo secolo della stampa, «Quaderni Storici», 38 (1978), p. 593-630 e id., Nuove ricerche sul Babuino. In: Lesen und Schreiben in Europa 1500-1900: vergleichende Perspektiven, herausgegeben von Alfred Messerli und Roger Chartier. Basel: Schwabe, 2000, p. 201-234.
[18] Harald Haarmann, Modelli di civiltà a confronto nel mondo antico: la diversità funzionale degli antichi sistemi di scrittura. In: Origini della scrittura: genealogie di un'invenzione, a cura di Gianluca Bocchi e Mauro Ceruti. Milano: Bruno Mondadori, 2002, p. 28-57, ma soprattutto, id., Early civilization and literacy in Europe: an inquiry into cultural continuity in the Mediterranean world. Berlin; New York: Mouton de Gruyter, 1996; Marija Gimbutas, Le dee viventi. Milano: Medusa, 2005, p. 79-93.
[19] Cyril Burt, A psychological study of typography, with an introduction by Stanley Morison. Cambridge: University Press, 1959. È interessante sottolineare che il lavoro ebbe l'introduzione di Stanley Morison, storico della tipografia, ma soprattutto designer di caratteri. Come ci ricorda Thomas G. Tanselle, Bibliographical analysis: a historical introduction. Cambridge: University Press, 2009, p. 69, nota 10, la reputazione di Burt fu macchiata dalla scoperta fatta dopo la sua morte di una sua manipolazione (e forse falsificazione) di dati in uno studio sui rapporti tra classi sociali e livelli di intelligenza. Ma - come nota lo stesso Tanselle - «the general approach of his studies of type legibility [ ] remains important».
[20] Roy Harris, La tirannia dell'alfabeto cit., p. 221-222.
[21] Ivi, p. 204.
[22] Stanilsas Dehaene, I neuroni della lettura cit., p. 120, 123.
[23] Basta pensare ai noti studi di Jean Piaget, in particolare il classico La psychologie de l'intelligence. Paris: Colin, 1947, ultima trad. it. Psicologia dell'intelligenza. Firenze; Milano: Giunti, 2011.
[24] Mi riferisco ovviamente al termine usato nel successful pamphlet di Antonella Agnoli, Le piazze del sapere. Biblioteche e libertà. Roma-Bari: Laterza, 2009.
[25] Roger Chartier, Ecouter les morts avec les yeux. Paris: College de France; Fayard, 2008.
[26] Dall'appello all'UNESCO per le mura di Sana'a, letto da Pier Paolo Pasolini, ora in Pier Paolo Pasolini, Le regole di un'illusione: i film, il cinema, a cura di Laura Betti, Michele Gulinucci. Roma: Associazione Fondo Pier Paolo Pasolini, 1991, p. 265.
[27] Prendo lo spunto da Neil C. Harris, La bibliografia e il palinsesto della storia. In: Thomas G. Tanselle, Letteratura e manufatti. Firenze: Le lettere, 2004, p. IX-LXVIII.
[28] Ottimi vaccini a questo approccio, piuttosto diffuso in Italia, sono i lavori di Alberto Petrucciani, Libri e libertà: biblioteche e bibliotecari nell'Italia contemporanea. Manziana: Vecchiarelli, 2012 e naturalmente Paolo Traniello, Storia delle biblioteche in Italia: dall'Unità ad oggi. 2. ed. Bologna: Il Mulino, 2014.
[29] Tanto per citare uno studio recente, si veda Ignazio Visco, Investire in conoscenza: crescita economica e competenze per il XXI secolo. 2. ed. Bologna: Il Mulino, 2014.