Palfrey e l'advocacy per le biblioteche

di Anna Galluzzi

John Palfrey è - come dicono gli americani - un 'feral' (letteralmente 'selvaggio'), ossia uno che si è trovato a lavorare in biblioteca senza essere un bibliotecario di formazione. Il che è sostanzialmente vero dal momento che Palfrey è un giurista ed è attualmente responsabile della Scuola alla Phillips Academy di Andover; è stato anche direttore esecutivo del Berkman Center for Internet & Society della Harvard University, con il quale continua a collaborare. Dall'altro lato, però, il rapporto dell'autore con le biblioteche non si può considerare né sporadico né casuale visto che Palfrey è stato uno dei protagonisti della fase fondativa della Digital Public Library of America (DPLA)1, prima di essere chiamato a riorganizzare la Harvard Law School Library.
Questa condizione di 'feral' è però essenziale per una corretta lettura del libro da lui pubblicato nel 2015 dal titolo BiblioTech: why libraries matter more than ever in the age of Google2. Il fatto di essere un outsider per il mondo delle biblioteche fa sì che il suo approccio ai temi dell'attualità bibliotecaria non abbia carattere di specializzazione, bensì si collochi a metà strada tra il politico e il divulgativo, consentendogli dunque di farsi capire da tutti (o quasi) senza perdersi in tecnicismi e questioni in cui spesso i bibliotecari finiscono per rimanere intrappolati. Questo spiega perché, fin dall'introduzione, Palfrey dichiari di non rivolgersi strettamente ai bibliotecari, bensì ai decisori politici, agli amministratori e ai cittadini, ossia a tutti coloro nelle cui mani risiede il futuro delle biblioteche, e dunque anche perché questo libro non proponga contenuti particolarmente innovativi sul piano strettamente biblioteconomico.
All'interno di tale approccio, Palfrey riesce a evitare - come sarebbe facilmente potuto accadere e come spesso accade quando si leggono le appassionate difese di scrittori e intellettuali a favore delle biblioteche3 - un'operazione nostalgica verso la biblioteca come istituzione e il suo glorioso passato. Egli realizza invece un efficace strumento di advocacy in cui il futuro della biblioteca - fisica e digitale - viene sì difeso e sostenuto strenuamente, ma solo nella misura in cui biblioteche e bibliotecari svolgano un ruolo attivo e si mantengano aperti alla necessità del cambiamento, e società e decisori politici ne comprendano la complessità e i problemi.
Il volume, dopo una introduzione a firma dello stesso autore in cui vengono esposte le motivazioni che hanno ispirato questo scritto, si articola in nove capitoli più la conclusione. Ciascuno dei nove capitoli - rappresentati da altrettante parole chiave - è dedicato a un aspetto del futuro delle biblioteche. Le nove parole chiave sono: crisis, customers, spaces, platforms, hacking libraries, networks, preservation, education, law. Seguono ringraziamenti, note e bibliografia del volume.
La premessa da cui prende le mosse il ragionamento di Palfrey è riassunta nella seguente constatazione:

on the one hand, the public sentiment that the digital era has made libraries less relevant, and on the other, the growing number of expectations we have for libraries, stemming in no small part from the very digitalization that the public assumes is making them obsolete. These two ideas cannot both be right. (p. 19-20)

Il primo capitolo, Crisis, si sofferma sull'effetto combinato che hanno avuto sulle biblioteche due fenomeni, la crisi economica e la rivoluzione tecnologica, per arrivare a dire che - anche se ci fossero disponibilità economiche crescenti nel prossimo futuro - i bibliotecari devono comunque accettare il dato di fatto che non è possibile pensare al loro lavoro come nel passato analogico, perché nel mondo del digitale non c'è modo di garantire il controllo e il possesso di tutti i contenuti prodotti.
Nel secondo capitolo, Customers, Palfrey si sofferma sui numerosi ruoli che le biblioteche fisiche e digitali, lì dove siano attente ai bisogni delle proprie comunità, possono svolgere nel presente e nel futuro prossimo, dalla information and digital literacy all'offerta di uno spazio di socializzazione libero e neutrale. Contestualmente, l'autore mette in guardia rispetto a due possibili rischi: da un lato quello di dimenticare che siamo ancora in una fase di transizione in cui il digitale non può e non deve soppiantare totalmente l'analogico, anche perché esiste un forte digital divide all'interno delle comunità, dall'altro la possibilità che altri soggetti - questa volta commerciali - si approprino delle funzioni delle biblioteche e ne facciano oggetto di profitto, mettendo da parte neutralità e indipendenza.
Segue, in perfetta continuità con il precedente, il capitolo dedicato agli Spaces, in cui l'autore discute la tradizionale contrapposizione tra la dimensione fisica e quella digitale della biblioteca, mettendo in evidenza come queste due dimensioni dovrebbero ricomporsi e in qualche modo sostenersi a vicenda a vantaggio della chiarezza dei ruoli e delle finalità delle biblioteche. Nella consapevolezza che ormai l'informazione è ubiquitaria, le biblioteche dovrebbero valorizzare la loro funzione di spazi dove l'informazione viene creata e condivisa, dunque puntare a essere non tanto dei generici community centres quanto delle istituzioni a servizio della formazione e dell'istruzione. Personalmente, pur essendo in parte d'accordo con questa affermazione, ritengo però che si tratti di una contrapposizione un po' semplicistica, se si considera che il confine tra questi due ruoli e strategie di sviluppo è molto più sottile di quanto possa apparire a prima vista.
I due capitoli successivi, Platforms e Hacking libraries, insistono su due concetti centrali per il futuro delle biblioteche: l'idea della biblioteca come piattaforma (concetto elaborato già diversi anni fa da David Weinberger)4 e la necessità assoluta per le biblioteche di operare in un'ottica cooperativa sia tra di loro sia con altre istituzioni nel settore della cultura e della formazione, in particolare per quello che riguarda la dimensione digitale (concetto ampiamente sviscerato da Lorcan Dempsey)5. Il corollario di queste due strategie consiste nell'invito alle biblioteche all'apertura completa dei loro contenuti digitali, per consentire la partecipazione e il riutilizzo delle informazioni nei contesti più vari della rete, e nella creazione di una infrastruttura condivisa e pubblica, che possa continuare a offrire all'utenza un'alternativa libera dal profitto rispetto alle piattaforme commerciali.
Il sesto capitolo, Networks, si sofferma sull'importanza di costruire reti non solo tecnologiche, ma anche di competenze e di condivisione di esperienze tra bibliotecari e al di fuori della professione, con quei soggetti le cui finalità e modalità di azione siano affini e compatibili con quelle delle biblioteche. Parallelamente è necessario, secondo Palfrey, rivedere i curricula dei bibliotecari affinché possano essere all'altezza delle nuove sfide che li attendono.

Il tema della cooperazione e delle necessarie partnerships torna anche nel capitolo settimo, Preservation, nel quale questo tema - spesso trascurato o minimizzato - viene posto in tutta la sua centralità come una delle finalità che le biblioteche dovrebbero perseguire collettivamente, soprattutto in un'era nella quale la produzione di informazione è esplosa (in particolare in formato digitale), ma le problematiche della selezione, dell'archiviazione, della conservazione e della usabilità a lungo termine dei contenuti sono terra di nessuno e sono dunque fortemente a rischio.
Un altro ambito che Palfrey considera cruciale rispetto al futuro delle biblioteche è quello dell'Education, cui è dedicato l'ottavo capitolo, in particolare in riferimento ai possibili punti di contatto tra le biblioteche e il cosiddetto connected learning, un approccio alternativo all'istruzione basato sugli interessi personali e inserito dentro l'ambiente sociale in cui il discente vive6.
Nell'ultimo capitolo prima delle conclusioni, dal titolo Law, Palfrey entra in un ambito che gli è più strettamente congeniale per affrontare temi giuridicamente rilevanti nonché fondamentali per il futuro delle biblioteche, ossia quelli del copyright e della privacy. Su questi temi la posizione dell'autore è piuttosto netta, nonché ovviamente molto più mirata, nel sottoporre a una critica feroce l'obsolescenza delle attuali norme sul copyright e la necessità di rivederle in un contesto digitale che ha caratteristiche profondamente diverse dall'analogico7. Questo perché a una revisione della normativa sul copyright sono strettamente collegati i termini dell'azione che le biblioteche possono intraprendere nell'ambito del digitale e, più in generale, la possibilità stessa di continuare a svolgere appieno i propri compiti per la cittadinanza. In particolare, in questo capitolo l'autore si sofferma sulle molte contraddizioni che riguardano il prestito degli e-book e sui meccanismi distorti che hanno trasformato un'operazione consentita alle biblioteche per i libri di carta sulla base di una previsione giuridica generale in un'azione sottoposta a una contrattazione privata, per effetto del fatto che gli e-book non sono acquistati dalle biblioteche, bensì ottenuti in licenza. Su questi temi Palfrey va al di là delle affermazioni di principio e della pura advocacy, non solo facendo proposte e critiche molto precise riguardo alle politiche dei soggetti for-profit in questo settore, ma anche sostenendo la necessità di un ruolo dello Stato e del settore pubblico in generale, in un ambito in cui l'interesse pubblico rischia di essere completamente offuscato, se non annullato, dagli interessi commerciali.
Nelle conclusioni, i temi emersi vengono sintetizzati, ponendo l'accento su alcune questioni affrontate nei capitoli precedenti che l'autore considera centrali e proponendo dieci passi di un ideale percorso finalizzato alla ridefinizione e al riconoscimento del ruolo delle biblioteche nell'ecosistema informativo.
Al termine della lettura, da bibliotecaria e dunque da persona cui - come chiarito fin dal principio - il testo non è indirizzato, ho trovato il volume comunque interessante, soprattutto nei capitoli finali (in particolare il nono, quello in cui si entra nell'ambito disciplinare che l'autore meglio domina), a differenza della parte iniziale che dal mio punto di vista non contiene elementi particolarmente originali né innovativi per chi è all'interno della professione.

Della proposta di Palfrey personalmente ho trovato condivisibili e stimolanti le posizioni non dogmatiche e la scelta di non fare sconti a nessuno: l'autore infatti riconosce i meriti dei bibliotecari, ma mette anche in evidenza l'autoreferenzialità, la staticità e il conservatorismo di molti rappresentanti della categoria. In sostanza, dal suo scritto emerge che i bibliotecari hanno certamente una parte di responsabilità nella difficoltà di far comprendere agli stakeholders la rilevanza delle biblioteche nel contesto informativo attuale. Dall'altro lato, Palfrey è molto chiaro nel trasmettere il messaggio che le corporations che oggigiorno dominano il mercato dell'informazione digitale (Google, Amazon ecc.), nonché i soggetti for-profit che ne stanno occupando alcune nicchie, non possono essere i soggetti cui affidare la soluzione dei problemi di accesso all'informazione. Pur consapevole della necessità per le biblioteche di attivare partnerships con soggetti privati (profit e no-profit), Palfrey ritiene che il settore pubblico, attraverso lo Stato e le sue declinazioni, dovrebbe svolgere un ruolo centrale nel sostenere i processi di accesso, organizzazione e conservazione della conoscenza, condizione indispensabile per continuare a garantire uguali opportunità, imparzialità e neutralità.

The notion of a true 'public option' is central to my argument [...]. When it comes to the knowledge and information on which our system of democracy depends, we should not rely on the market exclusively to meet the needs of our communities. The private sector has been wildly successful in digital innovation [...]. When it comes to the cultural, historical, political, and scientific record of a society, however, the public sector needs to play a leading role. (p. 230-231)

Da questo punto di vista, probabilmente Palfrey manifesta una forma di ingenuità - fors'anche voluta e consapevole - e un auspicio che, allo stato attuale, appare molto lontano dalla direzione che il mondo dell'informazione sta prendendo; credo però sia sempre importante ricordare a noi stessi e alle nostre comunità che la riproducibilità del ruolo della biblioteca come bene pubblico in un mondo privatizzato dell'informazione è difficile se non impossibile. D'altra parte, la posizione di Palfrey da questo punto di vista non è isolata nel dibattito contemporaneo, visto che qualche altro studioso propone riflessioni lucide e non scontate sul rapporto tra pubblico e privato nel settore dell'innovazione.
Non si può dimenticare, ad esempio, il dirompente punto di vista dell'economista Mariana Mazzucato8 nel sostenere la centralità del ruolo dello Stato come attore fondamentale dell'ecosistema dell'innovazione, in quanto unico soggetto che ha la possibilità e in qualche modo anche la finalità di investire in settori ad alto rischio e può "permettersi" investimenti "a perdere".
Come fa notare la Mazzucato,

La storia dei nuovi settori ci insegna che le imprese private di solito aspettano che lo Stato faccia gli investimenti iniziali ad alto rischio, prima di investire. E in effetti spesso è stato il settore pubblico a farsi carico di gran parte del rischio e dell'incertezza legati alla nascita di nuovi settori e di aree specifiche di vecchi settori [...]. Eppure i proventi di questi «rivoluzionari» investimenti pubblici finora sono stati quasi interamente privatizzati9.

E aggiunge che

Non esistono caratteristiche intrinseche che rendono il settore pubblico meno innovativo del settore privato. Ma per incoraggiare l'innovazione e la creatività nelle istituzioni pubbliche è necessario ragionare sulle dinamiche organizzative. E invece la maggior parte degli studiosi di "gestione strategica" dà per scontato che il settore pubblico non possa essere una forza innovativa e concentra la sua attenzione sul settore privato, lasciando allo Stato unicamente il compito di «creare le condizioni» per consentire alle imprese «rivoluzionarie» di produrre innovazione10.

La questione ovviamente è molto delicata e le posizioni in ambito economico - e non solo - non sono necessariamente condivise, anche perché le modalità con cui lo Stato interviene e investe sono diverse da paese a paese, anche in relazione all'esistenza di una tradizione consolidata o meno di elargizioni da parte dei privati e dei differenti meccanismi con cui lo Stato favorisce - anche sul piano fiscale - queste pratiche. Ciò detto, il dubbio che la ormai dilagante vulgata relativa alla lentezza e inefficienza del settore pubblico sia utilizzata come paravento da chi invece vorrebbe mettere a profitto i soldi di provenienza pubblica resta piuttosto forte. Del resto, il settore pubblico offre ampiamente il fianco alle critiche perché, da un lato, coloro che portano la responsabilità delle politiche pubbliche dimostrano una scarsa sensibilità nei confronti del comparto culturale e della ricerca e, dunque, - in una lunga fase di crisi economica come quella che stiamo vivendo - spesso sacrificano proprio gli investimenti in questi settori così cruciali per l'innovazione, dall'altro dirigenti e funzionari pubblici sono tiepidi rispetto all'innovazione e, al contempo, tutt'altro che sostenuti nella scelta di sperimentare e rischiare. Per di più, quei soldi che il settore pubblico ancora mette a disposizione per la cultura e la ricerca vengono spesso semplicisticamente trasferiti al settore privato sotto forma di esternalizzazioni, deleghe e appalti, finalizzati alla proposta non solo di soluzioni tecnologiche, ma spesso anche di strategie e prospettive di sviluppo. Dal che è inevitabile la sensazione diffusa che lo Stato abdichi al suo ruolo, e che le eccezioni non possano che essere appunto considerate come tali. Chiaramente, le situazioni non sono le stesse in tutti i paesi ed esistono degli esempi virtuosi da questo punto di vista11; però, nel panorama economico attuale, e con tutta la complessità di una dinamica che vede lo Stato schiacciato tra la dimensione globale e quella locale (o iperlocalistica in alcuni casi), la questione dei rapporti tra pubblico e privato resta oggi centrale e insidiosa ovunque.
A questo si aggiunga l'aggravante per cui le biblioteche, oltre ad annaspare nella ricerca di riconoscimento e finanziamenti all'interno del settore pubblico, soffrono per loro stessa natura di una forte frammentazione sul piano della governance e della mission, che le costringe di volta in volta a una riflessione relativa a quale sia il piano di azione più efficace per perseguire gli obiettivi individuati, se cioè a livello istituzionale (e dunque di singola biblioteca), ovvero a livello di gruppo più o meno esteso di biblioteche (su base territoriale o di area di interesse), o ancora a livello di rete globale12. Questo certamente non favorisce un'azione concertata e coordinata del mondo bibliotecario persino a livello locale e fa sì che anche le strategie nazionali si applichino spesso solo a una parte delle biblioteche presenti sul territorio.
L'attualità delle questioni trattate da Palfrey nonché le sue posizioni non scontate spiegano probabilmente come mai il suo volume abbia suscitato una vasta eco sia nell'ambiente bibliotecario sia in un contesto più ampio. L'interesse nato intorno al volume è stato talmente alto anche in Italia da suggerire la sua pronta traduzione e la recente pubblicazione per i tipi dell'Editrice Bibliografica13. Prima ancora però della pubblicazione in lingua italiana, il libro ha prodotto diversi commenti e reazioni innanzitutto nell'ambito strettamente bibliotecario (sia nei blog14 sia nel mondo dei social networks), nonché in contesti confinanti, come il mondo delle librerie15, e infine nei mezzi di comunicazione di massa, ad esempio le testate cartacee e online16.
Il fatto che il libro di Palfrey attraversi in maniera trasversale settori diversi e abbia qualcosa da dire ai bibliotecari e anche alla società nel suo complesso, committente e utilizzatrice dei servizi delle biblioteche, è una conferma del fatto che il linguaggio dell'autore è una giusta combinazione di correttezza e precisione dei contenuti specialistici da un lato e semplicità e fruibilità del messaggio trasmesso dall'altro. C'è da sperare che le sue parole non restino - come tante volte accade - lettera morta sia nell'ambiente bibliotecario, chiamato a una maggiore consapevolezza e iniziativa, sia nel mondo sociale e politico, chiamato ad assumersi le proprie responsabilità e a confrontarsi con la complessità del mondo dell'informazione evitando pericolose semplificazioni.

NOTE

Ultima consultazione siti web: 2 marzo 2016.

[1] Si tratta del portale di accesso alle risorse digitalizzate da diverse istituzioni che è nato nel 2013 e punta a diventare la 'biblioteca digitale' statunitense: http://dp.la.

[2] John Palfrey, BiblioTech: why libraries matter more than ever in the age of Google. New York: Basic books, 2015.

[3] Se ne possono leggere alcune qui: http://www.publiclibrariesnews.com/useful/celebrities/celebrity-supporters.

[4] David Weinberger, Library as platform, «Library journal», 4 September 2012, http://lj.libraryjournal.com/2012/09/future-of-libraries/by-david-weinberger/#_; lo stesso concetto viene spiegato dall'autore in questo video: https://youtu.be/bumI6aEmsLA.

[5] Lorcan Dempsey, The network reshapes the library: Lorcan Dempsey on libraries, services, and networks, edited by Kenneth J. Varnum. London: Facet, 2014. Poiché il volume è una raccolta dei post pubblicati sul suo blog, è possibile leggere molti dei relativi contenuti (nonché i post più recenti) su: http://orweblog.oclc.org/.

[6] Di questi temi si è ampiamente occupata Mizuko Ito nel rapporto: Connected learning: an agenda for research and design: a research synthesis report of the Connected Learning Research Network, written by Mizuko Ito [et al.], with contributions from Shaondell Black [et al.]. Irvine: Digital media and learning research hub, 2013, http://dmlhub.net/publications/connected-learning-agenda-for-research-and-design/.

[7] Di questi temi si è occupato molto anche Lawrence Lessig, autore, tra gli altri, del volume Remix: il futuro del copyright (e delle nuove generazioni). Milano: Etas, 2009.

[8] Chiaramente espresso in Mariana Mazzucato, Lo stato innovatore: sfatare il mito del pubblico contro il privato, traduzione di Fabio Galimberti. Roma-Bari: Laterza, 2014.

[9] Ivi, p. 282.

[10] Ivi, p. 283.

[11] Per fare un esempio di ambito strettamente bibliotecario si pensi alla piattaforma nazionale danese per l'e-lending delle biblioteche pubbliche, eReolen, finanziata dal National development programme for public libraries e gestita dalla Danish agency for culture, che dopo un lungo braccio di ferro ha infine riassorbito i contenuti della piattaforma commerciale EBIB, realizzata dagli editori maggiori: http://www.db.dk/artikel/new-e-book-deals-between-publishers-and-public-libraries. Negli ultimi anni, però, molti di questi editori hanno sostenuto la nascita di Mofibo https://mofibo.com/, una piattaforma commerciale che offre a pagamento lo streaming di e-book e audiobook sulla base di un abbonamento mensile. È vero che la Danimarca è un piccolo paese e questo certamente aiuta. D'altra parte questo esempio dimostra che gli equilibri tra il pubblico e il privato su temi come questi, anche in un paese piccolo e proattivo come la Danimarca, sono difficili da realizzare.

[12] Di questo tema ho parlato più ampiamente in Anna Galluzzi, Biblioteche: accesso alla conoscenza tra dimensione locale e globale, «Biblioteche oggi trends», 1 (2015), n. 1, p. 6-17.

[13] John Palfrey, BiblioTech: perché le biblioteche sono importanti più che mai nell'era di Google, traduzione di Elena Corradini. Milano: Editrice Bibliografica, 2016.

[14] Si vedano in particolare i seguenti post dedicati al volume: Laura Testoni, Leggendo BiblioTECH di John Palfrey, «RefKit», 21 agosto 2015, https://refkit.wordpress.com/2015/08/21/bibliotech-palfrey/; Enrico Francese, Bibliotech, «Mind matters», 22 agosto 2015, http://fraenrico.carcosa.it/?p=2129.

[15] Ad esempio, Un manifesto in difesa delle biblioteche (e della democrazia) nell'era digitale, «Il libraio», 24 giugno 2015, http://www.illibraio.it/manifesto-difesa-biblioteche-democrazia-231169/.

[16] Si vedano, ad esempio Raffaella De Santi, Benvenuti nelle Biblio-tech, «La Repubblica», 2 novembre 2015, p. 26-27; Marco Dotti, Biblioteche future: la sfida è, il bene comune digitale, «Vita», 30 giugno 2016, http://www.vita.it/it/article/2016/06/30/biblioteche-future-la-sfida-e-il-bene-comune-digitale/138776/.