a cura di Silvana de Capua
Wayne A. Wiegand è uno dei più importanti storici viventi della biblioteca pubblica americana. Dopo essere stato bibliotecario per molti anni presso diverse università, è stato - fino al 2010, anno del suo pensionamento - professore di Library and Information Studies F. William Summers e professore di American Studies alla Florida State University.
Questa sua ultima pubblicazione - come l'autore spiega nell'introduzione al volume - si propone di rispondere alla seguente domanda: «Perché gli Americani amano le loro biblioteche pubbliche?». E tenta di farlo andando al di là della cosiddetta library faith.
La library faith è l'ideologia sulla base della quale i bibliotecari hanno sempre giustificato la propria esistenza, ossia che le biblioteche pubbliche, in quanto strumento di uguaglianza rispetto alle opportunità educative, siano istituzioni essenziali per la democrazia. Come Wiegand fa giustamente notare, non esistono evidenze di questa fede e i tentativi di misurare l'impatto sociale dei servizi bibliotecari pubblici si sono largamente basati su dati non quantitativi e di tipo soggettivo.
È per questi motivi che Wiegand, pur attingendo anche lui ai soft data, ha deciso di condurre il suo studio sulla storia della biblioteca pubblica in una prospettiva rovesciata rispetto a quella fin qui adottata, puntando a raccontare le biblioteche nella vita degli utenti e non gli utenti nella vita delle biblioteche, come è stato fatto sin qui.
Per condurre questa indagine l'autore si è servito di memoirs pubblicati, autobiografie, biografie di personaggi famosi, ma soprattutto delle centinaia di periodici e quotidiani americani che sono stati digitalizzati negli ultimi decenni e che possono essere ricercati attraverso grandi database.
L'impianto del volume è di tipo strettamente cronologico; a una breve introduzione concettuale e metodologica seguono 10 capitoli dedicati ciascuno a un periodo storico dal 1854 ai giorni nostri.
Già nell'introduzione Wiegand propone alcune riflessioni che prenderanno poi forma nei capitoli successivi e si struttureranno nelle considerazioni finali dell'ultimo capitolo. In particolare, l'autore anticipa che le ragioni per cui gli Americani hanno amato le loro biblioteche pubbliche possono sostanzialmente essere ricondotte a tre macrocategorie: le informazioni utili che hanno reso accessibili, gli spazi pubblici che hanno messo a disposizione, e il potere delle storie che hanno fatto circolare e che hanno aiutato gli utenti a dare un senso ai fenomeni del mondo nel quale vivono (p. 3). Inoltre egli osserva che, se è vero che le biblioteche pubbliche americane hanno plasmato le culture che hanno servito, è altrettanto vero e forse più importante riconoscere che tali culture hanno plasmato le biblioteche pubbliche. Infatti, pur avendo contribuito a istruire le comunità di riferimento mediante le loro collezioni e servizi, le biblioteche pubbliche hanno talvolta funzionato come ostacolo alla democrazia culturale e, in quanto espressione dei valori dei gruppi di potere a livello locale, hanno in taluni casi perpetuato un conservatorismo culturale riflesso proprio in tali collezioni e servizi.
Nell'ultimo capitolo, sviluppando queste riflessioni, Wiegand sottolinea come l'identità della biblioteca pubblica nel tempo sia sempre stata il frutto di un compromesso tra finalità ideali della biblioteca, volontà dei gruppi di potere e richieste delle comunità. Il motivo di questo faticoso e inevitabile, ma anche talvolta fruttuoso, compromesso si rintraccia in una caratteristica che già Lawrence J. White nel suo volume The public library in the 1980s: The problems of choice (Lexington: Lexington Book, 1983) aveva ampiamente analizzato, ossia il carattere volontaristico dell'uso della biblioteca pubblica, che la differenzia da molte altre istituzioni civiche che non conferiscono al cittadino il potere di scegliere e di tradurre i loro bisogni in desiderata. Questo inevitabilmente costringe le biblioteche pubbliche a mediare tra bisogni concorrenti emergenti all'interno della comunità e anche tra questi e le proprie finalità istituzionali.
Tale costante necessità di mediazione è stato anche il meccanismo attraverso il quale le biblioteche hanno contribuito a definire nel tempo i parametri dei valori culturali accettabili per la propria comunità. D'altronde, come ricorda l'autore, le biblioteche pubbliche di fatto prendono posizioni politiche in continuazione e lo fanno in modo implicito attraverso le collezioni, i servizi, gli arredi e l'organizzazione dello spazio; tuttavia non possono che farlo all'interno dei confini ritenuti accettabili da parte delle loro comunità locali. Talvolta questo processo di mediazione da sotterraneo diventa palese e raggiunge persino le pagine dei giornali (p. 265).
D'altra parte, gli esiti della ricerca storiografica di Wiegand sembrano dimostrare che aumentare il finanziamento per le biblioteche pubbliche in America non ha prodotto necessariamente una cittadinanza più informata. Di fronte alle indagini che mettono in evidenza quanto poco informati siano i cittadini americani, secondo Wiegand ci sarebbe da chiedersi se e quanto regge la retorica che vede la biblioteca pubblica come un'istituzione essenziale per la democrazia: «some of the 210 million Americans who visit a public library every year go there for the useful knowledge Benjamin Franklin thought so important. But more, many more, are apparently using - and loving - their public libraries for other purposes.» (p. 263-264)
Part of our lives dimostra che il motivo per cui le biblioteche pubbliche americane hanno continuato a sopravvivere nel tempo, anche in periodi difficili dal punto di vista delle risorse economiche pubbliche, è perché hanno da un lato conservato le proprie pratiche e dall'altro hanno accolto i cambiamenti su cui i loro utenti hanno insistito. Dalla prospettiva degli utenti, le biblioteche pubbliche hanno offerto occasioni di partecipazione culturale, hanno funzionato come spazio per discutere temi di loro interesse, hanno favorito lo svilupparsi di un senso di comunità e contribuito ad aumentare la fiducia verso gli elementi multiculturali, nonché a spezzare i meccanismi di auto segregazione delle minoranze (p. 265).
Le biblioteche pubbliche, inoltre, hanno funzionato come incubatori di diversi tipi di relazioni sociali e hanno messo in contatto gli utenti con le loro comunità a vari livelli (locale, nazionale e internazionale). Infine, non avendo effettivamente il potere di imporre l'accettazione di specifiche ideologie, hanno consentito agli individui di sviluppare valori e punti di vista alternativi.
La biblioteca pubblica americana è in una posizione privilegiata per soddisfare i bisogni che singoli e gruppi si sono dati e, pur non potendo essere la risposta a tutto, la ricostruzione qui offerta da Wiegand mostra che essa è stata per molte persone più di quanto le stesse istituzioni culturali, compresi i bibliotecari, abbiano effettivamente realizzato.
In sintesi, la storia delle biblioteche pubbliche americane, come ci viene raccontata da Part of our lives, è una ricerca continua di un punto di equilibrio tra una funzione alta della biblioteca pubblica come istituzione per l'autoformazione e per l'accesso alla conoscenza e una funzione per così dire popolare volta all'intrattenimento, dalla lettura dei romanzi ad attività le più varie realizzate in risposta o in collaborazione con le comunità locali. Nel corso di questa storia, gli stessi bibliotecari hanno oscillato tra posizioni rigorosamente a servizio dell'educazione per tutti e posizioni più morbide nel riconoscere che la crescita individuale e del proprio universo di senso non passa esclusivamente attraverso le cosiddette conoscenze utili.
Il volume di Wiegand contribuisce infine a collocare nella giusta prospettiva il dibattito sul futuro della biblioteca pubblica, ricordandoci che nella storia tutto si ripete e che è sempre valido il monito per cui «coloro che non ricordano il passato sono condannati a ripeterlo». Come si evince dalla lettura di questo libro, infatti, a più riprese, nel tempo, i bibliotecari hanno temuto la concorrenza degli altri mezzi di comunicazione di massa man mano che si diffondevano, la radio prima, poi la televisione, poi il computer fino ad arrivare a Internet, e - soprattutto nei periodi di crisi economica - c'è chi ha profetizzato l'imminente fine delle biblioteche pubbliche.
Come ci ricorda Wiegand, queste previsioni hanno scarse basi storiche, in quanto a meno che le biblioteche pubbliche non violino quell'insieme di valori e pratiche che esse hanno negoziato con i propri utenti nel tempo, difficilmente esse perdono il supporto delle comunità. È vero che, nei periodi di recessione economica, le biblioteche hanno spesso subito tagli considerevoli (che tra l'altro hanno riguardato molte altre istituzioni pubbliche), ma è anche vero che spesso in quei periodi il loro utilizzo è aumentato. Evidentemente i bibliotecari tendono a dimenticare ovvero hanno una scarsa conoscenza della loro storia, cosicché - non rendendosi conto che gran parte degli interrogativi e dei dibattiti del loro tempo hanno caratterizzato anche il passato - finiscono vittime di allarmismi poco fondati nonché di approcci ideologici che propugnano un ritorno al vero spirito della biblioteca pubblica oppure ampliamenti di funzioni, senza sapere che l'identità di questo istituto è stata sempre molto più varia e diversificata di quanto crediamo.
Anna Galluzzi
Biblioteca del Senato "Giovanni Spadolini"
Un sasso lanciato nello stagno delle biblioteche meridionali. Si potrebbe riassumere così l'opera prima di Anna Bilotta, giovane bibliotecaria laureata in Gestione e conservazione del patrimonio archivistico e librario presso l'Università di Salerno, un'opera che mira a innescare un cambiamento nella considerazione sociale delle biblioteche, a partire dal Sud Italia, che poi è anche - e non solo geograficamente - il Sud d'Europa.
Il saggio prende le mosse dal coinvolgimento dell'autrice in una più ampia iniziativa di ricerca sulla funzione sociale delle biblioteche pubbliche, coordinata nel biennio 2015-2016 da Giovanni Di Domenico per il Dipartimento di scienze del patrimonio culturale della stessa Università di Salerno, ed è stato pubblicato grazie alla collaborazione editoriale della Sezione Campania dell'Associazione italiana biblioteche. Esso mette in luce una realtà irpina poco conosciuta e dà voce a una pluralità di soggetti, come i bibliotecari delle istituzioni analizzate, il personale degli enti locali, gli esponenti di comunità, gli utenti.
Il lavoro è ben organizzato e denso di contenuti, capace di fotografare lo stato dell'arte delle biblioteche pubbliche della provincia di Avellino, seguendo «la strada della valutazione, sia in termini quantitativi che in termini qualitativi, adottando le metodologie e le tecniche proposte dagli standard nazionali e internazionali in materia» (p. 7).
Il riferimento costante a esperienze e fonti di studio primarie e secondarie dell'attività di valutazione dell'impatto, ne fa un agile strumento professionale, una bussola, un modello teorico e pratico, ad uso degli studenti, dei docenti, dei professionisti del settore e dei decisori pubblici, di tutti coloro che sono impegnati nella diffusione di una cultura della biblioteca pubblica, che ne accresca il ruolo sociale e la reputazione e che soprattutto la sottragga al capriccio o alla lungimiranza della singola amministrazione di turno.
L'analisi, a partire dal primo capitolo, è collocata all'interno di un paese Italia diviso e di un dibattito biblioteconomico sull'identità delle biblioteche pubbliche che da più di un decennio si sforza di elaborare idee e strategie per farle uscire dalla crisi, mettendone in risalto i vantaggi per la comunità «in termini di capitale civico e culturale, di contrasto delle disuguaglianze, di democrazia, di solidarietà, di benessere e qualità della vita, tutto quello che può essere definito impatto sociale della biblioteca» (p. 37). Non si può non essere d'accordo con Anna Bilotta quando sostiene che «il compromesso tra la focalizzazione esclusiva sulla funzione di mediazione informativa della biblioteca e la contaminazione aperta a tutto ciò che serve a darle visibilità, sta nell'uscita dalla autoreferenzialità. La biblioteca, quindi, solo abbandonando questi modelli precostituiti che pretendono di definirne l'identità può avere l'ambizione di incidere nel vivo delle dinamiche sociali» (p. 26).
Il secondo capitolo è dedicato al Sud delle biblioteche, ovvero alla descrizione di uno scenario «in cui le opportunità che ciascun cittadino ha di incontrare nel corso della propria vita l'offerta di un servizio bibliotecario sono diseguali e questo si traduce in un minore utilizzo delle biblioteche e in tassi di lettura molto più bassi» (p. 50) rispetto ad altre aree italiane. D'altronde, se il quadro tracciato risulta desolante in tutto il Mezzogiorno, lo diventa ancora di più quando l'autrice passa alla descrizione della realtà campana «profondamente arretrata e inefficiente» e all'analisi delle biblioteche pubbliche della provincia di Avellino, distribuite su un territorio vastissimo, dove su 111 biblioteche censite ne risultano realmente attive soltanto 37, pari al 33,3% del totale.
Nel terzo capitolo, Metodi di indagine e risultati, si entra nel cuore dell'indagine e della realtà irpina, con una combinazione originale delle evidenze dedotte, sollecitate e osservate tramite assaggi qualitativi e quantitativi condotti sulla traccia dello standard ISO 16439:2014(E). «L'evidenza dedotta è stata ricavata da dati statistici, indicatori, confronto con valori standard e quartili; l'evidenza sollecitata da interviste di tipo qualitativo, somministrate a utenti e a bibliotecari, atte a sollecitare risposte; l'evidenza osservata dall'osservazione diretta sul campo di azioni e comportamenti degli utenti, della loro interazione con gli spazi, il personale e gli altri utenti» (p. 61-62).
Si tratta di un lavoro di analisi complesso e nello stesso tempo impietoso, che ci restituisce un'immagine nitida del difficilissimo contesto bibliotecario irpino, avvinghiato a modelli di servizio tradizionali, ma che però, attenzione, come ci ricorda l'autrice, riproduce per molti aspetti le caratteristiche distintive emerse in indagini affini, realizzate in altre biblioteche italiane in anni recenti, come in Umbria, Toscana, Marche, Emilia Romagna, vale a dire: patrimoni modesti, scarso uso delle tecnologie, impiego degli spazi come luogo esclusivo di studio e socializzazione per gli studenti, poca capacità di presa su adulti in età da lavoro e anziani.
Nella parte finale i risultati dell'indagine vengono messi a confronto con la molteplicità dei punti di vista di alcuni esponenti di comunità che Anna Bilotta ha intervistato, i cosiddetti "testimoni" o "osservatori privilegiati" (quattro decisori politici e un dirigente scolastico), variamente legati al mondo della cultura e delle biblioteche. Scopo delle interviste è stato quello di verificare il loro interesse verso le biblioteche pubbliche locali e il supporto necessario a ipotesi di rilancio e recupero. Nelle interviste (tra cui quella a Giancarlo Giordano vicepresidente della Commissione cultura, scienza e istruzione in Parlamento e primo firmatario di una recente proposta di legge nazionale sulla lettura del 2014), disponibili integralmente in appendice insieme alle griglie dei dati della rilevazione e a un'esaustiva bibliografia, i leader coinvolti riconoscono e delineano, talvolta lucidamente, «ciò che una biblioteca pubblica idealmente dovrebbe essere», anche se, «nel caso specifico delle biblioteche irpine [...] è evidente lo scollamento [...] con quello che le biblioteche attualmente sono» (p. 149).
Se si vuole cambiare verso, chiude con determinazione professionale Anna Bilotta, visto che le evidenze raccolte «ci mettono ulteriormente di fronte a una situazione critica e probabilmente destinata a peggiorare» (p. 157), bisogna cominciare con urgenza a sollecitare i cittadini a non accontentarsi di servizi scadenti, a dare visibilità alle attività di promozione della lettura dei Presìdi del libro, a coinvolgere scuole, associazioni, librerie, ad attivare reti e coordinamenti locali con altre biblioteche e «altri soggetti che a vario titolo operano nel mondo della cultura e dell'informazione» (p. 165).
Parafrasando Rodari, se un sasso ben lanciato in uno stagno suscita onde concentriche che si allargano sulla superficie, non diversamente ci auguriamo che questo libro, gettato nelle discussioni sulle biblioteche italiane, da Sud a Nord, possa produrre onde di superficie e di profondità, provocare una serie infinita di reazioni a catena, capovolgere un ritardo storico in opportunità future.
Tommaso Paiano
Senigallia (AN)
È stata una piacevolissima sorpresa trovare tra gli ultimi volumi pubblicati da AIB il volume di Anna Gasparello, Libri per bambini (con bisogni) speciali: le biblioteche pubbliche e la CAA, una sorpresa gradita sia come bibliotecario, sia come Counselor per l'età evolutiva. Già dal titolo il libro risulta ben impostato e attento a questi bambini speciali, bambini che non vengono etichettati con il sintomo, con la patologia dalla quale sono affetti. Per l'autrice sono, difatti, bambini «con bisogni» speciali: il sintomo, la patologia non è la persona. Non è un caso che al volume sia stato assegnato il Premio Giorgio De Gregori 2015.
Il pubblico cui è diretto il volume è molto ampio. Se esso è scritto per i bibliotecari, leggendolo ci si accorge come possa essere rivolto anche ad altri utenti: genitori, docenti, educatori e a coloro che vengono in contatto con bambini con BES. L'autrice concentra il proprio interesse principalmente sui bambini affetti dal Disturbo dello Spettro Autistico e suddivide il suo lavoro in due parti, una prima prevalentemente teorica, a cui sono dedicati i primi due capitoli e una seconda parte pratica, nella quale vengono riportati casi di studio di applicazioni e progetti in diverse biblioteche italiane, situate tra la Lombardia e l'Umbria.
Nel primo capitolo vengono spiegati con lodevole chiarezza i Disturbi dello Spettro Autistico, mettendo in evidenza le difficoltà che bambini affetti da tali disturbi hanno nelle aree della interazione sociale e del comportamento e avvisando che non è infrequente il caso in cui un comportamento anomalo venga attribuito ad altre eziologie. Scrive Gasparello «il fatto di non presentare caratteristiche fisiche particolari [...] può creare ulteriori difficoltà nell'interazione con gli altri, ad esempio in luoghi pubblici; un comportamento anomalo, infatti, può essere scambiato per cattiva educazione o provocare risposte inadeguate da parte di estranei, come un rimprovero ad alta voce, che non fanno altro che aumentare lo stress del bambino diminuendo ulteriormente la sua capacità di autocontrollo» (p. 19). Nel definire gli ambiti dei Disturbi dello Spettro Autistico, l'autrice sottolinea le differenze tra Disturbo Autistico, la sindrome di Asperger e il Disturbo pervasivo dello sviluppo non altrimenti specificato. Sono costanti i riferimenti alla letteratura scientifica - a partire dal DSM5 (Diagnotic and Statistical Manual of Mental Disorders) - sulla quale è stata fatta un'attenta e puntuale ricerca con la quale sono sostanziate le fonti di natura biblioteconomica.
Nel secondo capitolo La Comunicazione Aumentativa Alternativa (CAA) e la lettura vengono esaminati principalmente due sistemi di linguaggi espressi per mezzo di simboli: il Picture Communication Symbols (PCS) e il Widgit Literacy Symbols (WLS). La definizione di CAA - «il termine Comunicazione Aumentativa Alternativa indica ogni comunicazione che sostituisce o aumenta il linguaggio verbale, ed è un'area della pratica clinica che cerca di compensare la disabilità temporanea o permanente di individui con bisogni comunicativi complessi» (p. 51) - precede l'analisi dei due sistemi simbolici PCS e WLS e quella più sintetica del Blissymbol e del Portal Aragonés de la Comunicacion Aumentativa y Alternativa (Arasaac). Arricchiscono il capitolo una serie di immagini esplicative dei sistemi simbolici, nonché una sezione dedicata alle principali case editrici di libri in simboli come Uovonero, le Edizioni del Centro Studi Erickson e Clavis e un riferimento a Internet e al digitale, con il quale sono presentate App e dispositivi elettronici ad hoc per bambini con BES.
Il terzo capitolo I libri in simboli nelle biblioteche di pubblica lettura introduce la seconda parte del volume ed è dedicato alle applicazioni nelle biblioteche di strumenti per bambini con bisogni speciali educativi. L'autrice muove dalla citazione di due documenti dell'IFLA fondamentali per le biblioteche per bambini e ragazzi: le Linee guida per i servizi bibliotecari ai bebè e ai piccolissimi entro i tre anni e le Linee guida per servizi per i giovani adulti nelle biblioteche pubbliche. evidenziando come «la biblioteca di pubblica lettura [...] diventa il luogo in cui i bambini [...] si sentono i benvenuti e trovano risorse preparate apposta per loro in base alla loro età e ai loro bisogni» (p. 100). Di conseguenza, osserva Gasparello, «per bambini con bisogni speciali un accesso precoce ai servizi bibliotecari è ancora più importante poiché questi avviamenti garantiscono una partenza sicura prima della scolarizzazione formale» (p. 100).
Il breve excursus storico che segue permette di venire a conoscenza di Jella Lepman, fondatrice a Monaco di Baviera, dopo la seconda guerra Mondiale, della International Jugendbibliothek, una biblioteca dedicata a bambini e ragazzi per promuovere la tolleranza e la pace attraverso la conoscenza tra i paesi del mondo (p. 105) e della nascita, nel 1953, dell'International Board on Books for Young people (IBBY) con il relativo Documentation centre of books for disabled young people. Questo centro nel 2013 diviene la IBBY Collection of books for young people with disabilities, con sede a Toronto.
Il capitolo si conclude con una serie di considerazioni sul concetto di accessibilità rivolto ai lettori portatori di disabilità: «accessibilità delle biblioteche ai disabili [...] si declina in vari aspetti che riguardano sia gli edifici in senso fisico che l'organizzazione dei servizi. Si possono allora distinguere: l'accessibilità esterna ed interna delle strutture; l'accessibilità dei documenti e servizi; l'accessibilità delle attività culturali» (p. 109). Soffermandosi sul rapporto tra bibliotecari e lettori, nella fattispecie lettori con bisogni specifici, l'autrice raccomanda al bibliotecario alcune norme comportamentali da adottare nell'evenienza: tono di voce normale, eloquio né troppo veloce, né troppo lento, uso di frasi brevi e complete, rinuncia ad utilizzare parole non italiane o troppo complesse. Quando il lettore è un bambino, fa osservare Gasparello, «bisogna superare il pregiudizio che un bambino autistico non possa leggere per proprio divertimento come fanno tutti gli altri: il fatto che preferiscano magari un numero ristretto di libri, possibilmente con una trama semplice e pochi personaggi, non significa che non possono trovare piacevole il momento della lettura» (p. 114). Il bambino con DSA si diverte proprio «come tutti gli altri», ecco il punto. Ribaltiamo i pregiudizi collegati all'etichetta autistico: l'autistico non può fare, è un diverso, tanto è sempre nel suo mondo, tanto è rotto, è un difetto di fabbrica, non può capire. Servendosi di tecniche come la lettura collegata - presentare al bambino storie tutte tra loro collegate da un personaggio oppure un argomento - e le storie sociali - racconti che parlano di un particolare contesto o problema che nel susseguirsi della narrazione viene affrontato con un comportamento adeguato - il bibliotecario può rassicurare il bambino e insegnargli a seguire un ordine stabilito di azioni nello svolgimento di un determinato compito. A questo fine può essere di qualche beneficio l'uso di strumenti tecnologici, dal momento che «comunicare tramite un programma di videoscrittura può essere meno problematico che farlo attraverso l'uso della comunicazione orale», e l'affiancamento di un coetaneo normodotato, che funga da tutor e aiuti il suo compagno nella lettura, sempre con il coordinamento del bibliotecario. Si tratta, infine, di fare un lavoro di squadra, coinvolgendo di volta in volta insegnanti, educatori e familiari.
Concludono il volume due capitoli dedicati alla presentazione di sperimentazioni in Lombardia e in altre regioni italiane.
Il lavoro di Gasparello è davvero prezioso e profondo, preciso nella ricerca di fonti che rivelano una preparazione di livello scientifico che va oltre quella biblioteconomica. Il volume si legge velocemente perché è capace di coinvolgere il lettore. Le informazioni che ricaviamo dal libro ci avvicinano ad un mondo che non tutti conosciamo e dissipano etichette, luoghi comuni, credenze, ovvietà. Portandoci oltre la disabilità, queste conoscenze ci offrono la possibilità di incontrare la persona. Anna ci trasmette il suo amore per la professione di bibliotecaria, declinato non soltanto nel senso delle pratiche biblioteconomiche, ma in quanto strumento di integrazione sociale, emancipazione, incontro di diversità che, integrandosi, diventano comunità.
Se agli autori si è solitamente grati per le conoscenze di cui ci arricchiscono, nel caso di Anna Gasparello la gratitudine si estende per quel tratto di umanità che le sue pagine fanno emergere in chi le legge.
Giulio Marconi
Biblioteca ENEA, Roma
Il volume parte dall'idea che l'e-government sia un fenomeno a più dimensioni. Ciò significa che deve essere studiato da diversi punti di vista, almeno dal punto di vista tecnico e dal punto di vista manageriale. E significa anche che, quando si implementano progetti di e-government, occorre considerare variabili fortemente dipendenti dal contesto e valutare il pericolo di andare incontro a fallimenti non in relazione alla natura del progetto ma al suo impatto sull'ambiente sociale o di lavoro.
Il caso di studio utilizzato nel volume è riferito allo Zambia e quindi si attaglia, in particolare, alla situazione dei paesi in via di sviluppo ma può risultare utile e stimolante anche per i paesi più industrializzati, perché mette in evidenza limiti e debolezze dei modelli utilizzati, riepilogando la strumentazione concettuale che è stata elaborata nelle esperienze di implementazione. In sostanza, il volume si presenta come un catalogo, un repertorio di approcci metodologici, tratti dalle più importanti esperienze internazionali o messi a punto dalle organizzazioni internazionali che hanno accompagnato progetti di e-government.
L'e-government deve essere inteso come un termine ombrello che si riferisce a tutte le forme di uso delle tecnologie dell'informazione nei processi di governo e nell'erogazione dei servizi pubblici (in appendice sono elencate 29 definizioni tratte dalle letteratura scientifica e dai documenti delle organizzazioni internazionali). Tutto ciò significa interazione tra amministrazione pubblica, cittadini e imprese attraverso piattaforme online. In concreto i settori di sviluppo dell'e-government sono quelli della governance (flussi interni alle PA; trasparenza; partecipazione ai processi decisionali pubblici), dell'economia (finanza pubblica, fisco, imprese, gestione del territorio e delle risorse) e dei servizi sociali (dall'istruzione, alla salute, alla sicurezza, ecc.).
Dopo un paio di capitoli introduttivi, una parte significativa del volume è dedicata alla valutazione della readiness, quella che potremmo malamente tradurre prontezza o forse livello di preparazione dell'ambiente nel quale l'implementazione si svolge e nelle tecniche di valutazione di tale condizione. Un successivo capitolo esamina una serie di casi nazionali di implementazione di progetti di e-government nei diversi continenti, mettendo in evidenza le ragioni di alcuni fallimenti con un focus particolare sul caso dello Zambia (in appendice è presente l'articolato questionario utilizzato per questa ricerca sul campo). A parte le criticità relative all'infrastruttura di rete, gli aspetti tecnologici non sono in primo piano nelle esperienze negative. Più importanti appaiono le motivazioni culturali, le carenze manageriali e la mancanza di piani di sostenibilità dell'innovazione tecnologica: alcuni progetti avevano adeguati finanziamenti per la fase di avvio ma non prevedevano tutti i costi legati al funzionamento a regime delle diverse applicazioni. Altri progetti non sono riusciti ad attivare un circuito di fiducia o per carenze di fiducia nella stessa azione amministrativa (a causa del livello di corruzione, ad esempio) oppure per diffidenza verso i miglioramenti promessi in termini di efficienza ed efficacia.
Sul piano delle prospettive future, il volume indica alcune criticità fortemente legate alla convergenza nelle applicazioni di e-government sulle piattaforme mobili (c.d. m-Government).
In conclusione il volume appare di qualche utilità soprattutto per chi intende avere un approccio all'e-government basato sulle tendenze di fondo della ricerca ma anche per i policy makers interessati al bagaglio teorico e modellistico generato dalle esperienze di implementazione.
Fernando Venturini
Biblioteca della Camera dei deputati
Ci piace pensare di essere una tabula rasa ma spesso gli stereotipi e i pregiudizi sono il nostro punto di partenza per osservare il mondo: ci semplificano pericolosamente la vita, permettendoci di non porci domande, di risparmiare l'energia del pensiero critico e il tempo che esso richiede.
Nell'accezione comune i termini pregiudizio e stereotipo vengono spesso associati e usati come sinonimi, pur avendo significati differenti. Il termine stereotipo- che proviene dall'ambiente tipografico, dove fu coniato verso la fine del Settecento per indicare la riproduzione di immagini a stampa per mezzo di forme fisse - eÌ un modello rigido di conoscenza e di rappresentazione della realtà. Il pregiudizio è una valutazione che precede l'esperienza, un giudizio formulato prima di disporre dei dati certi per comprendere la realtà. (Per chi volesse approfondire la questione e comprendere meglio la differenza tra i due termini consiglio la lettura di Stereotipi e pregiudizi, un utilissimo libro dello psicologo Bruno M. Mazzara, edito da il Mulino nel 1997 e uscito nella versione e-book nel 2010). «Lo stereotipo eÌ l'anticamera del pregiudizio» è l'espressione che si usa di solito per definire il rapporto tra i due.
Lo psicologo Gordon Allport (1897-1967), uno dei principali esponenti dell'approccio cognitivista, nel 1954 pubblicò un volume fondamentale per questo filone di studi dal titolo The Nature of Prejudice (La natura del pregiudizio, La Nuova Italia, 1973), in cui descriveva i processi mentali sui quali il pregiudizio si basa, mettendone in evidenza per certi versi la naturalità. Ben lontano dal giustificarne l'uso, l'Autore riconosceva che i pregiudizi poggiano sull'esasperazione di processi che per loro natura sono del tutto ordinari. Dunque, non è il pregiudizio il vero ostacolo alla conoscenza, ma il nostro rifiuto a considerarlo tale e il confonderlo con una rappresentazione oggettiva del mondo.
Dunque se, come sembra, non è possibile non essere vittime dei pregiudizi e dei luoghi comuni, è fondamentale almeno saperli riconoscere. Proprio in questo intento di consapevolezza riconosco l'obiettivo pienamente raggiunto di un libro sorprendente, edito recentemente da Laterza: Il pregiudizio universale: un catalogo d'autore di pregiudizi e luoghi comuni, la cui lettura è decisamente consigliata.
Attraverso i racconti di una molteplicità di illustri autori provenienti dai contesti più diversi - Antonio Marras, Enrico Vanzina, Corrado Augias, Zygmunt Bauman, Ignazio Visco, solo per citarne alcuni - il volume offre una rassegna esaustiva di pregiudizi e luoghi comuni (ben 83, presentati al lettore rigorosamente in ordine alfabetico) dei quali siamo abitualmente vittime.
Il volume si presta a molteplici percorsi di lettura, ad esempio tematici: pericolosissimi pregiudizi che manifestano una disposizione negativa nei confronti dell'altro e del diverso: I clandestini sono tutti delinquenti (Paolo Borgna), Gli immigrati ci rubano il lavoro (Giampiero Dalla Zuanna), Siamo invasi dai rifugiati (Carlotta Sami), I rom rubano i bambini (Santino Spinelli); non meno pericolosi luoghi comuni legati ai cosiddetti caratteri nazionali: Gli africani sono pigri (Pietro Veronese), Italiani brava gente (Filippo Focardi), Gli italiani sono bianchi (Igiaba Scego); pregiudizi ancora legati al genere, nonostante secolari battaglie per la parità dei sessi: La donna è mobile (Eva Cantarella), Dio creoÌ la donna dalla costola dell'uomo (Sebastiano Mauri), Le donne non sanno guidare (Patrizia Grieco), L'uomo è cacciatore (Massimo Pandolfi).
Se alcuni di quelli appena nominati sono pregiudizi (o luoghi comuni) di grande impatto sociale, che, come ben sappiamo, possono portare a pericolosissime forme di discriminazione, ce ne sono altri decisamente più innocui: due su tutti, Nella carbonara la cipolla non ci va (Massimo Montanari) e Non ci sono più le mezze stagioni (Luca Mercalli). Questo per dire che oltre ad essere illuminante la lettura di questo libro è anche divertente.
Nello spazio di questa recensione non passerò in rassegna tutti i contributi - cosa che sarebbe complessa anche per ovvi motivi di spazio - ma mi propongo di disegnare un ipotetico percorso di lettura per studiosi e professionisti delle biblioteche. Naturalmente non ne svelerò il contenuto ma mi limiterò soltanto a segnalare il pregiudizio e l'Autore che lo smentisce, lasciando al lettore il divertimento di scoprire in che modo il luogo comune viene confutato e la relazione che esiste tra i diversi pregiudizi chiamati in causa.
Il percorso che propongo parte dalle certezze che abbiamo rispetto alle esigenze informative, alle abitudini di lettura e più in generale ai bisogni degli utenti - reali e potenziali - filtrati da luoghi comuni come: I giovani non leggono (Giovanni Solimine), Gli adolescenti sono nativi digitali (Gino Roncaglia) e I giornali non contano più nulla (Giulio Anselmi) o Leggere libri ci rende migliori (Paolo Di Paolo).
Questi luoghi comuni si innestano su pregiudizi che riguardano: la retorica dei tempi moderni in cui la competitività è un valore fondativo, ben sintetizzata dal detto Chi si ferma è perduto (Carlo Petrini), l'idea che La tecnologia guida il progresso (Francesco Antinucci) e che Il web uccide le librerie (Rocco Pinto) e anche le biblioteche.
Se è vero che il web si sta prendendo molta della nostra attenzione e del nostro tempo, a maggior ragione sarà utile cominciare a pensare che diverso deve essere il modo in cui le biblioteche e le istituzioni culturali in generale si rapportano al pubblico e si presentano ad esso: non è vero che L'abito non fa il monaco (Antonio Marras).
Ovviamente ancor prima che pensare alla comunicazione e alla promozione sarà necessario utilizzare tutti gli strumenti a disposizione per produrre informazioni (conoscenza) utili per prendere decisioni consapevoli. Attenzione: non è vero che I numeri parlano da soli (Enrico Giovannini) e che I sondaggi non ci prendono mai (Nando Pagnoncelli).
È necessario capire in profondità quali sono le motivazioni per cui gli utenti usufruiscono delle biblioteche e dei loro servizi e cercare di approfondire i loro desiderata, cosa si aspettano e di cosa ritengono di aver bisogno. Ciò non vuol dire ovviamente che Il pubblico ha sempre ragione (Corrado Augias). L'Autore ci ricorda che non c'è nulla di più sbagliato e pericoloso: «Il cliente può avere torto marcio [...] Sarebbe invece molto più sano perderli certi clienti, anche in vista dei possibili danni che un individuo fastidioso o insolente può provocare all'esercizio» (p. 293). Immagino che questa considerazione abbia riportato (non solo me) a certi fatti gravi recentemente accaduti in biblioteca.
Questo percorso, che potrebbe estendersi ben oltre, abbracciando per esempio una schiera di pregiudizi che riguardano la cultura - Con la cultura non si mangia (Ignazio Visco), I festival culturali lasciano il tempo che trovano (Oscar Iarussi) - ha evidentemente molto a che vedere con la definizione dell'identità della biblioteca oggi. Identità intesa come «sintesi complessa di una certa immagine della propria storia [...], di opinioni circa le proprie possibilità e capacità, di aspettative circa il futuro e in definitiva di convinzioni circa il proprio posto nel mondo». (p. 138) Non poteva mancare, infatti, il pregiudizio nemico numero uno dei bibliotecari: Le biblioteche sono luoghi noiosi (Antonella Agnoli).
Chiara Faggiolani
Sapienza Università di Roma
La prima monografia di Valentina Sestini, ospitata in una rilevante collana editoriale che approfondisce gli ambiti scientifici coperti dalla rivista internazionale Paratesto di Fabrizio Serra, immette nel panorama della letteratura professionale italiana lo sviluppo rigoroso di un argomento mirato e indubbiamente interessante: le tipografie a conduzione femminile. Lo studio, applicato al caso di studio di un importante centro di stampa siciliano (Messina) in età moderna, per quanto a prima vista possa apparire poco mainstream, si pone in coerenza con la tendenza di alcuni saggi recenti che stanno meritevolmente portando alla luce diverse tessere di quell'ampio mosaico, ancora ben lontano dall'essere composto nella sua interezza, costituito dal variegato rapporto tra le donne e le arti del libro.
Il volume della studiosa romana, ricercatrice e docente all'Università di Messina, è concepito in due parti e articolato in tre capitoli. La prima parte, coincidente con il primo capitolo, ci offre un'estensione dell'ambito dell'indagine rispetto al titolo del volume, tratteggiando in maniera complessiva il tema dell'impatto femminile nelle professioni connesse alla produzione e al commercio del libro in età moderna, con riferimenti sia nazionali che internazionali. Tale indagine sulle donne tipografe (ma anche cartare, libraie, legatrici, disegnatrici, intagliatrici di figure) serve insieme da introduzione generale e da pretesto per l'inquadramento di alcune importanti questioni. Tra queste, da sottolineare indubbiamente le riflessioni legate agli aspetti economici nella gestione delle imprese artigianali a carattere familiare, e quelle concernenti lo status di vedovanza, tanto più se con figli in minore età. In ambienti a forte osmosi tra famiglia e lavoro, quali dovevano essere le case-bottega destinate a officina tipografica, la presenza femminile, considerate anche le abilità manuali necessarie, garantiva notevolissimi risparmi di costo rispetto alla manovalanza esterna. Appare pertanto assolutamente condivisibile l'affermazione di Sestini che «si può ipotizzare che quasi tutte le donne cresciute all'interno di officine tipografiche, in qualità di figlie, mogli, madri o sorelle, venissero iniziate all'arte della stampa dai loro familiari e con loro lavorarono, contribuendo in mille modi al buon andamento delle aziende di famiglia»; del resto, se gli esemplari a stampa quasi sempre tacciono (più in Italia che non in Francia o in Olanda, a dire il vero), l'iconografia libraria (xilografie, marche tipografiche) talvolta ci mostra inequivocabilmente le donne della famiglia del titolare impegnate in cartiere e stamperie (es. le figlie di Josse Bade). Quanto alla condizione vedovile, bisogna considerare che normalmente la prassi testamentaria di restituzione della dote matrimoniale e di concessione dell'usufrutto dell'azienda tipografica poneva la donna nell'effettiva condizione non solo di farsi curatrice e tutrice dei figli minori, ma altresì di gestire, in proprio o in collaborazione con altri familiari, l'impresa editoriale. Pertanto, dietro la formula eredi di si celava spesso la volontà di una temporanea conduzione femminile della tipografia, che poi sarebbe stata ceduta ai figli, una volta che questi avessero raggiunto la maggiore età. Non erano, poi, infrequenti i casi in cui la vedova decideva di assicurare continuità e solidità alla gestione della tipografia ereditata attivando direttamente o per i propri figli un nuovo rapporto/legame familiare tramite il matrimonio con altro professionista del libro; gli esempi di questo genere sarebbero numerosi, e saggiamente l'autrice ne propone solo alcuni particolarmente rappresentativi.
Nel medesimo capitolo, diverse pagine sono dedicate a una rassegna commentata, abbastanza dettagliata, degli studi sulle donne coinvolte nei mestieri del libro italiano tra Quattrocento e Settecento. Tra i pochi lavori d'insieme sull'argomento - dopo avere riconosciuto alla studiosa straniera Deborah Parker il merito di averlo rilanciato nel 1996 (dopo decenni di sostanziale silenzio dei bibliografi), con il saggio Women in the Book Trade in Italy, 1475-1620 pubblicato in Renaissance Quarterly - ricorderemo almeno: il terzo capitolo (Le donne nei mestieri del libro) del lavoro di Tiziana Plebani Ilgenere dei libri (Milano, 2001); il catalogo della mostra tenuta alla Biblioteca Universitaria di Bologna Donne tipografe tra XV e XIX secolo, edito nel 2003; e la sezione La donna e il libro del simposio internazionale La donna nel Rinascimento meridionale del 2009, in cui figurano contributi specifici sulle donne in tipografia firmati da Marco Santoro (Imprenditrici o facenti funzioni?) e da Rosa Marisa Borraccini (All'ombra degli eredi), senza dimenticare altri interventi affini al nostro tema (quelli di Concetta Bianca, Isabella Nuovo, Antonella Orlandi, Carmela Reale, Paola Zito), pubblicati negli atti del medesimo convegno. Per gli studi su singole protagoniste, Sestini opportunamente segnala, accanto ai consueti annali tipografici e repertori in uso per l'editoria quattro-cinquecentesca (questi ultimi arricchitisi di un buon numero di voci relative a tipografe-editrici attive nel XVII secolo grazie al recente Dizionario degli editori, tipografi, librai itineranti in Italia tra Quattrocento e Seicento), alcuni studi mirati come quello di Gianni Macchiavelli sulla vedova Mayr, Caterina De Silvestro (Napoli, 2006), e quelli sui monasteri femminili sedi di tipografie come San Jacopo di Ripoli a Firenze (Vincenzio Fineschi, Pietro Bologna, Dennis Rhodes, Melissa Conway) oppure Santa Maria Maddalena alla Giudecca di Venezia, detto delle Convertite (cfr. Edoardo Barbieri, Per monialium poenitentiarum manus etc., pubblicato in La bibliofilia nel 2011). A riprova del rinnovato interesse degli studiosi per questo filone di ricerca, in aggiunta alla bibliografia annotata a piè di pagina dalla Sestini segnaliamo due recenti numeri monografici (2014 e 2015) della rivista Bibliologia dal titolo Donne in editoria (= Women in publishing), nel primo dei quali compare tra l'altro un interessante saggio di Andrea De Pasquale su Margherita Dall'Aglio, moglie di Giambattista Bodoni e, rimasta vedova nel 1813, per diversi anni titolare della sua stamperia, oltre che editrice del celebre Manuale tipografico (in effetti, questa sembrerebbe l'unica citazione di rilievo sfuggita all'autrice - immaginiamo a causa della concomitanza dei tempi di pubblicazione - nel suo ben documentato excursus).
Nella seconda parte del volume, il tema della donna in tipografia viene pregevolmente declinato in un'ampia casistica riguardante la realtà messinese tra Seicento e Ottocento (evitando pertanto di ripetere le informazioni già note grazie ad Achille Bonifacio e Giuseppe Lipari su Margherita, attiva alla fine del Cinquecento nella città dello Stretto, reliqua di Fausto Bufalini e coniugatasi in seconde nozze con un altro tipografo messinese, Pietro Brea). Questa parte è suddivisa in due capitoli, uno dedicato alla riflessione storiografica, l'altro finalizzato a un censimento bibliografico delle edizioni, con riferimento alle vedove di Giovanni Francesco Bianco (1637-1642), di Francesco Gaipa (1767-1780), di Giuseppe Rosone (1779-1781), di Antonino D'Amico Arena (1812) e di Giovanni Del Nobolo (1817-1823). Cinque microstorie, cinque fotogrammi che aprono, per dirla con Rosa Marisa Borraccini, autrice di analogo lavoro per l'area marchigiana, altrettanti spiragli sul misconosciuto universo femminile dei mestieri del libro in Italia. L'analisi storico-bibliografica fa spiccare su tutte l'attività della vedova di Giovanni Francesco Bianco. Le sue capacità imprenditoriali sono riconosciute dal Senato messinese, che le conserva la prerogativa di stampa camerale già concessa al defunto marito, e soprattutto sono dimostrate dall'aperta collaborazione con il libraio di origine toscana Luca Francesco Matarozzi, il quale con il suo apporto di esperienza influisce positivamente nella scelta, nella promozione e nel finanziamento delle edizioni della vedova in diverse occasioni. Il suo catalogo (una quarantina di edizioni; le segnalazioni bibliografiche della Sestini sono quasi tutte corredate dalla localizzazione di esemplari superstiti) include autori di una certa notorietà come Alessandro Calamato o Maurizio Centini, ma soprattutto diverse opere del medico e botanico romano Pietro Castelli, allora docente presso lo Studium messanense. Degno di nota anche il fatto che in appendice ad alcune edizioni della vedova Bianco si incontrino elenchi di opere dei medesimi autori (es. Castelli, Calamato) per anticiparne la futura pubblicazione (e quindi promuoverne tempestivamente la successiva distribuzione commerciale).
Tra i casi di studio settecenteschi, la vedova Gaipa sembra confinare l'attività della sua stamperia (ubicata all'insegna di San Lorenzo, in prossimità del Duomo), ad oggi attestata in una ventina di testi, quasi esclusivamente a opere devozionali e altri trattatelli d'occasione prodotti in piccolo formato (a eccezione dell'edizione in-folio delle Theses philosophico-mathematicae ex physica di Placido Atanasio del 1772, dedicate all'arcivescovo messinese del tempo), mentre la vedova Rosone si dedica per pochissimi anni ad una produzione di libretti a carattere liturgico (officia sanctorum). Infine, per l'Ottocento, vengono indagati i percorsi professionali della vedova D'Amico Arena, di cui si conosce solo un repertorio legislativo prodotto su commissione del Senato messinese, la Raccolta di varii dispacci ed altre disposizioni del Governo (1812), e della vedova Del Nobolo, la quale firmò almeno cinque edizioni a stampa, tra cui - seguendo le orme del marito Giovanni, prolifico editore di gazzette a carattere politico - due annate (o anche di più) del periodico Il corrispondente costituzionale.
Oltremodo accurata la metodologia di descrizione bibliografica adottata dall'autrice per le 75 edizioni censite. Le schede, disposte in ordine cronologico, riportano la rappresentazione facsimilare del frontespizio di seguito alla riga di intestazione (che reca la numerazione del record, l'autore in forma normalizzata e il titolo abbreviato). Formato, consistenza, segnatura dei fascicoli, indicazione delle partizioni testuali e paratestuali completano la descrizione. Oltremodo apprezzabile anche il lavoro di trascrizione integrale delle epistole dedicatorie condotto dall'autrice, che in tal modo restituisce al lettore importanti elementi di contesto legati all'ambiente sociale e culturale in cui si collocava la committenza e la produzione delle opere stampate nelle officine delle tipografe messinesi. Sono indicati per ogni edizione anche i principali repertori e cataloghi che la descrivono, e le sigle delle biblioteche che ne conservano degli esemplari.
Un'osservazione conclusiva riguarda il possibile confronto degli esiti del lavoro della Sestini con gli altri centri di stampa siciliani. Le dichiarazioni di responsabilità di impresa tipografico-editoriale indicate nei frontespizi trascritti dall'autrice permettono di registrare una significativa differenza culturale tra Messina e Palermo-Catania durante quasi tutta l'età moderna: mentre nella città dello Stretto formule come apud viduam, typis viduae, ex typographia viduae nella stamperia della vedova, presso la vedova, e simili, sono presenti a partire dal 1637, identificando almeno cinque professioniste fino al 1823, al contrario, indagando l'editoria prodotta nel capoluogo isolano e nella città etnea, si scopre che - allo stato attuale delle conoscenze - le espressioni riferite a "vedove" di tipografi/editori sono attestate nel paratesto dei libri a stampa solo a partire dalla seconda metà dell'Ottocento (Palermo: vedove di D'Asaro, De Natale, Solli, Tamburello; Catania: Stamperia Bellini della vedova Malerba Cosentino). In realtà, come traspare con chiara evidenza dal libro della Sestini, le donne erano costantemente presenti dappertutto, e in moltissimi settori della vita produttiva delle società occidentali, sia nel Medioevo che nell'Età moderna; ed è solo per il ruolo subalterno che veniva loro imposto di ricoprire che la storia della partecipazione femminile alle professioni (incluse quelle del libro) è stata descritta con ampie zone di cesure e di omissioni (come a Palermo e Catania, dove la loro esistenza nelle tipografie di ancién regime - almeno ufficialmente, in quanto dichiarato nelle pubblicazioni - è del tutto invisibile). Molto correttamente, in proposito, l'autrice parla di «scarsa visibilità all'interno delle fonti, che crea uno scarto evidente tra presenza effettiva e presenza ipotizzata», ed è per tale motivo che già i bibliografi e gli storici ottocenteschi che per primi avevano esplorato il tema (come Francesco Novati, Iro da Venegone, Vittorio Rossi e Tammaro De Marinis su Elisabetta Rusconi, Girolama Cartolari e altre donne tipografe del Cinquecento) hanno dovuto ricorrere a inferenze desunte non solo dalle edizioni, ma anche e soprattutto dai documenti di archivio. Resta il fatto che, se - grazie soprattutto a Edit16 e al suo ruolo propulsore negli studi dell'editoria cinquecentesca - alcune editrici-tipografe (Girolama Cartolari, Elisabetta Rusconi, Caterina De Silvestro, Paola Blado, Cecilia Tramezzino, Lucrezia Dorico, Chiara Giolito de Ferrari, etc.) sono state ripetutamente oggetto di attenzione, sebbene spesso in modo solo marginale, degli studiosi, altre (come ad es. Giustina de Rossi, per rimanere al Cinquecento senza considerare l'ampia zona grigia dei secoli successivi) ancora oggi attendono un maggiore approfondimento storico-bibliografico, che vada al di là dell'informazione puramente repertoriale. E si può quindi concludere condividendo l'auspicio formulato da Marco Santoro nell'Introduzione, che «l'universo tipografico-editoriale femminile possa essere gratificato presto da altre necessarie e utilissime investigazioni, che certamente potranno recare contributi ineludibili per comprendere sempre meglio la complessa quanto intrigante realtà della comunicazione scritta nelle sue diversificate valenze e peculiarità».
Domenico Ciccarello
Università di Palermo
Molto spesso le vicende delle biblioteche, comprese quelle private, sono talmente complesse e intricate da aver indotto un bibliotecario attento come Luigi Crocetti a paragonarle ai «relitti di un naufragio». La biblioteca (o meglio le biblioteche) dei conti Thun, oggetto di questo lavoro di Giancarlo Petrella, non fanno eccezione, anzi possono essere considerate un esempio paradigmatico. Nel 1992 il complesso di Castel Thun è stato acquisito dalla Provincia di Trento, che ha provveduto a trasferire la biblioteca dalla sede originaria, la torretta sud-occidentale del castello, ai più idonei depositi dell'Archivio provinciale, finanziandone anche la catalogazione nel Catalogo Bibliografico Trentino.
Si tratta di una raccolta che, nel corso dei secoli, ha vissuto accrescimenti non sempre organici e programmati (l'espressione accrescimento disorganico è usata dallo stesso Petrella), ma soprattutto dispersioni, sottrazioni, spostamenti, divisioni, vendite (di certo anche qualche furto), tanto da mostrare oggi un aspetto decisamente molto lontano da quello assunto via via nel corso del tempo. In casi come questo, il tentativo di ricostruzione del dipanarsi delle vicende della raccolta è tanto più efficace quanto più ricchi sono i documenti sulla consistenza passata della biblioteca, cioè in buona sostanza inventari e cataloghi. Nel nostro caso purtroppo però tale documentazione, oltre ad essere scarsa, non è anteriore al XIX secolo, se si eccettuano due scarni inventari post mortem, il primo dei beni mobili e immobili di Vittore Thun (1445-1487), l'altro di Michele III, morto nel 1522. Questi ultimi ci restituiscono rispettivamente le notizie relative a 19 e 71 libri, i quali peraltro non sono più nella biblioteca attuale. Di ben altra consistenza i documenti ottocenteschi, inventari per materie, frutto del lavoro di due donne della famiglia Thun, Maria Teresa e Teresina, peraltro la prima non particolarmente dotata di competenze di carattere bibliografico. Maria Teresa infatti non di rado tradisce fraintendimenti, ad esempio registrando qualche autore nella letteratura della lingua della traduzione. Il suo lavoro vide infatti non poche correzioni da parte di Teresina. Tali strumenti non ci permettono di ricostruire le vicende di un periodo particolarmente lungo (ben quattro secoli, risalendo anche solo alla fine del Medioevo) dei libri di casa Thun. Rappresentative degli interessi bibliofilici del conte Matteo II (Francesco Matteo Giuseppe Probo, 1812-1892) piuttosto che della antica biblioteca sono poi due liste di edizioni prevalentemente aldine da lui redatte, rispettivamente di 41 e 48 titoli e altrettanto si può dire di un altro elenco di 250 titoli.
I circa 8000 volumi oggi presenti in biblioteca (ma nella premessa di Laura Dal Prà, direttrice del museo Castello del Buonconsiglio si dice che sono 7300), sono quindi, se non proprio i relitti di un naufragio, il frutto talvolta casuale di stratificazioni difficili da ricostruire. Se proprio vogliamo tentare di restituire un profilo della raccolta, dobbiamo affidarci alle parole dello stesso Petrella:
«Sebbene dotata di una generosa e articolata disponibilità di libri di argomento religioso o scientifico, la collezione dei Thun, in termini quantitativi, è però palesemente sbilanciata sul versante storico-letterario» (p. 76). In particolare si tratta di letteratura greco-latina e nelle principali lingue europee, di storiografia antica, ma soprattutto moderna, non solo italiana, di respiro europeo. Nella classe di lettere troviamo 900 titoli, in quella di storia 860. La Letteratura italiana registra 350 titoli, la latina 100, la greca 10. Ma ci sono assenze sorprendenti come quella di Foscolo, mentre di Leopardi resta solo la Crestomazia nell'edizione Stella del 1846.
Petrella fornisce qualche spunto sugli interessi di alcuni membri della casata: Matteo I (Francesco Matteo Giuseppe 1742-1810), vicino alla Massoneria e protettore di Cagliostro, privilegia i dizionari francesi e fa venire libri da Neuchâtel e dalle Province Unite, attraverso un asse Leida-Trento (p. e.: L'an 2440 del Mercier). La letteratura francese cresce in modo esponenziale nell'Ottocento con il romanzo popolare: Sue, Dumas, Hugo, Balzac. Si segnala una certa abbondanza di testi di bachicoltura, di riviste parigine di moda, e una collezione di monografie di soggetto napoleonico. Si intensifica il numero degli storici tedeschi dopo l'acquisizione della biblioteca nel 1929 da parte del ramo boemo della famiglia.
Matteo II fu senz'altro l'unico vero bibliofilo di casa Thun. Ne sono prova anche i rapporti con personaggi contemporanei noti nel campo della bibliografia e del collezionismo, quali Giovanni Battista Carlo Giuliari, Tommaso Gar, Giovanni Battista e Giuseppe Campori, mentre una generazione più tardi, quando era già avanzato un processo di parziale dismissione della raccolta, iniziato proprio da Matteo II per sopraggiunte difficoltà economiche, sono documentati rapporti di un membro della famiglia con Desiderio Chilovi.
Ma anche per Matteo II non si può che lamentare la scarsezza di note di possesso o di ex-libris che ci permettano realmente di riscostruire il nucleo di libri a lui appartenuti. Possiamo intravedere la figura di un raffinato collezionista ottocentesco, mentre poche sopravvivenze della biblioteca rinascimentale restano di incunaboli e cinquecentine nelle 124 edizioni del fondo cosiddetto antico, frutto appunto di interessi antiquari. Colpisce ad esempio che Virgilio sia presente solo in edizioni del XIX secolo come la Remondiniana del 1804. Anche la Comedia non registra edizioni anteriori a quella del 1811. Però il catalogo ci dice che a fine Ottocento ce n'era ancora una cinquecentesca del Vellutello. E in un elenco di Matteo figura anche l'aldina del 1502 (forse acquistata dallo stesso conte).
Quindi anche i marks in books, quali note di possesso ed ex libris o antiche collocazioni, scarsi e sporadici, non soccorrono se non raramente alla carenza di documentazione esterna. L'autore stesso del libro sottolinea più volte come tutto quello che si può sapere sulla biblioteca Thun prima dell'Ottocento, almeno quattro secoli come si è visto, sia basato su ipotesi non dimostrabili piuttosto che su vere e proprie evidenze. Si può solo dire che il più antico possessore documentato da una nota manoscritta sia il figlio di Ercole Thun, Volfango Teodorico (1593-1642): Cesare, Commentarii, Lyon, Gryphius, 1565. Del figlio Sigismondo Alfonso, primo vescovo principe della casa, restano solo due libri sicuramente suoi. Ai quali sarà probabilmente da aggiungere anche un Panegirico di Carlo Mattia Saracini (1671), visto che è a lui dedicato. Del resto è lo stesso Petrella ad osservare che i libri dei vescovi Thun non sono rientrati nell'alveo familiare, ma hanno preso altre direzioni. A suo fratello Francesco Agostino (1656-1702) si deve il nucleo più consistente di titoli giuridici, nonché letture devote.
Perciò tra i risultati più interessanti di questo lavoro ci sono, ad esempio, le notizie sulle letture di alcune donne di casa Thun tra Sette e Ottocento, ricordate nel paragrafo Lettrici di casa Thun (p. 146-157). Le Opere spirituali della santa madre Teresa di Gesù, Venezia, 1690 recano una nota di Johanna contessa «à Thun» (Giovanna Felicita 1693-1745). La sorella, Veronica II (1699-?) possiede La pierre de touche ou le secret de délier la langue...avec une grammaire...Leipzig, 1710, mentre Maria Barbara Firmian Thun (1736-1829) è proprietaria delle Instructions pour le jeunes dames qui entrent dans le mond, se marient, Leipzig, 1764.
Ma forse ad essere più significativa è la fonte esterna rappresentata dalle fatture di alcuni librai, tra i quali si segnalano i Remondini, che furono a lungo fornitori di casa Thun (p. 273-324).
A conclusione del suo ponderoso lavoro Petrella ha voluto aggiungere il catalogo del cosiddetto fondo antico, 4 incunaboli e 120 cinquecentine che oggi sopravvivono in biblioteca, qui elencate in ordine cronologico, senza però che questa scelta sia adeguatamente motivata. A parte le note di possesso, le notizie relative erano già presenti in IGI, Edit16, VD16 e, naturalmente, nel Catalogo Bibliografico Trentino.
In generale, si coglie in questo libro una palese contraddizione tra uno stile narrativo che indulge a continue anticipazioni parziali - nell'intento di creare una sorta di suspence - e ripetute lunghe elencazioni di autori e titoli. In questo modo Petrella rende difficile a sè stesso e al lettore il raggiungimento di sintesi interpretative che pure sarebbero auspicabili in un lavoro che sicuramente ha richiesto tempo, impegno e risorse.
Infine può lasciare quanto meno perplessi che in un lavoro nel quale il riferimento alla base dati SBN è giustamente costante quasi nelle note di ogni pagina, l'acronimo venga malamente sciolto nell'Introduzione in Sistema (sic) Bibliotecario Nazionale (p. XXVI).
Lorenzo Baldacchini
Università di Bologna