di Giorgio Antoniacomi
Nel tempo dell'inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario.
(George Orwell)
Che documenti acquisiamo? Secondo quali criteri? Che uso ne facciamo? Il tema è, in apparenza, soltanto specialistico e può illudersi di potersi far bastare criteri, regole, categorie, linguaggi e consuetudini radicati nella pratica professionale e comunemente condivisi. In realtà non è così. Men che meno oggi, nell'epoca della sovrabbondanza delle informazioni, nella quale il compito dei bibliotecari non è più soltanto quello di acquisire documenti, ma quello di indirizzare l'utenza all'interno di un labirinto informativo caotico e disordinato, quello di certificare la qualità delle fonti e la credibilità stessa di ciò che viene pubblicato, e quello, sebbene sia in parte eccentrico rispetto alle considerazioni che vengono qui sviluppate, di contribuire alla produzione e alla propagazione di saperi liberi1. Viviamo un senso di spaesamento, di agorafobia, di perdita di riferimenti, che accompagna, come un contrappunto, il divenire del nostro mestiere e la manutenzione della nostra professionalità.
La componente specialistica implicita nella professione bibliotecaria sembrerebbe ricondurci a una dimensione asettica, oggettivabile, costruita sulla misura (sia pure non più esclusiva) dei documenti cartacei. L'adozione delle carte delle collezioni ci illude circa la possibilità di riportare i criteri di scelta e di gestione delle raccolte a standard, a protocolli, a una dimensione normativa al riparo da equivoci. Sul punto, il dibattito nella comunità professionale (al contrario di quello in corso nell'ambito disciplinare e specialistico2) è ancora relativamente poco sviluppato e richiede un supplemento di analisi e un confronto letteralmente spregiudicato. Scegliere quali documenti acquisire (cioè, per differenza, quali non acquisire, dal momento che ogni scelta è una selezione), come acquisirli e come gestirli significa muoversi in una dimensione tragica, se a questa parola associamo il significato antico del termine, quello di un urto fatale tra leggi inconciliabili. Si tratta di una contrapposizione tra valori che sembrano incommensurabili: uno è quello dell'accesso a ogni tipo di informazione, un accesso universale, generalizzato, non discriminatorio, a-valutativo, che si ispira ai valori di matrice liberale della laicità, della neutralità, dell'imparzialità; l'altro è quello militante, consapevolmente e intenzionalmente schierato, che prende posizione a tutela di valori non solo fondamentali, ma primordiali, quello di un pensiero libero che, per essere libero davvero, non può accontentarsi di una definizione approssimativa e fuorviante di libertà e che, in tutti i casi, qualche paletto lo deve pur mettere.
Questa antinomia - nell'epoca che è stata definita della post verità o della verità postfattuale - ha una portata ontologica. E interpella il ruolo del bibliotecario, che ha proprie, legittime opinioni, un proprio vissuto, una storia personale, proprie appartenenze e sensibilità. La comunità dei bibliotecari è una realtà stratificata, plurale, aperta, che custodisce valori plurimi, non immediatamente conciliabili. Ed esprime diverse, anche irrazionali, idiosincrasie. Valori e idiosincrasie si riflettono in deontologie potenzialmente differenti o nel loro appiattimento. Il problema non è il conflitto che ne può derivare; il problema sono l'equivoco, cioè l'incapacità di esplicitare convinzioni implicite ma basilari, dalle quali derivano decisioni e scelte concrete, e l'inerzia.
Un riferimento classico ci porta indietro di un secolo, a una riflessione di Max Weber e a una distinzione divenuta paradigmatica: quella fra l'etica del principio e l'etica della responsabilità3 (Weber, 2004). In entrambi i casi ci si riferisce a comportamenti eticamente orientati. Nel primo caso, ogni decisione viene subordinata al rispetto letterale e incondizionato della norma; nel secondo caso, la decisione tiene conto delle conseguenze della scelta.
Riferita alla scelta di acquisto dei libri, alla loro gestione, alla loro immediata o, viceversa, più prudente presentazione all'utenza, la distinzione weberiana ci consegna nella sua immediata consistenza la questione da mettere a tema. La contrapposizione che si delinea è quella che si pone tra il principio della neutralità (che appartiene alle prerogative non derogabili della missione della biblioteca pubblica) e, all'estremo opposto, il principio della responsabilità rispetto a tesi, affermazioni, posizioni che lo stato dell'arte, il progresso scientifico, il riferimento a valori non negoziabili considerano irrinunciabili. Nella società contemporanea - caratterizzata, secondo la definizione anche in questo caso weberiana, da un irriducibile politeismo dei valori - il tema sembra porsi in maniera indecidibile. Come se la secolarizzazione e il relativismo, e assieme a essi la convivenza di credenze, significati, atteggiamenti, stili di vita diversificati e ugualmente legittimi - che costituiscono un tratto distintivo della società dopo-moderna - dovessero portare ineluttabilmente alla prevalenza, se non al dominio, di una laicità intesa, erroneamente, non come autonomia morale dell'individuo rispetto alla legge, ma come perdita di significati e come indifferenza: come se ormai niente contasse più nulla.
Intanto, la verità è tornata attuale. Non solo perché negli ultimi decenni gli studi filosofici su questo argomento sono diventati sempre più numerosi (in qualche modo riesumando un concetto che qualcuno dava oramai per morto e sepolto4), ma perché la nozione di verità è entrata nella discussione pubblica come soggetto politico. Per quale motivo? Perché la verità inizia a costituire un problema. Nella vita di tutti i giorni, in ciascun singolo momento, noi diamo per scontato che qualcosa sia vero. Può succedere, però, che ci si renda conto che quello che riteniamo vero non sia proprio così scontato. È qui che iniziamo a farci delle domande.
Un buon motivo per spiegare questo nuovo interesse per ciò che è vero nel mondo delle biblioteche è costituito dalla rivoluzione digitale. Una delle caratteristiche distintive di questa rivoluzione, che ha messo in contatto in tempo reale miliardi di persone, è la sovrabbondanza di informazioni. Fino a qualche tempo fa, l'informazione era una risorsa scarsa. Adesso, in linea di principio, non lo è più. Quello che si è realizzato non è un cambiamento solo quantitativo, ma qualitativo, perché si è modificato il DNA della registrazione e dello scambio di informazioni. Qui si aprono alcuni scenari. Due, per quanto qui ci riguarda, i principali. Un primo scenario, positivo, è costituito dalla moltiplicazione delle opportunità, cioè dalla enorme quantità di dati, informazioni, conoscenze a disposizione di chiunque; un altro scenario, molto meno positivo, è quello della proliferazione di notizie infondate, incontrollate, manipolate. A vario titolo false.
Queste circostanze interessano la biblioteca. Di più, toccano la sua stessa ragion d'essere. La biblioteca, nell'età digitale, non è più quella di prima, non risponde più alle funzioni precedenti, rischia di diventare obsoleta perché ha perso la propria posizione di monopolio. Deve perciò aggiornare il proprio ruolo, che non è più quello di concentrare presso di sé, fisicamente, il maggior numero di documenti possibili, ma di riposizionarsi in un contesto nel quale le informazioni sono già disponibili. Deve passare da luogo di accesso fisico alla conoscenza (che nasceva di per sé sostanzialmente garantita, validata, certificata) a soggetto in grado di garantire modalità molteplici e altre di accesso alla conoscenza (che nasce, incerta e indifesa, all'interno di una folla di informazioni: alcune acquisite con fatica, con metodo, con onestà, altre letteralmente inventate e propagate dalla capacità di diffusione e di replicazione della rete). La rete, in un certo senso (anche se questo senso è inquietante) è anarchica: ci va chi vuole, dice quello che vuole e ci trova quello che vuole. La biblioteca è democratica: ci va chi vuole, ma sa che non entra in un contesto nel quale ogni cosa ha lo stesso valore del suo contrario. O così, almeno, dovrebbe essere. Il cuore del nuovo ruolo della biblioteca è quello della qualità dell'informazione. Non c'entra la contrapposizione fra i presunti difensori della verità e i presunti difensori della libertà di opinione. È una contrapposizione equivoca e spuria, per il semplice fatto che la verità non è scolpita sulle tavole di pietra; e un'opinione non è libera, nel senso profondo del termine, se non è fondata su basi plausibili. A questo proposito, è importante decidere una cosa: da che parte stiamo. Il nostro compito prioritario non è quello di costringere chi inganna, chi imbroglia, chi deforma la realtà, chi semplicemente la costruisce a non farlo più. La menzogna c'è sempre stata e ci sarà sempre. E oggi ha semplicemente molte più opportunità di prima e, per un altro verso, ha un'inedita legittimazione. In una situazione di caos comunicativo dobbiamo stare dalla parte di chi la menzogna la subisce, aumentare le sue difese, metterlo in guardia. Il nostro non è un lavoro pro veritate, è un lavoro scettico, nel senso originario di questo termine: quello di andare a vedere come stanno le cose, come sono i fatti e (come scriveva Hannah Arendt) «il loro ostinato essere lì». Se non lo facciamo, siamo dei dogmatici disponibili a credere in maniera acritica a qualunque cosa oppure dei nichilisti più o meno inconsapevoli, cioè persone che, avendo orecchiato la filosofia di Nietzsche, sostengono che la verità semplicemente non esiste.
Si potrebbe ripetere, a proposito del concetto di verità, ciò che Angelo Maria Ripellino disse parlando delle città: anche se assunta a scenario di una flânerie innamorata - scriveva in Praga magica - una città è una dannata, sfuggente, complicatissima cosa. Così la verità. Non possiamo accostarci al concetto di verità in maniera sbrigativa e superficiale, perché non è intuitivo (come sembra), non è ovvio ed elementare (come sarebbe comodo fosse), ma è estremamente problematico. Chi volesse farlo, potrebbe ripercorrere i filoni di pensiero che, senza trovare un punto prospettico definitivo, hanno attraversato tutta la storia della filosofia occidentale e hanno caratterizzato il pensiero del Novecento, trovando, va detto, una singolare accelerazione da qualche decennio a questa parte. Ma la novità è soprattutto un'altra: il concetto di verità, non più circoscritto al solo ambito filosofico, ha fatto irruzione sulla scena del discorso pubblico. Questa dimensione ci riguarda da vicino e ci pone qualche domanda anche imbarazzante, anche impertinente: perché quando facciamo il nostro lavoro di bibliotecari (cioè un lavoro che si configura e si caratterizza come attività di mediazione critica fra documenti e utenti), la categoria di verità la usiamo continuamente, solo che rimane implicita, cioè la prendiamo per buona senza pensarci. Possiamo anche richiamarci all'affermazione pilatesca («Quid est veritas?») per dire che, in fondo, la verità non esiste o che comunque è un oggetto troppo incerto, sfumato, precario e revocabile; possiamo sostenere che, in fondo, noi non siamo abilitati a decidere nulla; possiamo dire che non è nostro compito farlo e affermare che è lesivo dei diritti dell'utenza. Ma, anche se non abbiamo studiato ermeneutica e non abbiamo letto Wittgenstein, il concetto di verità ce lo troviamo sempre e necessariamente tra i piedi. E produce conseguenze dirette e inevitabili sulle nostre scelte, sulle nostre decisioni, su quello che concretamente facciamo o non facciamo. C'è, insomma, una dimensione normativa - cioè una dimensione che ci interpella su ciò che dobbiamo o non dobbiamo fare - che non ci permette di liberarci in modo sbrigativo della verità. In un modo o nell'altro, dobbiamo farci i conti.
Questa categoria però fa anche paura, come se parlare di verità - nel nostro presente plurale - fosse di per sé qualcosa di sbagliato. Non si capisce perché dovrebbe essere così. In primo luogo, dobbiamo prendere le distanze da una definizione ingenua di verità: vero non vuol dire assolutamente e definitivamente certo. Nemmeno quella scientifica. Una teoria è scientifica - afferma Edgar Morin richiamandosi a Popper - non perché è vera, ma perché consente che il suo errore si possa dimostrare5. E parla di biodegradabilità delle teorie proprio perché esse non rifiutano «quel commercio con il mondo circostante [l'esperienza e la verifica] che può anche decretarne la morte». La verità ha un nucleo costitutivo di approssimazione e di storicità. Inoltre, la verità ha una natura fragile: qualche volta ha un carattere probabilistico; altre volte riguarda lo stato dell'arte di una determinata disciplina; altre volte ancora un'affermazione può essere vera e falsa nello stesso tempo; oppure succede che una posizione sia indecidibile, perché ha bisogno di ulteriori verifiche; altre volte quello che ci sembra evidente da lontano si 'sfarina' man mano che lo si osserva più da vicino6. Dovremmo dunque praticare un agnosticismo militante e non fare nulla?
Una seconda riflessione è il caso di dedicarla alla distinzione, più ingannevole di quanto non appaia, tra fatti e opinioni. In estrema sintesi, un pensiero di ordinario buon senso potrebbe essere formulato così: non si può dichiarare guerra alle opinioni (perché questo equivarrebbe a censurarle), ma non si può nemmeno dare cittadinanza a documenti che sostengono posizioni manifestamente infondate, controfattuali, destituite di plausibilità o comunque estranee a valori imprescindibili e non negoziabili (pensiamo, su tutti, a quello della dignità della persona perché, come diceva Orazio, «sunt certi denique fines [...]»). Il sottinteso sembra abbastanza chiaro: non si pone nemmeno, ad esempio, la questione se una biblioteca pubblica possa o debba avere documenti di autori cattolici o agnostici, di destra o di sinistra, favorevoli o contrari all'eutanasia, per il semplice fatto che una biblioteca pubblica non può venir meno a un presupposto fondativo e inderogabile di laicità; ma si può sostenere altrettanto legittimamente la necessità di contrastare ogni deriva che ci spinga nella direzione che è stata definita «dell'avvelenamento dei pozzi» e della delegittimazione del vero7. Questo significa essere consapevoli che molta dell'informazione disponibile oggi è né più né meno che un'invenzione o, peggio, una manipolazione, cioè l'espressione di un inganno intenzionale. Tra l'altro, se guardiamo le cose con un minimo di ironia, è possibile notare un singolare capovolgimento nelle sensibilità prevalenti e diffuse e nelle scelte concretamente praticate: molti di coloro che si oppongono a un'idea di regolazione, cioè di controllo, delle acquisizioni bibliografiche nel nome di una incondizionata libertà di scelta sono le stesse persone che si scandalizzerebbero se qualcuno degli autori o degli editori di quegli stessi libri volesse venire in biblioteca a presentarli pubblicamente. Su una questione, però, è già il caso di insistere: se ci si opponesse all'acquisto di un testo perché sostiene una tesi contraria alle proprie convinzioni, si metterebbe in atto una censura (cioè una cosa sbagliata); se però si rifiuta di comperare un libro che sostenga la correlazione diretta tra vaccini e autismo, non si farebbe altro che evitare la diffusione di una bugia8.
Nel corso di conversazioni informali e di scambi di opinioni all'interno della comunità professionale nella quale chi scrive ha cercato un primo confronto, questa impostazione è stata talora contestata. Le argomentazioni principali portate per prenderne le distanze possono essere ricondotte a cinque ordini di obiezioni:
1) la scienza non è verità assoluta; molte acquisizioni scientifiche, ritenute vere, si sono successivamente rivelate errate; ogni enunciato scientifico è per definizione falsificabile;
2) noi bibliotecari non abbiamo strumenti per valutare la scientificità e in genere l'attendibilità dei testi;
3) gli utenti ci chiedono alcuni libri e si aspettano che noi glieli forniamo: se non lo facciamo, operiamo una censura;
4) dobbiamo far crescere la capacità critica degli utenti;
5) dobbiamo assumere un atteggiamento che superi le convinzioni personali (il Manifesto IFLA/Unesco prescrive di «rendere prontamente disponibile ogni tipo di conoscenza»).
Iniziamo dal tema della scientificità. La storia della scienza ci mostra che un cammino è molto accidentato. Come potrebbe essere altrimenti? Ma è progressivo e cumulativo. Oggi nessuno, tranne qualche giuggiolone, crede più che la terra sia piatta. O che il sole giri attorno al nostro pianeta blu. L'uso di certi farmaci, come gli antibiotici, ha definitivamente debellato alcune cause di morte. Qui la libertà di opinione non c'entra per niente: se una classe di studenti, nel nome della libertà di scelta, decidesse a maggioranza che due più due fa cinque, il risultato resterebbe comunque uguale a quattro. Per restare in analogia, la libertà di opinione riguarda, ad esempio, l'opportunità di costruire o di non costruire un ponte, ma non come lo si progetta. Se il ponte sta in piedi, non è un punto di vista: come diceva Tommaso d'Aquino, «non ratio est mensura rerum, sed potius e converso [...]». Quando le acquisizioni scientifiche sono solide è difficile vedere il problema. Laddove, invece, il dibattito scientifico è aperto, si tratta di documentarlo. Ma sul tema della cosiddetta libertà vaccinale, per non andare troppo lontani dalla questione che ha innescato molte controversie, si fa davvero fatica a sovrapporre il concetto di scientificità con quello di libertà di coscienza. In tutti i casi, va rimarcato il carattere scettico della tendenza alla verità, dove il termine scettico va inteso in senso letterale, come ricerca che origina proprio là dove ci sono incertezze e punti di vista irriducibili.
Un secondo ordine di obiezioni sostiene che, come bibliotecari, non abbiamo strumenti per valutare la credibilità o la fondatezza di un documento. Bisogna fare attenzione perché l'idea di vero che è qui in discussione (come ci ricorda la filosofia della conoscenza) non riguarda i contenuti, ma il modo di procedere per mettere in relazione il piano delle convinzioni o delle credenze con quello del come stanno le cose: quella che Tommaso d'Aquino chiamava «adaequatio intellectus et rei ad rem». Penso d'altra parte che un'affermazione come questa riveli, in alternativa, due sottintesi: o una scarsa auto (ed etero) stima da parte di chi la fa; oppure una percezione abbastanza timida del ruolo dei bibliotecari. Se la biblioteca è una struttura di intermediazione fra documenti e utenza, va messo un accento forte sul carattere di relazione (anzi, di personalizzazione) del servizio garantito dai bibliotecari; altrimenti sarebbe sufficiente disporre di un dispositivo semiautomatico di smistamento di documenti on demand. Invece ciò che chiamiamo information literacy rinvia a strumenti, saperi, competenze, sensibilità che, nel loro insieme, denotano lo specifico professionale dei bibliotecari: vorrei dire il senso stesso, oltre che la ragione, del loro lavoro. È proprio il carattere provvisorio e aperto alla smentita della verità, rapportato al compito dei bibliotecari (inteso come Beruf, cioè come missione, non come adempimento), a indicarci con chiarezza quale sia il nostro mandato: quello di analizzare le fonti, di comparare i documenti, di approfondire l'attendibilità delle informazioni9. Il rischio, di fronte a questioni controverse, è quello di arretrare in maniera quasi programmatica: «In fondo, non sono un medico ...». A questo genere di obiezioni, con una battuta, si potrebbe replicare citando Max Weber: «Non occorre essere Cesare per comprendere Cesare». Ma il bibliotecario (colui o colei che non voglia essere soltanto un compilatore diligente, un classificatore, un amanuense) dispone - e deve rivendicare questa specificità - degli strumenti per comparare criticamente, nella pluralità delle fonti disponibili, le posizioni controverse e per documentare il discorso pubblico e le sue polarizzazioni. Non per ultimo, bisogna pur dire che la gente - non tutti sono medici - un'opinione se la fa comunque e, su questa opinione, fonda decisioni concrete che hanno conseguenze altrettanto concrete. Il ruolo dei bibliotecari deve piuttosto confrontarsi con il solito problema, quello di sempre, vale a dire con le conseguenze inevitabili di visioni implicite. Ognuno di noi ha convinzioni che gli sembrano fondate su presupposti invalicabili, mentre sono divergenti rispetto a quelli di altri; ne nasce un conflitto (e fin qui ci può stare) ma soprattutto un malinteso. È il malinteso il nemico da contrastare.
Un terzo aspetto da discutere riguarda il concetto di sovranità dell'utenza. Si ripete spesso che l'utenza va messa al centro dell'idea di servizio. È vero, ma c'è qualche problema. Un primo problema è che l'utenza non esiste. Se proviamo a scomporre in elementi costitutivi ciò che, con un termine sbrigativo, chiamiamo utenza, ci rendiamo conto che il quadro è plurale, incoerente e frammentato. Ma anche se assumessimo come utenza le persone che vengono con le idee chiare e ci chiedono di prendere in prestito, o di acquistare per loro, un libro, rimarremmo confinati in una dimensione passiva e riduttiva rispetto ad un ruolo che, invece, dovrebbe essere proattivo. L'esperienza corrente conferma che, quando si propongono mostre bibliografiche temporanee a tema, i libri 'vanno'. Questo riscontro ci insegna qualcosa. Ci dice, prima di tutto, che lo scaffale aperto è un modo di dire, perché mettere assieme troppi libri significa nasconderli molto più che esplicitarli. Poi ci dice che gli utenti accettano di essere indirizzati, orientati, accompagnati nelle loro scelte. E comunque che lo sono di fatto. Ancora: a monte dell'acquisto di libri e della scelta dei modi attraverso cui renderli disponibili c'è una selezione che costituisce, in sé, una forma di autolimitazione, perché concretamente ci mette di fronte anche alla decisione di non comperare alcuni titoli. Ma soprattutto c'è un'utenza fragile, inesperta, incompetente, credulona. Dobbiamo cioè ammettere la capacità - umana, troppo umana - di auto-ingannarsi. L'essere umano attiva una pluralità di meccanismi di difesa, a partire dalla rimozione, per proteggere dalla realtà stessa le convinzioni più profonde. In questo senso, far crescere la capacità critica dell'utenza (cioè contrastare la sua tendenza a decidere una cosa e poi a selezionare le informazioni che la confermano, e solo quelle) è in contraddizione palese con la scelta - o l'auspicio - di dare a ciascuno sempre e soltanto ciò che ci chiede.
Parlare di centralità dell'utenza significa, dunque, prendere in considerazione la quarta obiezione.
Dobbiamo far crescere - viene affermato in quarto luogo - la capacità critica degli utenti (sottinteso: in modo che siano loro a distinguere, a dirimere, a comparare, a scegliere in modo autonomo e consapevole). Questo obiettivo rischia di essere contraddittorio rispetto al precedente, perché se il rispetto dell'utente consiste nel dargli sempre e solo quello che ci chiede, senza orientarlo, non saremo certo noi a farlo crescere; ma se ci proponiamo di farlo crescere dobbiamo pure esercitare un certo (vogliamo usare questa parola?) paternalismo. Sull'intenzione in sé è difficile non essere d'accordo, sia pure al netto di una certa ingenuità dell'assunto, perché pensare a un utente in possesso di una solida capacità critica è un po' come credere che qualcuno entri in biblioteca per prendere in prestito una guida turistica sulla Danimarca e poi, un poco alla volta, maturi una sensibilità e una preparazione che lo porteranno a leggere Kierkegaard. Restando sul tema della capacità critica degli utenti, è inevitabile ricordare le parole di Umberto Eco in occasione della cerimonia di conferimento della laurea honoris causa da parte dell'Università di Torino nel 2015: «I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un premio Nobel. È l'invasione degli imbecilli [...]. La tv aveva promosso lo scemo del villaggio rispetto al quale lo spettatore si sentiva superiore. Il dramma di internet è che ha promosso lo scemo del villaggio a portatore di verità». Poi, parlando del ruolo dei giornalisti (ma la medesima considerazione vale per qualunque bibliotecario), Eco li sollecitava a «filtrare con un'equipe di specialisti le informazioni di internet, perché nessuno è in grado di capire oggi se un sito sia attendibile o meno [...] I giornali dovrebbero dedicare almeno due pagine all'analisi critica dei siti, così come i professori dovrebbero insegnare ai ragazzi a utilizzare i siti per fare i temi. Saper copiare è una virtù, ma bisogna paragonare le informazioni per capire se sono attendibili o meno»10. Eco, che non può certo essere accusato di fondazionalismo, usava parole forti, dietro le quali c'è un pensiero molto impegnativo, che riassumerei in tre punti: l'avvento della rete non ha soltanto reso disponibili più informazioni, ma ha soprattutto mutato geneticamente le modalità di produzione, diffusione, acquisizione delle informazioni; c'è un bisogno ulteriore, e urgente, di intermediazione fra fonti e utenti finali; il ruolo di chi si occupa di intermediare le informazioni è quello smascherare le falsità, gli imbrogli, le truffe (con una risata, aggiungeva lui): far crescere la capacità critica degli utenti vuol dire, dunque, esercitare un ruolo preciso, non abdicarvi, anche perché, ricordiamolo, l'utente che non viene in biblioteca di noi non ha proprio più nessun bisogno. E anche su questo assunto qualche domanda, prima o poi, si dovrà iniziare a porla.
Queste considerazioni costituiscono già una confutazione del quinto ordine di obiezioni: dobbiamo superare le convinzioni personali. Anche qui, in linea di principio, è davvero difficile non essere d'accordo, dal momento che si tratta dell'ABC di una struttura pubblica (se poi andiamo a vedere rischiamo qualche brusco risveglio, ma questa, come si dice nelle fiabe, è un'altra storia). Il problema però, in questo modo, viene spostato. Contrastare le fake news non significa affermare una personale convinzione oscurando quella di chi la pensa diversamente da noi, significa, semplicemente, dire: «signori, attenzione: qualcuno qui vi sta prendendo in giro». Un esempio. Attiene alla sfera delle opinioni personali il giudizio - personale e politico, favorevole o severo - che ciascuno di noi dà delle figure che si sono succedute in questi anni nelle più alte cariche dello Stato, ma contrastare una notizia semplicemente falsa che li riguarda non attiene alla sfera delle personali convinzioni, attiene alla sfera di ciò che è semplicemente diffamatorio. Detto questo, una domanda profonda però rimane: davvero crediamo possibile fondare una qualunque opinione e la stessa libertà di esprimerla (a meno che non si tratti della scelta se tifare per una squadra di calcio che ha la maglia rossonera o nerazzurra) su qualcosa che possa tranquillamente ignorare ogni riferimento a un assunto fondato e pubblicamente riscontrabile?
Un tema ineludibile, a questo punto, è quello del filtro, della selezione o, per usare una parola forte, che troppo spesso viene usata in maniera poco sorvegliata per chiudere la discussione, della censura delle informazioni. Nell'epoca della rete, la censura non è solo sbagliata: è prima di tutto impraticabile. Per chi voglia esercitare un controllo sulle persone (il recentissimo caso di Cambridge Analytica docet), è molto più facile, e più redditizio, diffondere informazioni mirate a un'utenza ultra-segmentata: se sono false è lo stesso... Ma in alcuni rari casi, in circostanze ben situate e sempre specifiche, prendere posizione è semplicemente necessario. È vero che si rischia di cadere nel paradosso della tolleranza. Ma, appunto, si tratta di un paradosso. Il diritto di pensare e di esprimere quello che si vuole, uno dei capisaldi dell'eredità illuministica, ha una tutela giuridicamente molto solida. La sua negazione è uno dei tratti distintivi delle dittature e dei regimi totalitari. La libertà di espressione costituisce un prerequisito e, assieme, un tratto caratterizzante del concetto di libertà in quanto tale e delle sue concrete espressioni. È alla base di una idea anche solo intuitiva di democrazia. Non è possibile arretrare di un solo millimetro rispetto a questa acquisizione, che, come tutte le umane cose, ha una consistenza precaria e revocabile. Le opinioni attengono alla sfera insopprimibile delle nostre convinzioni e dei nostri valori, ai sottintesi delle nostre decisioni, ai nostri gusti, atteggiamenti, propensioni: alla sfera sacra e inviolabile degli affari nostri. Su queste affermazioni sembrerebbe di poter ottenere un consenso molto ampio. Ma, come diceva un nostro vecchio maestro, nulla è più traditore dell'ovvio. Così, quando andiamo a metterle alla prova, dobbiamo attraversare passaggi stretti: quelli delle teorie pseudoscientifiche che vorrebbero farci credere alle scie chimiche degli aerei, alle guarigioni dopo la chemioterapia come autoguarigioni o come risoluzione di conflitti interiori, a fenomeni 'tuttora inspiegabili'. In questo caso - sapendo fin troppo bene come l'essere umano sia un soggetto a razionalità (molto) limitata, dotato di un cervello dal funzionamento elementare e che, quando i fatti contrastano con le opinioni, è spesso portato a dare torto ai fatti - la responsabilità dei bibliotecari è interpellata in maniera drammatica, perché è immorale scherzare con la dabbenaggine, con l'ingenuità, qualche volta con la disperazione della gente.
La seconda tesi dichiarata in esordio ci richiama a un'esigenza che non può essere revocata in dubbio, quantomeno finché si assuma quale presupposto basilare dei criteri che stanno alla base delle accessioni il principio del pluralismo. Acquisire al patrimonio di una biblioteca documenti che contengano volgarità, opinioni devianti o comunque non condivise dal comune sentire non significa simpliciter condividerle: significa dare conto, in maniera quasi notarile, che la realtà esprime punti di vista che non accettiamo e che, qualche volta, sono palesemente indifendibili. L'approccio del bibliotecario nel momento in cui, per fare solo un esempio, decide di acquistare un volume di storia della Shoah che sostenga tesi negazioniste, dev'essere un approccio informato, consapevole, critico, ma non giudicante, sempre che, naturalmente, questa scelta sia coerente con gli indirizzi generali e specifici che regolano la gestione delle collezioni della sua biblioteca. Proporre un documento a un'utenza oltremodo diversificata è cosa del tutto diversa dal compilare un catalogo. Il catalogo contiene la generalità dei documenti, li rende disponibili secondo molteplici chiavi di accesso, ma, se mette Dante prima di Fabio Volo, non lo fa perché compie una scelta di merito: lo fa perché lo classifica così. Un catalogo è l'ordine convenzionale di una raccolta. Altra cosa è scegliere se conservare un libro in deposito oppure metterlo sullo scaffale aperto; se inserirlo in una bibliografia critica o metterlo semplicemente su un espositore; se accompagnarlo con alcune note di commento per contestualizzarlo o abbandonarlo al proprio destino. Certo, non è così per qualsiasi libro. Ma per alcuni libri è necessario fissare una sorta di 'gradiente' che aiuti a decidere che cosa possa essere semplicemente messo a disposizione del pubblico e che cosa debba, invece, essere oggetto di un giudizio prudente. Per fissare una prima conclusione, pluralismo non significa indifferenza: significa, metaforicamente, riconoscere che ci sono anche piante velenose ed essere consapevoli che, se il nostro mestiere è quello di botanico, le dobbiamo conoscere, raccogliere e classificare, ma questo non comporta che le mettiamo anche nell'insalata che offriamo ai nostri ospiti per cena. A meno che non li troviamo definitivamente insopportabili.
Fin qui l'inquadramento della materia e il gioco di obiezioni e di controdeduzioni che costituisce la pars destruens della nostra riflessione.
È opportuno, a questo punto, recuperare la logica della distinzione con una precisazione e un richiamo. Il richiamo ci riporta alla tesi di fondo di questo contributo, che riguarda il nuovo e diverso ruolo di una biblioteca pubblica al tempo della rete, cioè di una Babele di incontri naturaliter portata a omologare piani di realtà incommensurabili, dove (come diceva Giorgio Gaber) «il tutto è falso, il falso è tutto», dove l'informazione coesiste con l'emozione, l'argomentazione con l'accanimento, la capacità di problematizzare con l'incapacità di cogliere la natura complessa delle cose, la ricerca paziente con la notizia 'Coca cola', cioè con il riscontro immediatamente gratificante e, in ultima analisi, il principio di realtà con il principio di piacere. Questa tesi fondamentale, espressa in forma interrogativa, si chiede se, con l'avvento della rete, il ruolo di una biblioteca debba cambiare. Si tratta di una domanda retorica, cioè un quesito che contiene già in sé la propria risposta: il ruolo della biblioteca non può, ma deve cambiare: in parte per sopravvivere, per non cadere nell'irrilevanza; in parte per riappropriarsi di un compito non delegabile, che appartiene senza residuo al suo statuto pubblico e alla militanza di chi vi lavora. La precisazione riguarda il difficile passaggio fra il dibattito scientifico 'alto' e quanto di questo dibattito trapela nella comunità professionale allargata, nelle prassi concretamente agite, nella materiale gestione delle collezioni e nei quotidiani rapporti con l'utenza. Nel primo ambito, del quale si dà sommariamente conto in bibliografia, si registrano approcci raffinati e sistematici, ma quanto poi di questi approcci sedimenti nel quotidiano - dove però materialmente si realizza la relazione con l'utenza - è tutt'altra questione. Il sospetto, lecito, è che a questo livello la funzione di reference proceda per semplificazioni e adattamenti, secondo prassi consuetudinarie e personali sensibilità, come testimoniano gli esperimenti condotti negli Stati Uniti negli anni Settanta e Novanta del secolo scorso da Hauptman e Dowd sulla richiesta di informazioni per costruire ordigni esplosivi o sulle modalità di assunzione di sostanze stupefacenti11.
Venendo alla pars construens di questo contributo, il tema va riformulato. Le questioni sono essenzialmente due. Da una parte c'è il nodo, in qualche modo esistenziale, del rapporto fra biblioteca e rete. Dall'altra parte, si tratta di elaborare nuove e originali strategie, criteri, regole di condotta e strumenti, nella consapevolezza di non avere a disposizione le categorie e il linguaggio propri delle scienze esatte e di dover tendere a un equilibro instabile, dal momento che ogni scelta è per sua natura discrezionale e, proprio per questo, dev'essere dichiarata e pubblicamente argomentabile.
Quanto al primo ordine di questioni, è appena il caso di ribadire che, con la rivoluzione digitale, le forme tradizionali di intermediazione dei documenti cambiano ontologicamente: i contenuti della rete si muovono fuori dai canali consueti (cambia l'editoria, cambia la distribuzione, cambiano le modalità di acquisizione dei testi); cambia il modo di fruirne da parte dell'utenza, che è in grado di raggiungere l'informazione senza altre intermediazioni necessarie (le biblioteche); aumenta il disorientamento dell'utenza, in grado di accedere a una quantità eccedente di dati e di consumare informazioni non validate secondo un approccio sempre più esperienziale e non necessariamente fondato; cambia l'approccio alla cultura, che diventa sempre più attivo con l'irruzione sulla scena delle culture partecipative, che riporta anche alla centralità del libero accesso alla risorsa digitale, della quale va promosso il riuso. Il mondo che emerge è, a un tempo, ineluttabile e drammaticamente ambivalente; non è possibile pensare di rimanerne ai margini e, nello stesso tempo, è impensabile credere di poter continuare a fare le cose di sempre nei modi di sempre. La nostra opinione di fondo è che la partecipazione attiva e creativa delle biblioteche all'ecosistema digitale sia necessaria, inevitabile, opportuna, positiva, che sia, in poche parole, un'evoluzione della specie della biblioteca, una sua mutazione genetica, che non ne smentisce ma ne ribadisce la missione e, proprio per questo, la sollecita ad adeguarne la visione: perché se sono cambiati i format della conoscenza, resta compito della biblioteca permettere l'accesso alle informazioni, sia mettendole a disposizione attraverso le digitalizzazioni, sia dando la possibilità alle persone di capire come muoversi nel mare magnum delle opportunità (e dei rischi) legati al digitale.
Quale può essere dunque, entro una relazione di necessità, il rapporto (non biunivoco) fra le biblioteche e la rete? È appena il caso di accennare a due possibilità che vanno senz'altro escluse. La prima, sulla quale non merita di ritornare, è quella di considerare la rete tamquam non esset. La seconda è quella di dichiararle una guerra aperta e insensata, finendo per assomigliare a quei soldati giapponesi nelle isole del Pacifico, che continuavano a combattere perché nessuno li aveva informati della fine del conflitto. Il rapporto con la rete deve, piuttosto, operare su due fronti. Il primo consiste nel cogliere le straordinarie potenzialità di cui s'è detto. Il secondo è quello di essere 'semplicemente' se stessi, tornando in fondo a un'idea di identità che si definisce come continuità di sé nel tempo, in un rapporto mai risolto e mai definitivo con la discontinuità, cioè con la capacità di adattarsi a un ambiente mutevole. Essere se stessa, per una biblioteca, significa rinnovare una dichiarazione di fedeltà alla propria vocazione originaria e, nello stesso tempo, aggiornare il proprio repertorio di saperi e di competenze e il proprio apparato strumentale. Non si tratta di contrapporre vecchio e nuovo, ma semmai di rivedere criticamente e di innovare, perché non c'è bisogno di un lessico evocativo: c'è bisogno di fermarsi a pensare. La risposta, d'altra parte, deve prendere atto che ripensare un modello di servizio vuol dire certamente metterne in discussione i princìpi fondativi, in questo caso per confermarli, ma significa soprattutto attualizzarlo. Prima di suggerire un'ipotesi, cioè prima di riportare il filo del ragionamento su un piano di tecnicalità, va esplicitata una premessa. Calarsi in un contesto reale, in quella costruzione sociale che rimane una biblioteca, vuol dire confrontarsi con la pluralità (e spesso anche con la conflittualità) dei punti di vista e con il loro carattere normalmente implicito, vale a dire con la natura sottintesa delle concezioni che, però, producono conseguenze molto concrete e inconciliabili. Vuol dire, inoltre, accettare un confronto plurale, ammettere divergenze, non illudersi di poter ricomporre le distanze in via prescrittiva, ma attraverso una dimensione dialogica che sappia cercare il punto di convergenza più avanzato possibile. Una biblioteca, come qualunque organizzazione, è infatti una realtà solo apparentemente unitaria e coerente. Ragionare esclusivamente in termini prescrittivi significherebbe non ammettere che in questo caso - la citazione di Nietzsche, spesso usata fuori luogo, appare qui pertinente - non esistono i fatti (giuridici), ma le (plurime) interpretazioni.
Queste riflessioni portano al secondo ordine di questioni: quali strategie elaborare, quali criteri adottare, quali regole di condotta sperimentare, quali strumenti sviluppare. L'ancoraggio più inevitabile, apparentemente esclusivo e conclusivo, sembrerebbe quello dei codici deontologici e delle carte delle collezioni. È così - e anzi ci proponiamo di rilanciare questa prospettiva - ma è necessario farlo con gli occhi aperti, poiché consegnarsi al dato meramente formale porta con sé il rischio di affidare alla dimensione normativa il compito di dimostrare un teorema impegnativo, nel quale si realizza uno slittamento di significati:
- da un lato, accreditando un'idea in sé nobile ma necessariamente tendenziale di imparzialità, di neutralità, di a-valutatività; come sostiene Raymond Boudon, «si può rinunciare a questa concezione ingenua dell'oggettività»12, accettando che possa esservi una contrapposizione fra valori differenti, a tutti e a ciascuno dei quali va invece riconosciuto un diritto di cittadinanza e rispetto ai quali va cercato un bilanciamento, se è vero, come crediamo, che neutralità non significhi indifferenza e che fra i valori comunemente affermati vi sia, molto più spesso di quanto non ci piaccia credere, una tensione non eliminabile;
- dall'altro, incappando in un mito che va molto di moda nella cultura corrente, quello della regolamentazione del reale, al punto che qualche autore è arrivato a definire l'attuale temperie nei termini di una società dei controlli13, cioè di una società che insegue la pretesa di imporre un ordine sulla realtà; una pretesa fondata sulle strutture mitologiche retrostanti, che riflettono lo spaesamento di fronte alla complessità del mondo e all'incertezza che è forse il tratto dominante della contemporaneità.
Codici deontologici e carte delle collezioni - in quanto espressioni meditate delle comunità professionali, nelle quali si concentrano gli esiti di una continua riflessione su di sé, della ricerca di valori di riferimento condivisi e dell'esercizio di una consapevole responsabilità sociale14 - sono dunque riferimenti imprescindibili, all'interno e in attuazione dei quali è però opportuno attivare anche una razionalità ulteriore, non prescrittiva ma esplorativa e ricorsiva, specie quando si generano valorizzazioni discordanti o dilemmi.
Se, dunque, alla dimensione codificata affidiamo il compito che le spetta - che è in fondo quello di fissare riferimenti determinati e di rendere irrevocabili alcune acquisizioni15 - dobbiamo anche accettare come sfida, e non come problema, la fatica della situazione concreta e ciò che un grande filosofo tedesco definì il travaglio del concetto. Formulare un'ipotesi che prenda in considerazione un singolo documento o un singolo operatore alle prese con un caso specifico si trasformerebbe probabilmente in una trappola. Di fronte alle notizie infondate, tendenziose, capziose, premeditatamente false che vivono indisturbate soprattutto, ma non solo, nella rete è possibile operare seguendo alcune tracce.
Una è quella della collegialità. Al netto di una inevitabile specializzazione per aree tematiche e della facoltà di ciascun bibliotecario di dare una caratterizzazione riconoscibile, una sottolineatura forte del patrimonio documentale che rientra nelle proprie competenze e delle proprie sensibilità, va recuperata e garantita a ogni decisione - di acquisto, di collocazione, di revisione del patrimonio - una dimensione plurale e discorsiva. Almeno per tre motivi. Perché, per fare queste scelte, non si tratta di applicare un algoritmo, ma le argomentazioni sfumano, si contraddicono, prevalgono in modo mai definitivo e sempre rivedibile: in breve, si costruiscono attraverso il confronto. In secondo luogo perché, specie di fronte a temi sensibili, è necessario evitare che si formino privative o competenze esclusive sottratte a ogni controllo (succede, dai...). In terzo luogo perché nessuno può sapere tutto e, dunque, è più che vantaggioso integrare informazioni, saperi, competenze e sensibilità presenti e distribuite nella comunità professionale.
Una seconda pista da esplorare è quella della formazione. Mai come in questo momento appare nella sua drammaticità la necessità improcrastinabile di andare oltre il semplice informarsi o, come si dice, tenersi aggiornati: perché crescono gli specialismi; perché le conoscenze sono soggette a un invecchiamento precoce; perché il divario digitale è una criticità che coinvolge anche i bibliotecari di una generazione (possiamo dirlo? la nostra) che è in fondo quella di 'immigrati digitali'; perché di fronte a una crescente analiticità del sapere è sempre più difficile integrare apporti eterogenei. Il focus è, dunque, quello di una continua ed esigente manutenzione delle competenze dei bibliotecari, in quanto (e questo va rivendicato con orgoglio) professionisti della conoscenza, anche attraverso momenti di autoformazione, di formazione reciproca, di dialogo aperto nella comunità professionale e - su questo aspetto è il caso di mettere un accento forte - di confronto con altre discipline, altri saperi, altri linguaggi. Su uno sfondo non remoto si colloca la formazione dell'utenza: tema ricorrente e controverso, che riporta alla tesi perplessa circa il ruolo della biblioteca come agenzia educativa, ma dal quale è difficile allontanarsi almeno fino a quando non si recide il cordone ombelicale che lega la nascita stessa delle biblioteche di pubblica lettura con l'educazione permanente16.
La terza traccia è quella dell'assertività. Di fronte all'obiezione secondo la quale ormai gli utenti vanno direttamente sulla rete, si pone un dilemma: quello fra la rassegnazione a una definitiva marginalità (accettando fatalisticamente la disintermediazione, segno distintivo del nostro tempo) e un approccio assertivo. Se, come crediamo, una domanda di biblioteca non esiste 'in natura', è necessario superare una concezione passiva del servizio, assumendo ed esplorando creativamente il punto di vista dell'offerta: quel punto di vista che porta non tanto e non solo a intercettare e a segmentare, ma a creare l'utenza, a individuare i temi cruciali, a sperimentare modalità non banali per assumere un ruolo proattivo che costituisce, per chiunque non accetti di arrivare al futuro per decorrenza dei termini, una precisa responsabilità. Il punto nevralgico della riflessione ci porta a varcare il Rubicone del rapporto fra una concezione astratta e una concezione concreta di biblioteca. La biblioteca è un organismo che vive, che cambia, che sbaglia, che impara; è un sistema aperto17: è un ecosistema sociale, non è una collezione asettica di documenti disponibili per un'utenza indifferenziata che basta a se stessa; la composizione del suo patrimonio documentale - ma in senso più ampio del suo stesso posizionamento - riflette criteri espliciti, ma privi di oggettività e sempre culturalmente determinati, e si rivolge a una domanda plurale, articolata, 'situata', spesso latente. Ogni decisione ci deve riportare alla biblioteca com'è davvero. Se accettiamo questa impostazione, il nodo non riguarda le nostre collezioni (in fondo, da questo punto di vista, il titolo stesso di questo contributo sarebbe riduttivo se si adottasse un concetto datato di collezione)18, ma le modalità attraverso cui gestiamo la relazione con un'utenza che non possiamo considerare illuministicamente colta, preparata, esigente, capace di senso critico e di argomentazione: semplicemente perché (ripetiamolo) questa utenza non c'è. Per fare un esempio immediatamente comprensibile, non possiamo limitarci a dire: «Qui ci sono i libri favorevoli ai vaccini e qui ci sono quelli contrari», perché l'utenza è già autoselezionata in partenza, fra chi favorevole o contrario, come diceva Totò, «lo nacque». Certo materiale va maneggiato con cura, organizzando la pluralità dei punti di vista, individuando le tesi controverse, selezionando le argomentazioni pro e contro, cercando di svelarne le fragilità e le pretestuosità. Se l'opinione pubblica è schierata, non possiamo esserlo noi: non nel fare il nostro lavoro. Di qui l'esigenza di gestire in maniera creativa il rapporto fra esposizioni temporanee e depositi, di esplorare compiutamente le potenzialità della rete, di aprirsi a momenti di confronto che, a partire da una base documentale, comprendano gruppi di lettura e gruppi di discussione, di elaborare bibliografie, di partecipare a momenti pubblici di confronto.
Questo ordine di riflessioni ci porta a una quarta traccia da percorrere. Probabilmente, chiedersi dove inizi e dove finisca davvero una biblioteca significa fare un'affermazione eccessiva; ma nel paradosso, come in ogni paradosso, c'è un elemento da cogliere. Ormai è definitivo che una biblioteca non è più un costrutto che si risolve all'interno delle proprie mura e delle proprie collezioni e nella relazione con un'utenza prevedibile19. Le tre unità aristoteliche di tempo, di luogo e di azione che definiscono il canone drammaturgico, se applicate per analogia al nostro contesto specifico, legittimano qualche domanda: il tempo della biblioteca è veramente quello compreso fra i suoi orari di apertura e chiusura o si dilata in remoto come grandezza permanente nell'accesso, da parte dell'utenza, alla piattaforma di MLOL e alla pluralità di accessi digitali che la biblioteca stessa promuove? Il luogo della biblioteca è davvero soltanto lo spazio fisico dove l'utenza non è più obbligata a recarsi e coincide con i documenti posseduti oppure si dilata a una nuova e diversa intermediazione, il cui asset fondamentale è costituito, piuttosto e soprattutto, dai saperi distintivi della comunità professionale? L'azione della biblioteca, infine, può davvero essere ricondotta all'intermediazione del singolo documento? La frontiera più avanzata a quest'ultimo riguardo sembra essere piuttosto - sia in termini metaforici, sia in termini progettuali - quella di una rete di relazioni. Di fronte ai temi scivolosi del tempo presente (le bufale in ambito scientifico, la sistematica distorsione della realtà, la strumentalizzazione dei fatti, l'improvvisazione e l'approssimazione nei centri di diffusione delle informazioni), una biblioteca-rete è un soggetto capace di costruire e di presidiare un sistema di interdipendenze con le agenzie e con gli attori, formali e informali, che si occupano di informazione, di formazione, di ricerca, di diffusione della conoscenza. Si tratta, limitandosi a pochi cenni, di rapporti di collaborazione da stabilire con la scuola, con l'università e i centri di ricerca, con la stampa responsabile, con le istituzioni sanitarie, con le associazioni e con i gruppi più vitali che promuovono la conoscenza come bene comune.
Queste tracce discendono però da un paradigma, al quale, secondo chi scrive, è possibile e opportuno fare riferimento in modo esplicito e formale: quello dei cosiddetti diritti aletici, cioè dei diritti che riguardano la verità, la cui elaborazione si deve a Franca D'Agostini20. Mutuando, e auspicabilmente non forzando, la sua riflessione, una chiara scelta di campo consente e sollecita a garantire agli utenti della biblioteca:
- il diritto di essere informati in modo veridico;
- il diritto di essere nelle condizioni di giudicare e cercare la verità;
- il diritto di essere sostenuti dalla biblioteca nella ricerca delle fonti affidabili di verità;
- il diritto di avere nella biblioteca un'autorità aletica affidabile;
- il diritto a vivere in una società che favorisca e salvaguardi l'acquisizione della verità;
- il diritto di vivere in una società nella quale sia riconosciuta l'importanza della verità nella vita privata e associata.
Parlare di diritti può sembrare contraddittorio rispetto a quanto argomentato a proposito dei codici deontologici; è però una contraddizione apparente, non solo perché si tratta di diritti di non immediata esigibilità, ma soprattutto perché la dimensione normativa è presupposto, prerequisito, condizione necessaria per una strategia successiva e conseguente, che si ispiri (come ci ricordano le migliori esperienze di pianificazione strategica) a una razionalità non prescrittiva. L'urgenza di un discorso sui diritti aletici è, invece, più evidente se - accettando un provocatorio (ma in fin dei conti nemmeno tanto) rovesciamento di prospettiva - volessimo affrontare l'intero impianto argomentativo a contrario. In forma interrogativa negativa, possiamo infatti chiederci: vorremmo garantire ai nostri utenti il diritto a essere informati in modo non veritiero? Il diritto a non essere in condizione di cercare la verità? Il diritto di non essere sostenuti dalla biblioteca nella ricerca di fonti attendibili? Il diritto di avere nella biblioteca un'autorità inaffidabile?
Quanto alla collocazione di questi diritti nella gerarchia delle fonti normative cui una biblioteca pubblica fa riferimento, rimane aperta la scelta fra il regolamento del servizio, la carta delle collezioni o, forse più opportunamente, la carta dei servizi. Quest'ultima è, infatti, una sorta di contratto che la biblioteca assume unilateralmente nei confronti dei propri utenti, a garanzia dei diritti degli utenti stessi. Se questi diritti ci sembrano giustificati - vale a dire se in fin dei conti, nonostante tutto, siamo convinti che il diritto di non essere imbrogliati sia una precondizione necessaria della libertà di opinione, della libertà di scelta, della libertà di espressione (cioè della libertà tout court) - non ci rimane che prendere partito contro ogni dogmatismo e ogni mistificazione, per lo spirito critico, per il confronto pubblico informato, per una ricerca faticosa e paziente che ci aiuti a vedere ogni giorno un po' più chiaro e un po' più lontano.
In definitiva, la prospettiva che emerge ha una natura etica e civile e ci richiama al significato ineludibile della biblioteca come servizio pubblico, alla sua missione fondativa, ai diritti, ai doveri e alle responsabilità che vi sono correlati. Ritornare alla missione della biblioteca vuol dire riaffermare il valore imprescindibile del pensiero critico, della capacità di rimanere equidistanti da ogni censura e da ogni tesi dogmatica, da ogni pensiero estremo, ottuso e intransigente. Un bibliotecario che sia consapevole del proprio compito può, ma soprattutto deve, contro ogni evidenza, contro le continue, inevitabili, faticose smentite e, talora, contro le proprie stesse convinzioni, difendere socraticamente ogni fessura, ogni frammento di una possibile intelligenza e ogni spazio di libertà.
«Che strada devo prendere?» chiese.
«Dove devi andare?» rispose il Gatto del Cheshire.
«Non lo so» rispose Alice.
«Allora» replicò il Gatto «non c'è nessun problema».
(Lewis Carroll)
Ultima consultazione siti web: 16 aprile 2018.
[1] Si richiama qui la metafora, assieme nuova e antica, della biblioteca-scriptorium, introdotta da Giovanni Solimine e ripresa da Giovanni Di Domenico (cfr. Percorsi e luoghi della conoscenza: dialogando con Giovanni Solimine su biblioteche, lettura e società, a cura di Giovanni Di Domenico, Giovanni Paoloni, Alberto Petrucciani. Milano: Editrice bibliografica, 2016).
[2] Sul punto è necessario ricordare, fra gli altri, i contributi di Ridi (Riccardo Ridi, Etica bibliotecaria. Milano: Editrice bibliografica, 2011 e Id., Deontologia professionale. Roma: Associazione italiana biblioteche, 2015), Di Domenico, Paoloni e Petrucciani (Percorsi e luoghi della conoscenza cit.), Piero Cavaleri, Il bibliotecario nel mondo della post-verità: che ruolo ha la biblioteca nella società dell'informazione, «Biblioteche oggi», 10 (2017), n. 35, p. 46-53.
[3] Max Weber, La scienza come professione; La politica come professione. Torino: Einaudi, 2004.
[4] Per uno sguardo d'insieme si veda Franca D'Agostini, Introduzione alla verità. Torino: Bollati Boringhieri, 2011.
[5] Edgar Morin, Il gioco della verità e dell'errore: rigenerare la parola politica. Trento: Erickson, 2009.
[6] F. D'Agostini, Introduzione alla verità cit.
[7] Franca D'Agostini, Verità avvelenata: buoni e cattivi argomenti nel dibattito pubblico. Torino: Bollati Boringhieri, 2010.
[8] Ci torniamo solo per un attimo? Nel 1998 un medico inglese, Andrew Wakefield, pubblicò su una prestigiosa rivista medica uno studio condotto con altri colleghi, nel quale accreditava la tesi di una correlazione causale tra l'autismo e un vaccino. Pare peraltro fosse recidivo, perché già in precedenza aveva pubblicato studi rivelatisi metodologicamente non fondati. Wakefield prese pubblicamente posizione contro questo vaccino e ne nacque un caso mediatico che scatenò una forte e diffusa preoccupazione. Si trattava però di una bufala, come riuscì successivamente a chiarire un giornalista, Brian Deer (che nel film Amici miei probabilmente avrebbero definito astuto come un cervo). L'indagine del giornalista rivelò che il ricercatore aveva semplicemente falsificato i dati della ricerca. Per quale motivo? Per guadagnarci, dal momento che aveva precedentemente brevettato un vaccino che avrebbe dovuto prevenire il problema che aveva finto di scoprire. Nel 2010, Wakefield è stato radiato dall'albo dei medici della Gran Bretagna. Il suo articolo è stato ritirato dalla rivista che lo aveva (un po' frettolosamente) pubblicato.
[9] Così IFLA, https://www.ifla.org/publications/node/11174.
[10] In termini più controllati, lo stesso Umberto Eco: «...ogni ipotesi interpretativa è sempre rivedibile (e come voleva Peirce sempre esposta al rischio del fallibilismo) ma, se non si può mai dire definitivamente se una interpretazione sia giusta, si può sempre dire quando è sbagliata... [Lo stesso] frammentarsi delle interpretazioni possibili non vuol dire che everything goes. [...]. In altre parole, esiste uno zoccolo duro dell'essere, tale che alcune cose che diciamo su di esso non possono e non debbono essere prese per buone» (Umberto Eco, Di un realismo negativo. In: Bentornata realtà: il nuovo realismo in discussione, a cura di De Caro Mario; Ferraris Maurizio. Torino: Einaudi, 2012, p. 91-112: p.105 e seguenti).
[11] R. Ridi, Etica bibliotecaria cit.
[12] Raymond Boudon, Sentimenti di giustizia. Bologna: Il Mulino, 2002.
[13] Michael Power, La società dei controlli: rituali di verifica. Torino: Edizioni di Comunità, 2002.
[14] R. Ridi, Etica bibliotecaria cit.
[15] Stefano Rodotà, Repertorio di fine secolo. Roma; Bari: Laterza, 1999.
[16] Va inoltre ricordato che l'apprendimento è una sorta di coevoluzione. Piace ricordare, a questo proposito, le belle parole che lo Statuto del Comune di Trento premette fra i principi al titolo dedicato all'ordinamento e all'organizzazione dei servizi, dalle quali questo assunto emerge in tutta chiarezza, come pure il sotteso modello di servizio: «I dipendenti (i bibliotecari, n.d.r.) stabiliscono con ciascun interlocutore rapporti di reciproco rispetto e di collaborazione, anche attraverso forme di comunicazione che, valorizzando le esperienze, le conoscenze e le proposte degli interlocutori, consentano di soddisfare le loro esigenze nel modo migliore e di qualificare il servizio reso, favorendo l'accesso ai servizi anche a persone di lingua e cultura diverse da quella italiana» (Statuto del Comune di Trento, art. 64, c. 4).
[17] Cfr. G. Di Domenico, in Percorsi e luoghi della conoscenza cit.
[18] Su una nuova documentalità, cfr. M. Vivarelli, in Percorsi e luoghi della conoscenza cit., p. 124.
[19] Sulla biblioteca come sistema aperto, come trama di relazioni, come soggetto plurale, cfr. Anna Galluzzi, in Percorsi e luoghi della conoscenza cit., p. 109, ma anche Eusebia Parrotto, in https://librarianscape.com/2015/03/17/uscire-dalla-comunita/.
[20] Franca D'Agostini, Diritti aletici, «Biblioteca della libertà», 52 (2017), n. 218, p. 5-42; cfr. anche Maurizio Ferrera, L'anima aletica della democrazia liberale, ivi, p. 67-80.
Va detto che il termine 'diritto aletico', pur avendo una stretta parentela, ha una scaturigine filosofica e non coincide con quello di 'diritto alla verità', che entra invece nel dibattito giuridico con riferimento ai crimini di guerra.
Antoniacomi Giorgio, Biblioteca sociale: interrogativi su cui misurarsi: ripensare un modello di lavoro senza nostalgie, «Animazione sociale», 2 (2016), n. 298, p. 38-47.
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