Nel corso dell'ultimo ventennio l'Informatica umanistica, o Digital humanities se si preferisce la formulazione anglosassone, si è affermata come una delle più importanti innovazioni scientifiche e didattiche nel mondo della ricerca umanistica. Nonostante e, forse, grazie alla fluida definizione disciplinare, questo campo di studi ha conseguito rilevanti risultati sul piano della ricerca teorica e applicativa, ha guadagnato una presenza stabile nell'offerta didattica e riscuote successo nell'accesso ai finanziamenti. Esso si è anche dotato di infrastrutture e organizzazioni per la cooperazione scientifica a livello nazionale e internazionale che raccolgono e coordinano un numero ormai grandissimo di studiosi a livello planetario, organizzano convegni mastodontici e pubblicano monografie e periodici autorevoli.
Se è vero che le 'storie di successo' più importanti si collocano nei paesi anglosassoni e in Germania, anche la situazione italiana, nonostante ritardi, ritrosie culturali e crisi dell'università in generale, è molto soddisfacente.
In primo luogo, si deve osservare che questi studi nel nostro paese hanno una storia pluridecennale. Il riferimento a padre Busa, universalmente riconosciuto come il fondatore dell'intero campo di studi, e alla sua opera di digitalizzazione e indicizzazione delle opere di Tommaso d'Aquino, avviato alla fine degli anni Quaranta dello scorso secolo, è piuttosto ovvio. Ma voglio far notare che il lavoro di Busa non era assolutamente isolato in Italia. È sufficiente ricordare che nel 1962 il prestigioso annuale Almanacco Bompiani fu dedicato a Le applicazioni dei calcolatori elettronici alle scienze morali e alla letteratura, il che dimostra come anche in quegli anni remoti l'Italia produceva ricerca di alto livello all'incrocio tra informatica e scienze umane.
In secondo luogo, la tradizione italiana dell'Informatica umanistica, pure nella sua diversità interna, ha sempre privilegiato un approccio rigorosamente fondato sulla teoria e sulla metodologia. La figura intellettuale principale in questo panorama intellettuale è stata quella di Tito Orlandi, intorno a cui sin dagli anni Ottanta si è raccolta quella che si potrebbe definire la scuola romana dell'Informatica umanistica. Ciò che caratterizza questa esperienza è il rifiuto di una visione strumentale dell'informatica nelle discipline umanistiche (che era allora già abbastanza diffusa se non predominante nelle pur aurorali sperimentazioni a livello internazionale) e la netta predilezione per un approccio teorico ed epistemologico. L'informatica viene intesa non come ingegneria ma come scienza teorica della rappresentazione ed elaborazione (automatica) dell'informazione, e su questo terreno è evidente la convergenza con le scienze umane. Il riconoscimento del valore di questa tradizione è stato sancito con l'assegnazione a Orlandi del Busa Award 2019, premio che la Association of Digital Humanities Organizations (ADHO) assegna agli studiosi che hanno conseguito risultati di alto profilo nella loro carriera.
In terzo luogo, si deve osservare come la tradizione italiana della ricerca informatica nelle scienze umane ha avuto una stretta e proficua interazione con l'attività scientifica e applicativa condotta nelle istituzioni del patrimonio culturale, tanto che potremmo al suo interno individuare due rami:
1. la tradizione di ricerche e sperimentazioni di metodi e strumenti digitali e computazionali in ambito linguistico, letterario, storico, storico artistico, che ha avuto luogo nelle istituzioni di ricerca e di istruzione superiore;
2. la tradizione delle iniziative digitali condotte dalle istituzioni per la conservazione e diffusione del patrimonio culturale quali biblioteche, archivi e musei e le relative istituzioni di coordinamento a livello locale e centrale.
Le prime, di solito, sono state orientate alla ricerca accademica, ma come è tipico di questo mondo, specialmente in Italia, hanno sofferto di una maggiore dispersione e mancanza di coordinamento (con il risultato di ridurre il loro impatto e la loro visibilità e di replicare errori metodologici e cattive scelte di implementazione). Le seconde sono state generalmente orientate a fornire servizi efficienti a una comunità di utenti più estesa e non necessariamente a carattere professionale. Sin dall'inizio, pertanto, esse hanno assegnato una grande importanza alla cooperazione alla condivisione e alla sostenibilità.
Il vivace panorama della ricerca italiana in ambito informatico umanistico è testimoniato dalla recente costituzione di un'associazione scientifica nazionale. Dopo numerosi tentativi infruttuosi condotti sin dagli anni Novanta, nel 2011 è stata fondata l'Associazione per l'informatica umanistica e la cultura digitale (AIUCD). AIUCD ha conseguito eccellenti risultati sia a livello nazionale sia internazionale. È stata la prima tra le diverse associazioni nazionali di Digital humanities che si sono costituite recentemente in vari paesi europei, ed è divenuta formalmente una organizzazione associata alla European Association of Digital Humanities (EADH). Tra le sue molte attività AIUCD organizza regolarmente una conferenza annuale e pubblica il giornale, open content, Umanistica digitale.
Il quadro complessivamente soddisfacente che ho rapidamente dipinto finora non è certamente privo di macchie e lacerazioni. Alcuni di questi limiti sono dovuti a ragioni estrinseche, determinate dalla situazione generale dell'università italiana e dal contesto sociale ed economico del paese. Nondimeno, occorre ammettere che il movimento ha anche delle debolezze intrinseche.
La prima di queste è la endemica mancanza di coordinamento tra esperienze e progetti. Come già rilevato, per motivi antropologici, culturali e sociali, istituzionali ed economici, queste iniziative di ricerca hanno raramente avuto la capacità di coordinarsi, di condividere strumenti approcci e conoscenze, con l'eccezione di pochi casi basati su relazioni personali. Il secondo grande problema è, ovviamente, il finanziamento. Nella fase economica in cui si trova l'Europa e in particolare il nostro paese, gli investimenti nella ricerca stanno subendo dei drastici ridimensionamenti. L'unico modo per continuare nello sviluppo di ricerca di alta qualità è la costruzione di relazioni, la condivisione di risorse e tecnologie, la cooperazione nella costruzione di progetti in grado di accedere alle poche fonti di finanziamento disponibili a livello europeo e nazionale. Da questo punto di vista va considerato con grande favore il costituirsi di infrastrutture di ricerca a livello europeo per le scienze umane e le arti a cui anche l'Italia ha aderito. Mi riferisco alla Digital Research Infrastructure for the Arts and Humanities (DARIAH) e alla European Research Infrastructure for Language Resources and Technology (CLARIN), finanziate nel contesto dell'iniziativa comunitaria European Strategy Forum on Research Infrastructures (ESFRI).
Lo sviluppo di infrastrutture di ricerca di dimensioni nazionali ed europee costituisce un elemento centrale per affrontare e risolvere le storiche criticità nella valorizzazione e nella sostenibilità della ricerca, a maggior ragione in un momento in cui il dibattito sull'open science ha assunto un rilievo centrale nel dibattito politico e istituzionale.
Ma la vera lacerazione nel quadro, che fa assomigliare il nostro bel panorama a uno dei sacchi di Burri, è quello del riconoscimento accademico e istituzionale delle competenze scientifiche informatiche e digitali nell'ambito delle discipline umanistiche, e la conseguente possibilità di accedere e progredire nella carriera accademica per i ricercatori, giovani e meno, che vi si dedicano. Si tratta di un problema complesso e delicato, e si farebbe torto all'intelligenza e alla verità se si affermasse che si tratta di un problema solo italiano. Tuttavia la crisi e la rigidità istituzionale del mondo universitario italiano rende la questione di certo più complessa. Negli anni recenti AIUCD ha perseguito una scelta tattica, basata sulla inclusione delle competenze digitali all'interno dei settori disciplinari e concorsuali tradizionali e sull'inserimento delle riviste di riferimento nel campo delle Digital humanities tra quelle esponibili in sede di valutazione. Ritengo, tuttavia, che esiste oggi lo spazio per la creazione di un vasto ambito disciplinare autonomo che veda convergere la componente più metodologicamente avvertita delle Digital humanities con le Scienze dell'informazione e con alcuni ambiti disciplinari 'tradizionali' orientati alla teoria e alla metodologia delle scienze umane. Si tratta senza dubbio di un percorso arduo, legato anche alle effettive volontà degli organi di governo dell'università di procedere a un rinnovo nell'organizzazione dei saperi. Ma sono convinto che sia almeno utile iniziare a discutere la praticabilità di questa convergenza.
La questione del riconoscimento istituzionale degli approcci digitali alla ricerca umanistica è questione complessa anche perché nasconde un sottotesto di più ampio respiro che riguarda in generale il rapporto tra scienze umane tradizionali e scienze umane digitali. Dopo molti anni di crescita ed espansione senza che vi fosse una manifesta ostilità da parte dei settori tradizionali delle scienze umane (al massimo una malcelata supponenza), oggi la situazione sembra presentare un'inversione di tendenza. Nonostante le difficoltà cui abbiamo accennato, le Digital humanities rappresentano un movimento in grande espansione e sono in grado di attrarre una grande quantità di finanziamenti, sottraendoli in parte alla ricerca umanistica tradizionale. Questo ha determinato in alcuni esponenti del mondo umanistico reazioni di forte critica che in alcuni casi, soprattutto in ambito statunitense, hanno accomunato l'espansione delle Digital humanities alla trasformazione in senso ultraliberista dell'educazione universitaria e della ricerca.
Questo dibattito in Europa e in Italia ha avuto toni diversi e tuttavia non sono mancate e non mancano, su palcoscenici anche prestigiosi come le pagine culturali di importanti quotidiani, attacchi all'Informatica umanistica pronunciati da studiosi più o meno giovani che ne lamentano le velleità imperialistiche e la minaccia nei confronti dei cari valori dell'umanesimo. Mi pare che i termini della questione siano diametralmente opposti. La strategia argomentativa che rivendica la nobiltà dell'educazione umanistica, che asserisce apoditticamente la sua rilevanza sociale sulla base del fatto che essa forma le coscienze critiche e storiche dei cittadini non fa altro che spostare il problema: chi ci dimostra che oggi quel genere di coscienza critica e storica è socialmente rilevante? Sto ovviamente estremizzando, ma il punto è che non basta rivendicare il passato illustre e il prestigio perduto per contrastare il declino dei saperi umanistici. In questo senso credo che temi e metodi specifici delle Digital humanities (approccio modellistico, uso critico dei metodi computazionali, delle tecnologie e dei dati, modelli innovativi di rappresentazione e disseminazione dei prodotti culturali, ricerca collaborativa, crowdsourcing, public humanities e open science) possano fornire all'intero dominio dei saperi umanistici gli strumenti e gli argomenti per una rinnovata giustificazione sociale della loro esistenza, all'altezza delle sfide dei tempi a venire.