di Giovanni Solimine
Le statistiche, come tante altre cose, si prestano a una lettura plurima.
Dal punto di vista temporale, possiamo distinguere tra una lettura immediata e una a distanza di mesi o anni. Ce ne sarebbe anche una terza, sempre riferita alla sfera temporale: l’analisi delle serie storiche dei dati, che consente di cogliere i fenomeni in divenire molto meglio di quanto non dicano i dati correnti. Parimenti, possiamo osservare gli aspetti di dettaglio di una questione oppure provare ad allargare lo sguardo, per inquadrare la situazione specifica nel suo complesso e per contestualizzarla meglio: usare la lente d’ingrandimento per prendere in considerazione minuziosamente i particolari di un problema, ma privandoci di una visione d’insieme che potrebbe farcene comprendere la portata, è una cosa ben diversa rispetto al tentativo di stabilire le relazioni e cogliere nessi causali o fattori d’influenza, la cui conoscenza può essere d’aiuto per affrontare un problema.
Per fotografare un panorama è meglio lo zoom o il grandangolo? Rischiamo di non vedere il bosco perché siamo intenti a osservare gli alberi uno per uno1.
Lo studio dei dati specifici e recenti ci fornisce un’informazione e, quasi sempre, richiama l’attenzione su una particolare entità che viene misurata e monitorata: gli indicatori ci dicono se l’inflazione, il PIL, lo spread stanno calando o crescendo rispetto a ieri, alla settimana scorsa, al mese precedente. Lo stesso accade pure con i dati sulla lettura, anche se con intervalli di tempo solitamente annuali. Se concentriamo lo sguardo su un arco cronologico ristretto o sugli aspetti di dettaglio, si restringe anche la capacità di intendere la reale natura dei fenomeni.
Negli anni passati, quando le oscillazioni degli indici sul numero di lettori erano frequenti – ora, purtroppo, ci stiamo abituando a una tendenza negativa che trova conferma anche nel medio e nel lungo periodo – lo spostamento di un punto percentuale o addirittura di qualche decimo di punto da un anno all’altro provocava interpretazioni spesso avventate, destinate a essere smentite l’anno successivo, quando la tendenza si invertiva e le oscillazioni finivano col riassorbirsi, tornando alle percentuali di due o tre anni prima.
Non dobbiamo dimenticare che le dinamiche dei comportamenti di lettura presentano modificazioni profonde su tempi medio-lunghi, anche perché sono determinate da numerosi fattori (condizioni economico-sociali, contesto ambientale e familiare, livello culturale e di istruzione, competenze linguistiche, dimestichezza con le tecnologie, solo per citarne qualcuna), che spesso agiscono in direzione diversa e opposta, producendo effetti contraddittori. Un’osservazione più distaccata, quindi, consente di cogliere meglio il quadro d’insieme. Ma presenta anche un altro vantaggio: alcuni dati, che possono essere sfuggiti a una prima esplorazione, forse perché ancora nascosti da questioni a cui nell’immediato avevamo attribuito maggiore attenzione, acquistano evidenza a distanza di tempo e ci offrono l’opportunità di individuare l’origine di fenomeni che inizialmente avevamo trascurato.
In questo contributo ci proponiamo di segnalare, facendo ricorso ad alcuni esempi, il tipo di riflessioni aggiuntive che i dati possono offrire. Ne scaturirà, ci auguriamo, non solo qualche considerazione in più sulle risposte contenute in un report statistico, ma anche sulle domande da cui esso prendeva le mosse. Vale a dire, sul modo in cui le rilevazioni vengono progettate e sui quesiti che vengono posti agli intervistati: a volte, anche se in modo ‘preterintenzionale’, la rilettura di un’indagine può darci informazioni interessanti, perché è figlia del proprio tempo e rivela quelli che erano gli interessi e le curiosità dei ricercatori. Del resto, si sa che «la ricerca quantitativa trova quello che cerca»2.
Un ultimo caveat. Ci sono due approcci per andare a rileggere il passato: uno è quello che abbiamo appena descritto e che ci sembra applichi correttamente il metodo storico; l’altro, che ci pare meno appropriato, è quello di usare uno sguardo distorto, procedendo a ritroso per cercare le conferme delle proprie convinzioni del momento, al solo scopo di poter affermare «io l’avevo detto», accreditandosi una lungimiranza tutta da dimostrare.
Abbiamo la fortuna di disporre di indagini sulla lettura di libri che l’Istat effettua da oltre cinquant’anni e che non solo descrivono l’andamento di questa pratica, ma – a ben guardare – ci illuminano anche sul 'senso' che questi dati assumono nell’ottica più vasta di un’analisi della evoluzione della società italiana, contestualizzandoli meglio.
In un suo recente contributo3, Chiara Faggiolani ha ripercorso la storia e la metodologia di queste rilevazioni, spesso inquadrate in indagini di più ampia portata sull’uso del tempo libero e su diversi aspetti della vita quotidiana. I dati non sono sempre omogenei, ma costituiscono una fonte ricchissima di informazioni:
La panoramica che l’autrice presenta nel saggio mostra quanto sia variegato e complesso l’oggetto di queste rilevazioni e come esso sia andato trasformandosi nel tempo: «sono le trasformazioni della società a imporre al ricercatore l’ampliamento dello sguardo, il ripensamento e la ridefinizione degli strumenti di rilevazione, la revisione delle variabili e delle modalità utili alla descrizione di un fenomeno»5.
L’uso che prevalentemente si è fatto di queste statistiche è stato limitato a ricavarne la percentuale dei lettori in un determinato anno, tutt’al più andando a verificare i dati disaggregati per genere, fascia d’età, area territoriale, talvolta per tipo di libri preferiti, anche allo scopo di individuare i fattori che hanno provocato squilibri e discrasie.
Anche se continuiamo a lamentare la scarsa diffusione della lettura e il ritardo dell’Italia rispetto ad altri paesi simili al nostro, come la Francia e da qualche anno anche la Spagna, non possiamo ignorare l’enorme progresso che si è registrato in questo mezzo secolo. Si parte da un 16,6% della popolazione che leggeva almeno un libro all’anno nel 1965; in un ventennio il dato si è più che raddoppiato (36,6% nel 1987), ma c’era stato di mezzo il ’68 e la scolarizzazione di massa; ha fatto seguito una crescita lenta nel trentennio successivo, fino a toccare nel 2010 il punto più alto (46,5%); da lì è iniziato un calo, che ha portato negli ultimi anni gli indici su valori pari o di poco superiori al 40%, ritornando così ai livelli del 1996 e bruciando un ventennio di piccoli passi avanti.
Al di là della percentuale complessiva di lettori rilevata anno per anno e volendo evidenziare qui alcuni spunti di interesse che emergono dalla lettura delle serie storiche e dalla comparazione fra i dati, possiamo soffermarci su alcune questioni di notevole rilievo:
- Osservando una serie storica non dobbiamo commettere l’errore di guardare soltanto i dati rilevati, immaginando che tutto il resto che li circonda sia invariato. Così come percepire uno stipendio di un milione di lire nel 2000 non equivaleva a percepire la stessa cifra nel 1970, allo stesso modo dobbiamo stare attenti a non fare confusione con la percentuale dei lettori: il 41% del 2017 sembra avere lo stesso peso di una percentuale simile rilevata quindici o vent’anni prima, ma non è così, perché in questi anni è cambiato tutto. Gli istogrammi di un grafico che descrivono la serie storica hanno la stessa altezza, ma non ci dicono che nel 1996 non eravamo perennemente connessi a Internet o che nel 2001 non c’erano gli smartphone e i social network6.
- Va sottolineato che nella diffusione della lettura è evidente la correlazione con il livello di istruzione, dimostrata dal fatto che fino al 1973 i maschi leggevano più delle femmine, mentre oggi l’indice è in equilibrio solo fra i bambini più piccoli; per il resto, il dato della lettura tra le donne è più elevato di quello tra gli uomini in tutte le classi di età, spesso con uno scarto superiore ai venti punti percentuali, diminuendo poi gradualmente, fino a ribaltarsi di nuovo soltanto dopo i 75 anni, dove troviamo un 25,8% di lettori tra gli uomini e un 24,6% tra le donne. A parità di scolarità le donne leggono sempre più degli uomini.
- In quasi mezzo secolo non è aumentata di molto la ‘familiarità’ degli italiani con i libri: nel 1973 erano presenti più di 50 libri nel 42% delle case, ora siamo al 43%. L’incremento del livello di istruzione non ha prodotto gli effetti che ci saremmo potuti aspettare: infatti, il 28,2% dei laureati e il 50,6% dei diplomati non ha letto neppure un libro nel corso del 2017, con una tendenza al peggioramento (all’inizio di questo terzo millennio il dato dei non lettori era rispettivamente del 21,9% e del 41,5 %).
- Gli squilibri territoriali tra le regioni settentrionali e quelle meridionali dell’Italia sono nell’ordine di venti punti percentuali (nel Nord-Ovest i lettori sono stati il 48% nel 2017, nel Nord-Est il 49%, nelle regioni del Centro il 44,5%, al Sud il 28,3%, nelle Isole il 30,4%), si ripropongono costantemente a ogni rilevazione e corrispondono al divario delle condizioni sociali, economiche e culturali in cui vivono gli abitanti delle diverse aree del paese. Tuttavia, ci sono alcune ‘anomalie’ che fanno riflettere. Come possiamo spiegarci la notevole distanza esistente fra Sardegna (che col suo 44,5% si colloca addirittura a livelli superiori alla media nazionale del 41%) e Sicilia (che col 25,8% è il fanalino di coda tra le regioni italiane)? Non esiste una correlazione fra queste percentuali e i parametri socio-economici o quelli riferiti alla scuola e all’istruzione: in Sardegna il livello di istruzione è inferiore, anche se di poco, a quello della Sicilia; lo stesso si può dire per la dispersione scolastica e per il numero di laureati, dove la Sardegna presenta dati leggermente peggiori di quelli siciliani. Un solo dato può aiutarci a comprendere un così forte divario: da oltre quarant’anni la Regione Sardegna investe nelle biblioteche pubbliche e oggi il loro livello è in molti casi di ottima qualità, mentre gran parte delle biblioteche siciliane sono in uno stato di desolante abbandono; del resto, i dati quantitativi sono molto eloquenti, visto che in Sardegna è operante una biblioteca ogni 5.109 abitanti, mentre in Sicilia il rapporto è di uno a 18.499.
- Contrariamente a quello che a volte si sente dire, i giovani leggono più degli adulti: le tre classi d’età 11-14, 15-17 e 18-19 da sempre fanno registrare percentuali di lettori nel tempo libero di gran lunga superiori al totale della popolazione. Tra gli 11 e i 17 anni il dato ha spesso sfiorato o superato il 60%, con livelli di circa venti punti percentuali superiori alla media. Non si può ignorare, però, che nell’ultimo quinquennio, a fronte di una perdita complessiva media di circa 5 punti percentuali, il calo è stato di oltre 8 punti tra i ragazzi di età compresa fra gli 11 e i 14 anni, di 13 punti nella fascia 15-17 e di 9 punti nella fascia 18-19. Questo andamento fa temere effetti molto negativi per il futuro, quando l’onda lunga raggiungerà le fasce d’età superiori, dove solitamente le abitudini di lettura si affievoliscono.
- Si è sempre ritenuto che l’acquisto e la lettura dei libri fossero fenomeni anticiclici, indipendenti cioè dai cicli economici e immuni al calo dei consumi che caratterizzava i periodi di crisi. Così è stato, per esempio, negli anni a cavallo della crisi petrolifera del 1973, che ebbe conseguenze notevoli sui consumi: la spesa delle famiglie per cultura non si ridusse più di tanto e l’acquisto di libri non ne risentì. Di solito ci siamo spiegati questa controtendenza ritenendo che i lettori siano fortemente motivati e che, se sono obbligati a stringere la cinghia, preferiscono rinunciare a qualche altro acquisto piuttosto che ai libri. Questa considerazione vale anche al contrario: voglio dire, infatti, che anche tra i non lettori il costo d’acquisto non è tra i principali motivi indicati per la non lettura, attribuita prevalentemente alla mancanza di tempo o di interesse. Diverso quello che è accaduto a seguito della crisi finanziaria del 2008, che ha cominciato a produrre effetti negli anni successivi: abbiamo visto come la lettura di libri sia in calo dal 2010 in poi. Ma una interpretazione tendente ad attribuire la diminuzione del numero dei lettori solo alla crisi economica (ovviamente la crisi incide, come è dimostrato dal fatto che sembra essere in aumento l’approvvigionamento di libri attraverso i circuiti non commerciali, come il prestito fra amici o dalle biblioteche) nasconde un’altra e forse più veritiera causa del fenomeno: ci riferiamo agli effetti della rivoluzione digitale e in particolare all’impatto che la connessione in mobilità ha avuto sulle abitudini di vita delle persone e in particolare dei giovani, riempiendo tutti gli spazi vuoti del nostro tempo. Chi pensa che il superamento della crisi economica riporterà la vendita dei libri ai livelli del 2010 rischia di andare incontro a una cocente delusione.
Alle indagini dell’Istat – indubbiamente la fonte più ricca e affidabile – se ne sono aggiunte altre, condotte dal Censis, da Nielsen o da altri istituti di ricerca, oppure rilevazioni episodiche effettuate a livello locale o su specifici segmenti di questo articolato universo.
Il quadro viene completato, anche col ricorso ad altre fonti, per conoscere meglio la dimensione del mondo del libro e della lettura. Ne emerge, per esempio, che lo sviluppo della produzione editoriale ha accompagnato, ovviamente, l’andamento della società italiana e la sua evoluzione: in particolare, la sconfitta dell’analfabetismo e la crescita del livello di istruzione. Nel 1967 si pubblicavano 2,9 libri ogni 10.000 abitanti (erano 1,7 l’anno precedente); nel periodo 1985-1995 si passa da 4 a 9; nel 2005 si superano i 10 libri pubblicati ogni 10.000 abitanti, per attestarsi da allora in poi intorno ai 60.000 nuovi titoli all’anno.
Ma non è questa la sede per approfondire l’analisi dei dati disponibili: come s’è detto, non è questo lo scopo del presente contributo.
Questi che abbiamo riportato fin qui sinteticamente sono i dati che emergono dalle risposte che le indagini ci forniscono. Ma in questa sede a noi interessano di più le domande da cui i ricercatori erano partiti e cercare di afferrare il ‘senso’ delle indagini, anche il senso che poc’anzi abbiamo definito ‘preterintenzionale’.
Ci sono poi altre questioni che ancora non sono state compiutamente affrontate, sulle quali non abbiamo risposte ma forse non abbiamo neppure messo bene a fuoco le domande che dovremmo porci. Proveremo qui a indicare alcuni dei temi su cui ci piacerebbe saperne di più.
Ci si lamenta sempre che gli italiani leggono poco e che i lettori in Italia sono una minoranza, fino al punto di arrivare ad affermare, talvolta, che la lettura in Italia è un fenomeno di nicchia. Queste convinzioni si basano su un dato, che abbiamo già riportato, secondo il quale i lettori da circa un ventennio si aggirano intorno al 40% della popolazione. Va smentito, tuttavia, che la lettura sia un fenomeno di nicchia, perché la percentuale dei lettori è ben più elevata di quella di chi si accosta ad altre forme di cultura (i visitatori dei musei sono il 33% della popolazione, le mostre sono al 25%, i siti archeologici al 27%, gli spettatori di spettacoli teatrali al 22%) e solo il cinema raggiunge una percentuale più elevata, di poco superiore al 50% degli italiani.
Ma per comprendere le statistiche è importante conoscere il quesito che viene posto agli intervistati e, di conseguenza, avere chiara l’idea di cosa significhi il dato che ne scaturisce: le percentuali che abbiamo riportato ora riguardano i lettori di libri nel tempo libero, aventi almeno sei anni di età. Quindi, stiamo parlando solo di lettura di libri (cartacei e non), ma non di giornali o siti web o altre forme di comunicazione scritta; e stiamo limitando la nostra attenzione alla lettura nel tempo libero, per scelta, per svago. Si potrebbe dire qualcosa anche sul fatto che questa non è un’indagine sulle ‘abitudini di lettura’, perché agli intervistati viene chiesto se hanno letto almeno un libro nell’ultimo anno. Ho già scritto altrove7 che leggere un libro all’anno è sufficiente per qualificarsi come lettore agli occhi dell’Istat, ma non credo che equivalga ad avere un rapporto stabile e consolidato con il libro, né che possa farci ritenere che la lettura faccia parte del vissuto quotidiano di chi risponde in questo modo. Come se aver inforcato per una o due volte una bicicletta nel corso dell’ultimo anno basti per dirsi ciclista, definizione che riserverei a chi usa la bici tutti i giorni per andare al lavoro o almeno a chi ogni domenica è solito fare una passeggiata sulle due ruote per qualche chilometro. Lo dico anche perché circa la metà del 40% di ‘lettori’ italiani legge meno di tre libri all’anno e, in alcuni casi, si tratta di lettori ‘intermittenti’, che a volte si accostano alla lettura occasionalmente o perché attratti da un superbestseller e che l’anno successivo vivono tranquillamente senza prendere in mano un libro, entrando e uscendo di volta in volta dal bacino dei lettori. Questa domanda sulla lettura di «almeno un libro» ha destato perplessità fin dalle prime rilevazioni dell’Istat e ha dato il titolo anche a un fortunato volume curato da Marino Livolsi8.
Era questo un modo sbagliato, o impreciso, di calcolare la percentuale di lettori ‘veri’ in Italia? Forse sì, avremmo detto. Ma questo dato non è inutile, perché oggi ci dice un’altra cosa. Infatti, la decisione di rilevare negli anni Sessanta o Settanta il numero di coloro che leggevano libri (anche pochi) nel tempo libero, per scelta, rappresentava la voglia di crescere attraverso la cultura e la lettura, in un paese che era attraversato da un’importante spinta allo sviluppo. Il passaggio dal 16,6% della prima indagine al valore quasi triplicato del 2010 testimonia le trasformazioni profonde che hanno modificato la società italiana in questi cinquant’anni.
Anche la lettura di giornali ha esercitato una funzione importante in questa direzione. Tra gli anni Cinquanta e Settanta i quotidiani vendevano circa 5 milioni di copie al giorno, quasi una copia ogni dieci adulti, molti dei quali con un livello di istruzione molto modesto.
Il bisogno di tenersi informati e orientarsi attraverso la laica ‘preghiera del mattino’ - ricordava Tullio De Mauro - era dunque forte nell’Italia dell’epoca, tanto da vincere in parte notevole la bassa scolarità e i bassi redditi, e ciò deve riportare l’osservatore d’oggi a constatare come questo fosse un altro effetto significativo della volontà di partecipazione che caratterizzò in modo spiccato la vita della popolazione in quegli anni di esordio della Repubblica9.
Dallo scorso anno disponiamo anche di un altro dato. In occasione della indagine multiscopo quinquennale sulle famiglie l’Istat ha rilevato non solo la lettura ‘per piacere’, ma anche quella di libri professionali ed educativi (non scolastici), effettuata nel tempo libero, e certe forme di consultazione che non si possono definire lettura vera e propria (ricettari di cucina, guide turistiche etc.): come per incanto, l’indice è schizzato al 59,4%. è un modo per taroccare le statistiche, per far diventare maggioranza quella che fino a ieri era e si sentiva minoranza? Sembra solo un modo diverso di calcolare il numero dei lettori, oppure un modo per dividersi tra ottimisti, che ora potranno affermare che quasi 6 italiani su 10 sono lettori, e i pessimisti, che continueranno a lagnarsi perché solo il 40% dei nostri compatrioti legge almeno un libro all’anno10.
Può darsi che la motivazione di questa nuova modalità di rilevazione possa nascondere anche un’intenzione di questo tipo, ma a noi qui interessa sottolineare che questi due dati hanno un significato diverso e descrivono fenomeni diversi. Rilevare oggi il numero complessivo di italiani che leggono libri nel tempo libero, per studio, per occasioni professionali ci dice invece un’altra cosa: nell’era della rete e della comunicazione digitale, mentre una quota crescente di giovani utilizza un tutorial disponibile su YouTube per documentarsi e per imparare qualcosa, preferendo le immagini alla lettura di un saggio o di un manuale, c’è ancora un 60% degli italiani che ricorre alla parola scritta e al libro come strumento per impadronirsi della complessità.
Ci sembra un dato significativo e che merita attenzione.
A volte, anche se il dato in sé non è equivoco, può esserlo il nostro modo di interpretarlo e utilizzarlo, facendogli dire cosa lontane dal suo significato. Mi spiego con un esempio: una contraddizione tra i dati, più precisamente tra dati sociali e dati di mercato, è emersa quando sono stati resi noti i risultati relativi al 2017, che fecero discutere. Anche in questo caso un’etichettatura superficiale tendeva a dividere i partecipanti alla discussione tra ottimisti, che mostrano fiducia nei segnali positivi, e pessimisti o incontentabili.
Piuttosto che dividersi tra chi vede il bicchiere mezzo pieno e chi il bicchiere mezzo vuoto, ritengo più utile e produttivo guardare cosa c’è nel bicchiere. Lo dico perché una lettura ideologica dei dati, fatta attraverso gli occhiali dell’ottimismo o del pessimismo, ci porta a cercare aprioristicamente gli aspetti positivi o quelli negativi e quindi a vedere nei dati solo ciò che ci piace, ci conviene o ci tranquillizza. Mentre un’analisi corretta deve prescindere da questo tipo di filtro: infatti, in entrambe le metà del bicchiere ci sono informazioni che dovrebbero interessare tutti, chi è più fiducioso e chi è più preoccupato. Per essere più chiaro, potrei dire che nella metà piena ci sono alcuni dati ‘economici’ e nella metà vuota alcuni dati ‘sociali’. Ognuno di noi è portato, in virtù della propria sensibilità o forse anche per il ruolo che ricopre, a prestare maggiore attenzione a uno o all’altro di questi aspetti.
Bisogna leggere i dati per quello che sono e cercare di capire cosa ci stanno dicendo, senza lasciarsi prendere la mano. Lo dico col massimo rispetto per entrambi gli approcci.
Tra i dati economici positivi c’è indubbiamente la soddisfazione per il fatto che nel 2017 il mercato librario finalmente ricominciò a crescere, dopo anni di arretramento. In quell’anno è cresciuto il numero dei libri venduti e il fatturato, quest’ultimo determinato anche da un aumento del prezzo medio di copertina (poco più di un euro). Non intendo assolutamente sminuire l’importanza di questo dato, che consentì a editori e librai di tirare il fiato dopo anni di difficoltà acute. La loro sopravvivenza, il ritorno in molti casi a un segno positivo nei loro conti, sono essenziali per poter continuare a discutere delle cose di cui stiamo discutendo. Senza editori e senza librai, e senza gli autori ovviamente, non ci sarebbero i libri e quindi tutte le nostre analisi e le nostre discussioni non avrebbero senso. Questo incremento è anche l’effetto della App18, il bonus di 500 euro per i diciottenni deciso dal Governo Renzi? Può darsi, anche se la percentuale di lettori tra i 18enni sembra che non stia aumentando e ciò avvalora l’ipotesi che in molti casi quel bonus sia stato merce di scambio (i giovani hanno comprato conto terzi o hanno semplicemente ceduto il bonus in cambio di 200 o 300 euro in contanti).
Comunque,pecunia non olet. E quindi, viva il bicchiere mezzo pieno.
Ma nell’altra metà del bicchiere, in quella vuota, troviamo un dato di rilevanza sociale enorme e, per me molto grave: i lettori diminuiscono progressivamente e l’Istat ci dice che dal 2010 (dato più elevato) allo scorso anno tre milioni di lettori si sono dissolti nel nulla. Questo dato mi preoccupa, perché le basi sociali della lettura continuano ad essere eccessivamente ristrette per un paese che voglia definirsi avanzato e progredito.
È del tutto legittimo che un imprenditore (editore o libraio) sia soddisfatto se il fatturato aumenta e i profitti crescono; è altrettanto giustificato, però, che un operatore culturale si allarmi se il bacino della lettura si restringe.
Sono pessimista se sottolineo quest’ultimo aspetto? Se tutti fossimo semplicemente più realisti guarderemmo a entrambe le facce della medaglia. E ne trarremmo alcuni insegnamenti.
Per esempio, dopo esserci illusi che la lettura fosse impermeabile alle congiunture economiche negative, ed aver dovuto invece prendere atto che questa volta la crisi dei consumi aveva trascinato verso il basso anche i dati dell’acquisto dei libri, potremmo ammettere che la leggera ripresa delle vendite registrata nell’ultimo anno è dovuta non a una riscoperta della lettura ma al fatto che i lettori forti, appartenenti a quel ceto medio penalizzato dalla crisi economica, ora stanno un po’ meglio e hanno comprato qualche libro in più. Se diminuiscono i lettori ma aumentano i libri venduti non c’è, a mio avviso, altra spiegazione.
Il rischio dell’asfissia mi pare immutato. L’indicatore reale che a mio avviso emerge da questi dati è che la sostenibilità delle imprese editoriali è legata ad un allargamento del mondo del libro: più prodotti, più clienti, più ricavi.
Da secoli il libro è l’emblema del sapere, lo rappresenta plasticamente, e quindi non dobbiamo stupirci se il rapporto tra gli individui e i libri è un legame complesso, con una forte componente simbolica. Il libro esercita un fascino, e provoca qualche timore, anche per i non lettori o presunti tali.
Possiamo spiegarci così alcune reazioni degli intervistati durante le indagini condotte dall’Istat, che – non dobbiamo dimenticarlo – si basano sulle autodichiarazioni dei cittadini, e quindi sulla sensazione, a volte molto soggettiva, che essi hanno del concetto di lettura. Alcune dichiarazioni, che potremmo definire sostanzialmente inesatte o quanto meno imprecise, ci lasciano intuire che esiste un atteggiamento diffuso che tende a considerare la lettura come una pratica culturale nobile, forse riservata a una élite cui tanti ‘lettori minori’ ritengono di non appartenere.
Non potremmo spiegarci altrimenti, per esempio, il fatto che alla domanda «Ha letto libri negli ultimi 12 mesi?» rispondano negativamente persone che poi – sottoposte a una successiva domanda di controllo «Che tipologia di libro ha letto?» – rivelano invece di essersi accostati ai libri. Questo accade in quella zona grigia, fatta di lettori/non lettori, dove si annidano coloro che l’Istat definisce ‘lettori morbidi’. Sono circa 7 milioni, grosso modo un quarto di quanti invece si dichiarano lettori al primo colpo: si tratta di persone, spesso con un basso livello di istruzione, che evidentemente non si ritengono lettori ma che invece hanno letto alcuni particolari tipi di libri. In qualche caso, questo modo di rispondere si può comprendere perché in realtà gli intervistati hanno consultato (e non letto) alcuni volumi, come ricettari di cucina e manuali per la casa o il bricolage, guide turistiche etc. Possiamo dire che consapevolmente essi non si definiscano lettori, perché la motivazione che li induce ad accostarsi ai libri non è la lettura, bensì un’esigenza pratica e funzionale. Ma nelle loro risposte si parla anche di lettura a tutti gli effetti, anche se di ‘libri di genere’, come gialli, romanzi rosa, testi di fantascienza, libri super economici o venduti in allegato ai quotidiani. Lo stesso accade a volte con gli e-book o i libri online.
La dimensione del fenomeno è costante nel corso dell’ultimo ventennio, oscillando sempre fra l’11 e il 12% del campione sottoposto a interviste.
Sarebbe interessante capire perché questi tipi di letture figurino sia tra le risposte di chi si è dichiarato lettore sia tra chi ha negato di esserlo (ci sono infatti anche lettori che si definiscono tali e riferiscono di queste stesse preferenze). Azzardiamo l’ipotesi che i ‘lettori morbidi’ si percepiscano come ‘lettori di serie B’, forse a causa del basso livello di istruzione e della debole qualità letteraria delle proprie letture. Questi italiani ritengono forse di non avere diritto di cittadinanza all’interno del circuito della partecipazione culturale e considerano il loro passatempo come qualcosa di diverso da una pratica culturale vera e propria. Ed è forse proprio su questo che dovremmo interrogarci, anche per individuare le vie attraverso cui le attività di promozione della lettura potrebbero dissacrare l’immagine del libro e invogliare un numero più ampio di persone ad accostarsi a questo oggetto, vincendo ogni timore reverenziale.
Un tema che le indagini sulla lettura ancora non hanno affrontato è, paradossalmente, quello che è sulla bocca di tutti e su cui c’è una diffusa discussione tra gli studiosi e gli operatori, anche se finora poco supportata da dati affidabili. La questione dell’impatto del digitale sulla lettura è all’attenzione di varie discipline e, per limitarci ai contributi emersi finora dal nostro ambiente, possiamo ricordare alcuni recenti scritti di Gino Roncaglia, Maurizio Vivarelli e Chiara Faggiolani11.
Non mi riferisco alla lettura di libri digitali, per i quali è dimostrato che non vi è nessuna contrapposizione alla lettura di libri cartacei. E neppure all’uso del digitale da parte dei lettori abituali: tra i lettori di libri, infatti, sono ‘utenti forti’ di Internet ben il 54% degli intervistati; tra i lettori oltre il 70% potrebbe essere definito ‘sempre connesso’ e utilizza diversi mezzi di comunicazione, mentre tra i non lettori la stessa percentuale si ferma al 47,0%; coloro che dichiarano di non connettersi mai alla rete sono soltanto il 15,5% tra i lettori e ben il 42,1% tra i non lettori12.
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Mi interesserebbe sapere qualcosa di più sulle altre forme di lettura in rete. Disponiamo di pochi elementi di ordine quantitativo: sappiamo che nel 2017 un terzo degli italiani ha usato Internet per leggere giornali, news e riviste e che solo l’8,1% ha scaricato libri in formato digitale, cui andrebbero aggiunti i download effettuati illegalmente. Non abbiamo dati certi sulla lettura dei blog - un veicolo di comunicazione che va a collocarsi a metà fra la rivista, il giornale e il saggio - e sul tempo dedicato alla lettura della posta elettronica o di altre forme di messaggistica, per non parlare della grande varietà di occasioni di lettura multitasking, contaminata con altre attività e integrata con canali e linguaggi comunicativi diversi dalla cultura scritta. Meno ancora sappiamo di altre tipologie di narrazione proprie dell’industria digitale, come i videogiochi.
Ho citato più o meno alla rinfusa soltanto alcuni formati digitali di comunicazione, narrazione, argomentazione che potrebbero affiancarsi o sostituirsi alla lettura di libri in un futuro più o meno prossimo, dando vita a nuovi ‘stili conoscitivi’. Un universo tutto da mappare: cambia il modo di comunicare, cambia il modo di informarsi, cambia il modo di studiare ed è del tutto ovvio che cambi anche il modo di leggere.
Se osserviamo la migrazione di massa dei giovani – anche dei giovani lettori o ex lettori – verso l’ambiente digitale, cui già si è fatto cenno, questo scenario diventa verosimile: si fa strada il fondato sospetto che il libro possa risultare, o sembrare, incompatibile con la ‘vita in rete’ cui ci stiamo abituando e con le forme di partecipazione culturale in rete che vanno diffondendosi, al punto da ritenere che questo oggetto sia forse destinato a perdere il ruolo di principale veicolo della comunicazione culturale.
Gli scienziati cognitivi ci parlano degli effetti che tutto questo può avere sullo sviluppo intellettuale13. L’allarme maggiore riguarda la perdita di ‘profondità’ dovuta alla esclusiva lettura di testi brevi e frammentati: non per limiti intrinseci del digitale, ma per il suo attuale livello di sviluppo e per le nostre insufficienti competenze nello sfruttarne fino in fondo le potenzialità.
Siamo in presenza di novità che modificano radicalmente l’oggetto che vorremmo analizzare, il cui studio richiede la messa a punto di strumenti di indagine nuovi. Non sono solo i vecchi metodi quantitativi – che pure potrebbero fornirci qualche informazione in più per descrivere e dimensionare questi fenomeni – a risultare inadeguati, anche perché cambiano i riferimenti di tempo e di luogo in cui queste esperienze di lettura si realizzano, e perché non è facile relazionarsi al popolo degli internauti: ma forse dobbiamo ancora attrezzarci meglio anche nell’uso dei metodi di analisi qualitativa. Utilizziamo poco e male questi metodi, forse perché sono piuttosto costosi e perché non disponiamo ancora di un bagaglio di esperienze consolidate che ne faciliti l’applicazione. Dovremmo imparare ad usare meglio anche gli strumenti che il web ci mette a disposizione14.
Probabilmente deve cambiare anche l’approccio concettuale con cui accostarsi allo studio della lettura. Anche in questo caso, però, sbaglieremmo a concentrarci solo sugli aspetti di dettaglio, perché è proprio l’ecosistema ad essere cambiato e a condizionare potentemente ciò che avviene all’interno della rete.
Ancora una volta gioverà avere un angolo di ripresa più ampio e il grandangolo si mostrerà un utensile prezioso.
Ultima consultazione siti web: 22 marzo 2019
[1] Anni fa questa metafora venne utilizzata da Piero Innocenti per intitolare una sua bella raccolta di saggi: cfr. Il bosco e gli alberi: storie di libri, storie di biblioteche, storie di idee. Firenze: Regione Toscana-La nuova Italia, 1984.
[2] Fabio Lucidi; Fabio Alivernini; Arrigo Pedòn, Metodologia della ricerca qualitativa. Bologna: Il Mulino, 2008, p. 32.
[3] Chiara Faggiolani, Conoscere, valutare, interpretare la lettura di libri: dal dato statistico ai big data. In: Maurizio Vivarelli, La lettura: storie, teorie, luoghi, contributi di Cecilia Cognigni e Chiara Faggiolani. Milano: Editrice bibliografica, 2018, p. 293-333: in particolare p. 297-304.
[4] Ivi, p. 304.
[5] Ibidem.
[6] Sugli errori più ricorrenti che commettiamo quando leggiamo i dati cfr. Hans Rosling, Factfulness: dieci ragioni per cui non capiamo il mondo, con Ana [sic] Ola Rosling e Anna Rosling Rönnlung, traduzione di Roberta Zuppet. Milano: Rizzoli, 2018. Ringrazio Chiara Faggiolani per questa segnalazione.
[7] Giovanni Solimine, L’Italia che legge. Roma-Bari: Laterza, 2010, p. 11.
[8] Almeno un libro: gli italiani che (non) leggono, a cura di Marino Livolsi. Scandicci: La nuova Italia, 1986. Questo l’incipit del volume: «perché questo titolo? perché per convenzione si ritiene “lettore” chi ha letto almeno un libro negli ultimi sei mesi e perché è difficile pensare che ci siano ancora molti (almeno un italiano su due) che non sentano il bisogno di leggere almeno un libro», p. VII.
[9] Tullio De Mauro, Storia linguistica dell'Italia repubblicana dal 1946 ai nostri giorni. Roma-Bari: Laterza, 2014, p. 80-81.
[10] Va detto che qualsiasi metodo di calcolo venga adottato e indipendentemente dall’oggetto della rilevazione – solo la lettura nel tempo libero o anche quella per motivi professionali o di studio – il divario fra l’Italia e altri paesi europei simili al nostro rimane immutato.
[11] Del primo si veda L’età della frammentazione: cultura del libro e scuola digitale. Roma-Bari: Laterza, 2018. I più organici contributi forniti dagli altri due, anche con il coinvolgimento di altri autori sono in Le reti della lettura: tracce, modelli, pratiche del social reading, a cura di Chiara Faggiolani e Maurizio Vivarelli. Milano: Editrice bibliografica, 2016 e nel già citato volume di Maurizio Vivarelli, La lettura.
[12] https://www.istat.it/it/files//2018/12/Report-Editoria-Lettura.pdf
[13] Rimando ai lavori di Maryanne Wolf: cfr. Proust e il calamaro: storia e scienza del cervello che legge. Milano: Vita e pensiero, 2009 e il più recente Lettore vieni a casa: il cervello che legge in un mondo digitale. Milano: Vita e pensiero, 2018.
[14] Cfr. Richard Rogers, Metodi digitali: fare ricerca sociale con il web. Bologna: Il Mulino, 2016.