a cura di Silvana de Capua
A tre anni di distanza dalla prima apparizione e contemporaneamente all'uscita in Francia di una seconda edizione (Paris: Armand Colin, 2016), ecco la traduzione italiana della Histoire des bibliothèques. D'Alexandrie aux bibliothèques virtuelles, scritta da uno dei maggiori storici del libro francesi, Frédéric Barbier. Si tratta di un'opera meritoria, che consentirà a una più ampia porzione di pubblico italiano di accedere, mediante questa guida, alle grandi linee di sviluppo della storia delle biblioteche. Non si tratta - si badi bene - di una storia dell'istituzione bibliotecaria, quanto di un vero e proprio percorso che si concentra sulla tradizione di assemblare, ordinare, conservare i libri, il che permette di considerare realtà diverse come le biblioteche private, le collezioni principesche rinascimentali, le raccolte conservate presso gli istituti religiosi, i più moderni gabinetti di lettura... Seguendo una tradizione tipica degli studiosi francesi, Barbier propone una storia che dialoga e si interfaccia con la storia della cultura, ma anche della politica, dell'informazione, dell'architettura e dell'urbanistica. In particolare, nel volume si mettono in relazione lo sviluppo dei sistemi di comunicazione di cui il libro è parte essenziale con la storia delle biblioteche.
Da questo punto di vista il lavoro di Barbier, che presenta un tono volutamente manualistico e spunti intelligenti, dimostra piena fedeltà all'affermazione del codicologo Louis Holtz (nella traduzione è rimasto il refuso «Holz», già nell'originale) posta in esergo: «La storia dei testi è inseparabile da quella dei libri che li hanno trasmessi; a sua volta quest'ultima è debitrice della storia delle collezioni che hanno raccolto tali libri. Si tratta di un aspetto essenziale della vita culturale: i libri sono fatti dagli uomini per gli uomini e le biblioteche riflettono le preoccupazioni della società che le ha create [...], o disperse» (Du copiste au collectionneur. Mélanges d'histoire des textes et des bibliothèques en l'honneur d'André Vernet, textes réunis par Donatella Nebbiai Dalla Guarda et Jean-François Genest. Turnhout: Brepols, 1998).
Come osserva Giorgio Montecchi nella prefazione, la traduzione di Elisa Marazzi (caratterizzata da un linguaggio chiaro e puntuale) può suggerire un allargamento degli orizzonti anche sulla produzione italiana, ricca di studi su singole realtà, ma quasi del tutto priva di opere di ampio respiro. In effetti, mentre in Francia una compiuta Histoire des bibliothèques françaises (4 volumi, Paris: Promodis-Éditions du Cercle de la librairie, 1988-1992) è stata pubblicata già una trentina di anni fa, in Italia ancora manca un lavoro di tale portata. Gli unici contributi - ben noti al pubblico - si devono a due studiosi di rilievo come Paolo Traniello e Alfredo Serrai. Il primo, nella sua Storia delle biblioteche in Italia. Dall'Unità a oggi (Bologna: il Mulino, 2014), si sofferma sull'istituzione bibliotecaria italiana, il secondo, con la sua Breve storia delle biblioteche in Italia (Milano: Sylvestre Bonnard, 2006), ha fornito alcune importanti chiavi di lettura dello sviluppo storico delle biblioteche italiane, senza la pretesa tuttavia, come ammette lo stesso titolo, di una esaustività.
Non si dimentichi però, nell'alveo della storia bibliotecaria nostrana, anche un più antico volume di Enzo Bottasso, Storia della biblioteca in Italia (Milano: Editrice Bibliografica, 1984), che ha rappresentato a lungo un inquadramento compendioso di molti dati, che però lasciano aperto il campo a ulteriori sviluppi e più efficaci ricostruzioni complessive.
Più di recente, sono usciti in Italia altri due lavori d'insieme sulla storia delle biblioteche: ancora a Serrai si deve un contributo pubblicato sulla rivista «Bibliothecae.it» (3 (2014), n. 1, p. 137-184 e 3 (2014), n. 2, p. 161-186), nel quale l'autore propone una «presentazione cursoria delle maggiori realizzazioni bibliotecarie presenti nella storia della civiltà, per mostrare come l'istituzione bibliotecaria, dalla sacralità dei templi egizi alla diffusione ellenistica, dalle architetture bibliotecarie del Rinascimento e del periodo illuministico ai monumentali depositi librari dell'Ottocento e del Novecento, quali la British Museum Library e la Library of Congress, sia stata finora, con tutta probabilità, il marchio fisico più evidente e più significativo della civiltà dell'uomo» (parte I, p. 138-139). Più di recente è apparso un volume di Giorgio Montecchi, Storie di biblioteche di libri e di lettori (Milano: Franco Angeli, 2018), che affronta il tema, benché non in maniera sistematica, da una prospettiva ancora diversa, focalizzando l'attenzione sull'uso della biblioteca e, in particolare, sul rapporto con i lettori.
Se in Italia, dunque, il panorama degli studi è in movimento, il focus adottato da Barbier è in genere puntato sulla Francia, ma non viene trascurato uno sguardo più generale, all'Europa, con una prospettiva che si allarga geograficamente - soprattutto per quanto attiene alla modernità e all'età contemporanea - andando a toccare anche realtà meno note alle nostre latitudini come, per esempio, la grande biblioteca nazionale di Rio de Janeiro.
Dopo la premessa di Giorgio Montecchi, il volume di Barbier si apre con una vivace introduzione in cui l'autore riflette sul concetto di biblioteca, sulla storia e l'etimologia del termine, sulle funzioni pratiche e sociali che l'istituzione ha rivestito, nonché sul contenuto. Si parte poi, con un primo capitolo che affronta, con una sintesi efficace, la storia delle più antiche biblioteche a partire da quelle della Mesopotamia fino al mondo romano, dedicando ovviamente uno spazio consistente alla Biblioteca di Alessandria e alle pratiche di conservazione e fruizione dei volumina, secondo una tradizione che dall'Egitto si diffonde in Occidente. Con i capitoli II e III si passa invece al Medioevo (religioso e laico), non trascurando alcune considerazioni riguardanti le trasformazioni legate al rapporto del lettore col libro. A sottolineare l'ampiezza dello sguardo, si sottolinea nel capitolo III il paragrafo (p. 117-121) dedicato al mondo arabo-musulmano e ai suoi contatti con l'Europa. Grandi trasformazioni coinvolgono anche le biblioteche a partire dall'Umanesimo e poi nel Rinascimento, oggetto del quarto capitolo, che riserva una porzione significativa alla Riforma. Con i successivi due capitoli si delinea un'immagine delle biblioteche della Controriforma e dell'età barocca e poi della piena e ultima età moderna tra fine Seicento e Settecento. Gli ultimi tre capitoli accompagnano il lettore nella contemporaneità, con un affondo particolare sulla nascita della biblioteca del British Museum (p. 304-309). La trattazione si ferma alle soglie della Grande Guerra (1914). Nelle conclusioni Barbier propone alcune riflessioni sull'attualità: concluso il Novecento, vero «secolo d'oro» delle biblioteche, esse diventano ora sempre più un luogo ibrido tra spazio fisico e virtuale, con le conseguenti nuove sfide dell'informatizzazione dei servizi e della digitalizzazione/smaterializzazione del patrimonio librario.
Anche l'edizione italiana, come la francese, non presenta, purtroppo, alcun apparato indicale, essenziale per un'opera del genere. Viene invece aggiornata e adattata al pubblico italiano la bibliografia essenziale di riferimento, che sembra tuttavia essere accidentalmente troncata alla lettera T.
Luca Rivali
Università Cattolica di Milano
Il sottotitolo della ricerca, Ruolo e valore sociale della biblioteca comunale Antonelliana, e lo slogan del manifesto informativo utilizzato per la promozione dell'indagine, Conoscere come siamo per immaginare il futuro, racchiudono le parole chiave di questo studio sull'impatto dell'attività della biblioteca sul territorio: ruolo, valore, futuro.
Il libro raccoglie infatti i risultati dell'indagine sulla Biblioteca Antonelliana nella città di Senigallia (in provincia di Ancona) effettuata da marzo a settembre 2017, in concomitanza con il 250° anniversario della fondazione, e dopo un intenso periodo di acuta e condivisa evoluzione.
La cittadella dei saperi è un rapporto pubblico che contiene una raccolta di dati statistici (profilo della biblioteca, della comunità, della città e indicatori di performance), restituisce i risultati di oltre 400 questionari somministrati ai cittadini di Senigallia e integra il quadro finale con sette interviste a testimoni privilegiati per offrire al lettore una fotografia dello stato dell'arte della Biblioteca Antonelliana.
La Regione Marche non è nuova a progetti importanti di valutazione ed è proprio da queste esperienze pregresse che l'odierno studio si è mosso: l'indagine precedente, guidata da Giovanni Di Domenico nel 2010 e confluita nel volume dal titolo L'impatto delle biblioteche pubbliche (Associazione italiana biblioteche, 2012), aveva coinvolto sette biblioteche del territorio marchigiano e fa da sfondo alla struttura di questa ricerca che si arricchisce di necessità conoscitive specifiche e tiene conto degli aggiornamenti degli standard internazionali (in particolare: ISO 2789:2013 Information and documentation-International library statistics e ISO 11620:2014 Information and documentation-Library performance indicators).
In questa indagine, guidata da Tommaso Paiano e Roberta Montepeloso, si è scelto di combinare questionari su utenti reali e potenziali, nonché compilazione vis-à-vis e mediata per meglio rilevare l'intensità d'uso o non uso, conoscenza e valutazione dei servizi, riconoscimento dei benefici, e per permettere la condivisione di prospettive per il futuro.
Attraverso la lettura de La cittadella dei saperi è facile comprendere come le indagini valutative non siano volte solo ai processi di accountability o a perseguire una mera ottica di miglioramento in termini di efficacia ed efficienza: questi momenti condivisi di riflessione accrescono la consapevolezza di una biblioteca che si pone in ascolto facendo emergere il punto di vista degli utenti e dei cittadini.
Il rapporto, oltre a proporre conclusioni specifiche relative al contesto, propone ai bibliotecari diversi elementi di riflessione sui metodi di analisi dell'impatto e le problematiche che ne conseguono: la restituzione di una fotografia, data la nota difficoltà di quantificare e misurare l'impatto, è un tentativo di sperimentare metodi, tecniche e prospettive in una realtà specifica ed è la varietà di queste procedure a tracciare una prospettiva empirica della valutazione nelle biblioteche italiane.
Porsi in continuità con le esperienze pregresse consente di avviareuna riflessione teorica in prospettiva evolutiva: dopo quasi 10 anni dalla prima indagine è interessante capire quali siano stati gli adattamenti, cosa sia diventato anacronistico e cosa sia rimasto immutato. Purtroppo tali osservazioni possono essere fatte solo da un punto di vista teorico - e non grazie a un sistematico confronto dati - poiché la Biblioteca Antonelliana non era tra gli istituti coinvolti nell'indagine del 2010.
Lo studio, che ha ricevuto il patrocinio dell'AIB, è stato rilasciato con licenza CC, una scelta importante che rinnova il legame tra la ricerca biblioteconomica e il libero accesso.
Egizia Cecchi
Cori (LT)
Il volume riprende il lavoro svolto da Monica Bocchetta nella sua tesi di Dottorato, discussa presso l'Università Sapienza di Roma (XXIV Ciclo di Dottorato in Scienze documentarie, linguistico-filologiche e geografiche, coordinato da Marco Santoro). Il volume analizza una realtà bibliotecaria poco nota, ovvero quella della Congregazione di San Girolamo degli Eremiti del Beato Pietro da Pisa, la cui fondazione ufficiale risale al 1446 con l'approvazione del pontefice Eugenio IV. Il primo capitolo di questo lavoro ricostruisce la storia dell'Ordine, comprese le vicissitudini sette-ottocentesche, sino alla definitiva soppressione dello stesso nel 1933 da parte del papa Pio XI, quando erano rimasti solo sei conventi, tra cui due di fondazione novecentesca.
Il secondo capitolo analizza le fonti legislative, dunque l'organizzazione dei conventi e delle raccolte ivi conservate. L'autrice si sofferma poi sulle fonti costitutive e regolamentari degli Eremiti. Si analizzano dunque i rapporti tra il cursus studiorum e la collectio, ma - oltre alle fonti ufficiali, tra le quali è arduo barcamenarsi - la Bocchetta analizza anche fonti archivistiche. Nella fattispecie per il presente lavoro è stato preziosissima quella del censimento condotto dalla Congregazione dell'Indice nel 1599-1600, raccolta nel codice Vaticano Latino 11292 (riprodotto nel CD-Rom allegato al volume), al quale si affiancano le fonti relative alle soppressioni del XVIII-XIX secolo.
Le vicende che emergono dal manoscritto conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana sono ben condensate nel capitolo quarto dove vengono approfondite le vicende di 28 conventi degli Eremiti tra il 1417 e il 1933, un profilo storico affiancato a quello del patrimonio librario. L'autrice non si limita dunque ad analizzare le fonti canoniche, ma si spinge anche nei meandri di quelle restituite da cataloghi e inventari, cosicché emergono bene anche le discrepanze e le contraddizioni tra la legislazione dell'Ordine e l'effettiva gestione delle biblioteche conventuali.
I casi analizzati nei 28 conventi illustrano come ci fosse una biblioteca destinata alla comunità monastica e i libri personali conservati dai monaci nelle loro celle; la Bocchetta è riuscita anche a rintracciare diversi esemplari nelle biblioteche italiane, a dimostrazione del fatto che la storia delle biblioteche possa aprire orizzonti che rivelano non poche sorprese.
Un esempio è la biblioteca romana del Convento di Sant'Onofrio al Gianicolo (l'ultima dimora del poeta Torquato Tasso che vi morì nel 1595), Curia Generale dell'Ordine, dove nel 1626 fu istituito un archivio centrale. Le origini del convento vanno ricercate nella figura di Nicola da Forca di Polena, sacerdote terziario francescano, e nella sua scelta di vita agli inizi del Quattrocento. Nel 1620 il Convento toccò il suo apice con l'elezione a studium dove era possibile conseguire il titolo dottorale (l'altra sede era a Padova).
L'inchiesta della Congregazione dell'Indice ci restituisce 155 notitiae, una biblioteca deputata soprattutto a servire i docenti e gli studenti. L'inventario vaticano ci mostra delle sezioni tematiche; le opere erano disponibili in edizioni datate anche se non mancavano alcune aggiornate. In ogni caso, eccetto 17 volumi privi di dati tipografici, abbiamo un manoscritto, 16 incunaboli, e 118 cinquecentine. L'esame dell'inventario ha portato alla luce la presenza di pubblicazioni segnalate dall'Index clementino del 1596. L'autrice riporta fonti, tra cui il catalogo redatto da Cesare Majoli nel 1784-1785 nel quale emerge una politica di accentramento librario della comunità di Sant'Onofrio, nella fattispecie almeno 20 esemplari trasferiti dal convento di San Giacomo di Sutri. Sulla base delle fonti, la Bocchetta ci accompagna sino alle vicende di età napoleonica e all'incameramento da parte dello Stato italiano; molti manoscritti del convento sono ora alla Biblioteca nazionale centrale di Roma.
In conclusione, in questo lavoro si va a toccare non la storia delle edizioni ma degli esemplari, un'ottica che dà un valore aggiunto all'intelligente e meritevole volume di Bocchetta, che conferma ricchezza e accuratezza anche nelle note, nella ricchissima e rigorosa bibliografia e nell'indice finale.
Daniel Benvenuti
Sapienza Università di Roma
Un Libro per tutti è una prima mappatura delle biblioteche degli istituti religiosi aderenti al Sistema Documentario Integrato dell'Area Fiorentina (SDIAF). La parola libro entro virgolette credo alluda alla molteplicità del patrimonio rappresentato: manoscritti, incunaboli, libri antichi e moderni, opuscoli, periodici e altro; una ricchezza di proposta che permette a tutti di trovare il proprio libro in una delle 23 biblioteche aderente alla rete. Data la realtà particolare di queste biblioteche e la formulazione della L in maiuscolo, potremmo insinuare, inoltre, l'allusione al Libro per eccellenza, alla Bibbia, al Libro a cui le biblioteche degli istituti religiosi fanno certamente riferimento, spirituale e culturale, in quanto grande codice.
In un mondo in cui tutti cercano di apparire, il libretto di 40 pagine si propone come il prodotto del lavoro collettivo dello SDIAF (non compare nessun nome personale), quale strumento agile di consultazione rivolto a lettori e bibliotecari.
Le 20 biblioteche, su 23 presenti sul territorio, descritte in brevi profili, presentano caratteristiche diverse:
1) alcune derivano dalla lunga tradizione degli ordini religiosi;
2) altre sono di costituzione relativamente recente (Novecento).
Le biblioteche testimoniano un patrimonio plurimo che coinvolge la Facoltà Teologica dell'Italia centrale, la Comunità Ebraica, la Chiesa Valdese, l'Istituto avventista di cultura biblica, la Chiesa evangelica luterana, i Domenicani di Santa Maria Novella e di Pistoia, la Biblioteca Arrigo Levasti, i Frati minori, i Cappuccini, i Gesuiti, il convento di San Francesco di Fiesole, la Chiesa russa di Firenze, il convento di La Verna, l'abbazia di Vallombrosa, la Biblioteca del CIS, il Capitolo metropolitano fiorentino, i Seminari di Firenze e di Fiesole, la Bandiniana, Pax Christi; manca una biblioteca legata al mondo islamico.
I dati pubblicati sono disomogenei non per colpa dei curatori, bensì per la variegata tipologia degli istituti, talora ai margini della comunità bibliotecaria, in qualche caso per carenza di risorse umane e finanziarie e in altri casi per retaggi storici che evitavano contaminazioni col mondo laico; finalmente lo spirito della collaborazione ha prevalso e di esse, a Firenze come altrove in Italia, si cominciano a conoscere dati elementari: nome esatto, sede, recapito telefonico, mail, sito web, orario d'apertura, volumi posseduti, volumi catalogati online, riviste storiche e correnti, specializzazione, fondi speciali, servizi; dati ora disponibili pubblicamente e da considerare come base e preludio per indagini più accurate così da trasformare l'agile libretto in un repertorio strutturato.
La biblioteca della Facoltà teologica dell'Italia centrale dichiara una consistenza di 120.000 volumi, di cui 70.000 catalogati online (ovvero presenti nell'OPAC condiviso; e si tratta di una biblioteca che festeggerà i primi trent'anni d'attività il prossimo 13 dicembre); segue la collezione del Seminario arcivescovile maggiore con 100.000 volumi, ma di cui non si fornisce il numero dei libri catalogati; la Biblioteca provinciale dei Cappuccini con 80.000 volumi, di cui 25.000 catalogati; la biblioteca dei Frati minori con 67.000 volumi e 29.960 catalogati; la Bandiniana, con 65.000 volumi di cui solo 2.081 catalogati perché ha da poco iniziato la loro descrizione, dopo il trasferimento della biblioteca nella prestigiosa vecchia cappella del Seminario di Fiesole (il nome deriva dall'erudito Angelo Maria Bandini, di cui l'istituto conserva la raccolta personale); le biblioteche della Chiesa valdese e della Comunità evangelica luterana dichiarano una raccolta modesta: entrambe 3.000 volumi di cui 2.000 catalogati.
Fa riflettere la discrepanza tra le collezioni: fondi librari considerevoli e fondi definibili un punto lettura piuttosto che una biblioteca. Il dato carente è la catalogazione: solo, infatti, una parte del patrimonio dichiarato è consultabile tramite l'OPAC dello SDIAF. Ciò sollecita un investimento sia da parte dei singoli istituti, sia da parte delle autorità comunali e regionali, con finanziamenti e reclutamento di personale qualificato.
Circa le biblioteche di ordini religiosi - dopo oltre 150 anni dall'Unità d'Italia - resta ancora da studiare in modo approfondito ciò che avvenne con le soppressioni da parte dello Stato. Nel 1863 il Governo italiano intraprese una vasta indagine statistica per censire il patrimonio bibliografico posseduto e le strutture preposte alla sua gestione. Con 4.449.281 libri - commenta Mauro Tosti-Croce in L'Amministrazione delle biblioteche dall'Unità al 1975 - il nostro paese era al primo posto in Europa, pressoché alla pari con la Francia (4.389.000). Sarebbe interessante individuare l'originaria appartenenza a biblioteche ecclesiastiche di edizioni antiche confluite in biblioteche (italiane e straniere) statali, comunali, di università, private. Molte biblioteche appartenute a ordini religiosi sono scomparse con la soppressione, altre hanno ricostituito una nuova collezione a partire dai primi decenni del Novecento con doni e acquisizioni, nonché con l'integrazione dei manoscritti e dei volumi che i monaci e i frati si erano portati nelle celle così che fossero considerati dagli ispettori statali libri personali e pertanto non confiscabili. Nonostante le soppressioni, pertanto, molte biblioteche storiche degli ordini religiosi hanno ancora numerosi libri da mettere a disposizione degli studiosi per le loro ricerche.
Le biblioteche d'istituzione novecentesca derivano quasi tutte da esperienze forti maturate all'interno della Chiesa cattolica, da tematiche, esperienze e personaggi legati principalmente al Concilio Vaticano II, collezioni caratterizzate fortemente dal dialogo con altre confessioni, dall'ecumenismo, dalla pace, dalla non violenza, come la biblioteca di Pax Christi, che contiene il fondo di don Tonino Bello, guida dell'omonimo movimento cattolico internazionale per la pace.
Il catalogo delle biblioteche degli istituti religiosi dello SDIAF partecipa a SBN e le registrazioni catalografiche confluiscono in BeWeB - il portale di tutti gli istituti culturali ecclesiastici, il quale garantisce un accesso di ricerca unico ai beni culturali di proprietà ecclesiastica.
Vorrei ricordare che al 75. Congresso IFLA di Milano del 2009 fu organizzato un incontro tra rappresentanti delle biblioteche delle religioni monoteiste - ebrei, cristiani, musulmani - alla Biblioteca Ambrosiana: gli atti pubblicati (Babele, Bibbia e Corano: dal testo al contesto: dalle culture ai libri di culto: funzioni moderne delle biblioteche nelle tradizioni religiose delle civiltà del Mediterraneo. Roma: [CEI], 2010) testimoniano la ricchezza delle tre tradizioni, di cui le biblioteche custodiscono la memoria registrata in migliaia e migliaia di manoscritti e pubblicazioni cartacee e digitali; da quell'esperienza è nata RELINDIAL, Religions: Libraries and Dialogue, uno Special Interest Group dell'IFLA dedicated to libraries serving as places of dialogue between cultures through a better knowledge of religions.
Mi piace inserire la pubblicazione del libretto dello SDIAF all'interno di questo movimento di dialogo tra le religioni, tra gli uomini.
Mauro Guerrini
Università di Firenze
Per conservare bisogna conoscere, e anche saper progettare. Bisogna essere capaci di spingere lo sguardo verso il futuro e scegliere come comportarsi per essere efficaci. Conoscere, progettare, scegliere sono le parole chiave del libro di Simona Inserra, da lei stessa definito «un percorso critico di orientamento» (p. 5) nella disciplina finalizzata alla tutela e conservazione (anche) del materiale librario e documentario.
Obiettivo e nello stesso tempo punto di partenza delle pratiche di tutela, conservazione e valorizzazione dei beni culturali è dunque l'approfondita conoscenza degli oggetti e dei documenti che realizzano l'identità di una persona e di una comunità. Si deve cioè saper cogliere il significato del bene che si vuole tutelare, sia in riferimento al contesto che l'ha prodotto che a quello che lo sta conservando. Per riconoscere e rispettare l'identità dei beni culturali e per preservarli nel tempo, bisogna imparare a trattarli con consapevolezza e attenzione, comprendendo ed esaltando il valore di questi oggetti per la memoria della comunità cui appartengono, e dunque per la sua stessa esistenza.
Inserra dichiara subito i destinatari cui si rivolge e poi nel corso della trattazione più volte sottolinea l'importanza di insegnare anche ai fruitori dei libri la vitale rilevanza dei piccoli gesti quotidiani: ai bibliotecari, dunque, come ai lettori, cui andrebbero aggiunti gli studiosi e gli studenti delle discipline del libro.
Chi si occupa di conservazione, di prevenzione e di restauro deve confrontarsi, aggiornarsi, prepararsi su nuove tecniche, portando avanti rinnovati concetti e idee. A guardare il portale dell'IFLA risulta evidente il grande e stimolante movimento intorno a queste tematiche, dato che emerge anche dalla Bibliografia ragionata in coda al volume. La rete, inoltre, è densa di blog, video e tutorial in cui si affrontano temi legati all'allestimento di un libro, agli interventi di restauro, destinati alla curiosità e alla sensibilità di coloro che sanno poco o nulla di questi oggetti particolari e al contempo usuali quali sono i libri.
Il contributo di Simona Inserra si pone come enciclopedia tascabile dei principi fondamentali della conservazione, dai quali tralascia la questione della digitalizzazione, troppo ampia da discutere in questa sede. L'autrice riesce a condensare in poche pagine una materia molto complessa e sfaccettata, ma non si limita a una descrizione delle azioni da intraprendere per essere bravi conservatori. Si leggono informazioni molto concrete sulla gestione di un ambiente di conservazione, sulle buone pratiche di prevenzione e sulla manipolazione dei libri e dei documenti, ma vengono offerti anche importanti spunti di riflessione. L'autrice conosce bene la realtà difficile e i limiti che i conservatori incontrano per applicare anche le regole più elementari per la prevenzione e la tutela e non si fa scrupolo di sottolinearne i problemi. È noto come, in Italia, alcune importanti biblioteche di conservazione siano difficilmente accessibili per mancanza di personale e di fondi; come piccole e medie biblioteche siano spesso in difficoltà per la miopia degli amministratori. Qui, però, non si lancia solo l'allarme, bensì si propongono anche le possibili soluzioni, aggiornate alle più recenti riflessioni e tecniche, o lasciate alla creatività del bibliotecario. Si parla del conservatore ibrido americano, della conservazione cooperativa, di cooperative di conservatori, organizzate al grido di «l'unione fa la forza», purché venga garantita la salvaguardia delle fonti della nostra memoria. La conservazione della memoria sotto forma di beni culturali è infatti responsabilità di tutti, bibliotecari, amministratori e cittadini, lettori o meno, in nome dell'importanza vitale che archivi, biblioteche e musei hanno nella crescita di ognuno e nel riconoscimento della propria identità e appartenenza.
Per i cittadini, per i bibliotecari e per tutti i lettori, infine, la Bibliografia ragionata, presentata nelle pagine conclusive per non appesantire la trattazione, offre ampie possibilità di conoscenza e di approfondimento. Oltre 15 delle 70 pagine del libro sono dedicate ai riferimenti della legislazione citata nel testo, a saggi di approfondimento sui singoli aspetti della disciplina trattata: dalla discussione sulla terminologia alla best practices, fino ai suggerimenti per la storia del libro e dei materiali documentari.
Adriana Paolini
Università degli studi di Trento
Learner centered pedagogy non è solo titolo di questo libro, né tantomeno solo una recente tendenza bibliotecaria. È piuttosto un approccio alla conoscenza che riposiziona l'utente e il bibliotecario, a partire dal presupposto che in ogni momento cambia la nostra percezione sull'essere discenti, anche quando dobbiamo assecondare fabbisogni formativi di altri.
Kevin M. Klipfel e Dani B. Cook invitano in particolare i bibliotecari a monitorare la letteratura sulla scienza dell'apprendimento. Il libro si propone, dunque, come un framework da applicare nei contesti di formazione: non fornisce procedure, sistemi, ma suggerisce un'impostazione per l'apprendimento, inteso come istanza profonda all'interno di un contesto bibliotecario sempre più complesso.
Il volume, corredato da una breve biografia degli autori e da una introduzione esplicativa, si compone di sei capitoli, ognuno dei quali, con titolo proprio, risponde a un tema. L'impianto teorico garantisce la coerenza e l'interconnessione tra le differenti parti del testo, arricchito da esempi tratti dall'esperienza di Klipfel e Cook.
Il primo capitolo traccia la definizione di pedagogia centrata sull'utente: in essa l'empatia diventa questione fondamentale per chi non solo deve aver conoscenza delle risorse educative e del mondo dell'informazione, ma deve anche comprendere la personalità dell'utente. Il bibliotecario pratica l'empatia come un modo di essere, sostenendo il discente nella sua ricerca. Nel secondo capitolo, gli autori si chiedono chi è colui che apprende. È prosumer, dunque non solo consumatore, ma anche soggetto attivo della conoscenza: opera per una nuova geolocalizzazione e riterritorializzazione delle risorse informative; estende il patrimonio concettuale, creando reti di conoscenza, ponendo nuove questioni a un sapere che abita nelle domande stesse dei discenti. Il capitolo tre, invece, descrive le componenti cognitive dell'apprendimento: l'ethos del bibliotecario può avere ricadute inaspettate e felicemente inattese su alcune fasi peculiari per l'attività di biblioteca e sul bibliotecario medesimo. La pedagogia interviene anche ridefinendo il ruolo dell'information literacy, della catalogazione, della gestione delle collezioni, aprendo la professione a settori apparentemente estranei al suo contesto. Ponendo in essere quanto analizzato nei capitoli precedenti, lo studio della relazione fra discente ed educatore è argomento del capitolo successivo, mentre il quinto è costruito intorno all'intersezione tra motivazione al sapere e cognizione. La connessione e la condivisione fra il bibliotecario e il discente sono qui essenziali, così come fra il discente e la ricerca. Il libro si conclude riconoscendo il ruolo svolto dalla tecnologia in ambito bibliotecario e pedagogico. Nell'interpretazione degli autori l'apprendimento è una relazione uno a uno, è sempre personalizzato e favorito dal web 2.0, dai social e da ambienti di apprendimento integrati; ma è anche, e soprattutto per questo, evento, performance collettiva ed espressione di competenze multiculturali. Il volume si chiude con la postfazione degli autori.
La lettura del volume di Klipfel e Cook ci insegna che, quando procediamo verso una pratica di biblioteca centrata sul discente, dovremmo considerare un successo il fatto di esprimere gli interessi e i punti di vista degli altri, sia dentro la biblioteca, sia fuori dalla biblioteca. Costruire comunità intorno a questo approccio significa intendere la biblioteca come forma esistenziale in cui il bibliotecario è educatore perché procede adattando la ricerca al contesto personale del discente.
Antonella Costanzo
Genova
La capacità di mediazione tra utenti e risorse della biblioteca può essere senz'altro riconosciuta da ognuno di noi come competenza-ombrello della professione del bibliotecario. Se, tuttavia, in passato attività come la catalogazione e il reference potevano assorbire in modo quasi esclusivo i compiti del personale destinato ai servizi di back office e front office, in anni più recenti l'evoluzione tecnologica - ma anche quella dei comportamenti sociali - hanno contribuito a spostare maggiormente l'attenzione verso forme e modalità più spinte e/o più innovative, o in alcuni casi anche solamente più user-friendly, di comunicazione bibliotecaria. La promozione della biblioteca con gli strumenti del Web 2.0 e dei social media, l'ingaggio in attività di information literacy e formazione degli utenti, la figura dell'embedded librarian nelle istituzioni di ricerca sono solo alcuni esempi di questa tendenza ormai parecchio praticata e - spesso con buon successo - diffusa nella prassi operativa di molte biblioteche italiane. Tuttavia, anche in quest'ambito, il lessico predominante (es. chat, blog, social networks, etc.) ci suggerisce che nelle aree anglofone tali processi di adeguamento comunicativo delle istituzioni pubbliche e di ricerca alle sfide dei tempi hanno preso piede un po' prima che dalle nostre parti; nel prenderne atto, torna utile confrontarci con le migliori pratiche internazionali riguardanti il ruolo del bibliotecario come comunicatore.
Sono molteplici e stimolanti, in tal senso, i contributi che vanno a costituire il volume Librarian as communicator, curato da due bibliotecari accademici, l'irlandese Helen Fallon e l'inglese Graham Walton. Il libro deriva da diciotto articoli precedentemente pubblicati come fascicolo monografico in «New review of academic librarianship», 22 (2016), n. 2/3, tutti relativi a esperienze sviluppate in biblioteche universitarie. Ampia la bibliografia e utile l'indice degli argomenti che corredano il volume. Più della metà degli autori provengono dal contesto europeo. Il primo capitolo, a carattere introduttivo, il cui titolo coincide con quello del libro stesso, è firmato da Helen Fallon e descrive la prospettiva adottata dai curatori, ossia la raccolta di evidenze scientifiche ricavate da dati rilevati e analizzati negli specifici casi studiati dagli autori di ciascun capitolo. Le esperienze descritte condividono il medesimo tema generale della comunicazione nelle biblioteche accademiche e il ruolo-chiave del bibliotecario nei processi comunicativi, seppure da angolazioni diverse; risulta, in effetti, utile gettare uno sguardo d'insieme sul libro, come suggerito anche nell'introduzione, identificando sei cluster o raggruppamenti logico-tematici.
Un primo cluster consiste nelle strategie per valorizzare al massimo le raccolte, sia cartacee che elettroniche. I quattro saggi inclusi in questo raggruppamento comprendono: l'impiego di collezioni speciali della biblioteca universitaria, nello specifico una pregevole raccolta di fumetti di diverse epoche, come fonte con valore pedagogico per lo studio di specifiche materie dei curricula didattici dell'Ateneo (McGurk, cap. 7); l'attività di comunicazione legata a un progetto di digitalizzazione di materiale documentario risalente alla prima guerra mondiale presso la National Library of Ireland (Burns, cap. 10); una rassegna commentata di letteratura scientifica sui ruoli e le competenze emergenti nelle biblioteche accademiche intorno all'ambito della digital scholarship (Cox, cap. 3); un esempio, relativo allo stato della Florida, di realizzazione di interventi di conservazione digitale del patrimonio culturale locale (Minds VandeBurgt e Rivera, cap. 12).
Un secondo nucleo di casi-studio riguarda l'impiego efficace di piattaforme e strumenti del Web 2.0 e social media. Contribuiscono a questi aspetti un racconto sull'esperienza di sviluppo della presenza della biblioteca universitaria di Liverpool nei social networks (Chatten e Roughley, cap. 11); l'analisi di due blog accademici cioè l'irlandese Libfocus.com (Dalton, Kouker, e O' Connor, cap. 4) e The research and scholarship blog della Syracuse University Library (Rauh e McReynolds, cap. 17); e l'attività di supporto ai ricercatori, da parte dei bibliotecari accademici svedesi, nell'elaborazione di strategie di social media presso l'Università di Linköping (Persson e Svenningsson, cap. 16).
A un terzo raggruppamento, che concerne la disseminazione dei prodotti della ricerca, sono riconducibili il caso-studio di una biblioteca universitaria del Ghana sul miglioramento dell'impatto della produzione scientifica (Thompson, Akeriwe e Aikin, cap. 18), e una rassegna di contributi scientifici prodotti dai bibliotecari delle università irlandesi (O' Brien e Connor, cap. 8).
A un quarto sottoinsieme di contributi, relativo al marketing e promozione di risorse e servizi della biblioteca, si ascrivono le esperienze dell'Università di Leicester, dove è stata progettata la trasformazione radicale del brand della biblioteca (Winne, Dixon, Donohue e Rowlands, cap. 19); dell'Università di Portsmouth, dove la creatività bibliotecaria ha sperimentato l'impiego di avatar antropomorfi che in rete, in stile colloquiale e umoristico, aiutano anche gli studenti meno attrezzati a familiarizzare con i servizi della biblioteca (Bennett e Thompson, cap. 9); e dell'Università di Birmingham, con la realizzazione di una Pop-Up Library ovvero punti informativi e promozionali in diversi punti strategici del campus (Barnett, Bull e Cooper, cap. 2).
Il quinto snodo tematico si riferisce all'offerta coordinata di servizi distribuiti su più campus e sedi. Gli esempi approfonditi al riguardo hanno come oggetto l'apporto dei servizi bibliotecari al miglioramento qualitativo dell'esperienza degli studenti in diversi campus dell'Inghilterra settentrionale (Jolly e White, cap. 6), e un caso di studio di comunicazione intercontinentale tra diverse articolazioni di una stessa Università con sedi a New York e ad Abu Dhabi (Parrott, cap. 15).
Al sesto sottogruppo, infine, che interessa le modalità più opportune per migliorare la partecipazione interna ed esterna, afferiscono l'illustrazione di un modello di comunicazione per le biblioteche accademiche denominato Strategic Engagement Cycle (Eldridge, Fraser, Simmonds e Smyth, cap. 5); l'individuazione di tecniche comunicative efficaci verso i giovani in formazione alla ricerca quali assegnisti, dottorandi, borsisti (Petch, Fraser, Rush, Cope e Lowe, cap. 13); e infine il case study di una biblioteca australiana, quella della University of Queensland, in cui la comunicazione è stata collocata al centro della vision di un progetto pluriennale di cambiamento organizzativo dell'istituzione (O' Sullivan e Partridge, cap. 14).
Un panorama ampio e variegato di interventi, come si vede, sia sul piano dei metodi e degli approcci che dei temi e dei contenuti, che ci pare valga la pena di esplorare. Il libro appare destinato, in definitiva, a offrire buone pratiche e spunti utili in una pluralità di situazioni assimilate dalla medesima sfida, quella che riguarda l'efficacia comunicativa delle biblioteche nei contesti accademici, caratterizzati da alti livelli di complessità organizzativa e da ambienti di rete ricchi di risorse, strumenti e servizi ma frequentemente sottoutilizzati dagli utenti finali. Il lettore italiano potrà in qualche caso rilevare distanze di scenari e contesti di riferimento, che però ci pare non tolgano nulla all'apprezzabilità del rigore scientifico adottato dagli autori, come anche, nel merito dei contenuti, al valore e alla qualità dei casi di studio presentati nel volume. Nel capitolo conclusivo - l'unico non presente nel numero monografico del 2016 - intitolato Future of Academic Library Communication, i curatori Helen Fallon e Graham Walton, insieme a Stacy Stanislaw, sottolineano (e io sottoscrivo) «the need for academic librarians to concentrate even more on communication with their different user communities. The scholarly communication model that has been in place for centuries is being fundamentally challenged and librarians need to speak out loud about their roles and purposes» (p. 245).
Domenico Ciccarello
Università di Palermo
Kenneth Varnum è esperto di digital information technologies applicate all'ambito bibliotecario, e attualmente ha il ruolo di senior program manager alla University of Michigan Library. Dalla sua esperienza professionale nasce questo libro, di cui Varnum è curatore, che offre una panoramica completa e accessibile delle problematiche e specificità relative alle biblioteche delle università, sempre più dirette verso l'ambiente digitale. Il focus è rappresentato dai web scale discovery services (WSDS), tesi al supporto e miglioramento delle attività di ricerca e scoperta di informazioni e risorse.
Diversi autori contribuiscono alle quattro parti della raccolta, suddivise a loro volta in capitoli: Vended discovery systems, Custom discovery systems, Interfaces, Content and metadata. Attraverso numerose esemplificazioni, e un excursus storico, sono illustrate le necessità, le difficoltà, i progetti e gli attori che riguardano il processo di aggiornamento tecnologico e l'implementazione dei servizi di discovery, soprattutto nell'ambito delle biblioteche di varie università americane di piccola e media grandezza e della loro utenza, dal 2008 al 2015. I diversi casi-studio trattati facilitano la conoscenza del campo e delle sue peculiarità. L'analisi si può, dunque, considerare valida per un ambito più vasto di quello statunitense. Il capitolo introduttivo della prima parte presenta i concetti fondamentali, tra cui ricorrono le nuove esigenze conoscitive dettate dai documenti presenti sul web. Infatti, sempre più le diverse istituzioni culturali hanno la necessità di realizzare, anche nel contesto digitale, non solo strumenti per l'orientamento dell'utente, ma anche di studio, analisi e scoperta. L'interoperabilità rappresenta un passaggio obbligato per realizzare un ambiente virtuale dei saperi. Linked open data (LOD), open access (OA) e software open source qualificano e sostengono il discorso. La proposta è scavalcare i muri di separazione tra archivistica, biblioteconomia e informatica, facilitare ancor più il processo di ricerca e aumentare la rapidità di risultati costituiti da dati pertinenti e rilevanti, progettare interfacce semplificate e nuovi strumenti più snelli e meno ridondanti, per essere in grado di offrire servizi bibliotecari di avanguardia con prodotti di ricerca e scoperta web scale. Il libro si focalizza, poi, sull'analisi dello stato dell'arte, in modo da individuare possibili metodologie ottimali e buone pratiche, nonché prodotti chiave e utili standard, in grado di guidare lo sviluppo e l'applicazione dei web scale discovery services. Molto interessanti sono la seconda parte della raccolta, sui Custom discovery systems, e il quinto capitolo Geospatial resource discovery, nel quale sono trattate diverse tipologie di piattaforme disponibili sul mercato, descritte con precisione e nel dettaglio, evidenziando il rapporto costi-benefici. La lettura si rivela utile sia per semplici interessati sia per esperti. In generale, si afferma l'efficacia di un nuovo metodo collaborativo che realizzi un sistema di web scale discovery bibliotecario unico e integrato per un'intera università. Infatti, l'adozione di tale sistema sembra essere tra le principali soluzioni alle differenze tra le biblioteche di uno stesso ateneo, al superamento dell'uso di technology stack, detti anche solutions stack, cioè combinazioni di coding frameworks e linguaggi di programmazione. Il capitolo finale torna sulla gestione delle collezioni, già trattata nella seconda parte del libro. Utile il paragrafo che propone alcune delle migliori prassi, finalizzate a realizzare un nuovo livello di utilizzo del web scale discovery nelle biblioteche e rispondere in modo integrato, pertinente e trasparente, alle richieste e alle necessità dei nuovi utenti. Si delinea la crescente esigenza del social web di connettere i sistemi e scambiare i dati, di sistemi dinamici di e-reference. Nel contesto del libro emerge quanto sia necessario tenersi al passo con i tempi tecnologici, per elevare i servizi di scoperta delle biblioteche quale processo, e non semplice destinazione, in quanto sempre migliorabili e volti ad abbracciare ogni fase della ricerca per rendere più rapidi ed efficaci i tempi e i risultati attesi dagli utenti. Così questo libro si inserisce nel dibattito odierno sull'evoluzione della biblioteca, e dei bibliotecari, come istituto culturale.
Danila Panatta
Università degli Studi dell'Aquila
L'obsolescenza tecnologica, dovuta al ritmo con il quale vengono immessi sul mercato prodotti profondamente rinnovati; la fragilità, per la quale gli oggetti digitali rischiano di non essere più accessibili non appena venga modificata o si corrompa una parte anche piccola del supporto che li ospita; la mancanza di una diffusa consapevolezza dell'importanza delle buone pratiche; l'inadeguatezza delle risorse a disposizione delle istituzioni culturali per adeguarsi ai tempi e rinnovare profondamente il patrimonio documentario, le apparecchiature e i servizi; l'insufficiente preparazione di parte degli operatori, privi di una formazione di base sull'uso delle tecnologie digitali; le incertezze sulle questioni dell'organizzazione e della cooperazione, specialmente ove richiedano un modo nuovo di affrontare le procedure tradizionali e di interfacciarsi con ambienti disciplinari diversi: sono soltanto alcuni dei fattori che pongono seriamente a rischio il patrimonio di dati digitali, che ha raggiunto proporzioni ragguardevoli e che cresce a ritmi vertiginosi. Il digitale costituisce oramai, per molti aspetti della nostra vita, non ultimo quello della cultura, il veicolo quasi esclusivo attraverso il quale la conoscenza viene prodotta e fatta circolare a beneficio di una comunità potenzialmente universale.
Alla luce di queste considerazioni, quella che viene ormai comunemente chiamata la digital curation, ossia la disciplina che si occupa della gestione, della cooperazione, dell'interazione tra risorse digitali, della conservazione, dell'erogazione dei servizi e della formazione degli operatori, assume un ruolo preminente. Anche soltanto considerando le modalità di pubblicazione dei prodotti della ricerca, in cui i link ipertestuali hanno preso il posto delle citazioni e i testi vengono integrati per mezzo di oggetti multimediali che rendono dinamica la loro presentazione e mutevole il loro contenuto, si comprende l'importanza di assicurare all'ambiente digitale quella stabilità e quella durata necessarie per consentire la fruizione a lungo termine di quei prodotti.
Riferendosi al mondo della ricerca universitaria, James Mullins ci ricorda che «ricercatori, informatici e bibliotecari in quanto specialisti dei dati all'interno dei centri di ricerca debbono lavorare in squadra dal momento in cui il progetto di ricerca viene impostato fino a quello della disseminazione dei risultati». In altri termini, la digital curation è una componente inscindibile dell'attività di ricerca e non l'insieme di pratiche messe in atto al termine del progetto allo scopo di assicurare la conservazione nel tempo dei risultati pubblicati. Nel definire queste nuove pratiche si parla del passaggio dalla scienza in vitro a quella in silico, ossia dal banco del laboratorio alla tastiera e allo schermo del computer.
A distanza di sei anni dalla prima edizione del volume, Ross Harvey (Information Management, School of Business IT and Logistics, RMIT University, Melbourne, Australia), questa volta in collaborazione con Gillian Oliver (School of Information Management, Victoria University of Wellington, New Zealand), rielabora il testo e pubblica una seconda edizione che tiene conto degli importanti sviluppi che la disciplina ha subito nel frattempo. Due sono, in particolare, le motivazioni che gli autori adducono nella prefazione. In primo luogo, sono giunti a conclusione progetti che erano ancora in corso d'opera quando quel testo veniva redatto e che hanno condotto alla realizzazione di dispositivi e servizi utili per valutare l'efficacia delle soluzioni elaborate e adottate sino a quel momento. È ancora più significativa l'altra motivazione: il cloud computing è diventata una modalità di archiviazione molto diffusa, anche nell'ambito della valorizzazione dei patrimoni culturali. La sua adozione ha conseguenze rilevanti sia sul versante del modello di costi, sia su quello concernente le soluzioni alle quali affidare l'archiviazione dei dati.
Che la tecnologia del cloud computing presenti caratteristiche che meritano di essere specificamente analizzate lo dimostra, tra l'altro, l'avvio nel 2012 di un progetto di durata quadriennale, Records In the Cloud (RIC), progetto coordinato da Luciana Duranti (School of Library, Archival and Information Studies, University of British Columbia) e frutto della collaborazione tra centri di ricerca nord-americani (School of Information, University of Washington, e School of Information and Library Science, University of North Carolina at Chapel Hill) ed europei (Avdelningen för informationssystem och - teknologi (IST), Mituniversitetet, Sundsval, e Filière Information documentaire, Haute Ecole de Gestion de Genève), con il sostegno di un finanziamento da parte del Social Sciences and Humanities Research Council of Canada.
La ricerca, che sviluppa le attività di InterPARES, ha posto una serie di questioni delle quali coloro che allestiscono e coordinano archivi digitali di qualunque natura dovrebbero tenere assolutamente conto prima di trasferire i propri dati sul cloud e delegare ai providers la responsabilità di garantirne la sicurezza, l'accessibilità e la conservazione a medio-lungo termine. Nel corso degli ultimi anni non sono mancati providers che hanno cessato la propria attività o che hanno cambiato di proprietà, per non parlare dei casi di intrusione da parte di hacker o della cessione di masse di dati sensibili all'insaputa degli interessati, e talvolta anche del gestore del sito ospitante, per finalità poco trasparenti o addirittura criminali. E che dire del fatto che la stessa localizzazione degli archivi sia sovente difficilmente individuabile e che, di conseguenza, i dati che crediamo al sicuro potrebbero trovarsi sotto la giurisdizione di Paesi che prevedano minori tutele nei confronti della riservatezza e dei diritti di accesso, nonché di utilizzazione delle informazioni? Ostacolando o persino rendendo di fatto impossibile la custodia ininterrotta dei dati, tali condizioni ledono questo principio fondamentale dell'archivistica che, assicurando l'autenticità dei documenti, ne consente l'uso a fini giuridici e per la ricerca storica e scientifica. Come ricorda Lodolini, nell'ininterrotta custodia risiede la differenza «fra un documento che è documento d'archivio ed uno che non lo è».
Nel volume di Harvey e Oliver alle questioni riguardanti l'archiviazione e la gestione dei dati nel cloud non viene dedicato un capitolo specifico, ma se ne fa riferimento nell'ambito delle tre sezioni del libro ogni qualvolta esse abbiano rilevanza ai fini della determinazione dei costi, dell'organizzazione dei flussi e delle soluzioni per le tecnologie di archiviazione. La struttura dell'opera, suddivisa in tre sezioni, ricalca da vicino quella dell'edizione precedente, così come sostanzialmente invariati sono finalità e obiettivi. Nella prima parte il volume fornisce il contesto nel quale si articola la digital curation: ne fornisce le definizioni, ne chiarisce le ragioni, passa in rassegna le opportunità, analizza chi e con quali procedure si fa garante della sua attuazione. Esaminando l'ambiente accademico, gli autori rilevano come le nuove modalità della ricerca, unite alla diffusione delle nuove tecnologie, richiedano agli studiosi e, ovviamente anche agli operatori, l'acquisizione a ciclo continuo di competenze più raffinate. La parte più interessante è quella nella quale vengono proposti tre modelli concettuali. I primi due, il Digital Curation Centre (DCC) Curation Lifecycle Model e l'Open Archival Information System [OAIS] Reference Model, sono già stati oggetto di trattazione nell'edizione precedente. Il terzo modello, invece, viene introdotto per la prima volta. Noto come Data Curation Continuum e inizialmente sviluppato presso la Monash University in Australia per finalità didattiche, il modello mette in evidenza la necessità di far coesistere strategie di gestione dei dati assai diverse in ragione della grande varietà di oggetti ospitati in un archivio digitale. Per esempio, usi e applicazioni differenti richiederanno la coesistenza di specifici schemi di metadati, che influenzeranno, a loro volta, la prospettiva di vita dell'oggetto. Vengono distinti tre dominii di attività - privata, condivisa e pubblica - e si individua nei punti di intersezione tra i tre dominii l'elemento di maggiore criticità nelle scelte strategiche dei gestori dell'archivio, in quanto essi debbono prevedere quali dati saranno oggetto di scambio, mediante quali funzionalità e per quali finalità.
Digital Curation ha il merito di fornire una ricognizione completa, benché concisa, delle problematiche connesse alla gestione e alla conservazione dei dati e, sebbene la trattazione assuma come punto di vista le esigenze del mondo della ricerca, la metodologia applicata fa sì che delle riflessioni possano giovarsi anche soggetti operanti in altri campi. È proprio l'aver assunto i modelli concettuali a criterio organizzativo della struttura del testo, infatti, a far sì che i contenuti possano rivolgersi a un'ampia platea di lettori.
Paul Gabriele Weston
Università di Pavia
La prima cosa da dire è che questo agile volumetto è arrivato al momento giusto. Da qualche anno infatti il tema della misurazione della ricerca è centrale nella vita delle istituzioni accademiche. Ma tale tema, che pure è stato oggetto di non pochi interventi nei vari media, non di rado è trattato con una certa approssimazione, se non perfino con superficialità. Il lavoro di Simona Turbanti si pone l'obiettivo di affrontarlo pensando anche a un pubblico al di fuori del ristretto circuito degli addetti ai lavori, mantenendo però un rigoroso taglio scientifico. In parte lo testimonia anche la collana Biblioteconomia e scienza dell'informazione nella quale il libro ha visto la luce, quasi a voler sottolineare l'importanza che la misurazione e la valutazione della ricerca rivestono per il mondo delle biblioteche e - mi permetto di aggiungere - non solo di quelle strettamente accademiche. E qui già si pone una prima riflessione. Se è vero che, kantianamente, conoscere sia in qualche misura giudicare, cioè attribuire un predicato a un soggetto, va da sé che questo giudizio implica che i risultati della ricerca siano costantemente spiegati al di fuori del mondo della scienza. Solo così scienziati e ricercatori saranno percepiti (si spera) come una risorsa per la società. In sostanza, occorre una nuova alleanza tra scienza e società. Tema non nuovissimo se è vero che già quasi quaranta anni fa Ilya Prigogine e Isabelle Stengers avevano intitolato una loro famosa monografia La nouvelle alliance. Métamorphose de la science, poi tradotto in italiano per i tipi di Einaudi. Non c'è bisogno di fare riferimento a vicende recenti, come quella sui vaccini, che sono sotto gli occhi di tutti. In passato gli studiosi non dovevano dar conto alle masse delle loro proprie ricerche. Oggi l'alfabetizzazione e la diffusione del web hanno offerto ai cittadini - almeno teoricamente la possibilità di accedere virtualmente ai laboratori. La comunicazione delle ricerche quindi, ma anche la loro misurazione e valutazione, non riguardano più solo i ricercatori o magari i politici, ma tutta la società. Se non si produce questa nuova alleanza, piuttosto che di digital divide sarebbe più corretto parlare di knowledge divide. Il libro si propone di illustrare strumenti e indicatori per misurare la ricerca, a partire dai database internazionali (Web of Science e Scopus, passando per Google Scholar fino ad arrivare alle metriche alternative). Particolare attenzione viene naturalmente data all'utilizzo che ne viene fatto in molte biblioteche accademiche. La prima parte è dedicata alla descrizione del processo della comunicazione scientifica e a quella che viene definita «cultura citazionale», che prende le mosse dagli indici citazionali di Eugene Garfield. Successivamente vengono presi in esame i database internazionali quali appunto Web of Science e Scopus, da qualche anno divenuti familiari ai ricercatori, ma non altrettanto ai non addetti ai lavori. Passando poi sul terreno più strettamente bibliometrico, l'autrice utilizza ovviamente i risultati del suo precedente lavoro Bibliometria e scienze del libro: internazionalizzazione e vitalità degli studi italiani, (Firenze: Univesrity Press, 2017). Prendendo le mosse da Ranganathan, che già nel 1955 rilevava come per i bibliotecari fosse necessario sviluppare una Librametry, l'ultima parte lancia anche uno sguardo alla funzione delle biblioteche nello sviluppo e diffusione della ricerca, in particolare di quella attiva delle accademiche, che dovrebbero mutare il loro ruolo da outside-in in inside-out, promuovendo i prodotti interni, spesso in formato digitale, sconosciuti all'esterno delle istituzioni di appartenenza. Ma questo tipo di valorizzazione dovrebbe riguardare - a mio avviso - anche altre tipologie bibliotecarie (si pensi alle biblioteche di tradizione e al loro ruolo per le scienze umane e sociali, SSH). Tra le posizioni intorno alla valutazione, che spesso si articolano tra i due poli estremi degli ideologi della valutazione, per i quali tutto si riduce a dimensioni di tipo quantitativo e ideologi dell'antivalutazione che rifiutano qualunque possibilità di stimare in maniera formalizzata la qualità della ricerca, la Turbanti sceglie saggiamente una collocazione mediana. Di grande utilità risultano poi i chiarimenti dati su alcuni semplici concetti, come quello dell'impact factor («maggiore è il numero delle citazioni che rimandano ad un articolo, maggiore è il suo impatto») o come l'indice di Hirsch di uno studioso (pari a n se almeno n lavori sono stati citati almeno n volte ciascuno). Ma anche il semplice scioglimento di sigle come ANVUR o VQR, con relativa spiegazione dei meccanismi e dei vari livelli di valutazione negli atenei italiani, probabilmente non chiari anche a molti bibliotecari, fornita dal libro, sarà una bussola di prezioso ausilio per orientarsi nella giungla degli acronimi e delle pratiche che si sono un po' stratificate negli ultimi tempi. La ricca bibliografia finale, aggiornata al gennaio 2018, offre poi una preziosa base di approfondimento al tema.
Lorenzo Baldacchini
Università di Bologna
Codicologo, paleografo e ricercatore presso l'Università Sapienza di Roma, Cursi si è occupato tra le altre cose della tradizione manoscritta del Decamerone, del Canzoniere e della Commedia, delle pratiche di copie a prezzo e in carcere a Firenze, della scrittura del Boccaccio.
La pubblicazione qui recensita è una panoramica sulla storia dell'oggetto chiamato libro ma che, distinguendo le cinque principali forme che esso ha assunto dall'antichità ad oggi, può essere definito tabula, rotolo, codice, libro a stampa e da ultimo tablet.
Questi termini fanno da titolo ai cinque capitoli in cui è ripartito il testo, e per ciascuna tipologia libraria si delineano gli aspetti caratterizzanti dopo un paragrafo introduttivo che illustra il contesto storico e geografico di riferimento.
L'autore si sofferma sull'analisi dei supporti scrittorii, dei quali descrive la realizzazione e la circolazione, in particolare la preparazione dei materiali per accogliere il testo, come le tabulae dealbatae o ceratae a Roma, la pianta di papiro smembrata in philyrae disposte poi ordinatamente per costituire le plagulae, incollate tra loro a formare il rotolo. Con l'avvento del codice è la pergamena a dominare la scena, almeno fino alla diffusione delle cartiere in Europa dal secolo XII.
La descrizione delle tipologie librarie passa anche attraverso la narrazione del mutamento delle forme grafiche e visuali del manufatto. Nell'antichità l'aspetto è determinato dal numero di tavolette rilegate a comporre dittici, trittici o polittici: è interessante l'analisi condotta sul registro ligneo di spese di Kellis, che per l'impiego delle marcature a V incise sul dorso sembra anticipare l'uso del richiamo nei codici per il corretto ordinamento dei fascicoli in fase di legatura. Oggi poi l'e-book «ha spezzato il binomio - finora inscindibile - tra il piano del testo e quello del libro» come sintetizza l'autore nella prefazione, separando la forma fissa del supporto (il tablet) da quella che può assumere il contenuto, reso immateriale e mutevole da una mise en page fluida tipica di un prodotto ipertestuale e ipermediale.
La realizzazione di libri nell'antichità è caratterizzata dalla fase della trascrizione della copia a buono demandata a scribi di professione, spesso schiavi colti al servizio di retori e letterati; per i codici invece, al periodo altomedievale in cui i principali centri di produzione sono i monasteri con i loro scriptoria segue la rinascita della filologia che diffonde tra i grandi intellettuali dell'epoca la pratica della copia definita da Vittore Branca «per passione». Di contro, l'autore documenta che a Firenze nel Trecento i detenuti possono essere impiegati nelle attività di trascrizione per saldare i loro debiti, guadagnandosi così la permanenza in locali più illuminati e quindi più salubri. Con l'avvento del testo a stampa gli strumenti e i ritmi di produzione diventano quelli dell'officina tipografica.
Cambiano col metodo di fabbricazione anche la diffusione del libro, il suo pubblico e le pratiche di lettura correlate, dall'uso giuridico delle tabulae che pongono in primis l'esigenza di garanzie adversus falsarios, al passaggio epocale dalla figura del committente - che richiede un codice personalizzato e funzionale anche a esigenze di status - al cliente, al quale un'impresa tipografica offre un prodotto a stampa realizzato in serie.
Teorie riguardanti elementi e sviluppi della storia del libro sono confutate o avvalorate da studi anche molto recenti, documentate con testimonianze storiche, archeologiche, artistiche e ovviamente puntuali analisi codicologiche e paleografiche.
I riferimenti bibliografici, l'indice dei nomi e delle cose notevoli, un apparato iconografico essenziale ma esaustivo completano la pubblicazione, facendone un ottimo manuale di agile lettura anche per i non addetti ai lavori.
Alessandra Annunzi
Martinsicuro
Il volume di Chiara Toti ricostruisce, attraverso le vicende biografiche di Alberto Della Ragione, la storia dell'arte italiana del primo Novecento, e lo fa in modo del tutto particolare.
Punti privilegiati di osservazione sono, infatti, le scelte e le relazioni intessute da questo ingegnere di origine campana, poi trasferitosi in Liguria, che consolidò - completamente da autodidatta - le sue conoscenze in campo artistico, diventando un collezionista di un eclettismo arguto e un mecenate per molti artisti italiani a lui contemporanei.
L'opera si presenta, pertanto, come un tributo a un uomo che ha fatto tanto per l'arte italiana, in un momento storico difficile quale fu quello tra il fascismo e la guerra. La sua passione, infatti, lo condusse a intraprendere scelte coraggiose contro il regime, scoprendo e sostenendo nuovi talenti.
Il volume si articola in quattro capitoli che ripercorrono cronologicamente i cambiamenti storico-artistici legati al mondo del collezionismo e delle gallerie d'arte in Italia, dagli anni Trenta fino al dopoguerra.
All'autrice, Chiara Toti, si deve riconoscere il merito di aver condotto una ricerca puntuale e approfondita in archivi su tutto il territorio nazionale, analizzando la corrispondenza tra collezionisti, artisti, critici e mercanti d'arte: testo e paratesto, infatti, testimoniano l'importanza dei rapporti e dell'amicizia che legano personaggi attivi nel mondo artistico italiano dell'epoca.
Nel primo capitolo vengono ricostruiti gli esordi da collezionista di Della Ragione, la situazione del sistema artistico nei primi decenni del Novecento e il nuovo impulso all'arte contemporanea a opera da un lato del regime fascista, con il suo intento monopolistico, e dall'altro di critici militanti, collezionisti e gallerie private, soprattutto a Milano e Genova, che rivendicavano un «controcanto autonomo». A tale proposito è ricordata l'attività svolta dalla Galleria Il Milione di Milano, che valorizzò e creò consenso intorno alla pittura metafisica in Italia. Toti sottolinea le difficoltà del mercato dell'arte e le critiche «alla grettezza del collezionista medio», un sistema, quindi, che necessitava di un cambiamento. Il suo lavoro fa emergere il ruolo nevralgico che svolsero non solo alcune gallerie d'arte private, ma anche i periodici specializzati.
Proprio in questo panorama iniziò a muovere i primi passi Della Ragione, che già dalla Quadriennale del 1931 aveva scoperto la sua passione per l'arte e di cui già emergeva un gusto personale nelle scelte, testimoniato dalla sua prima collezione composta dalle tele di Sironi, Tosi, de Chirico, de Pisis e dalle sculture di Martini. Esperienza rilevante, che gli conferì il ruolo di «strenuo difensore dell'arte moderna», fu la mostra proposta dalla Galleria Genova dal titolo Venti firme in una mostra collettiva 1937 - esposizione organizzata sull'esempio di quella milanese - di cui Della Ragione curerà l'introduzione. L'evento segnò la sua sortita in qualità di esperto, che lo porterà a essere attivo successivamente nel patrocinare mostre, gallerie e aiutare artisti tra Firenze, Genova, Milano e Roma.
Emblematica è la vicenda, riportata nel volume, legata all'Autoritratto di Modigliani, per acquistare il quale Della Ragione rinunciò «con piacere» all'acquisto di una casa.
Nel secondo capitolo, l'autrice ripercorre il passaggio dell'ingegnere da collezionista a vero e proprio mecenate di una nuova generazione di artisti.
Toti sottolinea, tramite l'analisi di corrispondenze e documenti, l'importante ruolo svolto dalle gallerie, soprattutto di Milano e Genova, cui va il merito di aver spostato l'attenzione di critici e collezionisti dalla metafisica a nuove esperienze artistiche. Uno dei centri propulsori della giovane arte italiana sarà la Galleria Spiga e Corrente, rifondata da Della Ragione dopo la chiusura per volere di Mussolini della Bottega di Corrente, «fulcro del movimento intellettuale antifascista». In questa impresa emergono l'impegno profondo dell'ingegnere nel promuovere e sostenere economicamente talenti emergenti, nonché la difficoltà nel gestire le scelte espositive, talvolta foriere di critiche e malumori. Il tutto reso ancor più difficile dal conflitto mondiale, con i bombardamenti in particolare sia di Genova sia di Milano.
Il terzo capitolo mette in luce, attraverso la corrispondenza dell'ingegnere, il rapporto che Della Ragione ebbe con numerosi artisti.
È qui che l'autrice dà maggior spazio all'umanità di questo mecenate il quale, in tempo di guerra, fece della sua casa, a Quarto dei Mille, un luogo di protezione per chi, per qualsiasi motivo, veniva perseguitato dal regime fascista. Tra gli ospiti si ricordano Mario Mafai con la moglie Antonietta Raphäel e le tre figlie, una delle quali Giulia racconta della fornitissima biblioteca dell'ingegnere, nonché Renato Guttuso. Vale la pena riportare qui la citazione, inserita nell'opera, delle parole di Guttuso: «Della Ragione seppe darci ciò che di più avevamo bisogno, la fiducia e l'amicizia. Viveva con noi della stessa passione, si bruciava della stessa fiamma; le sue lettere erano le lettere di un fratello, di uno sposo, di un padre» (p. 127).
Nel capitolo finale vengono descritti gli ultimi anni di attività di Della Ragione, dalla delusione per il fallimento dell'esperienza della Spiga sul finire degli anni Quaranta, fino alle alterne vicende della sua collezione. Le sorti di quest'ultima costituirono un pensiero costante dell'ingegnere. Svanite le ipotesi di Genova e Roma, nell'opera vengono ricostruite le coincidenze fortuite che portarono, grazie alla mediazione di Carlo Ludovico Ragghianti, alla donazione della raccolta a Firenze, città in cerca di riscatto dopo l'alluvione del 1966. Le trattative durarono anni e le opere trovarono un primo allestimento presso Palazzo Bombicci, in Piazza della Signoria, in attesa di una sede migliore. Rimasero lì per trent'anni, senza nessun piano di valorizzazione da parte dell'amministrazione e nel quasi totale disinteresse da parte del pubblico. Esposta parzialmente, la collezione occupa oggi un posto di rilievo presso il Museo del Novecento di Firenze, inaugurato nel 2014, nella speranza che venga finalmente valorizzata e conosciuta.
Un ultimo accenno merita l'appendice che presenta un catalogo ideale delle opere che hanno costituito nel tempo la collezione dell'ingegnere, comprese quelle che vennero alienate. Anche in questo caso l'autrice ha condotto una ricerca sulle fonti, dai reportage di critici d'arte ai cataloghi delle mostre, dai repertori interamente illustrati con opere provenienti da collezioni private alle esposizioni cui il nostro collezionista partecipò prestando tele. Nel catalogo per ogni opera è stata redatta una scheda tecnica con i dati relativi, una riproduzione, una bibliografia essenziale e l'indicazione delle esposizioni.
Toti con quest'opera permette al lettore di conoscere l'attività, poco nota, di un collezionista appassionato che tanto ha fatto per l'arte italiana, rappresentando un esempio coraggioso di chi ha saputo investire sui giovani e sulle loro capacità artistiche.
Il lavoro risulta particolarmente di pregio non solo dal punto di vista storico-artistico, ma anche per la profondità e puntualità dell'analisi svolta. L'autrice con il suo studio ha dato il suo importante contributo; ora sta alle amministrazioni valorizzare al meglio l'eredità di questo nostro mecenate.
Desirée de Stefano
Biblioteca nazionale centrale di Roma
Che riscostruire la storia delle pratiche di lettura sia operazione tutt'altro che semplice è cosa ormai - credo - comunemente accettata. Anche sulle ragioni di tale difficoltà, a suo tempo individuata proprio dagli studiosi che per primi si sono inoltrati in questi territori inesplorati e anche un po' infidi, non c'è molto da aggiungere. Attività prevalentemente, anche se non esclusivamente, solipsistica, la lettura non lascia tendenzialmente troppe tracce visibili di sé. Da ciò deriva la scarsità di documentazione di cui dispone generalmente lo storico della lettura, il cui lavoro spesso somiglia a quello di un archeologo che cerchi di ricostruire il pensiero di un uomo preistorico. Ogni piccolo indizio va scrutato, soppesato, valutato, tenendo ben presente il rischio di non poter approdare a conclusioni definitive e organiche. A questo tipo di rischio non si sottrae il volume curato da Luca Rivali, che raccoglie gli atti della giornata di studi dall'omonimo titolo, tenuto presso l'Università Cattolica a Brescia l'8 maggio del 2015. La parola lettura campeggia all'inizio del titolo, affiancata però prudentemente ai libri e inquadrata opportunamente nei contesti di scuola, chiostro, biblioteca. Il sottotitolo poi chiarisce ulteriormente che l'oggetto sono libri e lettori a Brescia tra Medioevo ed Età moderna. E in effetti i nove saggi dei quali si compone il volume ci parlano molto di libri, alquanto di lettori e poco - ma era inevitabile - di lettura.
Carla Maria Monti esamina tre manoscritti, uno autografo, di Francesco Marerio, fornendoci dei parametri entro i quali inquadrare gli interessi culturali di questo vescovo umanista, i cui orientamenti sono anche in parte rivelati dalla sua scelta di adottare come scrittura la littera antiqua. Francesca Carleschi si occupa del Breviario miniato della Biblioteca Queriniana (ms. A V 24) attribuibile all'ambiente francescano in un'epoca compresa tra il 1292 e il 1317. L'analisi prettamente storico-artistica del codice conduce la studiosa a individuare nei rapporti tra la Curia Romana e l'ambiente umbro della seconda metà del XIII secolo l'ambito nel quale il manoscritto, con le sue ricche miniature, fu commissionato e realizzato. All'ambiente culturale della Brescia del XVI secolo ci introduce il saggio di Bernhard Schirg. In particolare vengono analizzati i rapporti tra Pietro Lazzaroni, docente di retorica e poetica a Pavia e il suo studente Bernardino Bornato, mettendo in luce i debiti di quest'ultimo verso il suo maestro nelle sue numerose opere a stampa di genere panegirico. Dello stampatore Tommaso Ferrando si occupa Alessandro Tedesco. Ma non solamente in relazione alla sua attività tipografica. Vengono infatti esaminati i libri di Lettere da lui scritti e/o stampati. Questi libri testimoniano che il Ferrando fu anche insegnante e tentò a lungo, ma senza successo, di essere chiamato come precettore del figlio di Galeazzo Maria Sforza a Milano. Giuditta Campello ci riconduce nell'ambiente dell'umanesimo bresciano del Quattrocento analizzando l'unica copia del Vocabularium di Giovanni Boccardo (Pilade Bresciano) presente nel Seminario Arcivescovile di Venegono, stampata a Milano da Ambrogio da Caponago, con i tipi di Alessandro Minuziano. Una miscellanea (incunabolo 803) della Biblioteca Teresiana di Mantova, appartenuta in origine a Marino Becichemo, è invece l'oggetto del lavoro di Andrea Canova. Becichemo, albanese di origine, fu docente di grammatica nelle scuole di Brescia e Venezia e successivamente di retorica nell'ateneo patavino. Nella miscellanea sono contenute quattordici edizioni a stampa e un manoscritto. L'esame dei testi e di nuovi documenti d'archivio contribuisce a conoscere meglio la biografia di questo personaggio e i suoi turbolenti rapporti con i fratelli Britannico, tipografi a Brescia, dai quali subì non poche scorrettezze che lo portarono a rivolgersi come editore ad Antonio Moretto a Venezia. A Giovanna Bernini dobbiamo il lavoro su Tommaso Lamberti, fisico vissuto a Brescia alla fine del XV secolo, e la sua biblioteca. Partendo dalla copia del Calendarium di Regiomontano (Venezia, 1476) è stato possibile individuare altri libri della sua biblioteca: un manoscritto miniato delle Concordantiae Evangelicae di Eusebio di Cesarea (oggi alla Queriniana) e l'incunabolo di Ottaviano Scoto (Venezia, 1480) Scriptum in artem veterem Aristotelis et in divisione Boethii (oggi alla Braidense). Originale il contributo di Barbara Bettoni che prende le mosse da una serie di inventari di libri e di altri beni mobili di Francesco Gambara (1575-1630), esponente non tra i più famosi della nota famiglia bresciana. La studiosa cerca di ricostruire con esiti interessanti l'evoluzione dei legami tra i libri, gli spazi domestici e gli arredi. Un filone di ricerca che meriterebbe di essere sviluppato. Di carattere prevalentemente biografico è il lavoro di Marco Zanini sui rapporti letterari tra la poetessa bresciana del Settecento Camilla Solar d'Asti Fenaroli, un poema della quale è conservato in un elegante manoscritto della Fondazione Ugo da Como di Lonato, e il poeta Giovanni Alvise Mocenigo, fatti soprattutto di versi amorosi. Forse non sarebbe stato inutile tentare di individuare un filo conduttore tra i nove saggi, tutti comunque di buon livello, magari con un'introduzione più corposa.
Lorenzo Baldacchini
Università di Bologna
Perché una collana editoriale per ragazzi fu intitolata «La Scala d'oro»?
Tra il 1932 e il 1936, in piena epoca fascista, la Utet - storica casa editrice torinese - mise sul mercato italiano uno dei migliori prodotti per ragazzi: 93 libretti raccolti nella collana «La Scala d'oro» caratterizzati da un'accurata scelta di testi di qualità, un'accattivante veste grafica e un alto livello illustrativo capace di affascinare i giovani lettori. Ecco perché d'oro: per il grosso lavoro di ricerca e curatela condotto appositamente, ma forse anche perché la letteratura per l'infanzia era diventata ormai da tempo un'importante fonte di introiti per le case editrici e per gli autori. Inoltre la formula ideata da Errante e Plazzi incontrò immediato successo e fu additata per tutto il Novecento come esempio riuscito di sintesi di queste caratteristiche.
Scala invece perché la collana era suddivisa in otto serie destinate ciascuna a una fascia d'età, dai sei ai tredici anni; la successione dei gradini da salire era chiaramente individuata per distinzione di contenuti, linguaggio, caratteri tipografici e illustrazioni, grazie ai quali poter seguire passo passo lo sviluppo del bambino. Questi elementi a supporto della gradualità furono esplicitati dagli ideatori nei prospetti pubblicitari inseriti in pagine su carta azzurra cucite di volta in volta alla fine dei libri della collana, in continua evoluzione.
La lettura del libro La scala d'oro. Libri per ragazzi durante il fascismo si apre con un'introduzione che fa capire le citate motivazioni alla base della scelta del titolo della collana oggetto del saggio. Diviso in due parti (I testi e Gli autori) ricche di curiosità quali le caratteristiche comuni dei testi nel modo di raccontare la scienza ai ragazzi o i criteri di scelta dei collaboratori scientifici da parte dei direttori che provenivano invece dal mondo umanistico, il volume si chiude con un'appendice che contiene i prospetti pubblicitari succitati e una descrizione bibliografica dei volumi della prima edizione.
Tra le firme autoriali della collana si leggono Marino Moretti, Eugenio Treves e Leo Pollini con il volume fuori serie Guerra e Fascismo spiegati ai ragazzi.
Si tratta di una lettura più scorrevole per chi è appassionato di letteratura per l'infanzia e storia, considerata anche la mole non proprio esigua del libro, che conta poco più di trecento pagine. Testo di studio consigliato per la preparazione dell'esame universitario di Storia del libro e dei sistemi editoriali, è curioso da leggere con gli occhi di bibliotecario per l'aspetto di ricerca e analisi dei materiali di studio (ad esempio fondi archivistici, fascicoli di corrispondenza di amici, letterati ed editori e archivi personali) e per la ricostruzione storica della collana, constatato un problema di reperimento delle fonti: l'archivio storico della Utet fu infatti colpito dai bombardamenti della seconda guerra mondiale, con dispersione sia della documentazione amministrativa (tra cui i contratti tra direttori ed editori) che della corrispondenza tra la casa editrice e gli autori.
La scala d'oro. Libri per ragazzi durante il fascismo è un volume che ha poco più di due anni e presenta i dati di una ricerca conclusa che ha indagato sulle diverse fasi di realizzazione della collana oggetto di studio, concentrandosi sulla sua prima edizione in un progetto davvero coerente e puntuale.
Francesca Maserati
Fondazione per Leggere
Dalla metà degli anni Ottanta del secolo scorso la comunità dei bibliotecari italiani ha messo in rilievo sempre più apertamente l'esistenza di un interesse di tipo nuovo per la storia delle biblioteche e della biblioteconomia, che sentiva come limitativo il semplice riferirsi alla storia delle biblioteche in quanto storia dei singoli istituti o storia delle raccolte in essi contenute, e percepiva come non del tutto soddisfacente quello della loro nascita ed evoluzione in senso istituzionale: come auspicato nel 1985 sul «Bollettino Aib» da Daniele Danesi, i rapporti fra la storia delle biblioteche e la storia della biblioteconomia erano destinati a mutare radicalmente grazie agli apporti di altri campi d'indagine, come la storia della professione e le biografie dei bibliotecari.
Da allora, la crescita degli studi di carattere storico, e anche storico-biografico, è stata costante, fino a che le ricerche sulla storia dei bibliotecari conquistarono, letteralmente, una tavola rotonda dedicata esclusivamente a questo tema, coordinata da Graziano Ruffini e intitolata Bibliotecari: duemila anni di continuità, al 46° Congresso AIB di Torino del 2000.
Ne sentiamo un'eco nella pregevole prefazione di Ruffini stesso a questa raccolta di scritti di Mauro Guerrini (ma anche di altri autori, fra cui Gianfranco Crupi, Stefano Gambari, Michael Gorman, Diego Maltese), curata con competenza e passione da Tiziana Stagi.
Diceva allora Ruffini che la storia della nostra professione doveva essere tracciata «non già per institutiones, ma per homines», riprendendo esplicitamente quanto già affermato da Alberto Petrucciani nel corso del convegno del 1999 dedicato dall'Università di Udine a Virginia Carini Dainotti, che ha costituito a tutti gli effetti il più importante punto di snodo per la riflessione sulla politica bibliotecaria del nostro recente passato: «"Storia della professione bibliotecaria" è un'etichetta non molto attraente, eppure espressioni a prima vista più presentabili come "storia delle biblioteche" e "storia della biblioteconomia" mi sembra che rivelino, in un caso come questo, limiti e sfocature, dato che pongono in primo piano gli istituti e le teorie piuttosto che il più degno e interessante oggetto di storia, ciò che donne [...] e uomini hanno fatto nel mondo e nel tempo».
Mauro Guerrini apre la raccolta con una bella frase di Ranganathan che riassume proprio questo percorso: «Fino a quando l'obiettivo principale di una biblioteca fu la conservazione dei libri, tutto quello che si pretese dal suo personale fu che fosse costituito da guardiani capaci di combattere i quattro nemici dei libri: fuoco, acqua, parassiti e uomini [...]. Ci volle davvero molto tempo perché si comprendesse che era necessario un bibliotecario professionale».
E dunque - come è naturale - in questo volume le biografie dei bibliotecari si incrociano con tutta una serie di argomenti biblioteconomici, fra teoria e prassi, che costituiscono nel loro complesso la storia della biblioteconomia.
Persone e idee, come indica il sottotitolo, insieme ai linguaggi che consentono l'espressione del pensiero, danno forma alle competenze professionali, ma disegnano anche le visioni, danno corpo alla missione delle biblioteche e dei bibliotecari.
Sottolinea Ruffini nella sua introduzione che più che come raccolta di scritti, ognuno dei quali inevitabilmente legato a una occasione particolare o a un periodo determinato, il volume di Mauro Guerrini, anche grazie alle cure di Tiziana Stagi, si presenta al lettore come un'opera nuova, una vera e propria storia della biblioteconomia moderna, in cui i singoli contributi si dispongono a formare le parti dell'opera stessa.
La prima di queste cinque parti si intitola La figura del bibliotecario. Si tratta di otto contributi, usciti dal 2004 al 2010, alcuni scritti in collaborazione, e uno (Etica del bibliotecario e Codice deontologico) di Gianfranco Crupi e Stefano Gambari, già pubblicato nel 2007 in Biblioteconomia: guida classificata. Anni cruciali, questi, che pongono al centro della scena l'impegno di Mauro Guerrini come Presidente dell'AIB (2005-2011), nei quali - spontaneamente - la riflessione si concentra sulla deontologia del bibliotecario, la professione che la sua figura doveva rappresentare, nella sua complessità, al cospetto della comunità nazionale e internazionale.
I due mandati di Guerrini all'AIB sono dominati, nella memoria di tutti i bibliotecari italiani, dal Congresso IFLA del 2009 a Milano, un evento molto importante per la cultura del nostro paese che ha ospitato di nuovo, dopo quasi mezzo secolo, il mondo delle biblioteche: ne rimane un ricordo vivissimo sul sito dell'IFLA, nel bel reportage curato con Vittoria Bonani, dal titolo IFLA in 70 scatti: culture, tradizioni e biblioteche a confronto, che vale più di tante parole a spiegare anche quello che è il tema del secondo capitolo dell'opera, Più avanti delle biblioteche: i bibliotecari italiani e la professione ancipite. Perché proprio in quelle immagini, a 150 anni dalla nascita della nuova Italia, si conferma che i bibliotecari italiani sono ancora «più avanti delle biblioteche», allora come ora.
Il capitolo, dedicato ai grandi nomi della biblioteconomia italiana fra Otto e Novecento, si apre significativamente con Torello Sacconi, prefetto della Biblioteca nazionale di Firenze che, dopo aver lasciato il servizio attivo nel 1885, ebbe dal Ministero l'incarico di ispezionare le biblioteche comunali italiane che avevano ricevuto i fondi ecclesiastici devoluti in base alla legge del 1866 sulla soppressione delle congregazioni religiose. I risultati di tale ispezione, pubblicati per la prima volta nel 1998 da Paolo Traniello (Guardare in bocca al cavallo: devoluzioni di raccolte ecclesiastiche e problemi delle biblioteche comunali in una relazione inedita di Torello Sacconi (1887), «Culture del testo», n. 10/11 (1998), p. 129-142) mostrano - carte alla mano - un'allarmante mistura di disinteresse, incompetenza e inconsapevolezza da parte degli amministratori pubblici, a fronte della cultura biblioteconomica e gestionale già maturata sul campo dall'anziano bibliotecario toscano reduce dalle guerre d'indipendenza.
Una dimensione professionale pienamente consapevole caratterizza anche la figura di Guido Biagi, il primo bibliotecario italiano che ha saputo interpretare e tradurre, anche nella pratica quotidiana, la cultura biblioteconomia anglosassone, traghettandola in Italia: direttore della Biblioteca Marucelliana e animatore nel 1896 della Società bibliografica italiana, introdusse l'uso della macchina da scrivere (una Hammond di fabbricazione americana) per compilare le schede di catalogo, le cui istruzioni furono tradotte a beneficio dei colleghi dalla prima donna bibliotecaria italiana, Giulia Sacconi Ricci, la figlia di Torello.
Non potevano mancare, in questa parte del volume, una riflessione sul magistero di Francesco Barberi, definito giustamente da Guerrini il talent scout delle nuove leve della biblioteconomia italiana, il consigliere ideale per l'affermazione della moderna figura del bibliotecario professionista, libero dalle secche del dilemma fra il lavoro quotidiano e l'interesse per gli studi (due aspetti di un'entità unica: la professione ancipite, appunto), né la memoria di Virginia Carini Dainotti, che ha portato in Italia la concezione anglosassone della biblioteca pubblica, come istituto della democrazia al servizio di tutti i cittadini, senza distinzioni, e naturalmente quella degli illustri maestri a noi più vicini: Emanuele Casamassima, grande studioso, ma anche bibliotecario militante ed eccellente organizzatore nell'emergenza dell'alluvione del 1966 a Firenze, Luigi Crocetti, raffinatissimo intellettuale al servizio delle biblioteche e del libro, Diego Maltese e il suo fondamentale ruolo nel dibattito biblioteconomico nazionale e internazionale a partire dai principi di Parigi del 1961, fino a Carlo Revelli, Nino Aschero, Alfredo Serrai.
Il terzo capitolo è centrale nel mettere a fuoco la passione di Mauro Guerrini per la catalogazione e per quel flusso ininterrotto di dibattito, di riflessione, di aggiustamenti, che ha caratterizzato la biblioteconomia internazionale dalla pubblicazione, nel 1841, delle Regole di Panizzi, a quella che è stata definita da Michael Gorman the great tradition, consolidata attraverso il lavoro di Jewett, Cutter , Dewey, e anche - ma in un filone a sé - di Ranganthan.
In questa parte troviamo i saggi sicuramente più noti di Mauro Guerrini - alcuni anche scritti in collaborazione con colleghi e amici - su Domanovsky, Tom Delsey, Svenonius, fino alla famosa intervista a Barbara Tillett uscita sul «Bollettino AIB» nel 2005.
La quarta parte (Effemeridi: omaggi e ricordi) potremmo leggerla come una raccolta di dediche, affettuose e ricche di empatia, per colleghi italiani e stranieri che lavorano con passione e tenacia, in questi anni non proprio facili, come l'amico Klaus Kempf della Bayerische Staatbibliothek di Monaco di Baviera o padre Silvano Danieli, direttore della Biblioteca della Pontificia facoltà teologica Marianum, e per altri che ci hanno lasciato.
Un solo saggio, infine, occupa la quinta parte del volume, intitolata Per una riflessione finale e come stimolo a pensare il futuro.
Tratto dalla presentazione della traduzione italiana de I nostri valori di Michael Gorman (2002) e dalla prefazione all'altro volume di Gorman, La biblioteca come valore (2004), Guerrini rilancia l'idea di un dialogo aperto, a partire da una figura di rilievo della biblioteconomia contemporanea, sui grandi temi centrali della nostra epoca, nella quale - per echeggiare il titolo del primo paragrafo - «il mondo si rovescia», a causa della rivoluzione tecnologica, per la sovrabbondanza incontrollata delle risorse informative, per gli effetti del digital divide e per la paura di nuove forme di discriminazione.
È molto significativo che questa raccolta (o opera nuova) si chiuda con un testo dedicato a un autore come Michael Gorman che da molti anni ci invita a riflettere, oltre che sulle biblioteche, la loro funzione e il loro divenire, anche sulle tendenze e sulle mode dettate da urgenze (spesso false, o falsate) tanto tipiche dei nostri tempi, indotte a bella posta e pronte a essere rapidamente superate da nuove, futili emergenze, anche queste tanto spinte, quanto volatili.
Il futuro delle biblioteche e della biblioteconomia è oggi più che mai legato a doppio filo alla crescita personale di tutti i cittadini, all'aumento delle competenze, al maggiore esercizio dello spirito critico: volumi come questo rappresentano uno stimolo a riscoprire le origini, la tradizione, i percorsi - anche accidentati - della storia, per consentirci di proiettare consapevolmente i «nostri valori» nel futuro.
Simonetta Buttò
ICCU