Fuga dal Novecento:
su The game, la rivoluzione digitale, e altre catastrofi

di Paola Castellucci

L’assenza

Le regole di un gioco da tavolo, Taboo, prevedono che due squadre si sfidino in una gara di abilità retorica: indovinare parole, descritte senza usare i termini che maggiormente le caratterizzano. Un giocatore per ciascuna squadra, prescelto per ‘suggerire’, deve star ben attento a non infrangere i divieti. Ad esempio, se si elegge come parola ‘computer’, vanno escluse ‘informatica’, ‘digitale’, ‘internet’, ‘web’, ‘rete’. Così infatti definiremmo il computer, ora; e quindi queste sarebbero le parole assenti, ora. Ma all’epoca, negli anni Ottanta, quando Taboo è stato diffuso, alcuni di questi nomi e oggetti neanche esistevano e verosimilmente le parole tabù sarebbero state ‘calcolo’, ‘calcolatore’, ‘telematica’, ‘cibernetica’, ‘elaboratore elettronico’. La velocità dello sviluppo tecnologico, e dell’informatica in particolare, ha conseguenze immediate sul lessico. Le regole del gioco sono rimaste le stesse, ma le parole cambiano, in relazione alle dimensioni del fenomeno, agli attori. Le parole tabù (termine accettato dal correttore automatico) non solo vanno individuate e concordate in ogni partita, ma sono soggette a volatilità, obsolescenza, ogni qual volta cambia il contesto spazio-temporale di Taboo (termine sottolineato dal correttore automatico e tuttavia dominante, poiché appartiene alla lingua della cultura egemone). Con Taboo si mette quindi in scena il vocabolario, tutte le parole del mondo, ‘nel’ mondo, decidendo di volta in volta cosa collocare al centro del gioco, tenendo conto della velocità con cui gira il mondo, del punto di osservazione e dei cambiamenti determinati dall’apparizione di nuovi oggetti, appena battezzati, oppure dalla scomparsa di vecchie parole o dalla sedimentazione di nuovi significati. Occorre poi notare che, come nel gioco dei mimi, viene introdotto anche il silenzio, ossia una difficoltà, un’assenza, per rendere avvincente la contesa. Certo, si tratta pur sempre di un passatempo semplice, antico, soprattutto se – aiutati come al solito da Wikipedia – ci riferiamo all’atto di nascita di Taboo: scopriamo allora che quel nostro ricordo del passato, quel ‘gioco di società’, quel ‘gioco di ruolo’ – come si iniziava a dire – è stato prodotto in California nel 1989, quando in quel momento, in quel territorio, era ormai scoppiata la rivoluzione digitale, il grande gioco, the game, come lo chiama – in inglese – Alessandro Baricco1.

Dopo aver deciso quale fenomeno descrivere (la rivoluzione digitale), anche Baricco gioca con noi lettori a Taboo escludendo dalla narrazione i concetti troppo semplici e d’uso comune. Semmai suggerisce parole nuove, muovendosi tra saggistica e narrativa, esercitando intelligenza critica ed immaginazione, dosando detto e non detto, interpretazioni e intuizioni, equilibrando conoscenza ed emozione. D’altra parte, costruire l’argomentazione come un abile ‘gioco’ con il lettore è una regola fondamentale del racconto – e anche del racconto filosofico, come appunto può essere considerato The game. Dalla tradizione del racconto filosofico, come dalla tradizione del racconto, Baricco assorbe le strutture portanti e mescola le regole: rende saggistico il racconto e romanzesco il saggio.
Baricco quindi per prima cosa esclude le parole che maggiormente identificano il fenomeno: la rivoluzione digitale. E già in questa operazione è necessario un accordo, relativo all’operazione di identificazione e selezione del tema da trattare. L’indizio che ricaviamo è che della ‘rivoluzione digitale’ possa essere fatta storia e storie. Segno che ormai si è aperta una certa distanza critica ed emotiva tra il tempo della storia e il tempo del racconto. Forse la rivoluzione si è proprio conclusa, e ci troviamo in una fase normalizzante e costituente. La seconda operazione riguarda il titolo che certo non appare come un cartiglio immediatamente parlante ed è semmai criptico quel tanto che basta per far scattare la curiosità. E poi, lungo tutto il libro, Baricco riconosce le parole che ‘un tempo’ sarebbero state usate per definire la rivoluzione digitale e, proprio perché note, e forse anche logorate, le elimina, le considera tabù, e le sostituisce con parole ‘nuove’. Parole che magari fino allora erano ‘assenti’ dal vocabolario del lettore. Parole scelte per evocare piuttosto che per affermare esplicitamente, e che pertanto coinvolgono in una modalità attiva di lettura.

Ma come si fa ad analizzare la rivoluzione digitale senza voler/poter usare le parole tipiche, le parole a cui siamo abituati? Equivale a dire che si vuole scrivere di una rivoluzione senza utilizzare le categorie portanti del Novecento. Proprio questa è infatti una delle tesi del libro: chi ha fatto la rivoluzione digitale voleva sovvertire il mondo precedente, voleva fuggire dal Novecento. Ora sono cambiate le regole, e dunque anche Baricco usa le nuove parole che esprimono i nuovi valori.

Baricco svela il suo gioco non in The game ma nel ‘sequel’, The game unplugged, un commentario all’urtext ad opera di dodici giovani apostoli2. Seguendo un antico costume, Baricco ‘premia’ i lettori più costanti: hanno superato le 324 pagine di The game e, mossi ancora dal desiderio di ascoltare, hanno affrontato anche la versione unplugged; ed è proprio lì, alla fine di altre 294 pagine, quando Baricco chiude la struttura circolare del dittico e riprende la parola per commentare i commentatori, ecco, nel momento in cui il gioco termina, i lettori apprendono la regola che ha sostenuto la struttura argomentativa. Possono così pensare, retroattivamente, al percorso di lettura appena compiuto, e magari ipotizzare di tornare indietro ad alcune ‘caselle’, magari saltandone altre, o restando ‘fermi un giro’. Come nel gioco dell’oca, nell’incessante opera di lettura, rilettura, scrittura, riscrittura, i giocatori sono coinvolti ora con funzione di autore, ora di lettore. O, anche, con entrambi i ruoli, esercitati contemporaneamente.

Anche Umberto Eco, commentatore di se stesso, svela che il significato del titolo Il nome della rosa era stato posto nelle ultime righe del romanzo, come ‘rosa’, come premio al lettore che aveva svolto tutto il tragitto penitenziale, tutto il percorso di lettura3. In maniera analoga, Alessandro Baricco – che identifica proprio in Eco, gamer della prima ora, la nascita della nuova narrativa, al confine tra saggio e racconto – gratifica il lettore che ha superato tutti gli ostacoli, svelandogli la regola del gioco4. Baricco lascia così intuire che la narrazione-gioco non avrebbe potuto dispiegarsi se non ci fosse stata l’interattività (usiamo un termine della rivoluzione informatica, del game). Solo il lettore che sa che al centro di ogni narrazione c’è un non-detto, un vuoto che solo lui – il lettore – può colmare provvisoriamente con personali interpretazioni, ebbene solo quel lettore che dà corpo alle omissioni di Baricco riesce ad arrivare alla fine del game. Certo, anche lettori meno consapevoli possono apprendere, dilettarsi. Baricco non scrive per un lettore ideale ma sembra semmai proporsi ‘per tutti’, utilizzando un linguaggio talvolta informale, con parole gergali, intercalari e perfino qualche scurrilità, il tutto con effetto di mimesi del parlato, dal tono giovanilistico e giocoso (il che, in effetti, rende ancora più evidenti i momenti di filosofica riflessione). Ma soffermiamoci su quel particolare lettore, sottoposto alla dura disciplina del Novecento; un lettore postmoderno allenato da formalismo, strutturalismo, semiologia, media studies, decostruzionismo, cultural studies, postcolonialismo, gender studies… Proprio perché così allenato, affronterà il game con maggiori possibilità di vincere? Ma vincendo la partita non rischia di perdere il piacere del testo, dell’infinito intrattenimento, per dirla proprio con le parole di Roland Barthes e Maurice Blanchot, maestri della lettura? Quel lettore novecentesco, istruito, consapevole, che cerca la profondità, è attirato dal vortice, da mistero celato nelle storie: è attratto dall’assenza5. Quando il libro sta per chiudersi, quando sta per apparire la scritta game over, quel lettore si vede premiato e sente il gusto di aver capito, da solo, che la regola del gioco era lasciare una casella vuota, e saltare e tornare indietro. E in quei vuoti e in quel non detto poteva collocarsi la sua abilità euristica.

Così, infatti, Alessandro Baricco si sofferma su chi gli fa notare che in The game non appare mai la parola ‘capitalismo’. E come si fa a parlare di rivoluzione digitale senza nominare la chiave interpretativa utilizzata per ogni grande evento del Novecento? Ma per Baricco quella è una parola tabù proprio perché ha connotato il Novecento, quell’epoca che il game intende riformare:

In The Game la parola «capitalismo» non compare neanche una volta. Esistono lettori per cui questo equivale a scrivere Moby Dick senza la balena. Lo capisco.
Ma sulla questione nutro le mie convinzioni, che non chiamo certezze solo per buon gusto. La prima riguarda il metodo. The Game è, quasi integralmente, un manuale di anatomia: studia il funzionamento di un corpo, anche se qui il corpo è una civiltà. Per questo tipo di studio, l’inflessione morale o politica di quel corpo conta fino a un certo punto: non nel senso che non conti in assoluto, ma nel senso che in quel momento può solo rendere opachi i risultati della ricerca6.

Torniamo un attimo indietro. Come ha fatto il commentatore a notare l’assenza di ‘capitalismo’? Ha letto forse in versione e-book, ha azionato la funzione ‘Trova’ di Word? Ed è vero? O piuttosto si tratta di una trovata retorica, del commentatore, o dell’autore stesso, per spingere noi a rileggere, per controllare se è vero? E ancora – rimanendo sul piano della ‘verità’, concetto certo non agevole se dovessimo considerare The game una narrazione – potremmo allora chiederci se Baricco non se ne sarebbe accorto se qualcuno non glielo avesse fatto notare, nel sequel. O invece Baricco lo avrebbe comunque svelato nelle interviste, o nelle presentazioni del libro? In definitiva, potrebbe trattarsi di un gioco narrativo, ossia una falsa disputa tra autore (collana Big) e umili, giovani, commentatori (collana Stile libero), per tenere ancora desta l’attenzione sul libro.

O forse si può dire ‘capitalismo’ in altri modi. O forse era nelle regole del gioco che Baricco non dicesse la parola chiave ma la indovinassero gli altri, i compagni di gara, come in Taboo. È un metodo, una tecnica retorica, vuole verificare se qualcuno riesce a scoprirlo. The game unplugged, il sequel, allora non solo aveva la funzione saggistica di approfondire temi relativi alla rivoluzione digitale (ad esempio il successo delle serie TV fruite su computer, i temi della cybersicurezza e sorveglianza, il dominio degli algoritmi, la pervasività dei social network, la prospettiva di gender, etc.); ma aveva anche la funzione narrativa di svelare, metadiscorsivamente, i misteri rimasti irrisolti. Come in un giallo, si scopre tutto alla fine. D’altra parte, i generi si sono mescolati, e ci sono ormai – sin dai tempi del già citato Umberto Eco – saggi in forma di giallo, oppure, come in questo caso, saggi in forma di gioco, di rebus, di videogame, meglio. Baricco lo definisce un ‘manuale di anatomia’, riferendosi dunque a uno strumento di studio agli antipodi di un game. Ma, appunto, ormai i generi si confondono: narrazioni e saggi, finti giochi e veri manuali, ma anche falsi manuali di anatomia e veri racconti filosofici – e come tali politici, perché studiano il corpo sociale – opere che mescolano al piacere di narrare e raccontarsi quello di istruire e indirizzare.

Ecco l’obiettivo di ricerca, ecco il metodo, afferma Baricco, critico di se stesso. Chi toglie dalla vista, apre la caccia (e d’altra parte Moby Dick, davvero, non c’è, non è afferrabile, e dunque lo stesso Melville omette la balena e semmai interagisce solo con la sua assenza)7. Ma basta essere assenti per non essere? Le parole assenti sono comunque presenti, quell’assenza è lì, al centro della storia. L’omissione della parola tabù, ‘capitalismo’, non esclude il concetto, anzi lo evidenzia: fa vuoto intorno, fa silenzio, per sottolinearlo. Perché Baricco non vuole solo comunicare ma narrare. Un saggista non nasconde la parola, vuole che venga capito tutto. Un saggista ha bisogno di dire con parole chiave, di testimoniare con note l’uso delle fonti; in definitiva, se il saggista punta a spiegare, a farsi capire, il narratore vuole capire e indurre i lettori a darsi autonomamente delle spiegazioni. L’‘assenza’ sottolinea pertanto che è ormai caduta ogni distinzione di genere tra saggio e romanzo perché il saggista vuole essere sicuro di essere capito, e quindi non omette; mentre l’artista vuole anche giocare con i suoi lettori, vuole mostrare e nascondere: aspetta di essere trovato e che così il lettore trovi se stesso. Parole troppo oscure non restituiscono informazione, ma in letteratura sì – ed emozione, anche.

Come in un moderno esercizio di stream of consciousness, Baricco descrive e racconta; pratica quei territori di confine tra saggio e romanzo, tra scrittura e immagini, e mappe; si riferisce a eventi epocali, ma anche a episodi della vita quotidiana, e perfino autobiografica, e rimanda a film, a serie TV, a canzoni e rapper e mix. La potremmo chiamare docufiction, bioepic, e in molti altri modi ancora. «Scrivere Moby Dick senza la balena» non è dunque il metodo tipico dei manuali di anatomia, semmai è caratteristico dell’arte, e in particolar modo delle avanguardie, o del manierismo. Pensiamo ad esempio ai ‘giochi’ dell’Oulipo, alle gare a chi componeva la più bella poesia senza usare, mettiamo, la lettera P. Il virtuoso vuole porsi delle difficoltà, dei limiti, per evidenziare maggiormente la bravura. E poi – lo dimostra la ‘letteratura dell’assenza’, categoria critica diffusasi in quegli stessi anni Ottanta – il divieto crea un silenzio, e insieme una fascinazione. Proprio sull’orlo di quel cratere si affaccia il lettore ammaliato dalla percezione del vuoto, risoluto ad arrivare a sciogliere il mistero. Si metterà lì e leggerà e seguirà la storia e troverà il pezzo mancante, e così capirà la trama in gioco.

E poi omettere alcune parole è – ancor prima che una tecnica narrativa – una strategia euristica. Come facciamo quando cerchiamo le parole da inserire come chiave di ricerca in Google: evitiamo parole comuni per evitare di essere sommersi da information overload, ossia da troppe, e come tali ingestibili, risposte; d’altra parte, anche la scelta di parole eccessivamente specifiche, o perfino criptiche, si rivela rischiosa, perché potrebbe dare come risultato ‘zero’. Dobbiamo pertanto trovare un bilanciamento tra ‘troppo’ e ‘nulla’ nella ricerca delle keyword che ci condurranno al recupero di informazione pertinente. Per cercare ‘capitalismo’ su Google non metteremmo solo ‘capitalismo’. Troppo poco, troppo vago, e anche ‘troppo’.

In realtà, se anche Baricco non avesse davvero nominato mai la parola ‘capitalismo’, certo ne ha affrontato – con parole nuove – gli elementi tipici: la rivoluzione digitale, il grande gioco, The game, ha rifondato il sistema economico e culturale. Sin dalle prime pagine Baricco raffigura l’uomo della nuova era in una postura assolutamente caratterizzante: smartphone in mano e sguardo perennemente rivolto allo schermo. Un uomo che ha subito una metamorfosi antropologica e che è diventato un tutt’uno con un oggetto del mercato, con un prodotto del nuovo capitalismo, dunque. L’uomo del game viene rappresentato come una figura mitologica, come un centauro, metà uomo, metà cavallo. Solo che adesso la metà che consente la comunicazione, la velocità, è un telefono-computer, è un prodotto immesso nel mercato con abile mossa di marketing nel 2007 da Steve Jobs. E la presentazione dell’iPhone – una vera e propria performance – viene indicata da Baricco come uno degli eventi epocali che hanno dato vita a una nuova morfologia del mondo e a un nuovo tipo di uomo.

Da qui l’uso di mappe, per corredare il discorso di The game8. Ma cosa aggiungono quelle mappe? verrebbe da chiedersi. Il fatto stesso che ci sono – si potrebbe rispondere. Il fatto stesso che si sia ormai imposto un codice visuale per la narrativa. Lo si è sempre fatto. Come quando Stevenson iniziò la narrazione dell’Isola del tesoro inventando per ‘gioco’ una storia a partire da una mappa. Ma adesso la rilevanza delle immagini è tale da essere diventata di per sé una caratteristica del game.

Fare le mappe significa quindi far vedere, ‘fare’, il mondo che si sta raffigurando. The game, dicevamo, è un racconto filosofico, e come nel Timeo, o come in Candido, narra l’origine del mondo, o l’incontro con un mondo nuovo. Già dalla copertina ricaviamo un indizio importante: un’immagine della Terra vista dallo spazio. Ma su quel mondo c’è un trade mark, segno di un diritto di proprietà, Getty Images. Ancora una volta, sebbene non detta, si intravede la parola ‘capitalismo’, reinterpretata secondo nuovi codici:

In realtà, il Game è un sistema assai più complesso, in cui si possono vedere all’opera forze contrastanti […] [rimanendo fedeli alle vecchie mappe] va perduta proprio la complessità di quello che sta succedendo, e questa è una sorta di censura preventiva a cui mi è impossibile allinearmi. Inchiodare la dinamica della mutazione all’ennesimo travestimento del Capitale è un modo di bloccare l’oscillazione del Game, soffocarne il respiro, ridurne la trama a un riassuntino di MyMovies. In realtà, il Game è un sistema assai più complesso, in cui si possono vedere all’opera forze contrastanti, correnti che vanno in direzioni molto diverse, sequenze meccaniche che rispondono a leggi fisiche che non ci risultano. Se devi provare a spiegarlo, prova a vietarti la parola "Capitale" e vedrai come tutto inizia a mettersi in moto9.

Così, con tool nuovi – ma con la memoria di strumenti interpretativi del Novecento – Baricco racconta dell’uomo della rivoluzione digitale, l’uomo del game, metà uomo, metà ‘cosa’. Ma non ha più la consapevolezza politica, marxista, dell’uomo reificato, alienato. L’uomo del game, metà uomo, metà telefono, più o meno smart. Ma non ha più la consapevolezza postmoderna, e di gender, e postcoloniale, di essere un cyborg, un replicante senza memoria – come nel romanzo di Philip Dick. Perché è metà uomo, metà automa che dirige le sue azioni solo dopo aver ricevuto istruzioni da algoritmi che gli dicono dove andare a mangiare, quale hotel prenotare, e quali libri leggere. Ma non ha ancora la consapevolezza del suo ruolo all’interno dell’Antropocene – altra parola ‘assente’ in The game, ma introdotta in The game unplugged e sottolineata da Baricco nel commento ai commentatori. L’autore e i commentatori si scambiano reciprocamente molte parole e finiscono così per imparare, l’uno dall’altro; e lo stesso avviene tra il lettore e tutti gli autori. Le parole assenti restano nello stato inconscio e agiscono in relazione a parole nuove – prima assenti – che descrivono un mondo nuovo.

Dall’ipertesto all’oltremondo

A noi che veniamo dal vecchio continente, dal Novecento, quell’uomo-tastiera-schermo ci pare un uomo nuovo, ma in effetti è un cavernicolo, è ancora agli albori del game. Solo che lui, a differenza di noi, è scappato dal Novecento, e come altri migranti, prima ancora, ha cercato un nuovo mondo. E noi invece siamo qui, con lo sguardo voltato indietro come Orfeo.
Ma noi chi?

Intanto verrebbe da rispondere ‘noi’ che non siamo digital born, noi che non siamo nati nel game ma che invece lo abbiamo visto nascere. Noi che siamo nati e che abbiamo raggiunto la maturità – intellettiva, professionale, emotiva – nel Novecento. Ma anche noi che guardiamo con sussiego classista gli uomini del game. Sdegnati, ironizziamo che loro (rozzi, ignoranti, uomini della nuova era) ‘pubblicano’ (figuriamoci, è solo un post su Facebook!) ed esprimono pareri (non sono giornalisti, al massimo influencer!) condividono foto e filmati (non è arte, vogliamo scherzare!). Noi che credevamo che ‘capitalismo’ fosse la precondizione per affermare l’egemonia economica, politica, culturale e artistica. Non più. E non servono nemmeno intermediari, emittenti televisive, giornali o editori. Ognuno può entrare direttamente nel game.

E poi, verrebbe da aggiungere, noi che apparteniamo alla comunità rappresentata da questa rivista. Noi che apparteniamo alla comunità che si raduna, si ripara, si nutre, in biblioteca. E come lettori, come bibliotecari, come studiosi, ci interessa molto questo racconto che ha al suo centro la grande digital library che è diventato il mondo. Vogliamo percorrere da sinistra a destra e da destra a sinistra il ‘docuverso’, ossia l’universo di documenti, un universo che è ormai tutto un documento – secondo le parole di Ted Nelson, già negli anni Sessanta. The game è dunque un libro importante per chi, come noi, si occupa di conservare e disseminare emozione e conoscenza. E noi – possiamo aggiungere con umile orgoglio, con timida intraprendenza – siamo arrivati prima di altri in questo nuovo mondo della rivoluzione digitale, e presto ci siamo interrogati sulle regole del game, anche se non lo chiamavamo così10. Noi del vecchio mondo (humanities), emigrati verso il nuovo mondo (digital), come Novecento (personaggio) viaggiamo senza scendere dalla nave, attaccati a una tastiera. Nascosti in biblioteca. Nascosti in casa, da soli. Nascosti entro i marginalizzati, poveri, angusti, territori di discipline minoritarie, già da tempo vedevamo e descrivevamo il fenomeno. Anche trent’anni fa eravamo lì, non visti, e perciò con un vantaggio: osservare meglio gli altri, osservare meglio cosa stesse accadendo. Osservare l’esplosione al sicuro, dietro barricate di volumi e saggi e articoli, e record di banche dati. Abbiamo avuto l’opportunità di vedere il mondo nuovo al suo apparire11.

In effetti, la storia raccontata da Baricco inizia proprio una trentina di anni fa, al tempo in cui alcuni sceglievano Taboo – gioco quasi ingenuo, e ancora in scatola, ‘di carta’ – mentre altri già preferivano i videogiochi. Anzi, la rivoluzione digitale stava facendo adepti grazie alla componente ludica immediatamente messa in risalto dal mercato. Attraverso marzianetti che invadevano gli schermi delle prime console12; attraverso i PC che, in quanto personal, offrivano possibilità di utilizzo a misura di ciascuno, e poi con il molto ‘giocoso’ Mac, si stava cercando di convogliare verso l’uso del computer una massa sempre crescente di utenti. Sono quelle le prime ‘costole’, i ‘fossili preistorici’ – come dice Baricco13. Fino ad allora, molti non avrebbero saputo che farci con quell’oggetto misterioso che sembrava poter attrarre solo scienziati e studiosi. Alcuni, sin dagli anni Sessanta, avevano cercato di inserire il computer nel clima della controcultura, provando cioè a riscrivere le regole della testualità usufruendo dell’interattività, della multimedialità e dell’ipertestualità resa possibile dal nuovo spazio dello scrivere, il computer. Ma ci vorrà la fine degli anni Ottanta perché la massa critica si allarghi fino a comprendere la società occidentale nella sua totalità. E visto che, come molti mercati, anche quello informatico è mosso dall’offerta più che dalla domanda, la domanda venne creata e soddisfatta. E alla fine ‘tutti’ iniziarono a giocare col computer e così finì per interessare ‘tutti’. Come in un mantra/incubo/circuito/uroboro: giocatori giocati o protagonisti.

Si dava inizio al gioco del mondo14. Era il momento in cui – un attimo prima dell’avvento del web e a quasi 10 anni dall’arrivo del coloratissimo Google – venivano posizionate le pedine. Dapprima non si percepirono le reali dimensioni del mutamento: anche questa volta la rivoluzione rimase inavvertita15. Era pervasiva, ma silenziosa e solipsistica, mossa da nerd chiusi nelle loro stanze. Eppure, come spesso accade, il rumore bianco non percepito attraverso i comuni sensi, stava producendo vibrazioni che aprivano faglie16. Era una ‘catastrofe’, un cambio epocale di paradigma – come avevano predetto René Thom e prima ancora Thomas Kuhn. Antiche Atlantidi venivano inghiottite e nuove culture emergevano. La civiltà occidentale venne rinominata a partire dagli ‘oggetti’ che avevano innescato la mutazione: società dell’informazione, infosfera, età del web, di Google.

Sempre rimanendo nella metafora di Taboo, sarebbero a quel punto servite altre parole per indovinare cosa si intendesse ormai per ‘cultura’17. E per l’appunto queste nuove parole cerca Baricco, proponendo pietre miliari e cronologie, soprattutto negli appassionanti paragrafi riassuntivi, presenti per ciascun capitolo e intitolati Commentari. Sono infatti ormai passati anni dal big bang e si può iniziare a storicizzare il fenomeno: a partire dall’ipertesto e poi dalla preistoria della rete, passando per gli anni Ottanta, e poi il web, Google e lo snodo fondamentale individuato da Baricco nel 2007, momento della nascita dell’iPhone. Dopo l’insurrezione, vecchie élite sparivano e nuove dinastie principesche si affermavano. Ed ecco, sale sul podio la squadra che ha vinto, conquista il potere e riscrive le regole del gioco, e la ‘teoria dei giochi’, anche. Ma chi ha vinto? Non sono riconoscibili sotto bandiere politiche (e sulla scomparsa dei partiti Baricco esprime opinioni acute, in particolare sulla sinistra italiana e sul Movimento cinque stelle).

Certo, per poter entrare nel game bisogna imparare una lingua nuova (e, per inciso, ogni lettore di The game imparerà molti nuovi termini). E per poter entrare nel game bisogna imparare un po’ di tecnologia, o meglio, un po’ di comandi, di gesti. Il cambio antropologico finisce quindi per assumere l’aspetto di un cambio di postura: uomo-tastiera-schermo. Non solo tutti sanno maneggiare i nuovi strumenti, e sanno parlare e guardare. Sanno anche ‘fare’, esercitare talenti. Ad esempio, tutti sanno prevedere il tempo. E poi, tutti sono ‘intenditori’ e sanno qual è il ristorante migliore, il B&B più economico e vicino al centro. Tutti sanno di vino e cucina. Non è qualcosa di poco conto, semmai significa che tutti rivendicano il diritto ad avere ‘gusto’. Avere gusto è stato sempre prerogativa delle élite. Adesso tutti sono dalla parte giusta. Tutti possono diventare mecenati con il crowdfunding. Tutti sono informati degli eventi e partecipano ai festival di economia, filosofia, o di agricoltura green; non è più come un tempo, quando ai convegni organizzati da autorevoli, misteriose, learned societies, potevano partecipare solo studiosi, inclusi nel gruppo.

Ma attenzione: chi sono questi tutti che non sono tutti? Sono tutti occidentali. E alcuni sono in proporzione di più degli altri: più maschi giovani bianchi, occidentali, di lingua inglese18. Ma allora sono ‘i soliti’? In realtà no. Sono tutti quelli che, consapevolmente o no, fuggono dal Novecento – sostiene Baricco. Hanno visto olocausto e bomba atomica, guerre mondiali e genocidi, totalitarismi e sfruttamento. Si sentono ingannati dalle ideologie di destra e sinistra, non credono più alle ‘grandi narrazioni’ – come direbbe Jean-François Lyotard. Non riescono più a sostenere i ‘principi primi’ che avevano segnato il Novecento: ‘complessità’, ‘profondità’, ‘consapevolezza’, non sono ritenuti valori fondanti. Piuttosto che tuffarsi nelle profondità preferiscono ‘velocità’, ‘superficie’, ‘intrattenimento’; hanno scelto lo schermo liscio e colorato, facile, del videogame, e poi del computer, e ora dell’iPhone.

E c’è di più. Ora tutti ‘fanno’ arte, non solo la giudicano o sanno apprezzarla: e fotografano e filmano e suonano e cantano e pubblicano su Youtube. Stanno cercando di costruirsi un ‘oltremondo’ – come sempre ha fatto l’umanità – dove mettere in salvo (comando save) la memoria, la bellezza, il senso. E dove mettere in salvo, proprio attraverso questi strumenti facili e veloci, i nuovi valori: velocità e facilità. Gli uomini del game, i poveri del passato, che devono emigrare, cercano il nuovo mondo, un mondo alternativo alla realtà, un oltremondo dell’arte e della conoscenza, dove essere vivi per sempre. Non scendere mai più dalla nave, come Novecento. Sempre/mai, il mondo e il modo infantile e sognante delle dichiarazioni perentorie, di un irreale rapporto con il tempo, perché assoluto, non storicizzato.

Un certo modo di stare al mondo

Ci troviamo dunque di fronte a una storia di fondazione, genere tipicamente americano, e come tale appartenente alla cultura egemone che ha prodotto il game19. Ma è una storia di fondazione anche in senso metapoetico, perché rappresentativa di una metamorfosi dei generi della scrittura narrativa e saggistica. The game è un saggio: e dunque aspira a dire ‘la verità’ sulla geopolitica della tecnologia informatica; ma è anche una narrazione: e dunque desidera raccontare il nuovo mondo. Ed è anche – come ormai caratteristico della contemporaneità – tutte e due le cose contemporaneamente. E ancora, è un’autobiografia (sin dalla dedica, e poi con i ricordi personali, come l’aneddoto del figlio piccolo che non capisce come mai un giornale non abbia la funzione touch). Ed è un diario intellettuale, e un resoconto di viaggio nel mondo della tecnologia (in interviste e presentazioni Baricco si riferisce anche a un viaggio reale, a Silicon Valley). Come lo si consideri, da ognuno dei possibili angoli prospettici legati a generi letterari e saggistici nuovi o tradizionali, Baricco ripercorre il suo modo di stare al mondo, come uomo, intellettuale, artista, e docente di creative writing della Scuola Holden. Tutte personae a cui fa riferimento nella dedica:

A Carlo, Oscar e Andrea.
Ai sette saggi.
A chi ogni giorno inventa la Scuola Holden.
Questa lezione è per voi.

Concentriamoci sull’ultima caratterizzazione: Baricco-docente. Intanto iniziamo col dire che dedicare una scuola a un romanzo che racconta una novecentesca fuga da scuola è di per sé un ossimoro, un emblema che ritrae un mondo alla rovescia. E The game può essere considerato come un libro di testo, un manuale, di questa scuola? E cosa insegna questa ‘lezione’, come si legge nella dedica? E ancora, chi ha diritto a insegnare e a scrivere su materie rivoluzionarie e digitali? Ossia, chi ha diritto a insegnare digital humanities, l’episteme entro cui vive The game?

Considerare The game sia come un manuale per una scuola che insegna a scrivere romanzi, sia per una scuola che insegna a scrivere saggi, potrebbe essere una prospettiva stimolante. Personalmente ho potuto verificare l’ottima rispondenza di The game come testo d’esame. Anche per questo The game è un libro importante per noi, per noi che insegniamo ad affrontare con senso storico, critico, la rivoluzione digitale. A 60 anni da Le due culture, rimane ancora valido l’invito di Charles Percy Snow di armonizzare humanities e digital, tenendo sempre chiaro in mente il contesto politico, ossia il sistema educativo nazionale. Che fare, allora? Come e cosa insegnare? Noi abbiamo le chiavi della biblioteca, noi conosciamo il metodo bibliografico – ossia l’approccio scientifico e trasparente alle fonti – e noi abbiamo il compito di insegnare come conservare e disseminare ‘adesso’, nel contesto del game, emozioni e conoscenza. Ma dobbiamo conquistare maggior credibilità e autorevolezza per descrivere e insegnare il mondo nuovo. E dobbiamo ricordarci che abbiamo una tradizione che ci ha educato a farlo – siamo figli del Novecento (anche se, per converso, bisogna ammettere che, come insegna Paul Karl Feyerabend, anche andare Contro il metodo è di per sé un metodo novecentesco).

Abbiamo un metodo, dicevamo, il metodo bibliografico, il riferimento alle fonti. Serve ancora? Forse ancor di più ora che è ‘tabù’, ora che sembra essere usato sempre meno. Piuttosto che imporre in modo autoritario il rispetto del nostro metodo dovremmo considerare con maggior attenzione i nuovi generi autoriali – sia letterari che scientifici. Non dobbiamo smettere di analizzare i cambiamenti avvenuti nella natura dei documenti (pensiamo ad esempio a preprint, workflow, set di dati, linked open data, big data, dati grezzi, immagini, audio, etc.) sia ai nuovi modi di disseminazione e ai nuovi destinatari (open access, open science, cittadinanza scientifica). Se cambia il giocatore, in effetti, cambia anche il gioco; e anzi, tutto cambia se le regole cambiano, anche se i giochi sembrano essere gli stessi20.
Occorrerà ripensare i confini, i compiti, le priorità, le identità, tra sapere/sentire, tra saggistica e arte. Esempi recenti lo fanno percepire: da Tony Judt a Ian McEwan, da Christopher Hitchens a Martin Adams, che cosa caratterizza un saggio e cosa un romanzo? L’io narrante, ad esempio, compare anche nei saggi; e ci sono saggi appassionanti come romanzi ma che non possono svelare le fonti – come Gomorra21. Abbiamo un romanzo con elenco finale delle fonti (ad esempio Canale Mussolini, Premio Strega) e saggi senza bibliografia, come in questo caso. Ma appunto, torniamo, come in un gioco dell’oca, a quanto già affermato: The game non è un romanzo né un saggio, è entrambe le cose; è un genere ‘mutante’, e anche un remix (come dichiarato nel sottotitolo di The game unplugged). In questo, sì, dobbiamo fuggire dal Novecento. Non possiamo giudicare The game in base a quelle antiche regole. Dobbiamo leggerlo.

Note

[1] Alessandro Baricco, The game. Torino: Einaudi, 2018. Dopo molte ristampe, dal settembre 2019 il libro è anche venduto nelle edicole con la Repubblica, e dunque protende ancora nel tempo, e diversifica nello spazio, l’atto della pubblicazione. In effetti Baricco aveva definito la vendita di libri in edicola come un indizio di ‘imbarbarimento’ in quello che lui stesso indica come il ‘prequel’ di The game: Alessandro Baricco, I barbari: saggio sulla mutazione. Roma: Fandango, 2006 (di cui si segnalano, in particolare, tre capitoli dedicati a Google). Ma ormai The game si situa nel pieno della ‘mutazione’ e Baricco non poteva non usare uno dei canali di diffusione tipici dell’epoca.

[2] The game unplugged, mixed by Sebastiano Iannizzotto e Valentina Rivetti; feat. Alessandro Baricco. Torino: Einaudi, 2019. Il libro esce a pochi mesi da The game e presenta sia approfondimenti sia commenti a caldo, come un instant book. Riesce così anche a prolungare ‘l’evento’, tenendo desta l’attenzione sulla pubblicazione.

[3] Umberto Eco, Postille a "Il nome della rosa", «Alfabeta», 5 (1983), n. 49, p. 577-615. Riproposto in appendice al romanzo, Il nome della rosa. Milano: Bompiani, 2013, p. 577-615.

[4] A. Baricco, I barbari cit., p. 75.

[5] Nel suo libro di ‘recensioni’, Una certa idea di mondo: i migliori cinquanta libri che ho letto negli ultimi dieci anni. Roma: Gruppo editoriale L’Espresso, 2012, Baricco afferma di detestare la ‘letteratura dell’assenza’. Detestare in quanto lettore, forse, ma non come autore, forse.

[6] A. Baricco, Nota. Scritta dopo aver letto. In: The game unplugged cit., p. 279-280.

[7] In effetti, Baricco, aveva già riraccontato la storia ‘senza’ la balena: Herman Melville, Tre scene da Moby Dick, tradotte e commentate da Alessandro Baricco con Ilario Meandri. Roma: Fandango, 2009.

[8] Vengono riconosciuti i credits agli autori delle mappe già nel frontespizio: «Cartografia e design: 100km studio Luigi Ferrauto e Andrea Novali».

[9] A. Baricco, Nota. Scritta dopo aver letto cit, p. 281.

[10] Va ricordato che Paolo Bisogno, fondatore della disciplina della documentazione in Italia, già nel 1968 crea l’istituto del CNR, pioniere degli studi sulle banche dati e la rete.

[11] Gli studiosi del settore indicato dalla sigla MSTO/08 si sono occupati della rivoluzione digitale sin dai primi moti insurrezionali. Segnaliamo infatti che tra i saggi di The game unplugged compare anche Il web è un moltiplicatore di Andrea Zanni, matematico, bibliotecario e studioso, attivista di Wikimedia e già noto a queste pagine.

[12] Analoga cronologia propone Martin Amis, L’invasione degli space invaders, traduzione di Federica Aceto. Milano: Isbn, 2013.

[13] Altri hanno invece posto l’attenzione sulle tecnologie perdenti nella lotta darwiniana per il controllo del game: Nico Nosengo, L’estinzione dei tecnosauri: storie di tecnologie che non ce l’hanno fatta. Milano: Sironi, 2003.

[14] Usando l’espressione di un precursore dell’ipertestualità, Julio Cortázar, Il gioco del mondo: Rayuela, pubblicato nel 1963, tradotto e più volte ripubblicato da Einaudi.

[15] Elizabeth Lewisohn Eisenstein, La rivoluzione inavvertita: la stampa come fattore di mutamento. Bologna: Il Mulino, 1985.

[16] Il maestro del postmoderno, Don DeLillo, nel 1985 descriveva con questa metafora la fine dell’era del capitalismo. Anche il suo Rumore bianco è stato tradotto e più volte ripubblicato da Einaudi.

[17] Come faceva Raymond Williams, il fondatore dei cultural studies, quando nel 1958 in Culture and society: 1780-1950 (London: Chatto & Windus) descriveva il cambiamento culturale innescato dalla rivoluzione industriale attraverso poche parole chiave.

[18] Invece gli autori di The game unplugged si soffermano anche su vari effetti di colonialismo/anticolonialismo operati dal game, in particolare nell’ultima sezione, Change the game.

[19] Salvatore Proietti, Storie di fondazione: letteratura e nazione negli Stati Uniti post-rivoluzionari. Roma: Bulzoni, 2002

[20] In tal senso consideriamo i CV degli autori di The game unplugged. Ne prendiamo solo due come esemplificativi. Il primo, anche dalle scelte tipografiche (tutto maiuscolo) rimanda al mondo del game: «DAVIDE COPPO HA 24 ANNI E LA BARBA. È LAUREATO IN LINGUE E LETTERATURE STRANIERE. È MILANISTA, SCRIVE PER IL MAGAZINE BIMESTRALE STUDIO E GLI PIACCIONO LE RAGAZZE CON I CAPELLI CORTI, GLI SMITHS, IL BEEFEATER, ANTHONY BURGESS, JOHN FANTE, CARVER E ALTRA GENTE PRESA MALE». Il secondo, di una donna, mescola ambiente accademico e temi antiaccademici: «Francesca Coin insegna Neoliberal Policies e Global Social Movements all'Università Ca' Foscari di Venezia. Si occupa di lavoro, la moneta e la soggettività».

[21] Su Gomorra come ‘evento’, fenomeno spartiacque, e sugli effetti sul lettore si veda Edoardo Brugnatelli; Chiara Faggiolani, Gomorra: 10 anni di conversazioni su aNobii. In: Le reti della lettura: tracce, modelli, pratiche del social reading, a cura di Chiara Faggiolani, Maurizio Vivarelli. Milano: Editrice Bibliografica, 2016, p. 261-303.