di Anna Berloco, Giulia De Castro e Mariangela Distilo
Il satellite meeting IFLA, tenutosi il 30 e 31 agosto presso la Biblioteca apostolica vaticana e il Palazzo Cardinal Cesi, intitolato “Transforming LIS education for professionals in a global information world: digital inclusion, social inclusion and lifelong learning”1, è stato organizzato da tre sezioni dell’IFLA: Education and training, Library theory and research e Information technology, in collaborazione con l’Associazione italiana biblioteche (AIB), la Scuola vaticana di biblioteconomia, Alise e ASIS&T SIG-ED.
Quest’occasione è stata un laboratorio per il confronto internazionale su problematiche trasversali relative alla formazione del bibliotecario.
Tenteremo qui di sintetizzare alcuni degli spunti emersi dalle due giornate di studio, in particolare in relazione alla standardizzazione curriculare, alle implicazioni etiche della digitalizzazione di materiali ‘culturalmente sensibili’ e alla presentazione degli insegnamenti LIS in ambito universitario.
Lo sviluppo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione sta rivoluzionando ogni aspetto della realtà che ci circonda. Nella società dell’informazione e della conoscenza, l’identità del bibliotecario è argomento di dibattito: in un ambiente sempre più digitale, quali sono le capacità e le competenze imprescindibili? Quali i profili professionali possibili? Quali i percorsi formativi coerenti con la necessità di stare al passo con una realtà in costante trasformazione? La discussione sulla formazione LIS è dunque accesa più che mai e questo si traduce in numerose esperienze – nazionali e internazionali – che, indagando le nuove sfide e le opportunità da cogliere, propongono una revisione dei curricula con l’obiettivo di standardizzare i modelli educativi.
Jaya Raju, professoressa ordinaria all’University of Cape Town e direttrice del Department of Knowledge and Information Stewardship, nel suo intervento Future LIS education and evolving global competency requirements for the digital information environment: an epistemological overview, ha offerto un’analisi epistemologica di questo contesto utilizzando come principale supporto teorico Chaos of disciplines di Andrew Delano Abbott2, un’analisi dettagliata dello sviluppo e dell’evoluzione delle scienze sociali che considera i modi in cui la conoscenza cambia e si sviluppa. Strumenti euristici essenziali per l’indagine di Raju sono stati due dei principi chiave teorizzati da Abbott, interstitial character of a discipline e fractal distinction in time, con i quali ci si riferisce rispettivamente alla caratteristica di alcune discipline di comprendere molti argomenti e al riemergere, con il passare del tempo, di idee tradizionali in una nuova veste3. In particolare, la natura interstiziale della LIS e le sue capacità frattali sono state rilevate nei risultati di due casi di studio: uno internazionale, Building strong LIS education (Bslise) working group, e uno nazionale, LIS professional competency index for the higher education sector in South Africa.
BSLISE nasce a seguito dell’“IFLA satellite meeting 2016” (Dublin, Ohio, USA) su iniziativa delle tre sezioni IFLA Education and training (SET), Library theory and research (LTR) e LIS education in developing countries (SIG), con l’obiettivo di sviluppare un quadro comune di riferimento per la valutazione dei curricula, che promuova la definizione di uno standard di formazione LIS e dunque l’identificazione di competenze distintive in grado di facilitare la mobilità professionale4. In una prima fase di ricerche è stato condotto un sondaggio su scala internazionale con l’obiettivo di comprendere quali fossero i requisiti formativi per i professionisti dell’informazione: i risultati del sondaggio sono stati pubblicati nell’agosto 2018 nell’IFLA Bslise working group white paper insieme con un piano di azione in cui, accanto agli esiti più rilevanti (key finding), vengono proposte delle misure consigliate (recommended action). Nella prospettiva epistemologica di Raju, il key finding 6 risulta essere esemplare:
Secondo la studiosa, il dato costituisce la prova empirica del carattere interstiziale della LIS, valutata come territorio in cui convergono molte discipline (a volte anche in conflitto tra loro). Ma dalla problematicità può sorgere la possibilità di ampliare e ridefinire lo spazio disciplinare della LIS e, contestualmente, di pianificare l’impegno delle università nella costituzione di programmi pedagogici e curriculari mirati alla formazione dei professionisti dell’informazione in un contesto di continua evoluzione.
LIS professional competency index for the higher education sector in South Africa è il risultato di un progetto di ricerca triennale (2014-2016) finanziato dalla National Research Foundation (NRF) con l’obiettivo di sviluppare un indice utile per valutare le competenze esistenti, strutturare i curricula tenendo conto delle nuove conoscenze e delle competenze necessarie ai professionisti dell’informazione e agevolare il lavoro della Library and Information Association of South Africa (Liasa) nella supervisione dell’istruzione e della formazione LIS nel paese5.
L’indice è strutturato in tre categorie di competenze che, integrate le une alle le altre, consentono l’erogazione di servizi efficienti ed efficaci:
1. discipline - specific competencies: si tratta delle competenze relative specificamente alla disciplina.
2. generic competencies: conosciute anche come abilità trasferibili, sono le competenze applicabili a tutte le professioni.
3. personal attributes: si tratta delle competenze trasversali che possono influenzare positivamente le relazioni interpersonali e, conseguentemente, la performance lavorativa.
Entrambi i casi studio dimostrano la natura interdisciplinare della LIS e la sua capacità di riconcettualizzare le conoscenze tradizionali in nuove forme, adatte a un mondo digitale. Le sfide lanciate da un contesto in costante evoluzione devono essere accolte dalla LIS come l’opportunità di riposizionarsi in uno spazio disciplinare esteso che, naturalmente, avrà implicazioni anche per quanto riguarda la formazione futura dei professionisti.
Da circa un ventennio le istituzioni culturali (archivi, biblioteche e musei) hanno iniziato a digitalizzare e diffondere in rete parte o intere collezioni del loro patrimonio. Quest’attività è diventata oggi uno dei principali compiti a cui sono indirizzate risorse economiche e personale.
L’accesso aperto a tali risorse ha avuto importanti conseguenze:
- estensione dell’utenza di riferimento a qualunque individuo dotato di connessione internet;
- divulgazione di una quantità elevata di dati e informazioni;
- incremento delle possibilità di conoscenza e uso per tutti gli utenti, eliminando sotto questo punto di vista le differenze sociali;
- aumento delle occasioni di scambio e relazione tra le istituzioni culturali: pianificazione e progettazione di attività, condivisione di risorse e risultati.
Questi progetti di digitalizzazione, nella maggior parte dei casi, sono avvenuti su larga scala perseguendo come obiettivo l’inserimento di quante più informazioni possibili. Il metodo utilizzato per valutare l’impatto che tali lavori hanno comportato sull’utenza è stato principalmente quantitativo, cioè basato su statistiche e indicatori. Le comunità scientifiche nazionali e internazionali hanno prodotto nel corso degli anni degli standard e delle linee guida per misurare l’impatto del patrimonio (basti pensare a strumenti come il Balance value impact model6, il Tidsr: Toolkit for the impact of digitised scholarly resources7 o l’Archival metrics8). Tali modelli sono utili alle istituzioni culturali per determinare il valore dei servizi e delle risorse digitali, tuttavia si sono dimostrati insufficienti come strumenti valutativi per una specifica parte di collezioni digitali: quelle etnografiche o antropologiche, ovvero quelle raccolte che contengono dati ‘culturalmente sensibili’ (cultural sensibility) relativi a precise comunità. Si tratta di collezioni ‘speciali’ per la varietà tipologica dei materiali (quaderni di appunti, fotografie, registrazioni, video, manufatti), per la loro frammentarietà e dislocazione e per le loro particolari condizioni d’accesso (spesso basate sul genere, l’età, l’etnia e/o il ruolo sociale)9.
Nonostante ciò, le recenti ricerche tendono a dimostrare che una valutazione è possibile, ma si deve cambiare prospettiva adottando una visione qualitativa. Il principio cardine di questo rovesciamento si basa sul seguente assunto: «non tutto ciò che conta è misurabile e non tutto ciò che è misurabile conta».
Per valutare l’impatto che tali documenti hanno su diverse categorie sociali (professionisti del settore culturale, insegnanti, accademici e indigeni) Ricardo L. Punzalan ha realizzato il progetto Valuing our scans10 sull’archivio della tribù yak tityu tityu yak tiłhini (ytt), appartenente alla popolazione Chumash e residente a San Luis Obispo (California, USA). Si tratta di una ricerca interdisciplinare e collaborativa, divisa in due fasi: nella prima, attraverso interviste e focus group, si è indagato l’impatto che le risorse digitalizzate hanno avuto sulle conoscenze (come vengono utilizzate in ambito educativo e formativo), sugli atteggiamenti (come migliorano i rapporti tra una persona e quella cultura o come cambiano i comportamenti del singolo), sulle competenze professionali (che ricadute ha tutto ciò sulla propria professione, cosa si ricava da questa esperienza), sulle capacità istituzionali (come cambia il prestigio dell’istituzione che diffonde tale materiale), sulle relazioni tra le comunità, approfondendo anche le implicazioni sulla privacy. Nella seconda si è tenuto un workshop nel quale sono stati coinvolti i membri della comunità indigena e si è avviata una riflessione comune.
Cosa è emerso da questo studio? Che impatto possono avere questi elementi nella formazione del bibliotecario del futuro? Innanzitutto, l’accesso online a risorse antropologiche ed etnografiche ha previsto l’inserimento del bibliotecario nel contesto sociale della comunità di riferimento, portando ad aumentare le sue capacità di ascolto e di dialogo con l’‘altro’ e a sviluppare una sensibilità etica (flessibilità e comprensione reciproca); lo ha reso responsabile della gestione dei dati (ricerca del consenso della comunità per la pubblicazione di tale materiale) e ha comportato un ripensamento del modello di valutazione (importanza dell’impatto e dell’indagine qualitativa: interviste, focus group e storytelling).
Di conseguenza, il professionista dell’informazione ha dovuto farsi portavoce di quella cultura, attraverso la difesa di visioni e tradizioni, anche a volte contrastanti con la mentalità ‘democratica’ occidentale, affrontare la questione con un approccio interdisciplinare, estendere il bacino d’utenza e far convergere gli interessi di tutti gli attori coinvolti: quello dei datori di lavoro che chiedono risultati (generalmente valutati quantitativamente), quello delle università interessate alle possibilità di ricerca, quello dei bibliotecari interessati agli aspetti sociali (inclusione e tutela delle culture) e quello della comunità che vuole essere descritta in modo chiaro e trasparente.
In sintesi, questo caso di studio ha evidenziato come il bibliotecario non può più essere considerato solo un mediatore tra le risorse e i membri della comunità, ma si pone come un facilitatore della conoscenza, colui che pro-attivamente favorisce e crea spazi e situazioni di apprendimento. Il bibliotecario, dunque, si è fatto attivista12: si pone degli obiettivi etici, prende posizione, agisce sulla base di valori e fornisce servizi. Centrali in questa nuova dimensione diventano le capacità di apertura, flessibilità e ascolto e le abilità nel favorire inclusione, condivisione e collaborazione.
La formalizzazione in ambito accademico dell’insegnamento biblioteconomico ha una storia piuttosto recente, sebbene alcune competenze, come quelle catalografiche, affondino le loro radici nel mondo antico13.
L’insegnamento della biblioteconomia nasce, nelle modalità in cui lo si conosce oggi, nel 1887 presso la Columbia University a opera di Melvil Dewey14. L’ambiente più adatto al rapido recepimento delle istanze legate al contesto delle biblioteche e alla formazione professionale fu quello anglosassone (Stati Uniti15, Canada e Germania), seguito in pochi anni dai paesi del Mediterraneo, in particolare l’Italia16, nonché dalla Russia17 e dai paesi asiatici. Bisognerà attendere gli anni Cinquanta per poter parlare della diffusione dell’insegnamento biblioteconomico sia in Australia che in Africa.
Attualmente l’insegnamento è diffuso in tutti i continenti pur con sostanziali differenze: il mondo anglosassone predilige un insegnamento incentrato sulle discipline relative all’ambito della comunicazione, mentre in Italia e nei paesi di lingua neolatina18 si privilegia una formazione di ambito umanistico, incentrata sulle conoscenze di carattere storico e storiografico e di tutte le discipline afferenti tali ambiti19.
In quasi tutto il mondo, il titolo accademico principalmente accettato è quello della laurea specialistica (master degree nei paesi anglofoni). Accanto a questo, in diverse nazioni, sono previsti ulteriori corsi professionalizzanti: master di secondo livello, diplomi post lauream presso scuole di specializzazione e dottorati di ricerca.
In riferimento alle problematiche comuni emerse dall’analisi dell’insegnamento delle scienze biblioteconomiche e dalla relazione tra ambiente accademico e lavorativo, i programmi d’insegnamento, mantenendo la loro specificità geografica, dovrebbero tener conto di alcuni aspetti imprescindibili:
- l’apparente scissione tra teoria e prassi, esemplificata dal perenne dilemma di quanti, terminata la formazione accademica, incontrano difficoltà nell’applicazione delle nozioni apprese;
- l’evoluzione del mondo del lavoro e quindi di quella che, in termini puramente di economia di mercato, si può definire domanda e offerta;
- il progresso delle ICT, ovvero il ruolo preponderante delle tecnologie sia nella didattica sia nel mondo lavorativo.
Tutti questi aspetti si sommano alle criticità legate alle prospettive di sviluppo dell’insegnamento delle discipline biblioteconomiche, sia per la carenza di risorse economiche, in particolare di quelle che permettono ricerche indipendenti, sia per la necessità di costruire un sistema comune di riconoscimento dei titoli universitari in ambiente internazionale. Su quest’ultimo punto un ruolo importante spetta agli organismi sovranazionali che, in parte, si sono già occupati del problema20.
Un primo passo verso l’equipollenza dei titoli al di là delle barriere geografiche è stato compiuto nel 1999 con la dichiarazione di Bologna21, con l’introduzione degli ECTS (European transfer credits system). Tuttavia, l’insegnamento delle scienze biblioteconomiche in Italia presenta alcune criticità specifiche22: la difficoltà del riconoscimento dei crediti all’interno della formazione universitaria di coloro che trascorrono un periodo di studio all’estero; la scarsa disponibilità delle istituzioni culturali a finanziare la formazione continua dei propri dipendenti; la mancanza di comunicazione tra la formazione teorica di ambito universitario e le esigenze del mondo del lavoro23, sempre più indirizzato verso un approccio tecnologico; la limitata offerta di insegnamenti che hanno come oggetto diverse metodologie di ricerca. Quest’ultimo aspetto è stato al centro del panel svoltosi il 31 agosto e intitolato Teaching research methods in library and information science programs: an international perspective; in particolare, negli interventi presentati da Simona Turbanti, Rajesh Singh, Kawanna Bright e Krystyna K. Matusiak, è emerso che lo studio e l’applicazione dei metodi di ricerca quantitativa e qualitativa hanno favorito gli studenti nell’acquisizione di nuove competenze e abilità: raccolta e analisi statistica dei dati, sintesi e comunicazione dei risultati, ricerca sul campo, apprendimento cooperativo e lavoro di brainstorming.
Si è, dunque, riconfermata la necessità di lavorare su due fronti: da una parte, promuovere l’integrazione di nuovi corsi di studio atti a sviluppare le competenze imprescindibili al mondo del lavoro e, dall’altra, incentivare il dialogo tra le istituzioni culturali – pubbliche e private – anche per favorire la mobilità professionale.
Una definizione delle competenze distintive del bibliotecario è possibile ed è anche necessaria, ma il convegno ha reso evidente che l’identità del professionista dell’informazione è costruita soprattutto sulla sua mission che «consiste nel migliorare la società facilitando la creazione di conoscenza nelle comunità di riferimento»24. Il bibliotecario, dunque, svolgendo un ruolo sociale, si configura come un professionista in movimento, le cui competenze devono essere continuamente ripensate e riadattate alla società dinamica, globale e connessa in cui viviamo, nel tentativo di guidarne la metamorfosi, non di subirla.