di Luca Ferrieri
Chiedo scusa se inizio con una faccenda personale. Alcuni amici che avevano letto La biblioteca che verrà1 in pieno lockdown, mi hanno riferito che in ogni riga si respirava una specie di ‘presentimento’ del virus che di lì a poco avrebbe messo in ginocchio il mondo, anche se il libro era stato scritto e chiuso redazionalmente ben prima che il Covid-19 facesse la sua apparizione. Cito quest’episodio non tanto perché creda alle premonizioni o ad altri fenomeni paranormali o parabibliotecari, né a capacità predittive che fortunatamente nessuno possiede, ma perché esso conferma alcuni elementi importanti della situazione in cui le biblioteche si trovano oggi ad operare, e soprattutto del legame tra ‘nuovo scenario’ e ‘cambio di paradigma’.
Semmai possiamo dedurne che il virus, o meglio, l’idea del virus, ‘era nell’aria’, almeno in quella delle biblioteche, ben prima che questo venisse individuato a Wuhan in Cina, e che la sua diffusione è il risultato di una serie di fenomeni complessi e interdipendenti, come la deforestazione e la sovrappopolazione, ma anche di logiche non lineari2. Il virus cui faccio riferimento non è solo l’agente patogeno propriamente detto, ma un complesso biopolitico di evenienze interconnesse, un clima culturale diffuso, che segna profondamente la fase storica, la vita delle biblioteche, la stessa fondazione teorica della biblioteconomia. In prima approssimazione il virus si può intendere come il rivelatore della formidabile potenza, distruttiva e ricostruttiva, che deriva dal combinato disposto tra vulnerabilità umana, contagiosità interspecifica, interconnessione e interdipendenza globale. Questa situazione aveva da tempo nel mondo raggiunto un livello di rischio altissimo: il punto, quindi, non era ‘se’, ma ‘quando’ il prossimo focolaio sarebbe scoppiato.
La coscienza subliminale di una brusca accelerazione nel rapporto insano tra produzione e ambiente, tra avvento dell’antropocene e stato di salute del pianeta, tra normalità ed eccezione – che è la malattia di cui il virus è espressione, non viceversa –, si era fatta strada da tempo anche nella vita culturale e nella crisi dei modelli bibliotecari, innanzitutto nel principale di essi, quello che più o meno tutti li riassume, cioè nell’idea stessa di public library. Idea ottocentesca per nascita ma novecentesca per l’architrave ideologica, per il paritetico dispiegamento di tossine e speranze. I sintomi dello stato di esaurimento di questa concezione della biblioteca e del suo sviluppo si erano fatti sempre più manifesti: la frammentazione dell’unitarietà del modello, la crisi della ‘modellistica’ stessa, la fine del ‘progresso’ bibliotecario, la mutazione digitale, il fallimento dell’egualitarismo astratto e formale3, quell’impasto di ‘fabianesimo’ e ‘fabiettismo’4 bibliotecario che aveva ‘infettato’ l’ideologia purista della public library, il risultato contraddittorio delle politiche di alfabetizzazione, l’esplosione di mille literacies a volte sovrapposte e concorrenziali, eccetera eccetera.
È quello che ho cercato di descrivere ne La biblioteca che verrà, e su cui continuo a lavorare, vale a dire i sintomi di chiusura di una fase storica e la necessità di un cambio di paradigma; ed è ciò che è emerso durante l’epidemia in modo dirompente. Le biblioteche hanno risposto, anche se a macchia di leopardo, proprio con lo sviluppo di linee di ricerca e di fondazione del nuovo paradigma: la produzione di contenuti propri e originali (andando oltre la visione puramente distributiva del servizio, quella che è stata messa in quarantena prima dalla storia che dal virus), l’idea di una biblioteca del fare e dei maker (il cui simbolo durante la pandemia è ben rappresentato dalla produzione di mascherine in 3D5), la diversificazione dei pubblici (con il passaggio, non declamato ma agito, da una ‘biblioteca per tutti’ a una ‘biblioteca per ciascuno’ e ‘di ciascuno’6), la valorizzazione dei servizi digitali, la promozione della lettura espressa in innumerevoli sedute online con i gruppi di lettura, attraverso videoletture, aperitivi virtuali con gli autori, attraverso la diffusione dello storytelling, della biblioteconomia narrativa7 sperimentata sul campo, e così via.
Molti tra i primi commentatori e studiosi della fase storica che si è aperta – come una novità assoluta per quanto ricca di avvisaglie – hanno parlato di una prospettiva di totale apertura, di una biforcazione che vede in instabile equilibrio le due opposte possibilità di uscita: il rinascimento8 (ma forse sarebbe meglio dire la rinascita) o la restaurazione; il ri-pensamento o la ri-caduta nel sempre eguale; la biblioteca o la barbarie. Come ai tempi della querelle degli antichi e dei moderni, o dello scontro tra apocalittici e integrati, ma con la differenza che questa volta essi si scambiano continuamente di posto, come quando abbiamo visto i vari Trump & Johnson prima parlare del coronavirus come influenza stagionale e poi buttare sul tavolo della ‘immunità di gregge’ o della ‘ripartenza’ decine di migliaia di morti per arrivare vittoriosi alla guarigione. C’è voluto il virus per mostrare di che lacrime grondi e di che sangue la parola ‘progresso’; di come essa si riduca in pochi giorni a una successione di sillabe vuote. La tragedia dell’epidemia non ha soltanto riportato alla ribalta la tragicità della storia, dopo le iniezioni anestetizzanti delle magnifiche sorti e progressive, ma ha posto con urgenza i temi del cambiamento radicale, facendoli uscire anch’essi dalla retorica e mettendoli in agenda come le cose semplici ma difficili a farsi.
Ma sapremo leggere la realtà? Sapremo decifrare il messaggio scritto nell’alfabeto desossiribonucleico, abituati a quello del lineare B o degli emoticon? Sapremo computare la geometria epidemica? Sapremo pensare al divenire e al futuro del pianeta come qualcosa che ci riguarda e che è anche nelle nostre mani? Non sembrano esserci segnali molto incoraggianti in questo senso. Dalla critica della patologia della normalità si può passare in un attimo alla movida sui navigli. I teorici di una nuova teoria ‘crollista’ della fine del capitalismo, come Žižek9, rischiano di essere altrettanto, se non più inoffensivi dei cigni neri come Agamben10, sottoposti al pubblico ludibrio.
Quello che è certo che a noi tocca ancora una volta il compito di testimoniare e batterci, come uomini e donne, bibliotecarie e bibliotecari del nostro tempo.
Si dice spesso, anche in campo bibliotecario, che occorre trasformare la crisi in opportunità (soprattutto da quando la biblioteca è divenuto un luogo molto tempestoso11). Mi è sempre parso un motto un po’ continuista e, appunto, opportunista, anche nel senso migliore, perché quasi sempre orientato a nascondere la necessità e la radicalità dello spartiacque, come se fosse possibile passare da una fase all’altra senza travaglio e senza cordoglio. Ma il virus ha cambiato veramente le carte in tavola e, in un senso tremendo a dirsi e a pensarsi, ha ‘lavorato’ per noi: ci ha posto di fronte alla crisi, nella sua versione più tragica, quella dell’annientamento, e allo stesso tempo ci ha inchiodato alla possibilità e alla necessità di cambiare rotta. Ha avuto ed ha lo stesso impatto sull’immaginario della prospettiva della catastrofe nucleare, perché ne condivide la natura suicidaria e massiva: è l’uomo, e proprio l’homosapiens sapiens, a determinare il peggiore dei mondi possibili premendo il bottone della valigetta nucleare o calpestando l’equilibrio ecologico di una foresta secolare e lasciando al virus come unica possibilità di fuga quella di insediarsi in un ospite serbatoio e di infettare il mondo. I due libri chiave di questa similitudine sono quelli di Gunther Anders (Essere o non essere e La coscienza al bando12) e di David Quammen (Spillover13, oltre alle molte sue interviste uscite in questo periodo).
Le rotture rivoluzionarie (in senso kuhniano14) hanno la caratteristica di rendere improvvisamente possibile ciò che fino a un momento prima sembrava semplicemente inconcepibile. Pensiamo solo a quante cose impossibili sono diventate quasi ordinarie nei tre mesi che ci separano dal primo lockdown: governi che ordinano alle industrie cosa produrre15, altri che nazionalizzano le ferrovie16, meno 97 per cento nelle vendite di auto17, redditi universali, salvataggi statali e finanziamento dei debiti pubblici da parte delle banche centrali18, liberazioni di prigionieri, spostamenti di trilioni di dollari in giro per gli Stati Uniti19. E naturalmente anche coniugate all’individuale negativo: mesi chiusi in casa, assalti ai supermercati, aggiotaggio di carta igienica, persone denunciate perché stavano tornando a casa dal lavoro per una via troppo lunga, genitori separati dai figli, nonni dai nipoti, vecchi lasciati morire da soli negli ospedali e seppelliti in fretta e furia con il favore delle tenebre.
Vittorio Emanuele Parsi, in un instant book sull’epidemia da Covid-19 uscito nell’aprile di quest’anno20, ha delineato tre scenari per il ‘dopo’. Il primo è quello della restaurazione secca, con l’accentuazione di tutte le già enormi diseguaglianze esistenti (anzi ‘le iniquità’, come precisa l’autore) e con un’inevitabile componente repressiva. Questa direttrice approfondirà, o cercherà di approfondire, il passaggio «dallo Stato nazionale welfarista keynesiano allo Stato internazionale competitivo hayekiano»21. Il secondo orizzonte è quello della «fine dell’Impero romano d’Occidente», una sorta di graduale implosione, uno «scioglimento del nocciolo dell’economia globale, con una parallela frammentazione del potere politico e istituzionale e il sopravvento delle spinte sovraniste e nazionaliste. Il terzo scenario è quello del già citato «rinascimento»: «una ricostruzione che parta dalla presa d’atto della vulnerabilità umana, dal riconoscimento della sua centralità e ineluttabilità, e inizi a sostituire l’interdipendenza delle cose con l’interdipendenza degli umani»22. Nella visione di Parsi il rinascimento è una specie di nuova età liberale, emendata dagli errori del passato, e quindi abbastanza vicina a posizioni socialiste e umaniste. Tra quelle citate, questa è l’unica prospettiva che contempli un reale cambiamento dello stato di cose: il cataclisma ha giocato e può giocare un ruolo di forte accelerazione in questo senso, considerando che, a differenza che nel passato, l’ipotesi della restaurazione, almeno in questo momento (poi le cose possono rapidamente cambiare), è uno scenario lose-lose, in cui tutti hanno tutto da perdere, proprio mentre le biblioteche e altre agenzie culturali lavorano invece a una strategia win-win23, rompendo con l’eccesso di competizione e di accelerazione dell’ultimo periodo. E, oltre tutto, come la storia insegna, la restaurazione produce molta violenza, ma raramente riesce a restaurare un granché. In ogni caso, come sottolinea Parsi, la scelta tra i tre diversi scenari dipenderà anche e soprattutto da noi.
E qui viene allo scoperto un punto fondamentale, che riguarda proprio il ruolo delle biblioteche e di altre agenzie culturali, su cui ora vorrei concentrarmi. A fare la differenza sarà dunque l’elemento soggettivo: la maturità delle coscienze, il senso di responsabilità, la capacità di difendere e di convincere. Anche in questo consiste la singolarità del momento: per la prima volta dopo molti anni il mondo ha una reale chance di cambiamento, legata all’evidente fallimento dei modelli di sviluppo e di governo che hanno portato all’attuale situazione24. Per la prima volta una parte decisiva – sempre ragionando in astratto – può essere giocata dai soggetti più preparati, dai più talentuosi e più competenti. Per la prima volta le biblioteche possono provare a ricoprire quel ruolo di «motore del cambiamento» che Glòria Pérez Salmerón ha posto al centro del suo mandato come Presidente IFLA (2017-2019)25. Se la prospettiva che si delinea è quella della ‘convivenza’ con il virus, prospettiva di grande interesse epidemiologico ed epistemologico, la biblioteca ha molte cose da dire e da fare al riguardo. Come vedremo nell’ultima parte del saggio, convivenza non significa affatto cedimento e acquiescenza, ma forse l’esatto contrario; richiede la comprensione e il superamento del contesto ambientale, ecologico, politico e culturale che ha permesso al virus di moltiplicarsi fino al livello epidemico; è il risultato di un approccio olistico, multifattoriale, politecnico. Può darsi che la scelta della via d’uscita debba alle biblioteche, al loro protagonismo, alla loro capacità di esprimere una visione politica, molto di più di quanto è dettato dal loro peso oggettivo nella fase storica e anche dal ruolo esercitato nel primo periodo della pandemia; ma, appunto, l’elemento soggettivo potrà fare aggio sui rapporti di forza, come è tipico dei periodi di cambio di paradigma.
Naturalmente restituire all’elemento soggettivo l’importanza che merita non significa certo dimenticare il lato ‘oggettivo’, l’analisi della situazione data e del contesto. Altrimenti si ricadrebbe in una forma di volontarismo e di idealismo, del tutto inservibili, proprio in questo momento in cui la pandemia ha ulteriormente dimostrato quanto pesino le diseguaglianze ‘materiali’ proprio sulla possibilità di esercitare il pensiero critico e lo stesso godimento della lettura; quanto, per esempio, la mancanza di libri in casa, la difficoltà di approvvigionarsene, la scarsa diffusione della banda larga, o dell’accesso aperto, gli insufficienti livelli di alfabetizzazione digitale e così via, abbiano giocato nelle difficoltà del confinamento.
Per un bilancio del ruolo delle biblioteche nel periodo di lockdown, probabilmente ancora prematuro, ma ugualmente doveroso, occorre a mio avviso considerare alcuni fattori. Il primo, sicuramente positivo, è che le biblioteche, dopo un iniziale e comprensibile periodo di sbandamento, si sono, almeno in alcuni casi, rese visibili, hanno diversificato i loro servizi, hanno raggiunto i loro utenti e recuperato la relazione con loro. Non so se si possa dire, come fa, forse troppo ottimisticamente, Stefano Monti in Il rilancio delle biblioteche durante la pandemia26, che questo periodo ha mostrato il passaggio delle biblioteche dall’epoca di «dinosauri» in via di estinzione a quella di una presenza attiva e proattiva nella vita della città. Probabilmente non sono vere né la prima fotografia né la seconda. Ma certo alcune biblioteche (più spesso le medio-grandi, quelle inserite in circuiti funzionanti di cooperazione, quelle metropolitane, quelle dirette da bibliotecari sensibili e intraprendenti), hanno messo in piedi un’appassionata e appassionante serie di iniziative, estratte da un ricco cilindro inventivo e solidaristico dotato anche di notevole flessibilità. Rimando, per un approfondimento ai primi interventi sulle iniziative delle biblioteche nella pandemia27. In questo vario, fantasioso e generoso attivismo bibliotecario risaltano a prima vista due elementi di grande interesse, anche per le ricadute biblioteconomiche:
Il secondo aspetto riguarda invece le incertezze, i tentennamenti, gli equivoci che sono affiorati nelle posizioni e negli atteggiamenti delle biblioteche e dei bibliotecari ed è su questi che occorre ora soffermarsi.
In alcuni casi, infatti, durante la fase di chiusura ‘in casa’, le tendenze alla pausa, all’inazione, all’arroccamento, che sono state reazioni naturali e salutari di fronte al vulnus inferto, hanno assunto una connotazione ideologica e rivendicativa, a volte perfino rabbiosa e punitiva nei confronti dei dissenzienti e dei trasgredenti, che è andata al di là della preoccupazione per il rispetto degli obblighi di legge e delle disposizioni sanitarie. Si è trattato di un fenomeno generale, che ha avuto però ricadute anche nel mondo bibliotecario. Penso che si possa individuare in queste tendenze qualcosa di analogo a quelle reazioni che in altre occasioni storiche sono state definite come forme di ‘attendismo’ o ‘aventinismo’29, fatte le debite proporzioni, ovviamente: ossia strategie orientate al differimento, all’astensione, al ritiro dall’azione e a volte anche dalla battaglia delle idee. Tale atteggiamento non ha niente a che vedere con fenomeni di procrastinazione che esprimono un’«inattività gravida di possibilità»30. E nemmeno con strategie di natura non frontale, circumnavigatoria, ispirate alla forza testimoniale dell’esodo, o della lunga marcia, o alla ‘mossa del cavallo’31, che hanno tutt’altra ispirazione ideale e politica. E poi questa forma di ritiro, almeno apparente32, si è manifestato parallelamente alle numerose forme di generoso impegno che abbiamo già descritto, conferendo loro il caratteristico andamento zigzagante o ‘a macchia di leopardo’.
Cercherò di astenermi il più possibile da ogni giudizio morale o moralistico, da ogni rilievo individuale, anche perché il fenomeno non riguarda gli atteggiamenti delle persone, legittimi e comprensibili nelle loro diverse ragioni. E, per quanto ne sarò capace, cercherò di tenermi lontano da ogni spirito polemico (che già è stato eccessivamente presente nelle discussioni professionali e nel dibattito sui social, che hanno visto in alcuni casi una discutibile omologazione di toni e argomenti). Più che quelle di pòlemos, vorrei sentire vibrare le corde di mètis. Vorrei quindi attenermi a quello che in questo momento mi pare essenziale: indagare gli eventuali elementi di debolezza nel posizionamento delle biblioteche, individuarne radici, ragioni, e rischi, soprattutto per la fase del dopo, che dovrà vedere una ‘riprogettazione’ dei servizi; ricercare tracce di questi elementi nella teoria e nella pratica biblioteconomica.
Naturalmente sono consapevole della forte connotazione storica e politica che il termine di attendismo porta con sé. L’utilizzo che propongo, in realtà, è principalmente di tipo analogico e metaforico, ed è riferito a un campo specifico, l’azione delle biblioteche in momenti di crisi, come la attuale pandemia, che fanno emergere la politicità delle scelte. La linea di attraversamento della crisi affonda le sue radici nel passato ma è anche quella che orienterà le decisioni nella fase di riapertura dei servizi. Quella che voglio esprimere è la possibilità di un rischio, emerso nella fase critica, ma potenzialmente ancora più pericoloso nella fase di ricostruzione. E naturalmente tutto ciò non comporta alcuna sottovalutazione delle necessarie misure di ordine sanitario33.
Quanto più cercherò di marcare la distanza dal moralismo individuale, tanto più darò cittadinanza alla preoccupazione etica; quanto più eviterò di farne una questione strettamente professionale, tanto più farò appello alla necessità di una svolta nella concezione sociale e politica della biblioteca. L’attendismo identifica un atteggiamento ricorrente nella storia italiana (e non solo), in parte legato a concomitanti anche se non sovrapponibili fenomeni di trasformismo, revisionismo, opportunismo; un atteggiamento non connotato solo dall’attesa (che può essere scelta saggia, perfino strategica, in circostanze in cui non sono noti molti aspetti consequenzialistici legati all’azione), ma dalla ‘speculazione’ sull’attesa, in modo da favorire certi esiti a scapito di altri. Con questo si evince che l’attendismo è spesso molto più interventista di quel che sembri (anzi storicamente potremmo dire che attendismo e interventismo sono dei falsi nemici, così come in campo bibliotecario l’attivismo e l’attendismo non sono sempre e semplicemente contrapposti). Basti pensare al ruolo che l’attendismo ha rappresentato nella fase storica seguita al 25 luglio e all’8 settembre 1943 (che riecheggia nella assonanza tra le parole d’ordine del ‘tutti a casa’ di allora e del ‘resto a casa’ di oggi): di fronte alla possibilità e all’annuncio di una drastica rottura storica, l’attendismo si assumeva il compito, consapevole o inconsapevole, del deliberato rinvio, facendo affidamento sull’aiuto del tempo (di qui l’istanza ‘temporeggiatrice’) per favorire soluzioni moderate e frenare le componenti più radicali della Resistenza. Lo spirito badogliano si è prolungato nei compromessi del dopoguerra, più o meno giustificati quanto si voglia, fino a costituire una specie di carattere nazionale emergente a intervalli storici. L’attendismo lavora alacremente allo scopo di minare la tempestività delle decisioni necessarie; anche in questo senso più che un nemico dell’impazienza rivoluzionaria si rivela un fautore della accondiscendenza moderata. Magari ci sono state epoche in cui l’attendismo non ha lavorato per il re di Prussia, anche se al momento non me ne vengono in mente34; probabilmente in altre circostanze ha avuto migliori frecce al suo arco; sicuramente ha avuto un ruolo positivo nel contrastare una certa mistica dell’azione di stampo dannunziano o guerrafondaio o fascista; ma ora occorre riferirlo al contesto pandemico, senza perdersi in altri corsi e ricorsi.
Tornando quindi al presente bibliotecario, occorre ribadire che dietro alcuni atteggiamenti ‘attendistici’ nella gestione della pandemia ci sono state e ci sono valide spiegazioni che vanno prima di tutto comprese. Non mi riferisco tanto ai ritardi e alle lungaggini delle autorità politiche e sanitarie, che mi sembrano effettivamente difficili da giustificare, anche se possono invocare l’attenuante, non so fino a che punto valida, della generale impreparazione. Penso piuttosto alle difficoltà che molti operatori hanno incontrato nell’agire e di cui non erano punto responsabili: la mancanza degli strumenti, dei dispositivi di protezione, la scarsa conoscenza della malattia e del virus, la incapacità di trapiantare lo smart working in un’organizzazione del lavoro, soprattutto nel pubblico impiego, che aveva in precedenza pervicacemente ostacolato ogni ricorso al telelavoro; la sordità dei datori di lavoro a introdurre misure di sicurezza, scaricando la responsabilità sui singoli e approfittandone in molti casi per licenziamenti o ricorso a lunghi periodi di ferie obbligate. Tutto ciò ha favorito, una tendenza al ritiro, alla pausa, e a volte ad ogni impegno diretto nella gestione solidale dell’emergenza. In buona sostanza la logica dello ‘stato di eccezione’ non ha favorito né la partecipazione, né la responsabilizzazione.
I fattori che invece possono aver esercitato, sul versante ‘soggettivo’, un ruolo ‘attendistico’, cioè di rinvio delle decisioni e delle azioni necessarie, oppure che, all’interno delle attività e dei servizi organizzati, possono aver portato a un oscuramento della componente e della specificità bibliotecaria, sono quelli accennati nel seguente elenco ipotetico (perché, appunto, diretto a evidenziare delle possibilità e dei rischi):
È possibile che la risposta attendista si sia verificata anche in forza di una certa confusione tra la necessità di garantire il rispetto delle misure di sicurezza e il ritiro della biblioteca dalla scena pubblica. Le due cose infatti non sono legate, anzi sono in contrasto. Proprio la volontà di mantenere l’immagine della biblioteca come ‘porto sicuro’, comporta un sovrappiù di attivismo, di advocacy. In situazioni difficili come quella odierna la biblioteca dovrebbe mantenere e curare particolarmente il suo rapporto habermasiano con la ‘sfera pubblica’, proprio perché questa è la prima ad essere messa in discussione dal virus, con il distanziamento sociale, i divieti di assembramento e le politiche di contenzione. Le biblioteche dovrebbero reagire «alla acquiescenza dell’opinione pubblica nella fase del lockdown»43. La sospensione della comunicazione pubblica, facilitata dalla chiusura contemporanea di tutte le istituzioni culturali, dei festival, dei numerosi saloni e fiere del libro in programma, dei teatri, dei cinema, delle piazze di ogni tipo, non è stata compensata e contrastata adeguatamente dalle biblioteche. E non a caso l’attacco al ruolo della biblioteca nella sfera pubblica è uno dei tratti caratterizzanti delle politiche neoliberiste in materia di biblioteche44. Ma di questo accennerò più avanti.
Un ulteriore equivoco merita di essere menzionato, anche se brevemente: la scelta dell’inazione e del silenzio può essere derivata da una malintesa interpretazione del principio (ecologico ed etico) di «precauzione». Come se, per non correre il rischio di infettare ed essere infettata, alla biblioteca non restasse altra possibilità che quella di tacere. Come se fosse vera una corrente misinterpretazione della settima ed ultima proposizione del Tractatus45 di Wittgenstein che recita: «di ciò di cui non si può parlare si deve tacere». Invece alle biblioteche, specie in questi frangenti, tocca proprio il compito e il destino di parlare dell’indicibile, di pensare l’impensabile, di leggere l’illeggibile.
>Il concetto di precauzione − da non confondere con un generico invito alla prevenzione − contiene in effetti un principio di differimento (si veda la voce di Wikipedia46): in presenza di fondati rischi per la salute dell’umanità e del pianeta, anche in mancanza di prove scientifiche certe, è doveroso sospendere lo sviluppo di ‘alcune’ invenzioni e attività. Ma non è una regola che si oppone al progresso scientifico, come qualcuno ha sostenuto; si basa se mai sulla valutazione etica di questo progresso. In realtà, nella formulazione adottata dalla legislazione europea e internazionale47, il differimento viene rovesciato: si tratta proprio di ‘non differire’ le azioni cautelative e sospensive nei confronti delle pratiche a rischio (quindi, proprio il contrario di ogni attendismo). In ogni caso è evidente la diversa natura del differimento: nel caso del principio di precauzione, è basato sulla priorità della salute pubblica e su un concetto di autoconservazione interspecifico, attivo e proattivo; nel caso dell’attendismo su interessi, abitudini, poteri. Ovvio che la distinzione, in certi casi può essere difficile48; ovvio che qualcuno può approfittare di questa difficoltà per confondere le acque. Pane per i denti dei bibliotecari!
Voglio venire rapidamente a questo punto, secondo me fondamentale, sia per capire le insufficienze della condotta bibliotecaria nella fase di emergenza, sia per progettare il rinascimento bibliotecario delle prossime fasi, iniziando proprio dalla riscossa digitale e dal suo incerto profilo.
Si è osservato in molte sedi ed occasioni49 che il Covid ha fortemente accelerato la migrazione digitale di molte attività svolte dalle biblioteche, determinando innanzitutto un considerevole aumento dei prestiti e degli interprestiti di documenti elettronici. Questo dato è confermato da tutte le prime elaborazioni statistiche che le biblioteche stanno producendo sulla loro attività nel periodo della chiusura per l’epidemia. Tuttavia occorre, a mio avviso, tenere presenti alcuni limiti derivanti dalla situazione pregressa: l’insufficienza dell’alfabetizzazione digitale, l’iniquità del mercato digitale e dei meccanismi di prestito, la scarsa qualità dei prodotti editoriali, l’insistenza su modelli di ebook e di digital lending fortemente improntati al mimetismo analogico più che allo sviluppo delle potenzialità digitali.
In questa sede non ho il tempo di motivare adeguatamente questa diagnosi, e mi scuso. Rilevo però che un elemento irrinunciabile e dirimente del futuro cambio di paradigma dovrà essere costituito proprio da una liberazione della lettura digitale da tutti i lacci e lacciuoli che fin qui l’hanno tenuta prigioniera. I peggiori nemici della lettura digitale non sono i nostalgici della carta stampata, ma i «colonialisti digitali», come li ha definiti Roberto Casati50, i «soluzionisti», come li chiama Morozov51, gli acritici sostenitori di un determinismo tecnologico i cui limiti oggi sono sempre più evidenti. È chiaro, quindi, che tre mesi di confinamento non possono cambiare la situazione (in realtà non costituiscono nemmeno, come invece molti hanno sostenuto, il contesto più adatto per farlo). Il merito del Covid, se così si può dire, è quello di aver sollevato il velo. Ma attenzione, perché è proprio qui che la tentazione continuista, nella versione attendista, già considerata, o in quella palingenetica (cambiamo tutto per non cambiare niente), che pari sono, si farà maggiormente sentire. Del resto sono anni che gli editori e i bibliotecari ‘attendono’: prima che si sia definito un mercato, poi che esso sia sufficientemente competitivo, poi che non sia troppo competitivo, prima che ci sia la tecnologia, poi che sia abbastanza diffusa, poi che non sia troppo avanzata, ecc. Tutti tentativi, più o meno riusciti, di contenere il carattere disruptivo (nel suo significato di scossa elettrica ma anche in quello derivante dal termine inglese di disruption52) della innovazione.
Si considerino almeno questi elementi:
Questo discorso, che qui non è possibile approfondire, ci porta a mettere al centro la biblioteca come un duplice nodo di dominio e di cambiamento. La biblioteca è un luogo di stratificazione e di ‘messa in forma’ del potere (e del potere del sapere), e, nello stesso tempo, un attivo fattore di cambiamento e di liberazione da quello stesso potere. Questa fondamentale connotazione della biblioteca è sottovalutata sia dai ‘conservatori’, che preferiscono alimentare il mito (politico) di una biblioteca neutrale e super partes, sia dai ‘progressisti’ che la vedono spesso come il territorio subordinato di un più vasto scontro sociale, riconoscendole una sorta di neutralità tecnica.
Così come l’epidemia ha dato una maggiore visibilità alle diseguaglianze e alle ingiustizie presenti nella nostra società, spazzando via gli strumenti di occultamento, di eufemizzazione, di distrazione, che funzionano nei periodi di cosiddetta normalità, allo stesso modo essa ha messo a nudo la potenza, in alcuni casi la violenza, dei meccanismi selettivi, discriminatori, disciplinari, censori, di cui la biblioteca (in particolar modo la public library) è vittima e artefice. Si tratta, sia chiaro, di pure condizioni potenziali: la loro evoluzione in un senso o nell’altro dipende, come si è già detto, dal ruolo dei soggetti che interagiscono.
Uno dei campi in cui questa dimensione è più evidente è quello linguistico. La «svolta linguistica» che ha caratterizzato la filosofia contemporanea, ha interessato anche la biblioteconomia, ponendo fine a una lunga sottovalutazione57. La biblioteca è uno spazio linguistico, perché «contiene persone, testi, informazioni, istruzioni e altro, che si basano tutti sulla lingua per relazionarsi»58. Perché è fondata sul «potere di nominare». Perché qui si svolgono le «conversazioni» di cui parla Lankes59. Perché qui si incontrano i ‘discorsi’ pubblici e privati ‘della’ e ‘sulla’ lettura. Perché i codici di cui si serve la biblioteca, per catalogare, classificare, evidenziare, promuovere, sono linguistici. Il loro orientamento gerarchico o autarchico (anche in questo il mix tra rivoluzione digitale e avvento dei social ha avuto un ruolo decisivo) può fare la differenza. L’annidamento di atteggiamenti razzisti, sessisti, specisti, ecc., dentro il cuore linguistico della biblioteca (ad esempio nella CDD) è indicativo. Il peso che le diverse lingue hanno, nello sviluppo delle collezioni, nelle conversazioni, nella comunicazione, lo è altrettanto. Il multilinguismo della biblioteca contemporanea60, che accompagna il canto del cigno della public library, è sempre un meccanismo bifronte: da un lato può contribuire a superare barriere e processi di esclusione; dall’altro può ulteriormente alimentare quel processo che viene chiamato «linguicismo»61, cioè l’uso della lingua come strumento per riprodurre la diseguale distribuzione di potere e risorse. Basta osservare il modo in cui scuola e biblioteca discriminano la lingua materna di milioni di persone, quando non coincide con la lingua ‘normativa’, per avere un’idea dell’estensione di questo meccanismo.
Il campo linguistico è stato uno dei principali veicoli dell’infiltrazione dell’ideologia neoliberistica nelle biblioteche, insieme alla supremazia dell’homo oeconomicus, alla priorità della merce sulla persona, all’approccio orientato al cliente invece che alla responsabilità sociale e ambientale, alla retorica e all’efficientismo manageriale, al regime di proprietà intellettuale e a molti altri aspetti. In diversi suoi contributi e soprattutto in Doing neoliberal things with words in libraries62, John Buschman ha sottolineato la crescita parallela dell’ideologia neoliberistica all’interno della scuola e della biblioteca, grazie a una offensiva linguistica e retorica sorretta dalle stesse parole chiave, e da un universo semantico che si regge su un riferimento circolare, in cui basta sopprimere un postulato (per esempio quello per cui tutto è denaro) per far crollare l’intero castello.
È un po’ quello che è successo con il virus in queste settimane. La crescita epidemica ha mostrato, con una rapidità impressionante, che la nostra società e le nostre istituzioni sono giganti con i piedi di argilla. La percezione della vulnerabilità globale si è diffusa ancora più velocemente del virus, con riflessi medici, economici e culturali.
Gli spazi, e i contestuali rischi, che si aprono per le biblioteche sono enormi, in una sfida appassionante. Le biblioteche possono contribuire a un processo di cambiamento che, nato tra gli scaffali, ora ritorna moltiplicato e quasi irriconoscibile. Le «fantasie della biblioteca»63 sorreggono un’elaborazione scientifica che da tempo aveva posto il cambiamento al centro della teoria biblioteconomica64. Ma oggi, un oggi che è già un domani, ‘gestire il cambiamento’ non è, non sarà, più sufficiente, anche perché il cambiamento non è più ‘maneggiabile’ e ‘manageriabile’, esso deve essere vissuto, attraversato da un confine all’altro. Ora si delinea quell’asse che unisce il passato e il futuro ‘contro’ il presente. «Le biblioteche sono un anello nella catena umana che collega ciò che è accaduto ieri con ciò che potrebbe accadere domani», dice Billington65. E questo si percepisce con assoluta evidenza quando il cambiamento non è più contenibile nella gestione e manutenzione dell’esistente. Quando non è «la rivoluzione che sarà catalogata»66 o «digitalizzata»67, ma la biblioteca che sarà rivoluzionata.
Azzardo che questo passaggio avverrà all’insegna di una biblioteca con-vivente. Che cosa intendo? Essenzialmente tre cose che riassumerò di seguito e poi cercherò di illustrare meglio soprattutto nei punti di convergenza che si delineano:
La lettura, e la politica della lettura, saranno dunque il filo conduttore del ragionamento che abbozzerò in sede conclusiva. Anche qui senza poterlo sviluppare convenientemente68. La lettura ha mostrato, nei confronti del virus, tutta la sua capacità mutante ed empatica, non solo, come è ovvio, verso le vittime (in qualche modo tutti abbiamo letto, o non letto, come se fosse l’ultima lettura69) ma anche verso il virus, con cui si è subito stabilita una relazione di con-vivenza ma non di connivenza. Ho cercato di indagare questa strategia della lettura in Tra contenimento e contenzione la lettura splende come una stella fredda70, mostrando quanto ci sia di simile nella storia del virus e nelle pratiche di lettura, e come la comprensione intima di parole come infezione, contagio, simbiosi71, sia alla base della possibilità della lettura di agire come un vero anticorpo. Ebbene, questa con-vivenza deve caratterizzare anche l’azione della biblioteca. La biblioteca ha vissuto e attraversato l’esperienza della malattia in modo solidale, evitando l’armamentario bellico dei virologi, il ‘si salvi chi può’ dei catastrofisti, le furbizie degli irresponsabili.
Lo ha fatto (come la scuola, ma senza il fardello della didattica) entrando nella ‘vita quotidiana’ delle persone. Non c’è riuscita sempre, ma questa è stata la carta che ha giocato, e che dovrà continuare a giocare nei prossimi mesi e anni. La biblioteca si è fatta radiofonica, è stata la colonna sonora capace di raccontare le giornate di confinamento, attraverso pagine di letteratura, il che vuol dire attraverso la vita di altri uomini e donne; di farne un’esperienza narrata. Ha reso attuale la lezione di Proust secondo cui l’esperienza letta è un’esperienza vissuta, perché attraverso la condensazione temporale essa riesce a concentrare gli elementi significanti, e rende essenziale ciò che nella vita quotidiana può scorrere in modo inessenziale72.
La biblioteca ha intuito – seguendo le tracce della lettura in una nuova e felice simbiosi – che le politiche di distanziamento, per quanto sanitariamente corrette, comportavano il rischio di un attacco indiscriminato alla socialità, a cui essa non avrebbe probabilmente potuto sopravvivere73. Una biblioteca che voglia ‘assemblare’ e ‘assembrare’ tutte le spinte creative della vita quotidiana, non può a lungo astenersi dalle pulsioni, anche spurie, della socialità, perché esse muovono e giustificano il suo stesso potenziale etico e conoscitivo.
Le esigenze di contenimento del virus hanno poi comportato una sospensione delle libertà costituzionali, in particolare quelle di muoversi, di circolare, di manifestare, di esprimere pubblicamente il proprio pensiero. Non è il caso di recriminare retrospettivamente su questo fatto, che ha avuto origine nella tragica situazione sanitaria, ma di porsi il problema delle conseguenze e dei rimedi. Il diritto di manifestare, in forme distanziate e compatibili con le norme sanitarie, e gli altri diritti protetti dagli articoli 16, 17, 19, 21, ecc. della Costituzione, vanno ripristinati al più presto. La biblioteca, che è uno dei luoghi deputati della manifestazione delle idee, deve far sentire la sua voce; anche in questa occasione, deve esprimere l’incarnazione più alta della politica, quella che trova fondamento nell’idea greca di amicizia (filìa) e in quella cristiana di agàpe. Separando la figura dei politici da quella della politica, la biblioteca restituisce a quest’ultima, come scienza e utopia della città futura, una dimensione adeguata alla fase storica.
Questa presenza ha riannodato i fili della vita quotidiana delle persone durante e dopo l’epidemia. Anche in questo caso muovendosi nel solco già tracciato dall’esperienza della lettura, nelle modalità che Michel de Certeau ha descritto nel libro che si intitola, appunto, L’invenzione del quotidiano e contiene quel piccolo capolavoro che è Leggere: un bracconaggio74. A proposito di questo testo, tuttavia, non bisogna fare l’errore di leggerlo frammentariamente, come pure lo stile dell’argomentazione e della scrittura sembra consentire: la lettura è saldamente inserita e integrata in tutte le altre dimensioni della vita quotidiana, ed è collegata ad altre due che de Certeau prende in speciale considerazione: quella dell’abitare e quella del cucinare75. Ormai mi sono troppo inoltrato nell’apparente digressione per ritrarmene bruscamente: devo allora aggiungere, anche se in modo che per brevità suonerà apodittico, che i tre principali riferimenti che in de Certeau nutrono la fenomenologia del quotidiano, cioè la denuncia marxiana del feticismo, la critica francofortese all’industria culturale e la foucaultiana microfisica del potere76, costituiscono il triangolo filosofico che merita, a mio avviso, di essere posto alla base anche della biblioteconomia del nostro tempo.
Il quotidiano è la cartina di tornasole della politica (e della politicità) della lettura perché è nell’agire inventivo del quotidiano che la lettura e la biblioteca si rivelano davvero come risorse, compagne di vita, strumenti di cambiamento individuale e collettivo. Tante persone, con cui ho scambiato un’impressione o un saluto nel periodo di confinamento, mi hanno detto che stavano dedicando del tempo, finalmente, a mettere a posto i loro libri. Un’attività che può sembrare nient’altro che uno scacciapensieri, e che invece è già una prelettura o una forma di lettura, perché il primo modo di leggere i libri e la realtà consiste in un’operazione di ordinamento. L’ordine dei libri, in senso lato, è una categoria storica, mentale, antropologica su cui sono scorsi fiumi di inchiostro77: essa non è affatto nemica dell’amichevole disordine di cui i libri amano circondarsi e circondarci, ma nel contempo raccoglie e traccia i movimenti che li collegano. Mettere in ordine i libri (come chiudere o liberare i libri dalle casse prima o dopo un trasloco78), è un’attività che i bibliotecari conoscono bene, anche se non sempre amano come dovrebbero. È un’attività di cura, di passione per l’oggetto e per l’atto, che rappresenta la dimensione quotidiana della vita della biblioteca. Un gesto del pensiero inventivo. Forse la quarantena dei libri, cui stiamo dedicando molte attenzioni fisiche e tecniche in biblioteca, dovrebbe nutrirsi anche di questo spirito: non si tratta solo di una disinfezione, un atto di ‘patologia del libro’, ma riassume la storia di questi giorni di contagio, simboleggia la necessità di un cambio di ritmo e di paradigma.
Per fare del quotidiano un’invenzione è necessaria la biblioteca. Con tutta la sua creatività, la sua esperienza maker, la sua filosofia del fare, del leggere e del far leggere, la sua prossimità, la sua porosità. Perché abbiamo bisogno che la sfera del quotidiano irrompa nella vita della biblioteca, completando un processo di secolarizzazione e di appropriazione collettiva che è in corso da qualche secolo. Ma abbiamo anche bisogno che la biblioteca arricchisca l’esperienza del quotidiano, attraverso la sua lettura trasgressiva e decostruttiva, la sua vigile attenzione al dettaglio. La biblioteca con-vivente, che esce dal confronto con l’epidemia e con la malattia, è vicina alla visione olistica proposta da Maurizio Vivarelli e Margarita Pérez Pulido79, ma anche alla prospettiva naturalistica e organicistica di Ranganathan80. La biblioteca olistica non è quella che si ricava dalla somma dei suoi servizi, o dalla pur necessaria visione sistemica delle sue funzioni, o dalla tradizionale visione umanistica: è la biblioteca che, come dice Wayne A. Wiegand in Part of our lives81, entra a far parte della vita delle persone. È quella che invece di analizzare «il ruolo dell’utente nella vita della biblioteca», cerca di vedere «qual è il posto della biblioteca nella vita dell’utente»82 e magari di cambiarlo. Forse solo così si potrà modificare il triste dato statistico per cui solo l’11% dei lettori «sceglie la biblioteca di pubblica lettura come canale per procurarsi alcuni dei libri letti»83, che è ancora più desolante di quello rappresentato dal basso indice di impatto delle biblioteche italiane (che raramente raggiunge il 15% degli abitanti, anche nelle Regioni più avanzate84).
Nel titolo di questo saggio ho evocato, in modo piuttosto ermetico, i «quadri di un’esposizione» di Musorgskij85 per scattare qualche riflessione istantanea sulla fase storica che si è aperta con l’epidemia del Coronavirus, e soprattutto per sottolineare l’importanza del movimento immaginale e immaginifico che porta da una possibilità all’altra, come le promenades della suite. Più che un’impossibile sintesi, più che delle tesi compiute, spero emergano alcune linee di lavoro e di cambiamento (o di lavoro per il cambiamento). Dei gesti-barriera, come dice Latour86: degli atti di immaginazione teorica che ‘sospendano’ non solo l’azione del virus ma anche la tentazione di tornare a quella normalità che ha determinato il disastro.
La biblioteca con-vivente è un organismo che cresce e si trasforma in modo incessante, come afferma Ranganathan, ma non nel senso che possa o voglia forzare i limiti fisici, naturali ed etici dello sviluppo. È la biblioteca che sceglie di stare dalla parte del vivente anche quando questi non è soltanto o non è più l’umano.
Ultima consultazione dei siti web: 30 maggio 2020.