RECENSIONI E SEGNALAZIONI

a cura di Desirée de Stefano e Federica Olivotto


Roberto Raieli, Web-scale discovery services: principi, applicazioni e ipotesi di sviluppo, prefazione di Riccardo Ridi. Roma: Associazione italiana biblioteche, 2020. 289 p.: ill. (Percorsi AIB; 4). ISBN 9788878122956 (cartaceo); 9788878122970 (e-book: ePub); 9788878122987 (e-book: PDF).

Roberto Raieli ha iniziato a lavorare in biblioteca nel 2002 ed è attualmente direttore della Biblioteca del Dipartimento di storia antropologia religioni arte spettacolo e della Biblioteca Angelo Monteverdi per gli studi filologici linguistici e letterari. Ha avuto quindi modo di seguire l’evoluzione dei sistemi di ricerca utilizzati all’interno delle biblioteche accademiche, culminata con l’affermarsi dei web scale discovery service (WSDS).
Il libro inizia con un’introduzione dal titolo Ambito, strumenti, attori e valori della scoperta di conoscenza. Seguono poi quattro capitoli (Evoluzione dei sistemi di ricerca; Gli strumenti di ricerca e scoperta; Principi e teorie; Information discovery e information literacy) e una conclusione in cui ci si chiede: Da quando abbiamo Google e Sci-Hub, che bisogno c’è delle biblioteche?
Il risultato cui giunge Raieli è che questi strumenti non devono necessariamente puntare a sostituire l’OPAC e le altre interfacce specifiche di ricerca, ma ad oggi possono porsi a un livello più basilare, o più generale, di scoperta delle informazioni e delle risorse, in posizione di avvio delle ricerche, con un’ottica trasversale, soprattutto in ambito accademico.
Sempre secondo l’autore, molta della loro efficacia dipende dall’attenzione e dalla competenza con cui una biblioteca riesce a implementarli, definendone con consapevolezza i confini dello spazio di applicazione, a seconda della propria mission e dell’utenza di riferimento.
L’analisi di Raieli non si ferma qui. Egli infatti rileva che i limiti di queste applicazioni dipendono dal fatto che non è ancora stato realizzato un vero e complessivo mutamento nell’organizzazione delle diverse basi dati cui applicare i WSDS, e molte di esse sono realmente simili a silos, depositi chiusi e indipendenti. I nuovi strumenti di accesso dovrebbero essere applicati a nuovi indici di dati che nella struttura si avvicinano al web semantico. In questo modo ai discovery service potrebbe essere affidato il compito di gestire un universo di risorse confinato e sicuro nell’ampio spazio informativo di una biblioteca, ma i metadati e i dati che lo compongono devono essere prima preparati opportunamente, guardando sempre più alla possibilità di creare i dati, o di collegarne di già esistenti, proprio dentro il web semantico, gestendoli con nuovi mezzi di trattamento e ricerca.
A questo spirito sociale, in conclusione è collegata l’opportuna implementazione, ma anche la necessaria didattica, di ogni nuovo o vecchio strumento messo a disposizione dalle biblioteche. In questo è indispensabile il ruolo di una rinnovata information literacy per svolgere anche la funzione di mediazione dell’informazione, ma non dimenticando che, oltre a quest’ultima e al servizio di ricerca, è necessario mantenere un approccio critico nella guida alla conoscenza.
Le argomentazioni dell’autore sono senz’altro convincenti, anche se non fornisce dati a supporto delle sue conclusioni. Quando parla, ad esempio, del fatto che i WSDS non si sono dimostrati in grado di sostituire gli OPAC, potrebbe citare a sostegno le statistiche di utilizzo di EBSCO Discovery service e SebinaYOU impiegati dal Sistema bibliotecario Sapienza. 
Non tiene inoltre conto del fatto che, oltre al web semantico, esistono anche altre strade per raccogliere e riorganizzare i dati bibliografici, come ha fatto ad esempio Google scholar. In questa prospettiva, i bibliotecari potrebbero fornire un grande contributo all’analisi dei dati e, sfruttando le possibilità offerte dalle nuove tecnologie, portare alla creazione di strumenti di recupero dell’informazione in grado di rendere possibile lo svolgimento di tutti i casi d’uso previsti dall’IFLA library reference model.

Danilo Deana
Università degli studi di Milano


Marco Locatelli, Come promuovere il benessere di chi lavora in biblioteca. Milano: Editrice bibliografica, 2019. 82 p. (Library toolbox; 33). ISBN 9788893570992 (cartaceo); 9788893571272 (e-book: ePub).

Barbara Mantovi, Come pianificare in team le attività e i servizi della biblioteca. Milano: Editrice bibliografica, 2019. 70 p. (Library toolbox; 34). ISBN 9788893571005 (cartaceo); 9788893571494 (e-book: ePub).

Come promuovere il benessere di chi lavora in biblioteca di Marco Locatelli e Come pianificare in team le attività e i servizi della biblioteca di Barbara Mantovi sono due agili volumi che si inseriscono a buon diritto nella collana Library toolbox di Editrice bibliografica. L’obiettivo di questa collana è quello infatti di essere una cassetta degli attrezzi dove i bibliotecari possano trovare guide pratiche e utili strumenti che permettano loro di affrontare i più svariati aspetti del complesso e articolato mondo bibliotecario. I due contributi presi qui in esame, pur non affrontando il medesimo tema, mettono al centro dei loro vademecum la professione e il rapporto che il bibliotecario instaura con i suoi colleghi e con la società tutta. 
Il volume di Marco Locatelli affronta un tema di grande interesse, fondamentale per ogni professione, e al centro negli ultimi anni di molti studi: il benessere lavorativo. La lettura di questo contributo porta il bibliotecario a riflettere sui tanti aspetti che incidono sulla percezione dell’attività che svolge e sul significato che a quest’ultima viene attribuito. I quattro capitoli, attraverso una narrazione ricca di immagini metaforiche e di aneddoti personali dell’autore, sembrano voler dimostrare che tutti gli strumenti necessari al bibliotecario per raggiungere il benessere lavorativo siano già a sua disposizione: il lavoro su sé stessi e quello in team. Se da una parte una mentalità flessibile, attenta e dinamica è necessaria per affrontare i cambiamenti della pratica quotidiana e il rapporto con i colleghi, dall’altra una forte motivazione e la consapevolezza del valore del proprio ruolo risultano fondamentali per attribuire significato all’esperienza lavorativa. Le riflessioni che l’autore compie sul lavoro di squadra, sulla gestione degli inevitabili conflitti che possono insorgere tra colleghi e sulle diverse figure che i bibliotecari dovrebbero interpretare nel contesto professionale – come ad esempio: leader, tutor, ambasciatore – si delineano come utili suggestioni che permettono al bibliotecario di comprendere quanto l’adottare piccoli accorgimenti e strategie possano trasformare situazioni ‘emotivamente’ difficili in proficui scambi di idee e di progettualità. Il volume, che si conclude con alcuni suggerimenti pratici, ha il pregio di offrire ai bibliotecari diverse occasioni di riflessione e di autoriflessione.
Il volume di Barbara Mantovi si configura come una guida utile a facilitare la pianificazione condivisa delle attività in biblioteca mediante un preciso strumento: il library teams canvas (mutuato sul business model canvas di Alexander Osterwalder). Per pianificazione condivisa si intende la costruzione di un team di progetto che vede nella partecipazione e nella collaborazione di diversi attori della società, bibliotecari-decisori-stakeholder-cittadini, un potente mezzo per la costruzione di azioni progettuali in biblioteca. Il library teams canvas dal punto di vista pratico si configura come una griglia composta da sei campi di lavoro corrispondenti a sei questioni sulle quali i componenti del team di progetto sono portati a riflettere e a formulare ipotesi d’azione: 1. Pubblico; 2. Idea progettuale; 3. Relazioni e canali di connessione; 4. Partner del progetto; 5. Azioni da compiere; 6. Risorse necessarie. Segue quindi la costruzione di un “piano d’azione” finalizzato a trasformare le ipotesi formulate in un programma operativo. 
Il merito dell’autrice non si esaurisce nell’elaborazione e nella condivisione di un prezioso strumento di progettazione: il valore aggiunto di questo volume è l’attenzione che Barbara Mantovi presta alla spiegazione di ogni singolo passo per ciascuna delle fasi. Il lettore-bibliotecario è messo nelle condizioni di capire il perché una determinata azione sia necessaria, quali problematiche potrebbero insorgere nella sua attuazione, quali soluzioni sarebbe bene adottare. Con questo volume accanto il bibliotecario ha a sua disposizione gli strumenti per dare vita ad una progettazione condivisa in biblioteca.

Maddalena Battaggia
Sapienza Università di Roma


Going green: implementing sustainable strategies in libraries around the world buildings, management, programs and services, edited on behalf of IFLA/Ensulib by Petra Hauke, Madeleine Charney and HarriSahavirta. Berlin; Boston: De Gruyter Saur, 2018. VII, 234 p.: ill. (IFLA Publications; 177). ISBN 9783110605846 (cartaceo); 9783110605990 (e-book: epub); 9783110608878 (e-book: PDF).

Il volume è il risultato di un progetto di lavoro condotto nell’ambito di un seminario organizzato da Petra Hauke durante l’anno accademico 2017-2018 alla Berlin school for library and information science. Petra Hauke è attualmente la coordinatrice dell’Environment, Sustainability and Libraries Special Interest Group (Ensulib) dell’IFLA, un gruppo di lavoro specificamente dedicato alla promozione dei valori legati alla sostenibilità declinati nei 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 elaborata dall’ONU nel 2015. Il lavoro del gruppo fa riferimento non solo alle questioni legate alla sostenibilità ambientale, dunque, ma a tutti i valori e le attività che, in ambito bibliotecario attraversano l’Agenda 2030, come l’information literacy, l’uguaglianza, l’accesso aperto all’informazione senza barriere di nessun genere. Nel libro sono raccolti diciotto contributi di diversi autori suddivisi in tre capitoli. Il primo capitolo offre un inquadramento generale dell’argomento mentre i due successivi sono dedicati ai resoconti di esperienze nelle biblioteche pubbliche e in quelle accademiche. 
Nella prima parte del volume viene delineato il concetto di sostenibilità per le biblioteche, sottolineando come non debba essere limitato alla sostenibilità ambientale. La stessa nozione di ‘green library’ deve essere ampliata, non restringendola alle considerazioni legate all’impatto ambientale (in termini di impatto energetico, per esempio) ma includendovi altri ambiti quali la disseminazione dell’informazione sui temi legati all’ambiente, gli aspetti di sostenibilità dell’edificio e degli interni della biblioteca ma anche delle attività bibliotecarie, e in generale un’azione rivolta ad accrescere nei cittadini la consapevolezza su queste tematiche. Far coincidere l’idea di ‘green library’ con gli elementi prettamente architettonici è fuorviante, sia perché escluderebbe automaticamente alcune biblioteche, per esempio quelle ospitate in edifici storici, sia perché in tale concetto c’è molto di più e, come efficacemente sintetizza Harri Sahavirta (segretario di Ensulib e bibliotecario alla Helsinki city library) nel suo contributo: «un giardino sul tetto non fa una green library».
Negli interventi all’interno del volume si individuano, inoltre, le modalità con le quali possono essere introdotte azioni mirate allo sviluppo sostenibile. Si parla di collezioni e della necessità di coprire i contenuti dell’Agenda 2030 attraverso un’offerta documentaria sempre aggiornata, di sostenibilità del digitale, di catalogazione semantica e di come mettere in evidenza tale offerta documentaria, di sustainability literacy, ovvero alfabetizzazione alla sostenibilità, di accesso aperto. Nelle esperienze delle biblioteche pubbliche e universitarie riportate nei contributi vengono descritti i servizi al pubblico realizzati in varie realtà internazionali, per gli adulti e per i bambini, quali la creazione di ‘eco scaffali’ o ‘green corner’, ovvero scaffali o angoli espositivi dedicati alla sostenibilità, attività di promozione della lettura, laboratori, organizzazione di mostre e di rassegne cinematografiche, campagne di raccolta differenziata e riciclo dei materiali, di risparmio energetico e idrico. Il libro offre molti spunti e suggerimenti utili che dimostrano come nelle biblioteche si possa cominciare anche da piccoli gesti per contribuire all’attuazione dell’Agenda 2030 e rappresenta, quindi, un buon punto di partenza per lavorare concretamente su questi temi.

Rossana Morriello
Servizio programmazione sviluppo e qualità, Politecnico di Torino


Giorgio Montecchi, Storie di biblioteche, di libri e di lettori. Milano: Franco Angeli, 2018. 282 p. (Studi e ricerche di storia dell'editoria; 72). ISBN 9788891768070.

Ci troviamo di fronte alla summa del lavoro quarantennale accademico di Giorgio Montecchi, già professore ordinario di storia dell'editoria e storia delle biblioteche all’Università di Milano. Il lavoro si presenta come un resoconto che guarda al passato ma che vuole essere di stimolo a ulteriori ricerche nel futuro. 
Il titolo utilizza tre termini che si richiamano e si completano a vicenda. Non ci può essere biblioteca senza libri e lettori. Ad ogni libro un lettore e ad ogni lettore una biblioteca. 
Ma Montecchi va oltre utilizzando i termini di biblioteca, libro e lettore al plurale proprio per mettere in evidenza che esistono diverse tipologie di biblioteche (che possono essere ecclesiastiche, universitarie, signorili, pubbliche, private, statali, popolari, scolastiche, civiche ecc.), così come esistono differenti tipologie di libri (religiosi, letterari, scientifici, proibiti, scolastici) e diversi modi di essere lettori (studenti, accademici, letterati, religiosi).
La bella presentazione di Roberta Cesana è un passaggio di consegne tra chi ha insegnato e chi si accinge ad insegnare nella stessa università ereditandone l'eleganza e la passione per la docenza. Cesana interpreta il lavoro accademico di Montecchi come un’eredità da custodire e salvaguardare riconoscendone la generosità nella condivisione delle ricerche.
Il libro è diviso in tre parti precedute da un antefatto: Antefatto. Il lungo Medioevo delle biblioteche europee sotto le insegne della Chiesa (p. 17-40); Parte prima. La Chiesa. Biblioteche ecclesiastiche nell'età della Controriforma (p. 41-112); Parte seconda: Lo Stato. Biblioteche signorili e statali d'antico regime all'Italia unita (p. 119-198); Parte terza: Il popolo. Dalle biblioteche popolari alla biblioteca pubblica (p. 199-274). La suddivisione che è al tempo stesso cronologica ma anche istituzionale fornisce al lettore le coordinate spazio temporali per muoversi all’interno del libro e recuperare attraverso i microcosmi narrati l’idea dell'universalità a cui sottendono. 
Se le biblioteche medievali si caratterizzano per essere prima capitolari e successivamente universitarie, Montecchi dedica pagine importanti alle biblioteche monastiche (cistercensi, benedettine, ecc.) e conventuali (francescane, domenicane, ecc.) i cui termini spesso vengono confusi ma che designano tipologie ecclesiastiche completamente diverse tra loro e richiamano ad ordini e congregazioni religiose che hanno rapporti diversi e spesso ambivalenti con la libraria, il libro, gli studi e la lettura.
All'interno del mondo medioevale si inserisce prepotentemente il movimento dell'Umanesimo ispirato dalla grande figura di Francesco Petrarca che alla ricerca di codici antichi si volgeva alla riscoperta dei classici dell'antichità. Il suo concetto di biblioteca pubblica, da non confondersi con l’accezione contemporanea, si esprime pienamente attraverso la nota di possesso et amicorum. La biblioteca per l'umanista è essenzialmente un vaso librario finalizzato alla condivisione delle conoscenze e a uso di amici, studiosi e discepoli.
La nascita della stampa rappresenta la prima grande frattura tra il mondo sognato dagli umanisti, popolato da codici antichi e illustri eruditi, e quello contemporaneo travolto dall’incalcolabile numero di copie stampate della stessa edizione, commercializzate per un numero più elevato di lettori e di biblioteche.
Se l'antefatto si chiude con lo strapotere dell'editoria d'antico regime, la prima parte si apre analizzando il rapporto tra i cardinali e le biblioteche. Partendo dall'opera fondamentale di Paolo Cortesi De cardinalatu, Montecchi analizza le biblioteche cardinalizie che rappresentano un tema frequentato dagli studi recenti. In Italia, purtroppo, non esiste ancora un censimento nazionale delle biblioteche dei cardinali; una tipologia che andrebbe studiata maggiormente soprattutto per intenderne le caratteristiche, il canone bibliografico, il modello o i modelli a cui si ispirano. 
Segue il capitolo dedicato a Cardinali e biblioteche, e due riguardanti studi specifici della biblioteca a San Benedetto Polinore dal Cinquecento alla soppressione napoleonica; conclude la prima parte un capitolo sulla Biblioteca Arcivescovile di Bologna. 
Nella seconda parte Montecchi sposta il suo sguardo alle biblioteche signorili e al passaggio da queste a quelle statali. L’apporto delle biblioteche private a quelle pubbliche in termini di donazioni, cessioni, soppressioni e requisizioni, è un tema importante e la ricostruzione storica delle vicissitudini delle raccolte librarie (fondi e collezioni), che vanno a formare l'attuale conformazione fisica della biblioteca, rappresenta il fine istituzionale del bibliotecario.
Solo attraverso la storia delle biblioteche, che può essere a sua volta composta da diverse storie, è possibile comprendere appieno la funzione pubblica dell'istituzione che si va a gestire e valorizzare. Un aspetto che spesso i bibliotecari tralasciano di approfondire, assorti e assorbiti dalla catalogazione dei singoli volumi. 
La terza parte prende in considerazione la biblioteca contemporanea dove il lettore non è più l'ecclesiastico, il religioso, l'umanista, il cardinale, il signore, il collezionista ma l'uomo comune, o per usare un termine carico di significati: il popolo. Dopo l’Unità d’Italia il popolo delle biblioteche popolari è composto da uomini, donne, studenti e bambini di ogni estrazione sociale che vedono nella biblioteca pubblica e circolante un luogo dove poter soddisfare il desiderio di lettura, di studio e di svago.
Ancora una volta Montecchi, con un cambio di prospettiva, sposta l'attenzione dai lettori e dalle biblioteche ai bibliotecari, quest'ultimi ancora una volta protagonisti consapevoli di un tecnicismo volto non solo alla valorizzazione delle raccolte librarie ma alla condivisione di saperi professionali. Nomi come Pier Silverio Leicht, Ettore Fabietti, Luigi De Gregori rappresentano momenti di crescita di un sistema bibliotecario in senso moderno. Montecchi anticipa in queste pagine un filone di studi, portato avanti da Simonetta Buttò con il suo prezioso Dizionario bio-bibliografico dei bibliotecari italiani del XX secolo (https://www.aib.it/aib/editoria/dbbi20/dbbi20.htm), che guarda ai bibliotecari come figure importanti ed essenziali per la storia delle biblioteche. La storia non è soltanto storia delle istituzioni ma anche di individui che riescono, con il sapere, la passione e la dedizione, a incarnare quelle stesse istituzioni.
Il bel volume di Montecchi si chiude con un prezioso indice dei nomi che permette un facile orientamento all’interno del testo.

Francesca Nepori
Archivio di Stato di Massa


Piero Scapecchi, Incunabolo: itinerario ragionato di orientamento bibliografico. Nuova edizione aggiornata. Roma: Associazione italiana biblioteche, 2019. 116 p.; 17 cm. (ET: Enciclopedia tascabile; 41). ISBN 9788878122864 (cartaceo); 9788878122901 (e-book: PDF)

A quindici anni di distanza dalla prima edizione, la collana ET: Enciclopedia tascabile dell’Associazione italiana biblioteche ospita una nuova edizione aggiornata del fortunato volumetto di Piero Scapecchi intitolato Incunabolo: itinerario ragionato di orientamento bibliografico (AIB, 2004).
L’autore, nel corso di questi quindici anni, ha continuato a essere immerso nel mondo del libro a stampa del Quattrocento e ha fatto dono alla comunità scientifica, tra le altre cose, del prezioso Catalogo degli incunaboli della Biblioteca nazionale centrale di Firenze, stampato nel 2017 dall’editore Nerbini con una presentazione di Luca Bellingeri; con questo catalogo, tra l’altro, è stata inaugurata la collana Lo scaffale della biblioteca: materiali della Biblioteca nazionale centrale di Firenze che si propone di fornire agli studiosi importanti strumenti di lavoro. Il catalogo contiene informazioni relative a oltre 4.000 esemplari e circa 3.000 edizioni, dandoci conto, quindi, di una delle più cospicue raccolte presenti nelle biblioteche pubbliche statali italiane. Non è di questo catalogo, naturalmente, che dobbiamo parlare in questa sede e tuttavia richiamarlo alla mente è utile, almeno per ricordare quanto sia importante la frequentazione tra studiosi ed esemplari; l’autore infatti, nella introduzione al volumetto, scrive: «Confidenza con i libri a stampa del XV secolo si prenderà innanzitutto frequentandoli ma anche con il correlato studio degli scritti di Proctor, Haebler, Scholderer, Accurti, Bühler, Geldner, e almeno del catalogo della British Library […]» (p. 5).
Ed è proprio nella sua breve introduzione che Piero Scapecchi ci fornisce la chiave utile per comprendere questo denso manuale che si caratterizza per essere un’opera a vocazione divulgativa sì, ma rivolta comunque a lettori colti.
L’autore individua i punti salienti dello studio degli incunaboli: l’approfondimento dei rapporti tra libro a stampa e codice, la manifattura e l’approvvigionamento dei materiali scrittori (soprattutto la carta), le modalità di lavoro dentro l’officina tipografica e l’uso delle casse di caratteri, insieme alla loro progettazione, manifattura e, anche qui, al loro approvvigionamento; insieme a questi, altri punti salienti nella conoscenza degli incunaboli sono rappresentati da un lato dall’esigenza di un contestuale studio dei documenti coevi conservati negli archivi e nelle biblioteche e relativi all’arte tipografica del Quattrocento, e dall’altro la disponibilità crescente di cataloghi e repertori online e di numerose riproduzioni di esemplari, che ci consentono di avviare più facilmente controlli e confronti tra esemplari lontani tra loro. Ancora un altro filone che continua a rivestire importanza è quello della bibliografia testuale. 
Scapecchi tiene a precisare che i progressi della scienza incunabolistica «prendono consistenza nei cataloghi delle singole raccolte o negli annali»; e sono infatti i numerosi cataloghi apparsi a stampa negli ultimi anni che ci consentono di studiare meglio le raccolte e i singoli esemplari, mettendoli in relazione con altre raccolte e altri esemplari delle stesse edizioni, permettendoci di conoscere meglio le storie dell’uso e del possesso, della circolazione e della diffusione nel tempo e nello spazio dei libri a stampa del XV secolo. Fondamentale, quindi, associare lo studio dei fondi di incunaboli con quello dei fondi archivistici delle biblioteche che li conservano; scrive l’autore: «L’assetto delle collezioni di incunaboli […] deve essere sempre studiato con riferimento ai fondi archivistici relativi, sì che un catalogo sia sempre una completa rassegna delle fonti disponibili per illustrare la stratificazione e l’uso delle raccolte, sottolineando la vasta portata culturale della catalogazione dei fondi incunabolistici» (p. 53-54).
In che cosa questa edizione è diversa dalla precedente? 
Una lettura comparativa delle due edizioni permette sostanzialmente di notare il rafforzamento di due aspetti che desidero portare all’attenzione dei lettori. Da un lato mi sembra che sia sottolineata più volte la necessità dello studio integrato di esemplari, storia dei fondi, documentazione archivistica; infatti oltre al passaggio sopra citato, Piero Scapecchi ritorna a scrivere, alcune pagine dopo: «La catalogazione non può prescindere dallo studio parallelo dei documenti archivistici relativi al fondo o all’istituto a cui appartennero gli esemplari – ogni raccolta ha un archivio storico e dei cataloghi antichi (come si può pensare di redigere un catalogo degli incunaboli della Biblioteca nazionale centrale di Firenze non partendo dal Catalogo Fossi dei magliabechiani?), e da quello parallelo dei documenti archivistici relativi a biblioteche smembrate o non più esistenti, basti pensare alle biblioteche umanistiche e alle vicende delle soppressioni degli enti ecclesiastici succedutesi nella storia del nostro paese, partendo per gli enti dagli indici dei cataloghi offerti dai codici Vaticani relativi all’inchiesta sulle biblioteche della religiose promossa dalla Congregazione dell’Indice tra il 1568 e il 1601 […]» (p. 71). Dall’altro lato, ovviamente, è ampliata molto la bibliografia, arricchita da informazioni relative a pubblicazioni apparse nei quindici anni intercorsi tra il 2004 (anno della stampa della prima edizione) e il 2019.
Piero Scapecchi, continuando a sostenere che un catalogo di una collezione, oltre a essere una sfida avvincente, «è quanto di più raffinato si possa richiedere a un bibliotecario», segnala numerosi cataloghi apparsi negli ultimi anni e sottolinea l’importanza di avere oggi grandi repertori online e numeri consistenti di esemplari digitalizzati disponibili anch’essi online; cita poi un progetto che, in particolare, ha portato un «innovativo e notevole contributo alla storia degli esemplari», quello del Material evidence in incunabula (MEI), ideato e realizzato da Cristina Dondi e ospitato dal CERL e, insieme a questo, l’Index possessorum incunabulorum (IPI), curato da Paul Needham.
Una bella nuova edizione, quindi, adatta a chi si occupa di incunaboli e fondi antichi delle biblioteche per aggiornarsi sullo stato dell’arte e a chi si avvicina per la prima volta allo studio di questo ambito disciplinare per capire come muoversi nella bibliografia, ossia come percorrere il proprio ‘itinerario ragionato’.

Simona Inserra
Università degli studi di Catania


Francesca Aiello [et al.], Incunaboli a Catania I:Biblioteche riunite Civica e A. Ursino Recupero, con la collaborazione di Rita Carbonaro. Roma: Viella, 2018. 300 p.: ill. (Incunaboli; 1). ISBN 9788867289868.

Lucia Catalano [et al.], Incunaboli a Ragusa, con la collaborazione di Giuseppe Barone [et al.]. Roma: Viella, 2019. XII, 294 p.: ill. (Incunaboli; 2). ISBN 9788833132112.

Con queste prime due uscite, l’editore Viella ha inaugurato una nuova collana editoriale, Incunaboli, affidata alla direzione di Marco Palma e dedicata alle prime testimonianze della stampa a caratteri mobili. Come precisato dai curatori nella premessa al volume catanese, la metodologia di descrizione degli esemplari conservati nelle biblioteche fin qui scandagliate è la medesima già adottata nel 2015 per il catalogo Incunaboli a Siracusa (Viella, 2015; recensito da Simona Inserra in «AIB studi», 56 (2016), n. 3, p. 498-500), e l’ambito geografico di interesse non è ristretto al territorio siciliano: sono in fase avanzata di elaborazione, per la stessa collana, cataloghi di incunaboli conservati a Cagliari e a Cesena. L’antesignano volume siracusano aveva trovato ospitalità in una diversa collana editoriale, di ambito prevalentemente paleografico-codicologico (Scritture e libri del Medioevo) e ciò ha alimentato l’occasione per un’interessante quaestio di tipo metodologico sull’intera operazione in corso. In particolare, qualche studioso ha postulato un’anomalia di trattamento degli incunaboli nel venire catalogati sostanzialmente secondo gli stessi criteri adottati nella campagna catalografica ospitata da Sismel Edizioni del Galluzzo per i Manoscritti datati d’Italia, vale a dire con ordinamento delle schede secondo il luogo di conservazione (e in subordine, per segnatura di collocazione) e analisi bibliografica centrata sull’esemplare, seguendo nell’ordine la descrizione delle parti interne e quindi delle parti esterne di ciascun volume/unità fisica. Riassumendone all’estremo i termini, applicare tale metodologia è apparso poco appropriato vuoi per la natura degli oggetti, che fanno comunque parte di una tiratura in serie, vuoi per la funzionalità dell’apparato descrittivo, in quanto la mancata intestazione delle registrazioni agli autori avrebbe l’effetto di nascondere i dati identificanti ciascuna edizione. Lasciando un attimo in sospeso questi dubbi (ma rimandando anche alla stimolante conversazione tra Marco Palma ed Edoardo Barbieri nella rubrica Dialoghi di Urbisaglia de Il canale dei libri del CRELEB disponibile online, https://www.youtube.com/watch?v=aJE06hlOzTM), proviamo a esaminare più da vicino i primi due prodotti della collana Incunaboli di più recente pubblicazione.
Incunaboli a Catania I (che, a giudicare dal titolo, promette un seguito con i prestigiosi fondi della Biblioteca regionale universitaria del capoluogo e le dotazioni delle biblioteche comunali e di carattere storico della provincia) descrive esclusivamente manufatti librari presenti nelle raccolte delle Biblioteche riunite Civica e A. Ursino Recupero. Ente morale a gestione comunale istituito nel 1931, che già a partire dalla sua composita denominazione testimonia una ricca eredità, rappresentata da più nuclei librari confluiti in modi e tempi diversi (biblioteche di ordini e congregazioni religiose soppresse, biblioteca-museo del letterato Mario Rapisardi e la pregevole collezione del bibliofilo barone Antonio Ursino Recupero), le Biblioteche riunite custodiscono un patrimonio bibliografico di straordinaria importanza storica, ubicato in un’ala del magnifico complesso monumentale dei Benedettini di San Nicolò l’Arena. Nel raccontare la Storia della biblioteca (p. 11-13), la direttrice dell’istituto Rita Carbonaro segnala l’incremento della collezione originaria disposto dal Comune di Catania durante la gestione di Orazio Viola, ma fa notare anche la dispersione di circa un terzo del fondo degli stampati quattrocenteschi, avvenuta grosso modo tra la metà dell’Ottocento e la metà del Novecento. Ulteriori approfondimenti di natura storica sono sviluppati da Simona Inserra (Storia del fondo: gli esemplari e i segni di provenienza, p. 15-66), che entra nel dettaglio della stratificazione dei volumi appartenuti alle diverse comunità di religiosi presenti a Catania, in primis la congregazione benedettina cassinese ma anche i Carmelitani e le diverse famiglie del Santo di Assisi. Soffermandosi sui segni di provenienza, la studiosa attraversa un fittissimo reticolo di enti e persone, ricostruendo in qualche caso dei veri e propri itinera librorum, come avvenuto per una copia del volgarizzamento dell’Epitome historiarum Trogi Pompeii di Marco Giuniano Giustino (Venezia, von Köln e Manthen, 1477), che nel 1611 era attestata a Cosenza (e qui annotata da un accademico dei Costanti), prima di pervenire a Roma dove un bibliofilo catanese, il monaco benedettino Placido Maria Scammacca, l’aveva acquisita ad usum proprio per poi lasciarla alla libraria di San Nicolò l’Arena, destinata infine - in conseguenza delle note leggi eversive del patrimonio dei religiosi - all’antica Biblioteca comunale di Catania (oggi Biblioteche riunite). Estremamente rilevante è la registrazione parallela di tutti questi segni di provenienza e possesso anche all’interno del database del progetto Material evidence in incunabula (MEI, https://data.cerl.org/mei/) curato dal Consortium of European Research Libraries (CERL), che permetterà opportuni confronti tra le entità identificate nel catalogo e quelle presenti nelle liste controllate della base di dati, correlando quindi gli esemplari delle Biblioteche riunite potenzialmente con ogni altra collezione internazionale con cui gli incunaboli catanesi abbiano elementi e dati in comune. È a cura della stessa Inserra la snella Nota sulla conservazione (p. 67-70) che precede il Catalogo vero e proprio: 126 schede in tutto (p. 71-213), seguite da due Esemplari dubbi (p. 215-217). Le schede, come si è detto, sono state realizzate dai coautori mantenendo fedeltà ai criteri di redazione, volti a valorizzare con estrema accuratezza ogni aspetto utile a caratterizzare l’identità fisica di ciascun manufatto (dimensioni, stato di conservazione, timbri, antiche segnature, ex libris, note manoscritte di provenienza e uso, marginalia di qualunque natura, modalità di realizzazione dei dispositivi di legatura e loro datazione). Non vengono però trascurati neppure i dettagli relativi all’identificazione e alla definizione della struttura formale e di contenuto per ciascuna edizione, incluso l’elenco di tutte le partizioni del testo in cui siano formalmente riconoscibili autori/titoli distinti tra loro, seguendo il modello offerto dal catalogo collettivo delle Bodleian Libraries di Oxford (Bod-Inc Online, http://incunables.bodleian.ox.ac.uk/), e senza rinunciare alla trascrizione integrale, in modalità interpretativa, del testo del colophon. A corredo, la Bibliografia (p. 219-239), che descrive con citazioni per esteso le opere già menzionate in forma abbreviata nelle schede, con riferimento sia ai repertori che censiscono le edizioni, che agli studi sugli specifici esemplari descritti; e tutti gli Indici (p. 240-260): cronologico, degli autori opere e incipit, dei nomi di persona e di luogo, degli editori e tipografi, dei luoghi di edizione, dei possessori. Prima delle 36 tavole in bianco e nero (p. 263-300) che riproducono particolari salienti degli esemplari del catalogo, un’apposita nota (p. 261) avverte che il lavoro apporta cinque aggiunte e otto correzioni al database internazionale di riferimento, l’Incunabula Short-Title Catalogue (ISTC), creato dalla British Library e oggi in hosting presso il CERL.
Analoghe considerazioni valgono per Incunaboli a Ragusa, con alcune novità di una certa importanza. Anzitutto va ricordato che, in questo caso come anche per il volume siracusano del 2015 prodotto praticamente dallo stesso gruppo di lavoro, si tratta di un catalogo collettivo, circostanza che permette di cogliere l’aspetto cooperativo, nient’affatto scontato in lavori di questo genere, e il valore intrinseco di questa campagna di catalogazione, in grado di offrire informazioni preziose anche su esemplari conservati in sedi che non sempre dispongono di specialisti del settore. Nella presentazione iniziale, Irene Donatella Aprile e Rosalba Panvini rimarcano la sinergia di intenti che ha permesso al personale della Soprintendenza ai beni culturali e ambientali di Siracusa di contribuire al lavoro di schedatura nel territorio ragusano. Le Storie dei fondi (p. 3-12) permettono di contestualizzare meglio i luoghi e i possessori attuali degli esemplari descritti: accanto alle biblioteche comunali Giovanni Verga di Ragusa, Salvatore Quasimodo di Modica e Carmelo La Rocca di Scicli, figurano due raccolte ecclesiastiche (la Biblioteca padre Giuseppe Balestrieri del convento dei frati minori osservanti S. Maria di Gesù e il nucleo librario presente nell’Archivio storico della cattedrale di S. Giovanni Battista di Ragusa) e una collezione privata, quella del bibliofilo Giorgio Ottaviano, residente a Ragusa Ibla (a cui appartiene oltre un terzo dei manufatti catalogati nel volume). La natura fortemente eterogenea dei 73 esemplari del catalogo, come sottolineato da Rosalia Claudia Giordano nel saggio Nota sugli esemplari (p. 13-31), rende arduo e tortuoso il cammino che lo studioso delle provenienze librarie è chiamato a compiere, vuoi per la totale o parziale reticenza delle fonti, vuoi per l’oscuramento delle informazioni al momento delle alienazioni e dei passaggi di mano, soprattutto quando a subentrare nel possesso sono stati librai antiquari o collezionisti privati. Non va trascurata, inoltre, l’enorme perdita di informazioni determinatasi a seguito della sostituzione di elementi strutturali e supporti delle legature, avvenuta soprattutto in occasione delle operazioni di restauro moltiplicatesi tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso (a cui non era prassi, in quel momento, associare la conservazione ordinata dei frammenti delle parti originarie). Giordano si sofferma poi su alcuni aspetti di particolare rilievo con riguardo alle legature storiche rinvenute (supporti, presenza di quadranti, carte decorate, impianti di cucitura, riuso strutturale, riciclo di materiali precedenti), correlandoli alla necessità di disporre di tecnologie utili a favorire la normalizzazione della nomenclatura (come il thesaurus associato al progetto internazionale Ligatus, a cui si ispira anche Arca, un database impiegato dalla Soprintendenza di Siracusa per la registrazione di dati sullo stato di conservazione degli esemplari antichi e sulle caratteristiche delle legature storiche). A seguire, i coautori di Incunaboli a Ragusa approfondiscono ulteriormente, in Segni d’uso e provenienze (p. 33-81), il tentativo di identificare gli esemplari in rapporto alla storia delle comunità religiose locali e alle relative fonti archivistiche, inevitabilmente concentrandosi soprattutto su due cluster storici, ossia l’inchiesta avviata dalla Congregazione dell’Indice alla fine del Cinquecento sul contenuto delle biblioteche claustrali (di cui sopravvivono numerose liste di libri oggi conservati presso la Biblioteca Apostolica Vaticana), e la fitta e variegata documentazione delle autorità di governo statale e locale risalente al periodo successivo alla soppressione postunitaria degli ordini religiosi (seconda metà del XIX secolo). Questo saggio è caratterizzato da una notevole quantità di immagini relative a note di possesso e uso, inserite nel corpo del testo in corrispondenza dei relativi commenti, e da un’ampia messe di note a piè pagina, alcune delle quali contenenti dettagliatissimi elenchi di identificativi del database ISTC corrispondenti agli esemplari censiti nel corso dell’Inchiesta clementina. Le miniature dei signa sui libri aggiungono alle descrizioni del catalogo un elemento visivo altrimenti non riproducibile, permettendo al lettore di godere appieno, tra l’altro, di alcune colorite note in vernacolo siciliano (come la frase «C’ariposati allura, all’armi venno, gioia mia, patruna mia» scritta dal carmelitano Cirillo Bonvento in margine all’esemplare dell’edizione milanese del 1489 del Vocabulista ecclesiastico di Giovanni Bernardo Forte, oggi conservato a Modica). Viceversa, i riferimenti a ISTC appaiono francamente un po’ ridondanti e forse innecessari, sia perché ugualmente desumibili interrogando il database del progetto di ricerca RICI (oggi ospitato presso la Vaticana, rici.vatlib.it), sia perché nel saggio si trovano citati in sovrabbondanza, cioè anche con riguardo a esemplari non catalogati e luoghi e sedi non pertinenti al presente volume, ma semmai legati a quello del 2015, in cui al contrario tale reticolo di riferimenti risulta completamente assente, ad esempio Noto e Siracusa. Segue una documentata Nota sulla conservazione (p. 83-102), firmata da Rosalia Claudia Giordano, che ha praticamente assorbito, anticipandole, tutte le notizie specifiche sullo stato di conservazione di ciascun esemplare, sottraendole alla completezza delle relative schede, e finalmente il Catalogo (p. 103-211) basato sul consueto ordinamento delle schede per sede e per collocazione degli esemplari, indicando all’interno di ciascuna registrazione le note tipografiche, la bibliografia dell’edizione e dell’esemplare, l’individuazione e la restituzione di ciascuno dei titoli dei testi contenuti, dati nell’ordine in cui si presentano nell’esemplare (eloquente, in proposito, il dettaglio descrittivo nella scheda 55, San Girolamo, Epistolae, et al., Venezia, Giovanni Rosso, 1496, corrispondente a Inc. 11 del nucleo Giorgio Ottaviano, che per tale motivo occupa da sola ben dodici facciate), e infine tutti gli elementi specifici dell’esemplare (dimensioni, numerazione e fascicolazione delle carte, particolarità della manifattura, segni manoscritti, legatura). Completano il lavoro la Bibliografia (p. 213-231), da lodare soprattutto per la riparazione ad alcune vistose omissioni precedenti, in particolare cataloghi di incunaboli di biblioteche siciliane per lo più sfuggiti anche a ISTC in quanto redatti in anni relativamente recenti, in ogni caso dopo il censimento dell’IGI (ad esempio da Achille Bonifacio per la Biblioteca regionale universitaria di Messina, da Anna Maria Dotto per la Biblioteca nazionale di Palermo, da Margherita Giacalone e Maria Rosaria Mercadante per la Biblioteca Fardelliana di Trapani, da Giuseppina Li Calsi per la Biblioteca comunale di Casa Professa di Palermo, da Giuseppe Lipari per la Provincia dei Cappuccini di Messina, da Pietro Scardilli e Sebastiano Venezia per le biblioteche comunali della provincia di Enna); un elenco delle Fonti archivistiche (p. 233-234) esaminate; gli stessi Indici (p. 235-264) già visti per il volume catanese, con l’aggiunta (p. 265-270) di un Indice delle edizioni citate (ISTC), che inopinatamente cumula - e quindi confonde - i dovuti riferimenti puntuali alle edizioni identificate per ciascuna scheda del catalogo con la pletora di citazioni dei record del repertorio presenti nei capitoli di approfondimento, i quali invece sono da riferire, come si è detto, a un contesto allargato; gli Addenda e Corrigenda ISTC (p. 271-272), che fanno rilevare ben 39 aggiunte e 3 correzioni al repertorio; e infine 20 Tavole (p. 273-294), precedute dal relativo indice.
In definitiva, e tornando alla quaestio di cui accennavamo all’inizio, i due lavori sono accomunati dall’intento di offrire una panoramica dei tesori bibliografici stampati nel Quattrocento conservati in alcune aree del territorio siciliano senza limitarsi, tuttavia, a registrarli come pure e semplici testimonianze di specifiche edizioni, ma piuttosto cercando di descriverne la fisionomia attuale in un quadro non slegato dalle varie e complesse vicende delle istituzioni e dei possessori precedenti. Il trattamento catalografico riservato agli esemplari, secondo un approccio fortemente incentrato sulle loro particolarità fisiche prima ancora che editoriali, si rivela dunque pienamente funzionale a collegarli strettamente a un osservatorio globale della circolazione del libro antico, che opera con orizzonti molto più vasti, e in questo senso i due (in realtà tre) volumi editi secondo il progetto Incunaboli a… partecipano già al circuito internazionale degli studi incentrati sulla storia materiale degli esemplari di edizioni antiche. Un progetto perseguito fin qui con coerenza e a buon ritmo, senza finanziamenti pubblici alle spalle (il volume catanese, al contrario, si distingue per un’audace e meritevole operazione di crowdfunding culturale ‘dal basso’, documentata da Simona Inserra in Bibliotime, 20 (2017), n. 1-2-3), e fondato esclusivamente sulla passione e competenza dei redattori, e sulla generosa disponibilità degli istituti (o possessori individuali) che conservano le raccolte. Concluderei dunque sposando senz’altro la visione di fondo del coordinatore Marco Palma, condivisa dagli studiosi e catalogatori che con lui, in diverse regioni d’Italia, stanno dando vita alla collana Incunaboli valorizzando le collezioni locali, da chiunque conservate e possedute. Una visione che un maestro di bibliografia come Luigi Balsamo, nella prefazione alla Guida al libro antico di Edoardo Barbieri (Le Monnier, 2006, p. VII), accostando in una sintesi mirabile il riconoscimento dell’unicità di ciascun manufatto e il valore storico dei signa di possesso/provenienza e uso materiale dei libri, esprimeva così: «Il libro, oltre all’anima, ha pure un corpo, a somiglianza dell’uomo che lo ha prodotto. Il libro tipografico è sì uno dei primi prodotti in serie escogitati dall’uomo ma è illusorio ritenere, nel suo caso, che si abbiano di fronte semplici multipli; quelli antichi, in particolare, per alcuni aspetti sono oggetti unici quasi allo stesso modo dei manoscritti…»; e poco più avanti «… Si ha a che fare con libri appartenuti a istituzioni o a singole persone che in molti casi hanno lasciato su di essi tracce del possesso e dell’uso: individuare tali tracce rende possibile ricostruire le eventuali peregrinazioni degli esemplari, gli interessi culturali dei possessori (sovente anche i loro commenti), le forme di raccolta e di lettura, magari anche i maltrattamenti subiti (ad esempio per motivi di censura)».

Domenico Ciccarello
Università degli studi di Palermo


Martin Davies; Nail Harris, Aldo Manuzio: l’uomo, l’editore, il mito. Roma: Carocci, 2019. 206 p. (Frecce; 283). ISBN 9788843095018.

Il volume si compone di tre saggi brevi. Il primo saggio introduttivo Aldo, uomo ed editore di Martin Davies fu pubblicato in inglese nel 1995 in occasione dell’allora cinquecentenario dall’avvio dell’attività di Aldo come stampatore. All’epoca, l’autore era responsabile della sezione incunaboli della British Library. Il testo, rinnovato a distanza di vent’anni, presenta il classico schema cronologico che scandisce le varie tappe salienti e le svolte importanti dell’attività editoriale di Aldo: dalle prime edizioni in greco (molta enfasi viene posta alla pubblicazione della princeps di Aristotele) alle edizioni in latino e in volgare, passando in rassegna le innovazioni apportate al ‘prodotto-libro’ come il carattere corsivo e il formato in-ottavo dei celebri libelli portatiles. Pur esaltando gli indubbi meriti di Manuzio, soprattutto in quanto innovatore dell’arte grafica, Davies mette in luce però degli aspetti che smorzano il mito del personaggio. Mito che inevitabilmente si crea attorno a personalità così importanti. Sulla base di rigorosi studi filologici contemporanei, infatti, si è potuto appurare che la pretesa ?originarietà' dei testi che compongono le editiones principes degli autori greci impressi dai torchi aldini, tanto esaltata da Aldo stesso nelle prefazioni alle sue edizioni, va molto ridimensionata. 
È nel secondo saggio di Neil Harris, dal titolo Aldo e la costruzione del mito, che la figura mitica del personaggio viene analizzata cercando di indagare cosa in realtà Aldo Manuzio fece realmente per guadagnarsi un posto così alto nella storia dell’umanità. La domanda di ricerca è: cos’è che lo rende davvero eccezionale? L’operazione di smitizzazione del personaggio rende il grande editore ancor più degno di ammirazione per le innovazioni che fu capace di apportare alla nascente editoria, di cui a tutt’oggi possiamo ravvisare l’eco. Per capire il reale apporto della figura di Aldo nel suo significato storico, culturale e intellettuale è necessario dapprima comprendere appieno cosa sia stato il Rinascimento italiano e, nello stesso tempo, avere una conoscenza chiara di cosa significhi e cosa caratterizzi il lavoro dell’editore. Una profonda analisi storica e una conoscenza non superficiale di cosa significhi stampare e vendere libri sono le due condizioni fondamentali per comprendere appieno la figura di Aldo Manuzio. Il ritmo dell’argomentazione è scandito dalla riflessione riguardo ai numerosi primati aldini in merito agli aspetti grafici dei libri, i quali hanno avuto delle ricadute gigantesche nella cultura occidentale «perché ogniqualvolta si accende un computer e si legge quanto compare sullo schermo, in qualche modo ci si intrattiene con Aldo» (p. 69). Un paragrafo molto interessante riguarda le novità paragrafematiche introdotte da Aldo-tipografo, ad esempio la moderna forma della virgola, del punto e virgola, delle virgolette, dell’apostrofo, delle lettere accentate, l’utilizzo del rientro (o alinea), ecc. Tutto ciò viene esposto in maniera molto chiara, facendo riferimento al passaggio dal manoscritto alla pagina stampata. Harris cita dei testi le cui copie digitali sono disponibili alla consultazione in rete, per cui è interessante, non solo fare riferimento al corredo iconografico (46 carte di tavole in bianco e nero) posto in appendice al volume, ma anche andare a scovare nelle biblioteche digitali le pagine di quegli antichi esemplari descritti nel saggio.
Nell’ultimo contributo del volume I cataloghi aldini: la deontologia di una merce, Harris si concentra su quella particolare forma di comunicazione rappresentata dai cataloghi librari e specificamente sui tre cataloghi di Manuzio (rispettivamente degli anni 1498, 1503 e 1513) pervenutici in esemplari unici o in pochissime copie, alcune delle quali di recente scoperta come quella della Biblioteca civica Vincenzo Joppi di Udine. La circostanza secondo la quale nel catalogo del 1513, a margine dell’elenco a stampa, siano stati apposti i prezzi a mano ha stimolato non poche domande: sull’identità di chi abbia annotato i prezzi e quando ciò sia avvenuto. Un paragrafo a parte è dedicato alla comparazione dei prezzi delle edizioni aldine, sia in riferimento a quelle di altri stampatori coevi (sulla base del Zornale del libraio veneziano Francesco de Madiis), sia al reale potere d’acquisto dei compratoricui questi libri erano rivolti. Si sfata così definitivamente un mito, a quanto pare duro a morire, sulla presunta economicità dei libri stampati da Aldo. Il libro è consigliato sia come testo introduttivo allo studio di Aldo Manuzio ma anche a chi già conosce la figura del grande stampatore e intende approfondire delle tematiche specifiche godendo di un lavoro scientifico molto ben fatto.

Emiliano Favata 
Università degli studi di Palermo


Lodovica Braida, L’autore assente: l’anonimato nell’editoria italiana del Settecento.Bari; Roma: Laterza, 2019. XVIII, 199 p. (Quadrante Laterza; 217). ISBN 9788858136188 (cartaceo); 9788858138656 (e-book: ePub).

L’opera della Braida, docente di Storia della stampa e dell’editoria, conduce, come dichiarato dall’autrice stessa, in un ambito ancora poco esplorato e lo fa con un titolo, L’autore assente, che potrebbe a prima vista sembrare un paradosso per la compresenza concettuale di autorialità e anonimato, di presenza e assenza, da una parte l’identità autoriale, dall’altra l’identità assente (con anonimato) o celata (con mascheramento).
Oggetto di studio, enunciato nel sottotitolo, è l’anonimato nell’editoria italiana del Settecento. Come dichiarato dall’autrice stessa nell’Introduzione, si è inteso non una storia dell’anonimato, bensì lo studio di alcune sue caratteristiche, in un preciso ambito spazio-temporale, il Settecento italiano, un capitolo ancora poco noto della storia dell’editoria, ancor più in ambito letterario che filosofico. L’opera presenta una scelta di autori (con particolare riferimento ad Alfieri, Parini e Goldoni) e di generi (per esempio odeporico) in tema di anonimato.
Il volume è articolato in cinque capitoli, corredati da approfonditi e ricchi riferimenti bibliografici a piè di pagina, completati da un’introduzione e da un indice dei nomi.
L’Introduzione focalizza l’oggetto di studio dando al lettore, in un fluido e piacevole discorso, le principali coordinate su temi, concetti e dinamiche di base, rivestendo il termine ‘assente’ del titolo di un doppio significato: di assenza del nome (anonimato) ma anche di diritto autoriale (in parte legato anche al poco interesse dell’autore, finita la fase di scrittura, a quella di pubblicazione).
Il primo capitolo, Le ambiguità della «funzione autore», più corposo, tramite una riflessione sul mercato del libro presenta opposti atteggiamenti di autori di fronte alla prova degli stampatori e dei lettori. Emblematico il caso di Alfieri, a disagio nell’affrontare il momento critico della stampa, della correzione di bozze, della pubblicazione e della circolazione, di tutti i momenti successivi alla sua creazione intellettuale; egli arriva a parlare de «la terribile prova dello stampare», quasi figurando un contrasto, una frattura tra scrittura e pubblicazione.
Segue il capitolo L’anonimato nei libri di viaggio, ove tra l’altro si spiega come l’anonimato poteva riguardare anche una sola parte dell’opera, ad esempio: identità celata o assente nel titolo sul frontespizio ma presente poi nella dedica dell’autore. 
I capitoli centrali, Giuseppe Parini: tra anonimato e ritorno all’autorialità e Carlo Goldoni e la costruzione dell’autorialità indagano in maniera puntuale (circa 85 pagine in totale) l’atteggiamento quasi antitetico di questi due grandi testimoni del tempo, che vede da una parte una vittima di stampatori e plagiatori, dall’altra uno spirito ben più battagliero, commediografo e giurista, deciso a difendere i suoi diritti di autore contro stampatori, editori e impresari teatrali.
Il quinto e ultimo capitolo, Romanzi: libri da leggere e da dimenticare, è dedicato agli esordi difficili in Italia di un genere che, investito dal pregiudizio perché ritenuto poco colto, vede il frequente ricorso all’anonimato o alla falsa attribuzione. 
In conclusione, questa ricca pubblicazione è a mio avviso uno spunto di riflessione per specialisti di vari ambiti: storici della letteratura, critici letterari, bibliografi, catalogatori, ecc. Proprio il catalogatore, specie del libro antico, potrebbe sorprendersi nel leggere che persino taluni fondamentali repertori, come i vari dizionari di anonimi e pseudonimi, possano far luce solo su una parte di opere, quelle poi attribuite ad autori anonimi o pseudonimi, ma non sulla restante parte, quella delle opere mai attribuite. 
All’interno del volume grande spazio occupano temi come la volontà e il diritto autoriale, alcuni sempre in auge e di grande attualità anche nel panorama contemporaneo (come la difesa della proprietà intellettuale).
Alla fine di questo viaggio in intrecci di vicissitudini letterarie, editoriali e personali di scrittori del Settecento italiano, viene naturale ripensare al titolo; ci parlano le parole ma anche i silenzi dell’autore: all’autrice de L’autore assente il merito di aver dato voce anche a questi ultimi.

Fiorenza Ciaburri Scinto
Biblioteca di area umanistica, Università degli studi di Foggia


Hans Tuzzi, Libro antico libro moderno. Roma: Carocci, 2018. 223 p.: ill. (Sfere extra). ISBN 9788843093496.

Il principio da cui prende avvio l’autore del volume, che rappresenta un’edizione ampliata e modificata rispetto a quella pubblicata nel 2006 con le Edizioni Bonnard, è che «la conoscenza di come fossero i libri prima della rivoluzione industriale possa aiutarci a comprendere meglio l’editoria moderna, e persino il mondo dell’informatica» (p. 9).
Hans Tuzzi, consulente editoriale, romanziere e studioso di storia del libro, conduce il lettore in un percorso alla scoperta dell’oggetto ‘libro’, dall’invenzione della stampa a caratteri mobili di Gutenberg in poi. La descrizione degli strumenti essenziali, vale a dire i caratteri tipografici, la carta e il torchio, è al centro del primo capitolo, Le parole del libro, mentre nel secondo ci si sofferma sulla diffusione della stampa in Europa, le caratteristiche dei primi libri prodotti, le principali ‘botteghe’ italiane, le funzioni delle dediche e le figure dei librai (Sviluppi, modelli e commercio). 
Nei due successivi capitoli – Quel che non è testo e La struttura del testo – Tuzzi passa a illustrare il libro, le sue componenti (colophon, marca tipografica, frontespizio, miniatura) e altre caratteristiche che concorreranno a determinare un testo moderno, quali la «lenta conquista» della numerazione delle pagine, il processo di correzione delle bozze, l’indice e sommario, ecc.
Illustrare e rivestire libri è il titolo del quinto capitolo dedicato alle varie tecniche di incisione, da quelle in rilievo a quelle in cavo fino alla litografia, e alla sapiente «arte di legare i libri».
Con Poco è nuovo sotto il sole si descrivono gli strumenti pubblicitari in uso già fin dai primi libri a stampa, quali introduzioni o prefazioni inserite all’interno dei volumi e cataloghi editoriali pubblicati a parte, inizialmente su fogli volanti; vengono, quindi, presi in esame i cataloghi della Fiera di Francoforte, il cui studio ha permesso di conoscere la qualità e la quantità delle letture nell’Europa rinascimentale, e i cataloghi bibliografici che dal Messe Katalog presero spunto fino ad arrivare all’opera di Conrad Gesner. La seconda parte del capitolo è incentrata sulla ‘rivoluzione’ attuata dal romanzo moderno «che presuppone un nuovo pubblico, un nuovo linguaggio e una nuova “traduzione” tipografica di questo linguaggio» (p. 183): il frontespizio si ‘alleggerisce’, si diffondono le legature industriali, la qualità della carta peggiora. La storia dell’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert, il maggiore successo editoriale del Settecento cui presero parte editori, autori, avventurieri e tipografi in diversi Stati e della quale arrivarono a circolare in Europa 24.000 copie, chiude il lavoro di Tuzzi.
Da segnalare la presenza, oltre che di una Bibliografia essenziale (nella quale non sono compresi i contributi citati nel testo e in nota, ad esclusione dell’opera di Febvre e Martin), di un utile apparato di note suddivise per capitolo e di un Indice dei nomi e delle opere.
Libro antico libro moderno costituisce un’opera con taglio divulgativo agile e piana, ma al tempo stesso ancorata stabilmente alla letteratura scientifica e aggiornata al più recente dibattito, utile sia a quanti vogliano acquisire i principali elementi conoscitivi sul libro sia a coloro che, essendone già in possesso, desiderino ripercorrerne il cammino.
Probabilmente, proprio in virtù del fatto che la consapevolezza di cosa fosse il libro prima della rivoluzione industriale è importante ai fini di una migliore comprensione dei meccanismi editoriali moderni, l’accenno nel Prologo al mondo dell’ebook e ai cambiamenti apportati al libro cartaceo dalla dimensione digitale avrebbe meritato un richiamo un po’ più ampio alle caratteristiche, al significato e alla portata della «quarta rivoluzione».

Simona Turbanti 
Università di Pisa


Aldo al lettore: viaggio intorno al mondo del libro e della stampa in occasione del V Centenario della morte di Aldo Manuzio, a cura di Tiziana Plebani. Milano: Unicopli, 2016. (Miscellanea Marciana; 21). ISBN 9788840019307.

Per festeggiare i cinquecento anni dalla morte di Aldo Manuzio (6 febbraio 1515), la Biblioteca nazionale Marciana di Venezia ha ideato una serie di proposte culturali, curate da Tiziana Plebani, tra le quali una quindicina fra lezioni, conferenze, tavole rotonde, organizzate dai bibliotecari e dalle bibliotecarie marciane, con il soccorso di Alberto Prandi, sul grande umanista che per primo, dopo la nascita del libro a stampa, tenne a battesimo la moderna editoria. Il successo incontrato dalle occasioni pomeridiane, indirizzate al pubblico degli specialisti ma aperte anche a curiosi e colti uditori, per lo più ospiti abituali delle sale marciane, è andato oltre le dirette streaming (vedasi la lectio magistralis del 6 febbraio 2015, con cui – non in un giorno qualsiasi – Amedeo Quondam aprì la serie parlando di Aldo Romano: una vita per il libro) e oltre la pubblicazione di alcune di esse su Youtube o sul canale web di Venipedia TV. In parte rielaborate, spesso arricchite e approfondite, accostate a interventi estranei al ciclo di conferenze ma non ai suoi temi, le conversazioni sono state trasferite per iscritto e riunite in volume, sotto l’attenta cura della stessa Plebani e offrono un contributo storico-critico essenziale alle ricerche aldine, integrativo agli atti del convegno internazionale tenutosi nella città di Venezia e alle moltissime occasioni consacrate ad Aldo, ai suoi libri, al suo mondo, svoltesi nel quinto centenario. Vale la pena ricordare che il primo evento fu la presentazione del catalogo delle aldine marciane, e che da gennaio a novembre 2015 si dispiegò un fitto programma, verificabile nel dettaglio sul sito della Marciana (https://marciana.venezia.sbn.it/eventi/aldo-al-lettore).
Il volume miscellaneo è brevemente introdotto dalla stessa Plebani (p. 13-15) che ne dichiara le ragioni profonde, ne riassume i principali nuclei tematici, ne rivela l’aitía. Nel contempo l’agile Introduzione fornisce il resoconto sugli autori e sui titoli del ciclo, come a volerne tenere memoria e a giustificarne l’articolata composizione, e a metterne in chiaro, come un avviso al lettore aldino, il pubblico: esso si rivolge non solo a quanti intendono aggiornare le proprie conoscenze sull’insegna dell’àncora e del delfino ma è utile a coloro che vogliano affrontare il contesto economico, sociale e tecnologico della Serenissima al tempo di Aldo, una capitale della produzione e del commercio librari ma pure snodo rilevante di innovazioni nelle pratiche del leggere e dell’allestire i testi, dal punto di vista filologico, da quello materiale e da quello imprenditoriale.
Tre sono i saggi che fungono da soglia alle ricerche più specifiche, riservate ad aspetti più circoscritti, ma non meno rilevanti, della storiografia aldina: quello di Amedeo Quondam (Sisifo ed Ercole in tipografia: la missione di Aldo, p. 17-54), quello di Filippomaria Pontani (Essere utile agli uomini, p. 55-78) e quello di Vincenzo Fera (Aldo ai suoi lettori: le «Prefazioni» tra progettualità e utopia, p. 111-132). Dalla prospettiva dello storico della letteratura e dell’italianista, da tempo coinvolto nei problemi posti dall’umanista nei mestieri del libro e dalla letteratura in tipografia, Quondam mette a nudo alcuni dei maggiori significati dello sforzo sostenuto da Aldo per erigere «il mito di sé» (p. 19), per prender parte al «gioco di costruzione della propria immagine» (p. 20), così da riproporsi, quasi novello Petrarca, alle scaturigini dell’umanesimo tipografico, grammaticale e filologico. Eroismo di calibro sovrumano dell’editore scientifico e sagacia del costruttore di paratesti, soprattutto di dedica, sono le due cifre su cui Quondam insiste, offrendo un’acuta disamina del quadro complessivo delle dedicatorie aldine, mai isolate nel complesso allestimento editoriale ma sempre rapportate ai colophon e agliincipit (o frontes) delle edizioni. Più il saggio di Quondam entra nel merito più emerge come siano lo stesso Aldo, la sua determinata missione (indicata con il termine di provincia, impiegato in accezione preziosa di negotium o munus) e i suoi lettori i veri protagonisti dei testi liminari e della loro narrazione quasi mitologica, poli della «dialettica che sarà costitutiva del mondo del libro moderno e delle sue biblioteche» (p. 42). Una dialettica che Aldo dovette intrecciare anche con i poteri politici ed economici necessari alla sua provincia, sorretta non da ultimo da una schiera notevole di collaboratori e amici, sovente ricambiati dei molti favori ricevuti con la menzione nelle dediche.
Filippomaria Pontani confonde la sua voce con quella di una dei più stretti e importanti collaboratori di Aldo, il cretese Marco Musuro cui il filologo classico cede la parola, con un espediente retorico e narrativo che trasforma il saggio in un'avvincente narrazione autobiografica. A narrare di Aldo e del suo mondo è dunque l’umanista, il filologo e il poeta greco, che conobbe Manuzio, ne fu amico e con lui lavorò a progettare e realizzare il catalogo della risorta Ellade, nella libera terra della Serenissima. Con un raffinato gioco di specchi Pontani/Musuro raccontano di Aldo e, insieme con lui, dell’Italia tra fine del Quattrocento e primi del Cinquecento, fra il crescente interesse per l’apprendimento, la lettura e lo studio delle lettere greche, fra le febbrili ricerche di codici autorevoli su cui esemplare editiones principes, fra la spietata concorrenza, soprattutto fuori dai confini della Penisola, nella produzione editoriale, fra le occupazioni filologiche e didattiche, che lo richiamarono spesso a Venezia, presso Aldo, con cui pubblicò rilevantissime edizioni greche, quali quelle di Aristofane, degli epistolografi, di Platone e di altri autori mai approdati ai caratteri mobili prima di allora.
Ancorato alle ‘prefazioni’ aldine, e all’interpretazione magistrale che ne fece Carlo Dionisotti – come prevedibile, riferimento critico comune a molta parte dei saggi del volume – è il contributo del filologo medievale e umanistico Vincenzo Fera. L’utopia figura quale terreno comune a molte aspirazioni del grammatice professor, come Aldo fu definito nel 1480 al momento di ricevere la cittadinanza di Carpi: «perché l’umanesimo era sostanzialmente giunto al culmine e la letteratura greca sarebbe sì diventata territorio preziosissimo per lunghe generazioni di dotti, con un ruolo sempre più espansivo in Europa, ma non poteva certamente incidere sul tessuto socio-culturale del nuovo secolo con la forza travolgente con cui aveva inciso il latino nel vecchio Quattrocento. Anche perché si affacciavano all’orizzonte le nuove dinamiche del volgare, sempre più insofferente verso le lingue antiche, che in ogni modo Bembo stava tentando di armonizzare con le architetture della lingua latina» (p. 117). Aldo, per come lo legge Fera, si trovò quindi a varare molti ritrovati per lui sperimentali, come il catalogo editoriale, destinati a successi futuri, ma nel contempo non riuscì a trasformare in istituzione stabile il progetto culturale che sorreggeva la sua azione imprenditoriale, ossia l’accademia, anzi l’Aldi Romani Academia, come ebbe a nominarla nel colophon del Sofocle nel 1502. Un’istituzione che sarebbe stata capace di perpetrare quella «filologia pragmatica» (p. 123) che, secondo Fera, rappresenta il modello seguito da Aldo nelle sue progettualità editoriali, mai disgiunte dal cogente rapporto tra i testimoni, il loro testo e i lettori ai quali riproporre gli uni e l’altro in un nesso inscindibile.
Proprio i lettori - protagonisti di molti scritti del volume, che infatti li omaggia nel titolo - sono il nucleo essenziale del saggio di Tiziana Plebani (Aldo Manuzio e il patto con i lettori, p. 133-150), che offre una storia della lettura filtrata attraverso le pagine preliminari di Aldo. Plebani parte da una considerazione statistica: le cosiddette prefazioni sono attestate in 90 edizioni ovvero nel 70% della sua produzione ad oggi conosciuta (p. 141). La studiosa procede col distinguere, escludendo le prefazioni rivolte a un soggetto particolare (ad esempio ad Alberto Pio), i destinatari rappresentanti pubblico che «aveva in mente Aldo» (p. 142). Ne esce una classificazione dettagliata, e convincente, destinata a porsi come riferimento futuro per l’esame, sottile e analitico, del lettore ideale del catalogo aldino. Fa da contraltare all’esame di Plebani il ragionamento critico di Shanti Graheli che sposta il patto con i lettori dal piano ideale e progettuale a quello storico, concreto e documentato anche grazie a esemplari recanti tracce di lettura e uso più o meno coeve alla vita di Aldo (Aldo, i suoi lettori e il mercato internazionale del libro, p. 151-172). Fra i fruitori del libro aldino Graheli pone l’accento su una particolare categoria di lettori, per alcuni versi non meno illustri dei Grolier, degli Este, dei Gonzaga e di altri: i tipografi e gli umanisti-editori, concorrenti e/o emuli di Aldo, che acquistano i suoi libri e li leggono con un occhio molto singolare, proteso a coglierne gli elementi riproducibili in contesti differenti, per sfruttarne il lavoro ecdotico, l’impianto compositivo, il successo commerciale, così da trarne sicuro profitto. Graheli cita la copia delle Institutiones Grecae grammatices di Aldo appartenuta a Johann e Bruno Amerbach, o quella delle Orationes appartenuta a Johann Oporinus, o gli esemplari aldini postillati dal francese Adrien Turnèbe (1512-1565), uno dei maggiori umanisti-editori del secondo Cinquecento. Il lavoro di ricerca sulla derivazione delle edizioni del Cinquecento europeo dai modelli aldini, che i filologi hanno ben presente dal punto di vista testuale, è un terreno che anche gli storici del libro devono continuare a dissodare, alla ricerca delle prove materiali che la storia della lettura, e in particolare quella delle biblioteche, può offrire.
Nel libro figurano anche due specifici contributi incentrati su problemi di ordine tipografico e culturale, connessi con la stampa in caratteri ebraici e greci, affrontate rispettivamente da Giuliano Tamani (Aldo Manuzio e la stampa con caratteri ebraici, p. 173-184) e da Georgios D. Matthiòpoulos (Tracing the early greek printing types, p. 185-205). Non si tratta di contributi meramente tecnici, ancorché assai documentati e precisi nel raccogliere e collegare manifestazioni editoriali nelle due lingue, ma necessari a comprendere le modalità di ricezione di una parte rilevantissima, progettata in un caso, realizzata nell’altro, del catalogo aldino. E a dimostrare ancora una volta, se ve ne fosse bisogno, la statura elevatissima e la straordinaria capacità di innovazione tecnica, nella storia del primo secolo dalla apparizione dei tipi greci nella produzione incunabolistica europea, di Aldo e del suo «experienced type cutter», il bolognese Francesco Griffo, dotato di «immense technical virtuosity» (p. 197-198).
Il libro si chiude con tre contributi che non appartennero, come anticipato, se non in modo indiretto agli eventi marciani programmati per Aldo al lettore. Il primo ospita un ragionamento di Alberto Prandi, storico della fotografia e grafico editoriale, nonché responsabile della grafica e della comunicazione dell’intero ciclo di eventi: vi si accenna ai problemi posti dal passaggio al digitale, con i suoi pro e i suoi contra; si riflette sulla composizione dei materiali grafici appositamente realizzati per l’evento; si offrono spunti, un poco impressionistici, su quella che Prandi definisce «l’esperienza contemporanea della tipografia digitale» (p. 208). A Maria Gioia Tavoni il compito di prendere a pretesto la rassegna della fitta serie di eventi, sparsi in tutto il mondo, organizzati fra 2015 e 2016 per celebrare Manuzio. E di qui proporre, con il consueto spirito critico, capace di aprire nuovi spiragli di ricerca nelle direzioni più lontane e imprevedibili, riflessioni originali che accostano i Cantos di Ezra Pound a Soncino, Aldo, Griffo e soprattutto Cesare Borgia. E a tal proposito Tavoni richiama l’attenzione (p. 230) sul testo della celeberrima dedicatoria di Soncino al Borgia, e di fatto risollecita una riflessione sulla vexata quaestio della data in cui Griffo sarebbe stato condotto a Fano dal grande editore e tipografo in lingua ebraica: nella lettera di dedica del suo Petrarca, datata 7 luglio 1503, Soncino afferma di aver preso la decisione da un paio d’anni di abitare e stampare («già sonno doi anni […] deliberai») nella cittadina retta dal dedicatario Borgia e, ottenuto l’assenso del potente signore, ricorda di aver mostrato l’intenzione di condurvi valenti stampatori e incisori di caratteri. Che Griffo, nella stessa dedicatoria, come è noto, elogiato come «primo inventore et designatore» del corsivo, fosse giunto a Fano non lontano dal luglio 1503 o qualche mese prima, non è dato sapere, neppure alla luce dei nuovi documenti biografici su Griffo scoperti da poco da Rita De Tata. Difficile ipotizzare uno spostamento di Griffo a Fano prima del 1502, anno da cui di fatto Soncino iniziò a pubblicare libri nella città adriatica. Ma sono molte altre le riflessioni sollecitate dalle pagine di Tavoni, che si confronta con la pagina web meritoriamente curata da Paolo Sachet per conto del CERL, aggiornata a gennaio 2017 e di fatto capace di censire il maggior numero di occasioni (https://www.cerl.org/collaboration/manutius_network_2015/main) che hanno visto Aldo e le aldine protagonisti. Ultimo, ma non per importanza, del trittico è il saggio-recensione, a firma di Angela Dillon Bussi, del catalogo Aldo Manuzio, il rinascimento di Venezia (Marsilio, 2016; così pare di intendere il titolo, piegato a necessità estetiche dai grafici che hanno composto l’elegantissimo volume), eponimo della mostra tenutasi alle Gallerie dell’Accademia dal 19 marzo al 19 giugno 2016. Condivisibile è l’apprezzamento dello sforzo condotto per collocare Manuzio nel contesto artistico e culturale del suo tempo, come condivisibile è la sensazione che l’esposizione, orientata dai tre bravi curatori, storici dell’architettura e dell’arte, ossia Guido Beltramini, Davide Gasparotto, Giulio Manieri Elia, non abbia raggiunto in pieno il suo scopo per «mancanza di fusione della materia» (p. 242), fra arti visive e ars scribendi artificialiter. Per comprendere a fondo il senso del lavoro di Aldo nell’umanesimo dell’arte e della scienza della Venezia a lui coeva, infatti, lo sguardo dello storico e, in particolare, dello storico del libro avrebbe dovuto posarsi con egual peso sugli oggetti scelti nel percorso espositivo. Notevoli assenze, rilevate da Dillon Bussi (ad esempio, i testamenti di Aldo), sono tuttavia risarcite da altrettanto notevoli presenze, come le aldine provenienti da istituzioni estere, mai mostrate in Italia. E va dato atto ai curatori di aver affidato i testi critici e i commenti agli esemplari esibiti – codici scritti a mano e a stampa – alle penne di preparatissimi conoscitori della storia del manoscritto e del libro italiano del Quattrocento e Cinquecento, fra cui ricordiamo Mario Infelise, Laura Nuvoloni, Stephen Parkin e lo stesso Sachet.
Da ultimo va menzionato il saggio di Neil Harris, che costituisce quasi un piccolo volume autonomo, incastonato nel libro curato dalla Plebani, per la centralità delle questioni affrontate, per la ricchezza delle analisi condotte, per la novità delle conclusioni e per la rilevanza delle acquisizioni storico-critiche. Sotto il titolo di Aldo Manuzio, il libro e la moneta (p. 79-110) Harris affronta una serie di questioni fondamentali su Manuzio, spesso date per scontato o non ben chiarite da altri. Anzitutto si offrono, pur in assenza di documenti probanti, convincenti indizi del suo ruolo nei confronti della tipografia dell’Asolano, che assolse ai compiti più strettamente produttivi non essendovi di fatto prova alcuna che Aldo – direttore editoriale ante litteram – disponesse per suo conto di torchi e/o di attrezzature tipografiche; si contestualizza bene la sua scelta di Venezia fra le molte città incontrate durante la sua lunga carriera di grammatico, pedagogo ed editore-umanista; si dimostra, catalogo aldino alla mano, la reale organizzazione editoriale dell’Aristotele del 1495 e 1497-1498 (che sarebbe da trattare «come un testo “In logica” a se stante, mentre i quattro altri “In philosophia”» sarebbero da ritenere congiunti ma autonomi dal primo); si confrontano i prezzi delle aldine comparando i dati desumibili dai tre cataloghi di Manuzio – dei quali si dà un’analisi esemplare – con quelli offerti dal Zornale di de Madiis, seguendo il corretto metodo dell’esame del costo-per-foglio (vedasi la tabella di p. 98); si mostra una volta per tutte, facendo ricorso alla testimonianza, mai prima richiamata, di Theodore Low De Vinne (1828-1914: nel 1881 cita i portatili come «marvels of cheapness»), che con gli enchiridia Aldo fu tutt’altro che l’inventore del tascabile o il fautore della «messa a disposizione di cultura a costo economico per il beneficio delle masse» (p. 106) ma piuttosto un attento mediatore fra libro e moneta, come sintetizza il titolo.
La raccolta di scritti marciani, in sintesi, ben curata e dotata di un corretto indice dei nomi, è un titolo che non può mancare sullo scaffale degli studiosi di Aldo ma neppure su quello di chi vuol capire cosa significò, fra Quattrocento e Cinquecento, reinventare il libro, per renderlo famigliare a quello che anche noi, oggi, conosciamo.

Paolo Tinti
Alma mater studiorum università di Bologna