Riccardo Ridi
Vorrei conoscere me stesso.
Purtroppo mi mancano i dati.
(Altan, 1982)
Questo articolo costituisce la prosecuzione di quello recentemente pubblicato in questa stessa rivista1, che iniziava ricordando la molteplicità delle accezioni correnti del termine 'informazione', spesso segnalata da numerosi autori appartenenti ai più svariati ambiti accademici e professionali. Ad esempio il noto filosofo della mente e del linguaggio John Searle ha scritto, una dozzina di anni fa:
La nozione di 'informazione' una delle più confuse nella scienza cognitiva contemporanea e, in realtà, dell'intera vita intellettuale contemporanea. Ci sono almeno tre diversi significati di 'informazione' utilizzati oggi nella scienza cognitiva e in altre discipline: quello indipendente dall'osservatore, quello relativo all'osservatore e quello tecnico della teoria dell'informazione2.
Non è però detto che la pluralità di interpretazioni e usi di un certo concetto ne dimostri inesorabilmente la vacuità. Potrebbe anche darsi (e, nel caso dell'informazione, credo proprio che sia così) che ci troviamo di fronte a uno di quelli che Franca D'Agostini definisce 'superconcetti'3, ossia concetti filosofici particolarmente pregnanti e fecondi che talvolta stanno alla base di intere discipline filosofiche (« bene per l'etica, il bello per l'estetica, il giusto per la filosofia politica»4) e che comunque, grazie alla loro estensione e centralità, svolgono un ruolo orientativo e sistematizzante rispetto a tutti gli altri. Tali superconcetti spesso si oppongono fra loro a coppie, si definiscono reciprocamente creando situazioni di circolarità, possono essere interpretati in molti modi rischiando l'ambiguità, possono venire applicati a se stessi grazie alla autoriferibilità, tendono ad aggregarsi in gruppi e gerarchie, corrono il rischio di venire reificati e sono «particolarmente adatti a dare forma a tesi fondamentali, o supervere, ossia vere in qualunque interpretazione delle espressioni che le compongono»5. Tutte caratteristiche facilmente rinvenibili sia nel concetto di informazione6 che in quelli che, da alcune decine di anni, gli vengono spesso affiancati nell'ambito di quella 'piramide DIKW' (data, information, knowledge, wisdom, ovvero: dati, informazione, conoscenza, saggezza) alla cui storia, articolazione, varianti, criticità e punti di forza ho dedicato il mio precedente articolo7 (Figura 1).
Figura 1 Una classica piramide DIKW (data, information, knowledge, wisdom)
Figura 2 Una prima approssimazione della piramide DIKAS (data, information, knowledge, awareness, self-awareness)
Stavolta, per completare il discorso, invece di illustrare, confrontare e commentare numerose versioni della piramide teorizzate da vari autori (che mettevano in relazione reciproca i concetti di dato, di informazione, di conoscenza e, solo talvolta, anche quello di saggezza) tenterò di proporre, dettagliandolo maggiormente, un solo modello di piramide che mi pare particolarmente convincente. Tale variante della piramide sostituisce, al suo vertice, la saggezza (wisdom) con due successivi livelli di consapevolezza (awareness e self-awareness) e può quindi venire identificata con la sigla DIKAS (Figura 2 per una prima approssimazione e Figura 4, nel §7, per una versione più completa e accurata), ma più che a collegare fra loro i corrispondenti concetti essa aspirerebbe ad articolare il superconcetto di informazione, mostrandone il rapporto con i subconcetti che ne identificano vari aspetti, aggregazioni o stadi e che, pur dotati anche di nomi più specifici (dato, informazione semantica, sistema informazionale, conoscenza, sistema cognitivo, consapevolezza e autoconsapevolezza, coscienza e autocoscienza, segno, significato, semiosi, causazione, contestualizzazione e interpretazione, documento), non è del tutto errato neppure denominare, genericamente (almeno in determinati contesti), 'informazione'. Nella piramide DIKAS, dunque, l'informazione è presente ovunque, e non in uno solo degli strati. Nell'illustrarla mi avvarrò comunque dei preziosi contributi di vari autori appartenenti a diversi ambiti disciplinari, perché nessuno dei suoi segmenti pretende di essere completamente originale e anche la sua architettura complessiva aspirerebbe a venire accettata semplicemente come l'integrazione, la chiarificazione e la razionalizzazione di varie teorie e definizioni preesistenti.
In qualsiasi ambito disciplinare o linguistico8 'il dato', ossia 'ciò che è 'dato', indica qualcosa di preliminare rispetto a ogni nostra azione o ragionamento, di incontrovertibile rispetto a ogni nostro dubbio e di indipendente rispetto a ogni nostra interpretazione o volontà. Qualcosa, insomma, da cui non si può prescindere e con cui bisogna necessariamente fare i conti, indipendentemente da quali saranno poi le nostre mosse successive, sia teoretiche che pratiche. Appare quindi piuttosto naturale partire dal dato, nell'ambito degli studi sull'informazione, per tracciare una mappa dei principali concetti operanti in questo settore disciplinare.
Spesso i dati vengono considerati, banalmente, come mere informazioni particolarmente semplici, strutturate, normalizzate e universalmente accettate. Se però si vuole, al tempo stesso, declinare in chiave informazionale il paradigma generale del dato come premessa ed evitare circoli viziosi (se le informazioni si basano sui dati, come possono i dati stessi essere già informazioni?) conviene affidarsi alla definizione 'diaforica' dei dati elaborata da Luciano Floridi negli anni Duemila (e perfezionata da Jonathan Furner nel 2016) sulla base delle riflessioni di Donald MacCrimmon MacKay risalenti agli anni Cinquanta, ma rese popolari da Gregory Bateson nel 1969 col suo motto sull'informazione come «una differenza che fa la differenza»9. Secondo tale definizione può essere considerata un dato, inteso come precondizione per il verificarsi di un evento o fenomeno informativo, qualsiasi differenza, distinzione, discontinuità o mancanza di uniformità oggettivamente presente nella realtà10, laddove quest'ultimo termine può essere inteso, a seconda del contesto e del proprio orientamento filosofico, in almeno quattro modi diversi:
Tutte queste differenze e discontinuità esistono oggettivamente in almeno uno dei quattro livelli di realtà elencati, anche se nessun soggetto (inteso nel senso più ampio possibile, e quindi senza riferirsi necessariamente a un essere umano) le nota o se, pur notandole, non ne ricava alcuna informazione perché ignora il codice, il linguaggio, la logica o – più in generale – i meccanismi con cui sono state generate, volontariamente o involontariamente.
Sebbene tutti i resoconti e le discussioni relativi alla definizione diaforica dei dati insistano soprattutto sul concetto di differenza (d'altronde diaphora significa proprio 'differenza', in greco), si può notare come in realtà non solo le differenze ma anche le identità, intese come ripetizione delle stesse differenze, giochino un ruolo importante nella struttura dei dati16, perché due entità che a un maggior livello di definizione o di dettaglio sono, a rigore, leggermente diverse (come due diverse occorrenze della lettera R in un testo manoscritto o stampato) possono, a un livello di definizione o dettaglio minore, venir considerate virtualmente identiche ai fini della trasmissione dell'informazione. A tale riguardo si possono estendere a tutte le tipologie di dati le considerazioni sulla 'oppositività' (cioèsulla loro caratteristica fondamentale di essere distinguibili l'uno dall'altro, più decisiva di qualsiasi altra loro proprietà per essere considerati, appunto, dei dati) dedicate da Ferdinand de Saussure ai fenomeni linguistici e considerate un caposaldo dello strutturalismo17. Tenendo in considerazione sia le differenze che le identità e l'ordine con cui entrambe si susseguono si possono quindi definire i dati anche come «configurazioni [patterns] di organizzazione di materia ed energia»18, ossia come disposizioni, successioni, sequenze o strutture – più o meno vaste, complesse e casuali – di elementi fisici o simbolici distinti fra loro.
I dati, in un certo senso, possono già essere considerati informazioni embrionali, tant'è che c'è chi li chiama 'informazione sintattica'19 o 'informazione potenziale'20 e che il metodo per calcolare come trasmetterli con la massima efficacia, elaborato da Claude Shannon nel 194821, viene comunemente denominato «teoria matematica» (anche se, a dire il vero, l'articolo originario di Shannon si intitolava Una teoria matematica della comunicazione) e riguarda quel significato 'tecnico' del termine 'informazione' a cui si riferiva Searle nella citazione posta all'inizio del §1, nonché l'«informazione come cosa» teorizzata da Michael Buckland riferendosi a qualsiasi oggetto o evento che venga considerato in qualche modo o misura informativo, almeno
potenzialmente22.
L'informazione che i dati, da soli, sono in grado di esprimere, è però esclusivamente probabilistica, combinatoria, e del tutto incapace di trasmettere o produrre qualsiasi significato23. A questo livello «informare, in sostanza, significa scegliere (e comunicare) alcuni elementi individuati all'interno di un insieme di possibilità». Un grande numero di granelli di sabbia, dotati di un determinato numero di forme e di un determinato numero di colori, disposti casualmente sulla spiaggia, passibile di uno sterminato, ma determinato, numero di combinazioni, che indica il numero dei diversi significati che potrebbero essere veicolati da ciascuna diversa sequenza dei granelli (estremamente informativa, in termini sintattici e statistici, proprio perché estremamente improbabile). Ma poiché le combinazioni possibili sono troppe e, soprattutto, non esiste (o comunque nessuno conosce, se non a livello macroscopico) il codice o criterio che ne ha prodotta esattamente una piuttosto di un'altra, le 'differenze' nelle
disposizioni dei granelli 'non fanno alcuna differenza, ossia non trasmettono alcuna informazione autenticamente significativa. Se invece, come accade col DNA o con un testo scritto in una lingua umana, le entità che si differenziano fra loro sono in numero ridotto, così come le caratteristiche che le distinguono (può bastare una sola entità dotata di due caratteristiche per produrre il potentissimo codice
binario su cui si basa tutta l'informatica) e, soprattutto, se c'è qualcosa (ad esempio una cellula che capisce il DNA25 o qualcuno (ad esempio un umano che capisce quella lingua) in grado di decifrare il codice o comunque di comprendere il criterio o il meccanismo, allora quegli stessi identici dati, cioè quelle stesse identiche differenze, 'fanno la differenza', cioè generano la vera e propria informazione capace di conservare e trasmettere significato, detta talvolta anche 'informazione semantica'26 per distinguerla da altre accezioni.
Questo, almeno, il modo in cui la maggior parte degli studiosi di scienze dell'informazione tende a concettualizzare (sia spiegando la propria versione della piramide DIKW che in altri contesti) il passaggio dall'informazione meramente potenziale e 'sintattica' dei dati a quella 'semantica', ossia davvero significativa per qualcuno o qualcosa27. Tale approccio 'soggettivistico'28 prevede dunque che un organismo biologico (o comunque
qualcosa dotato di analoga complessità, oppure – per certi autori29– esclusivamente un essere umano) riesca a percepire, contestualizzare e interpretare alcune delle discontinuità oggettivamente presenti
nella realtà, dotandole di un significato30. Per chi condivide questo punto di vista «il concetto di informazione presuppone un soggetto; l'informazione esige un ricevente che sia in condizione di intendere il codice e
sia a conoscenza del contesto del messaggio»31, perché «l'informazione è un attributo della conoscenza e dell'interpretazione di chi riceve il segnale, non di quelle di chi lo invia né di quelle di qualche osservatore esterno onnisciente o del segnale stesso»32 e «dire che una cosa è informativa significa che essa possa rispondere a una domanda di qualcuno<»33, fino al punto di sostenere, addirittura, che «l'informazione sta nell'orecchio dell'ascoltatore più che nella bocca del parlante»33.
Esiste però anche un approccio 'oggettivistico'34 che, pur ammettendo che l'interazione con un soggetto possa produrre informazione o conoscenza di livello superiore o comunque più complessa, sottolinea come già al livello dei dati si possa parlare di vera e propria informazione, perché
quando riceviamo delle informazioni da qualcuno o qualcosa ('il tuo pacco è arrivato', '[la tua squadra] ha vinto la partita') noi ci consideriamo informati. Ossia noi riceviamo la configurazione [pattern] naturale di organizzazione di materia ed energia che consiste nell'aria che si muove col suono della voce di qualcuno oppure leggiamo la configurazione di organizzazione delle parole scritte oppure in qualche altro modo riceviamo nuove informazioni. Successivamente colleghiamo i suoni o le lettere alle parole e ai significati nella nostra mente e diamo un senso alla comunicazione [ricevuta]34.
L'informazione esiste indipendentemente dagli esseri viventi, nella struttura, nella configurazione [pattern] e nella disposizione della materia, e nella configurazione dell'energia nell'intero universo, e lo fa sia che ci sia o no qualche essere vivente presente a farne esperienza. [...] Possiamo parlare dell'informazione come di un fenomeno oggettivamente esistente nell'universo, che viene anche costruito, immagazzinato e utilizzato dagli esseri viventi in innumerevoli modi soggettivi, ciascuno specifico del singolo animale [o pianta]37.
Questo tipo di approccio, portato alle sue estreme conseguenze, può condurre a tesi radicali come quelle del biologo Tom Stonier38 (che ha ipotizzato che l'informazione corrisponda a un tipo speciale di particella fisica, battezzata infon) o del fisico John Wheeler39 (che col motto «it from bit» ha sintetizzato la sua teoria sulla natura informazionale dell'intero universo fisico40. Ma anche senza giungere a esiti così estremi non parrebbe del tutto assurdo ritenere che un'enciclopedia contenga oggettivamente più informazione di una spiaggia sabbiosa mossa dal vento, persino se l'umanità perdesse il ricordo della lingua in cui è stata scritta e nessuno fosse più in grado di estrarre e utilizzare le informazioni che essa ospita, anche perché è sempre possibile che, in un modo o nell'altro, una maniera per decifrarla spunti fuori, prima o poi41. Così come, del resto, è difficile sostenere che gli anelli di accrescimento degli alberi non contenessero alcuna informazione sulla loro età prima che gli esseri umani li notassero e ne capissero la logica42.
Da una parte, dunque, certi dati sembrerebbero essere oggettivamente più informativi di altri o comunque contenere delle informazioni indipendentemente dall'interpretazione di qualsiasi soggetto. Dall'altra, però, è indubbio che un sasso rovesciato in mezzo a un viottolo può risultare più o meno informativo a seconda di come la sua percezione si integra con l'insieme delle conoscenze già possedute dal percipiente e che un medesimo racconto arrecherà una quantità di informazione notevolmente diversa a chi conosceva già gli eventi narrati, a chi li ignorava e a chi ignora invece la lingua del racconto stesso43; per non parlare dei diversi significati – talvolta persino opposti fra loro che più persone (o addirittura le stesse) possono ricavare dal medesimo testo, immagine o evento, estraendone informazioni diverse a seconda del momento e delle diverse interpretazioni applicate44. Più in generale, gli stessi dati parrebbero quindi informare in modo ben diverso (o non informare affatto) soggetti diversi (o, addirittura, il medesimo soggetto), a seconda dei diversi contesti.
Dove risiedono, allora, l'informazione e il significato? Nei dati oggettivi o nella conoscenza soggettiva di coloro che tali dati percepiscono, cumulano, collegano, confrontano, contestualizzano e interpretano? Se il potenziale informativo dei dati si attua pienamente solo quando è recepito da un soggetto, diventando conoscenza, allora cos'è quella strana cosa – l'informazione (della quale pretendiamo di aver addirittura edificato niente meno che una o più scienze) – che sta fra i dati e la conoscenza e pare più inafferrabile di entrambi? Non c'è da meravigliarsi se perdurano le dispute45 fra oggettivisti e soggettivisti su come rispondere a tali domande, perché la questione è realmente complessa e ambedue i tipi di risposta sono sensati.
Una soluzione o piuttosto una sintesi e un compromesso si può però forse trovare, riconoscendo (come, d'altronde, fanno anche molti degli oggettivisti e dei soggettivisti meno radicali) che per generare i fenomeni informativi sono necessari elementi sia oggettivi che soggettivi. Tali fenomeni, inoltre, non sarebbero tanto delle 'cose' (difficilmente ascrivibili sia al campo dell'oggettivo che a quello del soggettivo), quanto piuttosto processi, flussi o azioni46 che collegano i dati (oggettivi) con le conoscenze soggettive, o più esattamente relative, come si vedrà nel §5, ma non per questo necessariamente coscienti). Detto diversamente: perché ci sia informazione sono necessari sia il dato che la conoscenza, in interazione reciproca, ma la conoscenza non coincide
con la coscienza e può sussistere anche in assenza di organismi viventi, come cercherò di spiegare nei prossimi tre paragrafi. Oppure, ancora piùsinteticamente: «l'informazione è il momento dinamico del dato, il suo incidere nel quadro delle conoscenze, modificandolo»47, perché «l'informazione non è una sostanza ma un processo. È il processo di venire informati»48.
Quando chi viene informato è un essere umano entrano ovviamente in gioco, nel processo informativo, anche aspetti psicologici, sociali e linguistici49 che ne condizionano pesantemente modalità ed esiti, ma la piramide DIKAS che qui viene presentata aspirerebbe a poter applicare i suoi primi tre gradini (DIK, ossia: dati, informazione e conoscenza) anche a qualsiasi sistema fisico, senza presupporre necessariamente il coinvolgimento di organismi biologici né, tanto meno, della coscienza e dell'autocoscienza umane, che entreranno in gioco solo nei suoi ultimi due stadi, identificati dalle lettere A (per awarenesses, ovvero consapevolezze) e S (per self-awarenesses, ovvero autoconsapevolezze).
Tale rinvio permetterà di proporre, nel §7, un contributo alla chiarificazione dei concetti di coscienza e autocoscienza privo delle petizioni di principio e dei circoli viziosi così diffusi quando si affrontano tali argomenti, grazie proprio alla possibilità di appoggiarsi su gradini precedenti che non postulano alcun tipo di coscienza.
Una concezione dell'informazione di questo tipo potrebbe rischiare di apparire troppo astratta, ma tale astrazione50 è un inevitabile – e non troppo ingente – prezzo da pagare per tentare di ricondurre a unità fenomeni informativi riscontrabili in ambito fisico, biologico e culturale che, tutto sommato, presentano più tratti in comune che invalicabili divergenze. D'altronde, ricondurre l'informazione a fenomeni di tipo esclusivamente o prevalentemente oggettivo o, viceversa, soggettivo potrebbe configurarsi, a sua volta, come un diverso tipo di astrazione, che ne accentua certi aspetti perché l'attenzione è rivolta solo a certe tipologie di informazioni51. Se si pensa solo alla 'informazione ambientale o ecologica'52 del DNA o degli anelli di accrescimento stagionale può essere forte la tentazione di ridurla ai meri dati presenti in natura ben prima che si evolvesse il primo Homo sapiens, mentre se si pensa solo a quella che circola nell'ambito della comunicazione fra esseri umani può risultare ancora piùirresistibile la tendenza a ricondurla all'attribuzione di significato effettuata dalla conoscenza psicologica del singolo individuo o da quella sociale della comunità di cui esso fa parte. Ma se si vuole davvero 'naturalizzare'53 l'informazione, collocando la comunicazione umana in un più ampio alveo esplicativo che non riservi alla nostra specie l'ennesimo privilegio tanto consolatorio quanto illusorio54, bisogna avere il coraggio di collocare sia l'informazione ambientale che la comunicazione umana all'interno di una sola cornice, che non appiattisca ma illumini le rispettive diversità. In certi fenomeni informativi risulterà prevalente il peso dei dati, in altri risulterà più rilevante quello della conoscenza, ma difficilmente
si potrà prescindere completamente da ciascuno di tali poli.
Non è però affatto facile, parlando dell'informazione, rimanere in equilibrio sulla soglia fra polo oggettivo e polo soggettivo55, e probabilmente neppure in queste pagine ci si riuscirà sempre, perché sia la psicologia che il linguaggio umani (evolutisi per facilitare la sopravvivenza, e non la speculazione) tendono naturalmente a reificare anche
entità non corrispondenti a veri e propri oggetti concreti, come la soggettività, l'oggettività e, appunto, l'informazione56. Di conseguenza ci risulta estremamente e illusoriamente facile e 'automatico' classificare tutti i contenuti dell'esperienza come fisici oppure come mentali, laddove invece almeno in alcuni di essi, come i fenomeni informativi,
gli aspetti oggettivi e soggettivi sono così strettamente connessi da risultare, forse, addirittura inscindibili57.
Ecco perché il concetto di informazione si trova in una posizione strategica (forse «non invidiabile» ma sicuramente ricca di opportunità) rispetto a numerose questioni centrali nel dibattito culturale contemporaneo, ben al di là del suo ruolo 'tecnico' nell'ambito della biblioteconomia e delle scienze dell'informazione:
L'informazione, intesa come oggetto teoretico, è in una non invidiabile posizione. Essa deve in qualche modo includere l'informazione intesa come oggetto materiale, come risultato cognitivo individuale e come istituzione sociale. [...] Essa viene applicato al significante e al significato e ai processi e convenzioni culturali che condizionano la relazione fra essi. [...] L'informazione sta in un territorio di confine fra testo e contesto, fra coerenza e contingenza, fra convenzioni sociali e conflitti sociali, fra sincronia e diacronia, fra messaggio e significato58.
Se la vera e propria informazione (cioè quella semantica, effettivamente informativa e significativa, e non quella meramente potenziale rappresentata dai dati, che potrebbero risultare informativi e significativi solo se inseriti in un adeguato contesto) non è un'entità statica ma un processo dinamico, bisogna capire di che tipo di processo si tratti. In vari ambiti disciplinari
si è sviluppata, negli ultimi decenni, una corrente di pensiero – minoritaria ma autorevole – che accosta il superconcetto di informazione (scelto, paradossalmente, proprio per certe sue caratteristiche che spesso vengono considerate dei difetti, come la transdisciplinarità e l'ampiezza di applicazione) a un altro vero e proprio superconcetto, forse ancora più transdiciplinare, ampio e discusso dell'informazione stessa, ovvero quello di causa59.
Alcuni autori60 hanno cercato di spiegare la causalità con l'informazione,
altri61 di spiegare l'informazione con la causalità, altri62 hanno messo in relazione causalità e conoscenza e altri ancora63 hanno rintracciato in alcune delle teorie e definizioni dei fenomeni informativi più diffuse nell'ambito delle scienze dell'informazione aspetti più o meno esplicitamente riconducibili al rapporto sussistente fra le cause e i loro effetti. Integrando tutti questi approcci si potrebbe sostenere che un processo informativo si verifica ogni volta che le 'differenze' o le 'configurazioni' oggettivamente esistenti nella realtà (ossia i 'dati') producono un cambiamento (ossia causano un effetto) più o meno stabile in un sistema informazionale sufficientemente complesso. In tale definizione il termine 'sistema informazionale' va inteso, per evitare tanto circoli viziosi quanto immotivate restrizioni, come qualsiasi oggetto, struttura, organizzazione o organismo capace di gestire – anche solo a livello minimale, ad esempio limitandosi a contenerli – dati64. E 'sufficientemente complesso' significa che tale sistema deve essere abbastanza dinamico e autonomo da essere in grado di ricevere, riconoscere, memorizzare, organizzare, contestualizzare, interpretare, trasformare, elaborare e trasmettere dati. Propongo, infine, di definire 'sistema cognitivo' ogni sistema informazionale che raggiunga o superi un tale livello di complessità, dinamicità e autonomia, senza che ciò implichi necessariamente anche la presenza di fenomeni come la vita, la consapevolezza o la coscienza65.
Un libro, all'interno di questa cornice, è un sistema informazionale piuttosto semplice, perché si limita a ospitare dati – che in questo caso sono sequenze di segni tipografici e immagini – sebbene talvolta organizzati in modo piuttosto articolato grazie a indici, sommari, strutturazione in capitoli e paragrafi, numerazione delle pagine e altri accorgimenti che facilitano la ricerca dei suoi contenuti. Un sistema informazionale ostituito da un sito web che viene costantemente aggiornato dai suoi redattori o dai suoi utenti e che magari produce inoltre anche una parte dei propri contenuti elaborando automaticamente i dati contenuti in altri siti web e che invia periodicamente, sempre in modo automatico, alcuni dei dati che contiene o che produce a una mailing list può invece essere considerato un sistema cognitivo. Ma, in base alle definizioni proposte, sono sistemi cognitivi anche i tipi più semplici di termostati, che, anche se dotati di memorie davvero minimali, sono comunque abbastanza autonomi e dinamici da riconoscere le variazioni nella temperatura dell'ambiente in cui sono immersi (che sono dei dati) e trasformarle nell'attivazione o meno di un interruttore (cioèin ulteriori dati)66; e lo sono ancora di più quei tipi di ascensori67 che non solo ricevono dagli esseri umani che premono i loro tasti i dati relativi ai numeri dei piani e li trasformano in istruzioni impartite al proprio motore, ma che riescono inoltre a memorizzare temporaneamente tutti i dati ricevuti, in modo da poterli poi elaborare in sequenza, rispettandone l'ordine di acquisizione o seguendo altri algoritmi. I sistemi informazionali, quindi, 'fanno qualcosa' coi dati (spesso li organizzano e li tengono in ordine), e possiamo considerarli sistemi cognitivi quando questo 'qualcosa' include l'autonoma ricezione, la conservazione (anche se parziale e temporanea), l'elaborazione e la trasmissione dei dati stessi.
Ogni volta che uno o più dati riescono a modificare, anche se solo temporaneamente, il contenuto di un sistema cognitivo, ci troviamo di fronte a un processo informativo, e possiamo chiamare 'informazioni' sia quegli stessi dati (68 di Buckland), sia le modifiche apportate al sistema cognitivo(chiamate da Buckland «informazione come conoscenza»69), ma anche l'azione di cui i primi sono la causa e le seconde sono gli effetti, ossia l'«informazione come processo»70, sempre con le parole di Buckland. Perché avvenga tale modificazione non sono tuttavia sufficienti i dati, che pure ne sono causa, ma occorrono anche altre concause, fra le quali vanno qui ricordate almeno il 'canale' che permette ai dati di raggiungere il sistema cognitivo (centrale già nella teoria 'sintattica' di Shannon71 e da intendere qui nel senso più ampio possibile) e la capacità del sistema cognitivo stesso di riconoscere e interpretare i dati, nonché il sufficiente livello di contestualizzazione di cui i dati devono essere dotati per permetterne l'interpretazione.
Un dato può essere, ad esempio, una lettera o una cifra, che di per sé non ha alcun senso (perché paradossalmente potrebbe averne troppi) finché non viene inserita in un contesto (ad esempio una banca dati, un foglio di calcolo o, più semplicemente, una frase appuntata su un foglio di carta) che riduce (talvolta persino a uno solo) il numero dei suoi possibili significati, specificando che si tratta, ad esempio, del valore assunto dal peso di qualcosa o del voto ricevuto dal compito scolastico di qualcuno. Grazie a tale contestualizzazione un sistema cognitivo che è in grado di riconoscere numeri e lettere (e non, ad esempio, impulsi sonori o luminosi) può accogliere al proprio interno il dato e 'farci qualcosa', dopo averlo interpretato, ossia dopo aver portato ulteriormente avanti il processo di semantizzazione iniziato con la contestualizzazione, riducendo ulteriormente la gamma dei significati che potrebbero venirgli attribuiti grazie alle informazioni di cui il sistema cognitivo è già in possesso e che gli permettono, ad esempio, di 'sapere' (o almeno di 'supporre')
che il peso sia quello di uno specifico oggetto o che il voto riguardi il compito di una specifica persona. In certi casi il contesto in cui i dati sono inseriti è più stringente, e quindi l'interpretazione operata dal sistema cognitivo è fortemente indirizzata, spesso automatica e quasi obbligata (come capita ai termostati), mentre in altri casi il contesto lascia più spazio all'interpretazione, che può essere
consapevole, meditata, creativa e, talvolta, ipotetica (come capita agli umani). Le rispettive percentuali di influenza esercitate dalla contestualizzazione (oggettiva) fornita dai dati e dall'interpretazione (soggettiva) fornita dal sistema cognitivo possono variare in situazioni diverse, ma in linea di massima entrambi i fattori sono sempre necessari e compresenti. I processi informativi, quindi, sono sempre l'effetto di una pluralità di cause, alcune rintracciabili nei dati, altre nei sistemi cognitivi che li accolgono e ne vengono modificati, altre ancora nelle caratteristiche dei canali che consentono ai dati di raggiungere i sistemi cognitivi stessi. Ciò, fra l'altro, permette di superare una delle principali obiezioni rivolte alla concezione spesso troppo empirista di molte delle piramidi DIKW proposte in letteratura, che sottolinea come non tutta l'informazione e la conoscenza di cui disponiamo si genera con l'accumulo e l'integrazione di dati72, perché gli importanti ruoli svolti dal canale comunicativo e dal sistema cognitivo permettono di spiegare perché, ad esempio, per il progresso scientifico non contano solo le osservazioni e le raccolte dei dati, ma anche i contesti sociali e le teorie, sia scientifiche che filosofiche.
Lo stretto legame, se non addirittura l'equivalenza, del processo causale (che conduce dalle cause agli effetti) con il processo informativo (che conduce dai dati alle conoscenze contenute nei sistemi cognitivi) avrebbe il vantaggio di ricondurre a unità (o quasi) due tipologie di relazioni fra i reali contenuti dell'universo (che per la scienza contemporanea sono, essenzialmente, aggregati di materia e di energia73) che pretenderebbero entrambe di assurgere a un ruolo altrettanto importante di quello, appunto, della materia e dell'energia, proponendosi ciascuna come paradigma fondamentale di ogni loro interazione74 e, quindi, come vero e proprio «cemento dell'universo»75. Non pretendo tuttavia, almeno in questa sede, di sostenere la tesi della riduzione di qualsiasi relazione causa/effetto a una trasmissione di informazioni76, perché per gli scopi di questo articolo è sufficiente proporre l'ipotesi, meno impegnativa, che tutti i processi informativi siano riducibili a processi causali nei quali il rapporto fra le cause e gli effetti svolge una 'funzione semiotica'77 intesa in senso ampio (includendo quindi qualsiasi situazione in cui qualcosa sta al posto di qualcos'altro a cui, in un modo o nell'altro, rimanda) e gli effetti stessi si realizzano all'interno di un 'sistema cognitivo' (come definito poc'anzi).
Gran parte (ma non la totalità) di tali fenomeni informativi assume, più in particolare, la forma di una causalità 'economica' o 'conveniente', rintracciabile soprattutto in ambito biologico, nella quale la causa riesce a produrre un effetto maggiore di quanto spiegabile con le semplici leggi della fisica o della chimica, permettendo un certo risparmio energetico78 grazie all'esistenza di un codice (naturale o culturale79) condiviso fra chi trasmette e chi riceve i dati codificati e che a livello sociale può prendere la forma del vero e proprio 'linguaggio', ossia
dell'«insieme dei codici umani (verbali, non verbali, artificiali) o anche animali, che trasmettono informazioni o suscitano reazioni emotive»80. Gridando che «c'è una bomba» si riesce solitamente a evacuare un edificioé più rapidamente e con minore sforzo energetico che spostando fisicamente tutte le persone presenti, ma talvolta può anche capitare (poiché, come dice Peirce, il segno è semplicemente «qualcosa che sta a qualcuno per qualcosa sotto qualche rispetto o capacità»81) che si decida – utilizzando un diverso codice linguistico – di far crollare un edificioé o di far esplodere un'automobile semplicemente per trasmettere la semplicissima informazione «non devi parlare di quell'argomento con nessuno». Ed è sempre a livello biologico che si verificano, comunque, i fenomeni informativi più espliciti, grazie al coinvolgimento di entità che la selezione naturale (come nel caso del DNA e dei cervelli biologici) o l'ingegnosità umana (come nel caso dei libri e dei computer) hanno creato o perfezionato proprio per contenere, gestire e trasmettere dati o che, comunque, possono essere utilizzati per tali funzioni (ossia i documenti e i sistemi informazionali e cognitivi, come si vedrà meglio nel §9, nella seconda parte dell'articolo, che sarà pubblicata in AIB studi, 60 (2020), n. 3). è tuttavia possibile considerare come informativi anche processi causali esclusivamente fisici, come abbiamo visto nel caso di termostati e ascensori (che però, a dire il vero, sono sistemi cognitivi inventati dagli umani), come accade quando il carotaggio di terreni, ghiacciai e fondali marini può informare i geologi (che però sono esseri viventi) sulla storia e la struttura del territorio e, ancora più significativamente, quando, nel processo di cristallizzazione (sia industriale che naturale), «l'organizzazione, ovvero la disposizione spaziale degli atomi [dei cristalli], agisce come un modello per l'aggiunta di ulteriori atomi, costringendo [causing] le molecole che si muovono casualmente in un liquido a collocarsi in una disposizione non casuale – tirando fuori in tal modo l'ordine dal caos»82.
In ogni caso è chiaro che il concetto di informazione, se collegato a quello di causalità, ne 'eredita' anche tutte le problematicità evidenziate nel corso dei secoli dalla filosofia e dalla scienza. Ad esempio già gli scettici antichi avevano avanzato dei dubbi sulla stringente necessità del nesso fra causa ed effetto, poi definitivamente smantellata da Hume per sostituirla con una sicurezza esclusivamente psicologica, e la fisica quantistica ha sostituito la causalità deterministica newtoniana con una nozione di causalità semplicemente probabilistica83. Inoltre John Mackie ha convincentemente mostrato che raramente un effetto è il risultato di una singola causa, perché quasi sempre insiemi diversi di cause possono produrre gli stessi effetti, senza che solo una di esse possa essere individuata come quella realmente determinante84. Tali problematicità non creano tuttavia eccessive difficoltà se trasferite nell'ambito dell'informazione, che – soprattutto al livello della comunicazione umana – è avvezza a confrontarsi con la contingenza, con la probabilità, con l'incertezza e con la possibilità di una molteplicità di spiegazioni alternative.
Fra le varie definizioni della conoscenza esaminate nel mio precedente articolo85 sulla piramide dell'informazione, quelle più coerenti con quanto fin qui scritto sono la terza e la quarta:
3) Il termine 'conoscenza' può riferirsi anche al 'contenitore' delle conoscenze di tipo sia proposizionale che competenziale, ossia alla facoltà, alla capacità o all'attività di conoscere, apprendere e informarsi e di memorizzare, organizzare, elaborare e produrre informazioni. Intesa in questo senso la conoscenza (detta anche 'cognizione') accoglie anche informazioni false,
incerte, incomplete, vaghe, incoerenti, autocontraddittorie, tautologiche o per le quali non ha senso chiedersi se siano vere o false. È oggetto di accesa discussione se solo il cervello umano sia capace di conoscenza, intesa in questo senso, o se anche altri animali, computer, istituzioni e comunità siano in grado di 'conoscere' o 'sapere' [...]86.
4) Una forma di ibridazione fra le prime tre accezioni del termine 'conoscenza' consiste nel considerare tale qualunque tipo di informazione, ma solo se, quando e finché essa è presente (in forma conscia o inconscia) all'interno di un cervello, tipicamente umano ma ipoteticamente anche
animale o dotato di qualche futuribile forma di intelligenza artificiale estrema87.
Più precisamente, la definizione 3 corrisponde a ciò che qui è stato chiamato 'sistema cognitivo' (un 'contenitore' e 'gestore' di informazioni sufficientemente complesso, autonomo e dinamico), mentre la definizione 4 corrisponde al 'contenuto' di uno o più sistemi cognitivi, intesi in senso estremamente ampio e quindi includendovi non solo tutti gli organismi viventi, ma anche istituzioni, comunità, computer e altre macchine anche piuttosto semplici come termostati, fotodiodi e ascensori88. Entrambe le definizioni così come la concezione dei fenomeni informativi come eventi causali illustrata nel precedente paragrafo sono inoltre sostanzialmente compatibili anche con le classiche definizioni dell'informazione e della conoscenza proposte da Bertram Brookes:
Qual è la relazione fra informazione e conoscenza? Considero la conoscenza come una struttura di concetti collegati dalle loro relazioni e l'informazione come una piccola parte di tale struttura. La struttura della conoscenza può essere sia soggettiva che oggettiva. Qualche anno fa espressi questa relazione con quella che chiamai 'l'equazione fondamentale': K[S] + ΔI = K[S + ΔS], che afferma in modo molto generale che la struttura della conoscenza K[S] viene trasformata nella nuova struttura modificata K[S + ΔS] dall'informazione ΔI, e dove ΔS indica l'effetto della modifica. [...] L'equazione implica che se le sue entità sono misurabili, allora esse devono venire misurate con le stesse unità, ossia che l'informazione e la conoscenza sono dello stesso tipo89.
La distinzione poc'anzi operata fra il 'contenitore' (il sistema cognitivo) e il suo 'contenuto' (le conoscenze) permette però sia di chiarificare e superare le ambiguità insite nel definire 'conoscenza' sia il contenitore (definizione 3) che il contenuto (definizione 4), sia di fornire una plausibile interpretazione dell'affermazione di Brookes che «a struttura della conoscenza può essere sia soggettiva che oggettiva»90, intendendola nel senso che la struttura che ospita e gestisce le conoscenze può essere sia un cervello biologico che un cervello elettronico o comunque una struttura non biologica priva di qualsiasi tipo di coscienza91.
Anche le ulteriori tesi di Brookes che «l'informazione e la conoscenza sono dello stesso tipo»92 e che «quando l'informazione oggettiva ci raggiunge, essa diventa soggettiva per ciascuno di noi»93 sono perfettamente compatibili con la concezione qui proposta dei fenomeni informativi come eventi causali nei quali i dati (informazioni potenziali esterne a un sistema cognitivo) modificano le informazioni semantiche interne al sistema cognitivo stesso, che chiamiamo 'conoscenze' semplicemente perché conservate e gestite da un sistema informazionale particolarmente complesso, dinamico e autonomo, ma che restano comunque informazioni e non qualcosa di ontologicamente diverso (così come, d'altronde, i sistemi cognitivi restano comunque pur sempre un sottoinsieme dei sistemi informazionali).
Dati, informazioni e conoscenze, in questa visione radicalmente naturalizzata dei fenomeni informativi, non sono tre entità davvero differenti, ma tre diversi 'stati' della stessa entità, un po' come gli stati solido, liquido e gassoso della materia. I dati sono discontinuità nella realtà esterna rispetto ai confini di un determinato sistema, le conoscenze sono altre discontinuità nella realtà interna al sistema stesso, prodotte dall'interazione fra i dati esterni e il sistema (che si verifica grazie a un canale che li collega e che a sua volta contribuisce a modellare le caratteristiche dell'interazione e dei suoi effetti) e le informazioni sono il movimento dei dati dall'esterno all'interno del sistema. Quindi, in fondo, la realtà più profonda dell'intera sfera informazionale è rappresentata dai dati, cosa poi non così sorprendente se ci ricordiamo che essi costituiscono le configurazioni ossia la forma94, la conformazione, la struttura della realtà, qualunque cosa vogliamo intendere con tale termine.
Fra tali tre 'stati' dell'informazione (i dati, le informazioni semantiche, le conoscenze) quelli che, sebbene non contigui né nelle piramidi DIKW né in quella DIKAS, si somigliano di più fra loro (in tutte le teorie che concettualizzano l'informazione semantica come processo) sono i dati e le conoscenze. Tale somiglianza, controintuitiva per quella maggioranza di autori che interpretano ciascun passaggio da un gradino più basso a uno più alto delle piramidi DIKW come una sorta di progressivo perfezionamento ontologico (e, talvolta, persino etico), dipende appunto dal fatto che solo l'informazione semantica è, fra i tre stati, un processo e inoltre (nelle teorie che concettualizzano il processo informativo come azione causale) dalla necessità che causa ed effetto siano fra loro omogenei per poter essere in grado di interagire. Per la scienza e per la filosofia contemporanee è infatti impensabile un nesso causale fra entità profondamente eterogenee, come ad esempio il dio creatore e l'universo creato della scolastica oppure la res cogitans e la res extensa di Cartesio95. Risulta invece del tutto plausibile che una serie di dati esterni, ad esempio, a un organismo (come le lettere e le cifre che appaiono in questo momento sullo schermo del mio computer) possano causare degli effetti, agendo attraverso il canale rappresentato dagli organi sensoriali, sulle configurazioni e gli stati di attivazione dei neuroni di quello stesso organismo, (come quelli del mio cervello), ossia su altri dati, stavolta interni e notevolmente più complessi. I dati interni a un determinato sistema cognitivo (ovverosia le sue conoscenze) possono poi, a loro volta, causare ulteriori processi informativi completamente interni al sistema stesso (come, ad esempio, le deduzioni logiche) che produrranno ulteriori conoscenze che risulteranno solo indirettamente causate dai dati sensoriali oppure addirittura del tutto indipendenti da essi se basate su eventuali 'conoscenze innate', ossia su dati presenti nel sistema fin dalla sua 'nascita' (se biologico) o 'costruzione' (se artificiale).
La sostanziale omogeneità dei dati (informazione esterna) e delle conoscenze (informazione interna), collegati fra loro dal processo informativo, è stata ben illustrata da Mark Burgin, che col suo schema grafico del «quadrato KIME» (Figura 3) mostra che «l'informazione è in relazione alla conoscenza e ai dati come l'energia è in relazione alla materia [perché] l'informazione ha una natura essenzialmente diversa dalla conoscenza e dai dati, che sono dello stesso tipo. Conoscenza e dati sono strutture, mentre l'informazione viene solo rappresentata e può essere ospitata da strutture»96 perché è un processo.
Figura 3: The KIME (knowledge, information, matter, energy) square97
Se l'informazione è un processo (causale) che, per svilupparsi, ha bisogno di due tipi di strutture, corrispondenti ai dati (cause esterne) e alle conoscenze (effetti interni), è del tutto comprensibile che la maggior parte degli studiosi tenda a identificare i primi con l'oggettività costituita dalla materia e le seconde con la soggettività costituita dalla coscienza umana o, tutt'al più animale. Altrettanto comprensibile è anche che, di conseguenza, prevalga (almeno nell'ambito delle scienze dell'informazione) la tendenza a collocare i fenomeni informazionali e cognitivi esclusivamente nell'ambito umano o, tutt'al più, biologico. In realtà non è però indispensabile tirare in ballo soggettività e coscienza per spiegare i processi informativi, per i quali è sufficiente che sia possibile individuare una coppia interno/esterno o dentro/fuori, ossia un limite, un confine, una 'pelle', che separi nettamente un certo insieme di configurazioni della materia che, nel loro insieme, raggiungono un certo livello di complessità, autonomia e dinamismo da tutte le altre configurazioni che stanno all'esterno di tale confine. Non è, quindi, la soggettività il concetto chiave per rendere conto dei fenomeni informativi, bensì la relatività, che è molto più diffusa in natura e molto meno controversa nel dibattito culturale98, tanto da risultare centrale nelle principali teorie della fisica contemporanea, dalla 'teoria della relatività'99 di Einstein alla meccanica quantistica100 di Heisenberg e Schrödinger.
Se 'informare' significa – secondo l'equazione di Brookes – modificare un certo insieme di conoscenze (spesso nel senso di accrescerle, ma talvolta anche nel senso di ridurle, eliminandone alcune, o di aumentarne o diminuirne il livello di certezza), allora è indispensabile individuare esattamente di quale insieme si tratti, ossia occorre tracciarne i confini, perché a seconda di ciò che risulterà interno o esterno ai confini stessi accadrà che i medesimi dati risulteranno più, meno, per niente o comunque diversamente informativi. Il medesimo dato passa dalla condizione di informazione potenziale a quella di informazione semantica a seconda di (ossia in relazione o
relativamente a) qual è l'insieme di altri dati con cui va a integrarsi e rispetto a cui viene contestualizzato. Nel concetto di informazione è quindi sempre implicita, se ci si riflette bene, una 'direzione', una 'prospettiva', si potrebbe quasi dire un 'punto di vista', se tale espressione non rischiasse di evocare un soggetto cosciente la cui presenza non è invece né necessaria n´ garantita in ciascun insieme di informazioni modificabili.
Il sistema R rispetto a cui qualcosa viene considerata informazione viene chiamato il ricevente, il recettore o il destinatario di tale informazione. Tale ricevente/destinatario può essere una persona, una comunità, una classe di studenti, il pubblico di un teatro, un animale, un uccello, un pesce, un computer, un network, un database e così via101.
Generalmente la conoscenza viene vista come la cumulazione e l'integrazione delle informazioni ricevuta da qualsiasi entità. Diciamo 'entità' perché la definizione formale di informazione permette che essa sia ricevuta e processata da animali e da certe macchine102.
Tutti i contenuti immagazzinati nelle unità di memoria di un computer sono, di fatto, la sua 'conoscenza', sebbene essi siano puri dati103.
Soggettività e relatività sono concetti (anzi: superconcetti) connessi che spesso vengono confusi104, ma in realtà ben distinti fra loro, e di cui il primo può essere visto come un caso particolare del secondo. Senza pretendere né di definirli né di esplorarne tutte le sfaccettature può bastare, in questa sede, ricordare che
la relatività di una misurazione implica che essa dipende dal contesto (ad esempio dal luogo, dal momento e dallo strumento della misurazione stessa) mentre la sua soggettività implica che un solo individuo può effettuarla (come capita, ad esempio, nella valutazione dell'intensità del dolore). Quindi entrambi i concetti presuppongono un 'punto di vista', ma con la fondamentale differenza che quello previsto dalla relatività è condivisibile, mentre quello previsto dalla soggettività no; di conseguenza le misurazioni relative sono comunque registrabili e confrontabili, diversamente da quelle soggettive. Se misuro la temperatura corporea di dieci persone diverse, in dieci momenti diversi, in dieci luoghi diversi, con dieci diversi strumenti e persino con diverse unità di misura (gradi Celsius o Fahrenheit), otterrò quasi sicuramente dieci dati diversi perché relativi a differenti contesti, ma che, con la dovuta metodologia, sarà banale confrontare fra loro. Se invece pungo con lo stesso spillo, con la stessa pressione e nello stesso punto del corpo dieci persone e chiedo a ciascuna di esse di quantificare il dolore subito su una scala da zero a cento, le risposte saranno confrontabili fra loro solo in modo estremamente approssimativo, e ancora più approssimativi saranno i risultati di analoghe misurazioni effettuate su persone che non parlano la mia lingua oppure su animali non umani. La difficoltà nel misurare, registrare e confrontare dati non vengono, dunque, dalla relatività, ossia dalla molteplicità dei punti di vista, ma dalla soggettività, ossia dal fatto che alcuni dei punti di vista sono inaccessibili a chiunque eccetto che al 'titolare' del punto di vista stesso.
Tutte le informazioni semantiche sono sempre relative e 'situazionali'105, perché dipendono non solo dai dati ricevuti ma anche dal sistema cognitivo in cui vengono inserite, ma solo talvolta esse sono, inoltre, anche soggettive, perché riguardano dati accessibili esclusivamente alla coscienza di un unico individuo. Se comunico a cinque persone la prima metà di una password, ho trasmesso a ciascuna di esse i medesimi dati, ma non le medesime informazioni, perché l'informazione semantica (effettivamente comprensibile e utilizzabile) ottenuta da ciascuna sarà ben diversa a seconda che conosca già anche la seconda metà della password oppure no. Trasmettere ad altre cinque persone dati sull'esatto contenuto di un mio sogno o ricordo o sull'esatta intensità di un mio dolore o piacere implica comunque le stesse problematicità relative al modo in cui tali dati diventeranno informazioni nei loro sistemi cognitivi e, inoltre, quelle aggiuntive dovute al fatto che nessuno eccetto me potrà mai avere accesso diretto a tali sogni, ricordi, dolori e piaceri.
Adottare una teoria dell'informazione e della conoscenza che non preveda necessariamente il coinvolgimento di un soggetto cosciente non implica però un'automatica adesione alla posizione filosofica denominata 'eliminativismo', che nega l'esistenza stessa della coscienza106. È infatti possibile ipotizzare (cfr. §7) che l'emergenza della coscienza all'interno dei sistemi cognitivi sia un processo graduale, che non sempre si verifica e che, al suo livello più elementare, può limitarsi all'esistenza di un confine fra interno ed esterno che permetta il verificarsi dei fenomeni informativi.
L'aggettivo 'semantico' può riferirsi, ambiguamente107, tanto alla nozione di significato che a quella di verità, altri due veri e propri superconcetti connessi ma distinti fra loro108. Di conseguenza anche il sostantivo 'semantica', relativo all'omonima disciplina, può riferirsi a orientamenti, scuole e correnti di studi anche piuttosto diversi fra loro, ma comunque tutti legati al significato, alla verità o a entrambi109. Anche nell'ambito delle scienze dell'informazione il termine 'informazione semantica' viene utilizzato con riferimento talvolta alla verità, talaltra al significato e altre volte ancora ad ambedue i concetti. Poiché nessuno degli strati della piramide DIKAS prevede necessariamente la veridicità come propria caratteristica (cfr. §8, nella seconda parte dell'articolo che sarà pubblicata in AIB studi, 60 (2020), n. 3), si potrebbe presumere che le informazioni semantiche che ne costituiscono il secondo gradino, collocato fra i dati e le conoscenze, vadano intese come 'informazioni significative', ossia come 'informazioni dotate di significato'. Bisogna tuttavia tenere conto che «è una questione controversa e irrisolta a quale stadio [del processo informativo] si possa dire che appaia il 'significato'; alcuni autori sostengono che sia ragionevole parlare del significato di un segmento di DNA110, mentre altri argomentano che il significato è una conseguenza della coscienza111.
Soprattutto nell'ambito della biblioteconomia e delle scienze dell'informazione l'orientamento prevalente è quello secondo cui «un segno fisico nel suo ruolo di simbolo non acquista significato, se non quando viene adoperato o percepito da qualcuno nella funzione di denotare o di riferirsi a qualcosa»112. Tale approccio rischia però di sfociare nel paradosso della sostanziale equivalenza di tutti i dati, visto che il compito della creazione del corrispondente significato viene interamente attribuito al sistema cognitivo che li riceve, e comunque risulta eccessivamente focalizzato su quei particolari sistemi cognitivi rappresentati dai cervelli umani.
Esiste però anche un differente approccioé, denominato «teoria del riferimento diretto»113, che sottolinea i vincoli sociali che riducono entro determinati ambiti la libertà interpretativa di chi riceve i dati e al cui interno si può collocare la posizione dell'«esternalismo semantico»114 di Hilary Putnam, che a sua volta riconduce tali vincoli sociali alle specifiche condizioni ambientali nelle quali ciascuna lingua umana si è sviluppata all'interno di una determinata comunità di parlanti. «Ma poiché tale comunità opera a partire dal mondo, è il mondo come insieme di oggetti fisici e indipendenti dalla nostra mente che, secondo Putnam, stabilisce i riferimenti»115 fra le parole e i loro significati. Da qui i suoi sarcastici commenti che «la teoria semantica tradizionale trascura solo due contributi alla determinazione dell'estensione: quello della società e quello del mondo reale!»117.
L'esternalismo semantico, a cui si ispirano più o meno direttamente ed esplicitamente vari studiosi118 di scienze dell'informazione che ritengono che le informazioni possano risultare già dotate di significato anche prima di entrare in contatto con un soggetto conoscente, costituisce a mio avviso un utile contributo alla comprensione della genesi del significato nell'ambito dei processi informativi, purché lo si radicalizzi, da un lato, e contemporaneamente lo si mitighi, da un altro. La radicalizzazione risulta utile per estenderne la portata anche al di là dell'ambito della comunicazione umana, mentre la mitigazione serve per tener conto delle differenti interpretazioni dei medesimi dati operate anche da sistemi cognitivi sostanzialmente molto simili
fra loro, come ad esempio quelli di ciascun diverso essere umano o, a maggior ragione, quelli corrispondenti a un singolo umano in momenti diversi della sua vita o della sua giornata.
Alla luce di una tale rimodellazione dell'esternalismo semantico sarebbe possibile ipotizzare un processo di 'semantizzazione a due stadi' che si verificherebbe in concomitanza di ogni processo informativo, pur all'interno di una sostanziale continuità di entrambi i processi, spesso solo idealmente segmentabili in due fasi ben distinte. Nel primo stadio i dati vengono deliberatamente contestualizzati dal soggetto che li trasmette
a scopi comunicativi (scegliendoli e ordinandoli in base a un determinato codice, ossia a una serie di regole119) oppure vengono prodotti naturalmente senza nessuna esplicita volontà comunicativa riconducibile a un soggetto, ma seguendo comunque delle leggi naturali (matematiche, fisiche, chimiche, biologiche ecc.) che sono in fin dei conti delle regole e ciascuna delle quali può quindi essere considerata come una sorta di codice implicito contestualizzante120, perché determina scelta e ordinamento dei dati. Nel secondo stadio il sistema cognitivo che riceve i dati così contestualizzati può non riconoscere affatto il codice (esplicito o implicito, ossia culturale o naturale, ovvero volontario o involontario) che ne ha guidato scelta e ordine, e in tal caso il sistema stesso non si modifica e non si verifica nessun fenomeno informativo; oppure può intuire la presenza di un codice, e quindi sospettare che non siano casuali né la scelta né l'ordine dei dati121. In questo secondo caso nel sistema cognitivo avviene comunque almeno un lieve cambiamento, e quindi si verifica un fenomeno informativo, la cui portata può però può variare notevolmente in base a numerosi fattori, fra i quali la maggiore o minore capacità del sistema cognitivo di conoscere (e riconoscere) interamente il codice che contestualizza i dati. Soprattutto se il codice viene riconosciuto e compreso solo parzialmente (ma quasi sempre anche quando ciò avviene perfettamente) la contestualizzazione che i dati portano con sé non è sufficiente a trasmettere al sistema cognitivo un'informazione univoca e il sistema ricevente deve effettuare una ulteriore contestualizzazione (denominabile 'interpretazione', soprattutto se svolta da sistemi cognitivi particolarmente sofisticati) per scioégliere l'ambiguità residua e 'scegliere', fra le varie informazioni che il dato gli sta trasmettendo, quella che diventerà una conoscenza.
Solo al termine dell'intero processo, quando viene integrata in un sistema cognitivo, diventando una delle sue conoscenze, l'informazione trasmessa dai dati diventa davvero significativa e quindi si può dire che sia completamente emerso il significato (o, per meglio dire: uno dei possibili significati) dei dati da cui il processo è scaturito. Ciò tuttavia non implica che il significato sia interamente assegnato (né, tanto meno, creato) dal sistema cognitivo, perché il sistema è sottoposto a dei vincoli che riducono la sua ipotetica possibilità di associare qualsiasi significato a qualsiasi dato ricevuto. Tali vincoli saranno talvolta maggiori (come quando due umani dialogano in una lingua nota a entrambi) e talvolta minori (come quando uno scienziato cerca di capire il senso di un certo fenomeno naturale, ossia le leggi che lo regolano) ma non saranno mai né del tutto assenti né completamente cogenti, perché da una parte la completa assenza di qualsiasi contestualizzazione 'a monte' impedirebbe già nel primo stadio del processo di semantizzazione che i dati si candidassero a essere interpretati 'a valle', nel secondo stadio, e dall'altra persino un ascensore può condurci a un piano diverso dal previsto dopo che i suoi pulsanti sono stati premuti troppo caoticamente o timidamente, così come, del resto, a chiunque può capitare qualche volta di interpretare come un «sì» anche il più esplicito dei «no»122.
Per capire meglio la differenza e il rapporto fra i due stadi della semantizzazione possono aiutarci due concetti elaborati da Umberto Eco commentando Peirce: la «semiosi illimitata» e la «semiosi pragmatica»123. Qualsiasi singola parola in un testo e, in modo ancora più evidente, qualsiasi singolo numero in un database sono, di per sé, dei semplici dati privi di qualsiasi significato, incapaci (se non potenzialmente) di trasmettere informazioni. Il primo stadio della semantizzazione avviene 'a monte', quando la comunità di coloro che parlano una specifica lingua (nel caso della parola) o il curatore del database (nel caso del numero) contestualizzano la parola definendola con altre parole (come avviene nei dizionari) o il numero qualificandolo con parole, sigle o altri numeri (come avviene inserendolo in uno specifico campo del database dotato di una 'etichetta' alfanumerica che ne indica il tipo di contenuto). I significati delle parole e dei numeri contenuti nelle definizioni dei vocabolari e nelle etichette dei database non sono però autoevidenti: anch'essi hanno bisogno di essere in qualche modo qualificati o definiti, grazie a ulteriori voci del vocabolario o legende del
database, costituite tuttavia anch'esse da ulteriori parole e numeri che hanno a loro volta necessità di essere definite, qualificate o spiegate, e così via, senza mai la possibilità di giungere a un punto fermo ultimo su cui fondare il senso dell'intero sistema di segni. Tale processo di «semiosi illimitata» deve però pur trovare il modo di arrestarsi, in una maniera o nell'altra, perché di fatto riusciamo a parlare fra noi capendoci (abbastanza) e a consultare con (abbastanza) profitto i database. La soluzione è rappresentata dal secondo stadio della semantizzazione, ovverosia dalla «semiosi pragmatica», nella quale il sistema cognitivo applica ai dati contestualizzati in questo modo 'non fondato' un'ulteriore contestualizzazione locale 'a valle', che 'taglia corto' il processo di rinvii infiniti senza pretendere di fondarlo, ma limitandosi ad ancorarlo al contesto delle informazioni contenute nel sistema stesso, che non sono né certe né ultime ma sono quelle contenute di fatto in quello specifico sistema cognitivo e quindi costituiscono, solo per quel sistema e solo in quel determinato momento, una base provvisoria e incerta ma comunque sufficientemente stabile per attribuire un significato ai dati ricevuti, per collegarli alle proprie altre conoscenze e per derivarne ulteriori conoscenze e, talvolta, anche scelte e comportamenti124.
Ogni volta, quindi, che leggiamo una parola o un numero, riusciamo ad attribuirgli un senso e a ricavarne un'informazione che va ad aumentare o comunque a modificare le nostre conoscenze perché si sono verificati due diverse contestualizzazioni, che hanno inserito quel dato (la parola, il numero, il suono, l'immagine, ecc.) in una più ampia rete di dati che ne riduce l'ambiguità: la prima contestualizzazione, che potremmo chiamare 'esterna', 'aperta' o 'pubblica', avviene fuori di noi e prima che il dato entri in contatto col nostro sistema cognitivo; la seconda avviene dentro il nostro sistema cognitivo e possiamo definirla 'interna', 'chiusa' o 'privata'. La prima contestualizzazione è un fenomeno sociale, che assegna ad alcuni degli infiniti dati di cui è composto l'universo una precisa collocazione nella rete dei rinvii semiotici costruita da una delle innumerevoli comunità di cui ciascuno di noi fa parte; la seconda è un fenomeno psicologico nel quale decidiamo – quasi sempre istantaneamente e inconsciamente – di azzardare una possibile interpretazione dei dati che abbiamo percepito fra tutte quelle compatibili sia con la loro contestualizzazione sociale che con il contesto storico, culturale, psicologico e neurologico in cui ciascuno di noi è concretamente collocato, ossia con l'insieme di tutte le conoscenze, consce e inconsce, incluse nel nostro sistema cognitivo. La sequenza di brevi linee diritte e curve più o meno collegate e spaziate fra loro che vedo sul pezzo di carta sulla mia scrivania è (o non è) riconducibile a una serie di parole dell'alfabeto latino e della lingua italiana sulla base di un insieme di convenzioni sociali indipendenti da me, ma dipende dalla mia conoscenza (o meno) di quell'alfabeto e di quella lingua riconoscerli come tali e dipende dalle mie associazioni mentali automatiche ciò a cui, esattamente, la loro lettura mi fa pensare, soprattutto se si tratta di un appunto manoscritto ambiguo e frammentario che sicuramente persone diverse da me interpreterebbero diversamente o non riuscirebbero a dotare di senso. Si potrebbe quindi anche dire, riprendendo
le definizioni di Searle citate nel §1, che dopo la prima contestualizzazione (pubblica) il significato trasmesso dall'informazione è «indipendente dall'osservatore», mentre dopo la seconda contestualizzazione (privata) esso diventa «relativo all'osservatore».
Quando i dati non sono prodotti sociali e culturali ma solo biologici o comunque naturali (come nel caso del DNA o dei cerchi di accrescimento degli alberi), il primo stadio della semantizzazione non dipende da convenzioni socioéculturali ma da leggi naturali (come quelle che regolano, appunto, la riproduzione cellulare e la botanica), che comunque operano una contestualizzazione oggettiva che riduce il numero delle interpretazioni
possibili125. E quando il sistema cognitivo che tenta di interpretare i dati non è umano o, addirittura, non è biologico, il secondo stadio della semantizzazione dovrà rinunciare a contestualizzazioni di tipo psicologico o culturale per limitarsi a quelle di livello fisico o chimico, come quando un termostato riesce a 'decodificare' una variazione di temperatura (e non di umidità), e comunque solo all'interno di un certo intervallo di valori126. Anche in questi casi, che non riguardano la comunicazione sociale, credo però che, con un po' di buona volontà, sia sempre possibile rintracciare due stadi della semantizzazione e del processo informativo, uno più prossimo al polo 'oggettivo' delle cause (ossia dei dati) e uno più prossimo a quel polo 'relativo' degli effetti (ossia delle conoscenze) che chiamiamo 'soggettivo' quando è così complesso da far emergere una qualche forma di coscienza.
In ogni caso, sia quando ambedue gli stadi si collocano a livello socioéculturale che quando almeno uno dei due è semplicemente naturale, se non si verificano entrambi la semantizzazione non giunge a compimento e il sistema cognitivo non coglie alcun significato127. Ma, se si verifica il primo stadio (perché, ad esempio, un determinato testo è stato correttamente scritto in una certa lingua nota oltre duemila anni fa) ma non il secondo (ad esempio perché di quella lingua si è persa
memoria e nessun umano attualmente vivente riesce più a decifrare quel testo), si può dire che quel testo è comunque dotato di significato, anche se nessuno è capace di decifrarlo? Oppure, se nessuno sa decodificarlo, il testo costituisce un semplice insieme di dati senza senso esattamente come la disposizione dei granelli di sabbia su una spiaggia? E che succede se viene scoperta una Stele di Rosetta128 che istantaneamente fa riacquistare significato al testo? E se, inoltre, si scoprisse che quella spiaggia è il bloc-notes di alieni ultraintelligenti che utilizzano modalità di scrittura che oltrepassano le nostre capacità di comprensione, dovremmo continuare a considerare la disposizione dei granelli come un insieme di meri dati oppure sarebbe più ragionevole attribuirle lo status di informazione semantica, il cui significato ci sfugge semplicemente come a me sfugge quello di qualsiasi testo scritto in russo?
La risposta a tutte queste domande potrebbe forse consistere nel notare che, così come si possono sensatamente considerare i dati come informazioni solo potenziali, che non esplicano completamente la propria informatività finché il processo informativo di cui sono causa non si concretizza in effetti informativi all'interno di un sistema cognitivo, allo stesso modo la significatività solo parziale dei dati si attua completamente solo dopo il secondo stadio della semantizzazione, che si realizza all'interno del sistema cognitivo. In entrambi i casi, tuttavia, informatività e significatività non sono completamente in balia dei sistemi cognitivi, rispetto alla cui potenza e libertà interpretativa qualsiasi dato si ridurrebbe al ruolo di mero pretesto. Esistono nella realtà configurazioni che oggettivamente si prestano più di altre ad essere considerate (relativamente e, talvolta, anche soggettivamente) informative e significative. O meglio – volendo evitare eccessive presunzioni su un'oggettività che, per definizione, sfugge a qualsiasi accesso diretto da parte del soggetto conoscente – è presumibile che nella realtà esistano configurazioni dotate di tale caratteristica oggettiva, perché – e questo il soggetto è effettivamente legittimato a dirlo – ci sono configurazioni che hanno più probabilità di risultare informative e significative in quanto più spesso di altre vengono, di fatto, coinvolte in processi informativi e semantici.
Fra le caratteristiche più spesso comuni alle configurazioni che con maggiore frequenza risultano informative e significative c'è sicuramente quella di essere state plasmate da un codice culturale (come, ad esempio, una lingua umana, attualmente nota o ignota). E fra quelle plasmate da codici naturali, che in linea generale hanno minori probabilità di risultare pienamente informative e significative, le probabilità comunque maggiori sussisteranno per le configurazioni maggiormente stabili e regolari (come le orbite dei pianeti e i cerchi di accrescimento degli alberi), che sono più semplici da ricondurre a leggi naturali (si fa per dire: ci sono voluti dei Newton e dei Leonardo da Vinci) rispetto a quelle instabili e irregolari (per decifrare le spiagge dovremo forse aspettare un Newton o un Leonardo extraterrestri). La presenza e la natura del codice che ha plasmato le configurazioni contano, anche se non bastano, per valutare la significatività di un certo insieme di dati; quindi una stima del livello maggiore o minore di tale significatività può essere effettuata anche prima che si sia verificato il secondo stadio della semantizzazione, perché già il primo stadio ne fornisce importanti indizi. In casi molto particolari può darsi che anche una sequenza casuale di lettere risulti estremamente significativa per qualcuno (ad esempio per chi si sforzava da settimane di recuperare una password molto importante), ma in linea di massima sequenze di lettere che seguono le regole di una lingua (soprattutto se viva e molto diffusa, ma, in proporzione minore, anche se poco diffusa o scomparsa) hanno più probabilità di risultare significative per più persone e più a lungo nel tempo129.
Non è quindi del tutto insensato definire 'semantiche' le informazioni del secondo gradino della piramide DIKAS, anche se, paradossalmente, il loro significato emerge pienamente solo nel terzo gradino, quello delle conoscenze, purché le si intenda come 'informazioni che stanno iniziando a produrre significato' e non come 'informazioni già autonomamente dotate di un senso compiuto.
Giunti a questo punto potrei anche ritenere conclusa l'illustrazione della mia proposta di 'piramide dell'informazione' che – come quella DIK teorizzata da Edmund Lee130 potrebbe benissimo fermarsi al terzo piano, visto che nel mio precedente articolo131 sull'argomento è emerso come – benché ci sia chi la pensa diversamente132 – sia meglio non occuparsi della saggezza (wisdom) negli studi di scienze dell'informazione, trattandosi di un concetto sfuggente, desueto e, semmai, più pertinente in studi di tipo etico. Dati, informazioni e conoscenze sono infatti concetti già sufficientemente numerosi, versatili, articolati e connessi fra loro da coprire tutte le esigenze delle scienze dell'informazione e, a maggior ragione, della biblioteconomia per quanto riguarda l'analisi del 'contenuto' dei processi comunicativi.
Se però volessimo provare, da una parte, ad affrontare anche quegli aspetti soggettivi – in senso stretto, quindi connessi con la coscienza – dell'informazione che fin qui sono rimasti esclusi dalla trattazione e, dall'altra, a collegare le scienze dell'informazione con quelle cognitive133 e con la filosofia della mente134, approfondendo contiguità e nessi fra i tre ambiti disciplinari che, pur essendo stati intravisti e auspicati fin dal 1980 da uno studioso del calibro di Brookes135, non sono mai stati adeguatamente esplorati136, potremmo allora, all'interno del 'gradino' riservato dalla piramide alle conoscenze, provare a individuare due loro sottoinsiemi (uno interno all'altro) strettamente legati al concetto e all'esperienza della coscienza: le consapevolezze (awarenesses) e le autoconsapevolezze (self-awarenesses), che costituiscono gli ultimi elementi (ma non, a rigore, gradini) della piramide DIKAS.
La coscienza137, intesa nel senso di 'soggetto conoscente' (detto anche 'io' o 'sé'), è uno dei fenomeni o entità più studiate dalla filosofia e dalla scienza contemporanee, che nonostante questo non sono riuscite a raggiungere risultati molto più convincenti e condivisi di quelli a cui erano approdati gli studi dei secoli precedenti, lasciando sostanzialmente intatto il mistero della sua natura. Essa potrebbe essere definita come quella parte o quell'aspetto dei fenomeni o dei contenuti mentali che li rende al tempo stesso consci e soggettivi, ossia né 'invisibili' al soggetto conoscente (come quelli inconsci e subconsci138) né oggettivi (cioè direttamente osservabili anche
da altri soggetti). Ed ` proprio questa inaccessibilità per chiunque non sia il soggetto stesso a rendere la coscienza al tempo stesso inafferrabile per la scienza e imprescindibile sia per ciascuno di noi che per una descrizione del mondo che pretenda di essere davvero completa.
La coscienza ha qualcosa di speciale: l'esperienza cosciente è il risultato dell'attività di ogni cervello, e non ne possiamo condividere l'osservazione diretta, come accade invece per gli oggetti studiati dal fisico. Studiare la coscienza ci pone dunque dinanzi a un curioso dilemma: l'introspezione da sola non è soddisfacente in un senso scientifico, e i resoconti che le persone ci forniscono sulla propria coscienza, pur essendo utili, non ci possono rivelare i meccanismi cerebrali che la fondano. Del resto, gli studi sul cervello vero e proprio non possono in sé trasmettere che cosa si provi a essere cosciente139.
La coscienza è un fenomeno che tradizionalmente veniva considerato esclusivamente umano, ma ormai «il peso delle prove indica che gli umani non sono unici nel possedere i substrati che generano la coscienza. Gli animali non-umani, inclusi tutti i mammiferi e gli uccelli, e molte altre creature, compresi i polpi, anch'essi possiedono tali substrati neurologici»140. È materia di acceso dibattito se anche forme estreme di intelligenza artificiale potranno mai essere considerate dotate di coscienza o se invece essa possa svilupparsi esclusivamente a partire da un substrato biologico141.
Rinviando al §10 e al §12 (entrambi nella seconda parte di questo articolo, che sarà pubblicata in AIB studi, 60 (2020), n. 3) per qualche, inevitabilmente breve, cenno sulle principali opzioni filosofiche attualmente in campo per affrontare, più in generale, il problematico rapporto fra materia e mente, sintetizzerò adesso due delle più promettenti teorie scientifiche oggi disponibili per cercare di spiegare la coscienza142.
La «teoria dell'informazione integrata143 di Giulio Tononi, la cui formulazione sintetica afferma che «un sistema fisico è cosciente nella misura in cui è in grado di integrare informazione144, estendendo in linea di principio la possibilità di manifestare una minima quantità di coscienza a qualsiasi sistema informazionale anche non biologico, purché sufficientemente complesso. Il livello di complessità necessario è però di fatto comunque superiore a quello che nel §4 si è ritenuto sufficiente per poter parlare di un 'sistema cognitivo', perché un sistema pienamente cosciente deve essere in grado sia di distinguere una quantità enorme di tipi di dati diversi, sia di integrare le informazioni che ne scaturiscono in un insieme di conoscenze unificate e indivisibili, accessibili come tali all'intero sistema cosciente e che rappresentano, appunto, il contenuto – in un determinato momento – della coscienza. Ecco perché un fotodiodo o una telecamera digitale (sono esempi dello stesso Tononi145) non sono coscienti (se non a un livello così infinitesimo da poter essere considerato pari a zero) e un cervello umano invece sì: il fotodiodo riesce a discriminare una sola 'differenza' (luce o buio) e quindi a ricevere un solo dato alla volta, la telecamera può ricevere un numero maggiore di dati (perché essenzialmente formata da un gran numero di fotodiodi) ma si limita a gestirli separatamente, mentre il cervello distingue fra un numero ancora maggiore di 'differenze' (perché riceve dati più canali sensoriali) e, soprattutto, riesce a unificare le informazioni così ricavate in un unico 'contenuto istantaneo della coscienza' che non è né creato né localizzato in un unico punto del cervello ma è il risultato, sia a livello di produzione che di fruizione, dell'elevatissimo grado di integrazione delle varie parti del cervello stesso che comunicano fra loro. Tononi ritiene di poter anche
assegnare un valore numerico Φ alla quantità di coscienza presente in un determinato momento in un certo sistema fisico, misurandone appunto contemporaneamente la quantità e l'integrazione delle informazioni gestite. I cervelli umani sono, finora, gli oggetti a noi noti col Φ più alto, grazie all'incredibile numero dei neuroni, e soprattutto, dei loro reciproci collegamenti146.
La «teoria dello spazio di lavoro globale147 di Bernard Baars prevede che – per fortuna148 – solo una piccola parte dei processi informativi che il cervello elabora continuamente per dirigere 'in automatico' la normale attività del corpo (digestione, circolazione del sangue, produzione di ormoni e anticorpi, sostituzione delle cellule morte ecc., ma anche movimenti volontari abitudinari e ricezione di tutti quegli stimoli sensoriali
ai quali non facciamo particolarmente caso149) siano coscienti, perché sono quelli che vengono 'messi in comune' dai vari sottosistemi cerebrali deputati a specifiche funzioni affinché anche gli altri sottosistemi possano utilizzare le relative informazioni. «In altre parole, la coscienza si sarebbe evoluta come una strategia per mitigare gli effetti di una eccessiva modularità cerebrale (ovvero, del fatto che gran parte del cervello sia organizzata in moduli specializzati nell'elaborare
solo un tipo limitato d'informazione)»150, permettendoci di concentrare attenzione e risorse su informazioni particolarmente importanti o ambigue o che alterano il quadro già noto della nostra situazione sia interna che esterna e di elaborare strategie di azione più complesse e innovative (anche se più lente) rispetto a quelle 'automatiche'
garantite dai singoli moduli151. Quindi «quando noi diciamo che siamo consapevoli di un certo brandello d'informazione, intendiamo semplicemente questo: l'informazione è entrata in un'area specifica di immagazzinamento che la rende disponibile al resto del cervello. [...] Ogni volta che noi ne diventiamo coscienti, possiamo trattenerla nella nostra mente a lungo dopo che la stimolazione corrispondente è scomparsa dal mondo esterno [e], di conseguenza, possiamo usarla
in qualsiasi maniera ci piace. In particolare, possiamo inviarla ai nostri processori del linguaggio e fornirle un nome; è questo il motivo per cui la capacità di effettuare dei resoconti è una caratteristica chiave dello stato cosciente152. Thomas Metzinger riassume così la teoria di Baars: «l'informazione cosciente è esattamente quella
informazione che deve essere messa a disposizione di ognuna delle vostre capacità cognitive nello stesso momento. Necessitate di una rappresentazione cosciente solo se non sapete con esattezza quello che accadrà prossimamente e di quale capacità (attenzione, cognizione, memoria, controllo motorio) avrete bisogno per reagire propriamente alle sfide che vi aspettano»153.
Le teorie di Tononi e di Baars, pur essendo scientificamente distinte e, in un certo senso, in concorrenza fra loro, da un più ampio punto di vista filosofico sono in realtà compatibili e si rafforzano a vicenda, perché hanno in comune vari aspetti che le rendono, inoltre, anche facilmente conciliabili con quanto proposto nei precedenti paragrafi di questo articolo. Entrambe le teorie, infatti, basano la coscienza su
fenomeni informativi e, in particolare, sull'integrazione delle informazioni che circolano all'interno di sistemi cognitivi adeguatamente complessi e integrati. Di conseguenza entrambe attribuiscono grande importanza alle connessioni, più o meno stabili, che collegano fra loro le parti di tali sistemi154 e coinvolgono nell'emersione della coscienza l'intero cervello e non solo una sua area o modulo155. Inoltre entrambe identificano la coscienza in una
funzione o un processo, anziché in qualcosa di statico156, e le attribuiscono una qualche forma di gradualità157. Infine, per nessuna delle due teorie il cervello umano riveste una qualsiasi forma di 'eccezionalità ontologica' rispetto al resto dell'universo materiale, anche se, di fatto, eccezionale è la sua complessità. Degno di nota è anche che entrambe le teorie siano state recentemente citate158 da Michael S. Graziano fra quelle compatibili, se non addirittura convergenti, rispetto alla sua «teoria dello schema di attenzione»159, che definisce l'attenzione stessa come il risultato del processo (a volte volontario e altre involontario) con cui le informazioni provenienti sia dall'esterno che dall'interno del nostro corpo competono per poter utilizzare le limitate capacità di elaborazione del cervello, che riesce a tenere sotto controllo le informazioni più importanti costruendo uno 'schema di attenzione' rappresentato dalla consapevolezza (awareness), che le semplifica e le integra facendo emergere l'esperienza soggettiva.
Alla luce delle teorie neurologiche di Tononi, di Baars e di Graziano, nonché delle definizioni di 'conoscenza' e di 'sistema cognitivo' proposte nel §4, si potrebbe ipotizzare che esistano sistemi cognitivi talmente ricchi, complessi e integrati da sviluppare autonomamente la capacità (o, per meglio dire, la necessità) di rendere alcune delle conoscenze che contengono temporaneamente (e 'a turno') accessibili direttamente e in un modo 'facilitato' a gran parte di tutte le altre conoscenze contenute. Durante il breve periodo in cui tale sottoinsieme di conoscenze è temporaneamente accessibile in modo esteso e facilitato possiamo chiamare 'consapevolezza' ciascuna delle conoscenze che fanno parte del sottoinsieme e 'consapevolezze' o 'contenuto della coscienza' o 'coscienza' il loro stesso insieme, nella sua totalità.
I sistemi cognitivi a noi noti capaci di arrivare a tale livello sono, allo stato attuale, esclusivamente di tipo biologico, quindi è l'evoluzione naturale che ha lentamente prodotto, nel corso di milioni di anni, quel particolare modo di gestire le informazioni che chiamiamo 'coscienza'. Solo il futuro saprà dirci se la scienza e la tecnologia umane saranno in grado di emularlo, in modo più o meno fedele, in
tempi più rapidi e impiegando materiali non biologici.
Il 'modo facilitato' con cui le consapevolezze diventano temporaneamente accessibili a gran parte del sistema cognitivo di cui fanno parte potrebbe corrispondere, in questa ipotesi, a quelli che nel dibattito filosofico contemporaneo vengono chiamati qualia160, cioè quegli irriducibili, ineffabili e privatissimi aspetti 'qualitativi' dell'esperienza che differenziano, ad esempio, sia un colore da un suono che un sapore da un altro e che costituiscono l'essenza stessa di ciò che è soggettivo (cioè accessibile esclusivamente a un singolo soggetto), distinguendolo da ciò che è oggettivo (cioè accessibile a più soggetti) e rendendo, ad esempio, assolutamente impossibile per un essere umano anche solo intuire «che cosa si prova a essere un pipistrello»161, cioè un animale che si orienta nello spazio percependo gli ultrasuoni da lui stesso emessi che rimbalzano sulle superfici circostanti. I qualia potrebbero in fondo essere paragonati a un'interfaccia grafica (o, ancora più specificamente, al desktop grafico di un computer162) prodotta dall'evoluzione naturale per semplificare e sintetizzare le informazioni provenienti dai vari canali sensoriali rivolti verso l'esterno, dalle sensazioni relative ai processi interni al corpo, dai ricordi e da qualsiasi altra attività mentale in un unico 'film' o 'flusso' che costituisce quello che Metzinger definisce «lo spazio dell'agentività attenzionale», cioè«quell'insieme di informazioni attualmente attive nel nostro cervello cui possiamo deliberatamente rivolgere la nostra attenzione di alto livello»163.
L'equiparazione qui proposta fra il contenuto della coscienza (cioè l'insieme delle informazioni di cui il soggetto è consapevole in un determinato momento) e la coscienza stessa è una tesi sicuramente audace, ma ancor più sicuramente non originale, che si colloca all'interno di un'ampia e antica tradizione164 di interpretazioni 'non sostanzialiste' della coscienza e dell'io di cui l'esponente più celebre e autorevole, almeno in Occidente, è Hume, le cui parole restano, dopo quasi tre secoli, più eloquenti di qualsiasi mia possibile argomentazione:
Ci sono alcuni filosofi, i quali credono che noi siamo in ogni istante intimamente coscienti di ciò che chiamiamo il nostro io: che noi sentiamo la sua esistenza e la continuità della sua esistenza; e che siamo certi, con un'evidenza che supera ogni dimostrazione, della sua perfetta identità e semplicità. [...] Disgraziatamente, tutte queste recise affermazioni sono contrarie all'esperienza stessa da essi invocata: noi non abbiamo nessun'idea dell'io, nel modo che viene qui spiegato. [...] Per parte mia, quando mi addentro più profondamente in ciò che chiamo me stesso, m'imbatto sempre in una particolare percezione: di caldo o di freddo, di luce o di oscurità, di amore o di odio, di dolore o di piacere. Non riesco mai a sorprendere me stesso senza una percezione e a cogliervi altro che la percezione. Quando per qualche tempo le mie percezioni sono assenti, come nel sonno profondo, resto senza coscienza di me stesso, e si può dire che realmente, durante quel tempo, non esisto. E se tutte le mie percezioni fossero soppresse dalla morte, sì che non potessi più né pensare né sentire, né vedere, né amare, né odiare, e il mio corpo fosse dissolto, io sarei interamente annientato, e non so che cosa si richieda di più per far di me una perfetta non-entità. [...]. Noi non siamo altro che fasci o collezioni di differenti percezioni che si susseguono con una inconcepibile rapidità, in un perpetuo flusso e movimento. I nostri occhi non possono girare nelle loro orbite senza variare le nostre percezioni. Il nostro pensiero è ancora più variabile della nostra vista, e tutti gli altri sensi e facoltà contribuiscono a questo cambiamento; né esiste forse un solo potere dell'anima che resti identico, senza alterazione, un momento165.
Fra le 'percezioni' di cui parla Hume alcune – a dire il vero forse molto più raramente di quanto ci piaccia pensare166 – hanno come oggetto167 altre analoghe percezioni, o loro insiemi o la loro totalità (ma probabilmente mai se stesse, per evitare i paradossi dell'autoricorsività), vale a dire singole consapevolezze, insiemi di consapevolezze o l'intera coscienza. Si tratta del fenomeno, probabilmente riservato esclusivamente agli esseri umani (e semmai forse a qualche altro primate168) anche a causa delle loro capacità linguistiche e sociali,
dell'autocoscienza169, che – analogamente a quanto si è fatto per la coscienza – è possibile ridurre all'insieme delle consapevolezze contenute in un determinato sistema cognitivo dotate di tale quasi-autoreferenzialità, che esclude il caso dell'autoreferenzialità perfetta di un'ipotetica consapevolezza che avesse come oggetto se stessa. Ciascuna di tali singole consapevolezze può essere denominata 'autoconsapevolezza', e la totalità di quelle presenti, in un dato istante, all'interno di un determinato sistema cognitivo può essere chiamata 'autocoscienza' e rappresenta l'apice della piramide
DIKAS, dove le ultime due lettere dell'acronimo, come già anticipato, stanno appunto per awarenesses e self-awarenesses.
La distinzione fra questi due particolari tipi di conoscenze è comunque minore, all'interno della piramide, di quelle sussistenti fra i precedenti gradini, tant'è vero che ci sono autori170che non distinguono la coscienza dall'autocoscienza, altri171 che segmentano la coscienza in componenti indipendenti o trasversali rispetto all'autocoscienza e altri ancora172 che prevedono l'autoreferenzialità come caratteristica fondamentale già della coscienza. In ogni caso va sottolineato che sia la coscienza
che l'autocoscienza sono apparse solo recentemente nel corso dell'evoluzione naturale e che entrambe sono fenomeni graduali, passibili di differenti gradi di 'intensità' sia in sistemi cognitivi diversi (come i cervelli di diverse specie animali) che, in momenti diversi, da parte del medesimo sistema cognitivo (basti pensare a quando dormiamo senza sogni173 o siamo sotto anestesia174 e al minore livello di coscienza e autocoscienza probabilmente
attribuibile ai neonati175 e a chi è affetto da certe malattie neurologiche176. Nessuno dei due fenomeni è, inoltre, qualcosa di realmente estrinseco rispetto a quelli corrispondenti ai precedenti livelli della piramide DIKAS, perché essi costituiscono semplicemente lo stadio della massima
complessità a noi attualmente nota rispetto a un continuum il cui livello più elementare è rappresentato dall'insorgere di quel 'confine' fra un sistema informazionale e il resto del mondo che abbiamo visto essere indispensabile per il verificarsi di qualsiasi fenomeno informativo (cfr. §5); tant'è vero che, anche se osservassimo con le più sofisticate tecnologie e al massimo livello di dettaglio il cervello 'in azione' di una persona dotata di estrema autocoscienza, quello che troveremmo sarebbe solo uno sterminato numero di diverse configurazioni e mutamenti della materia biologica, cioé, in fin dei conti, di dati.
Figura 4 Una versione più completa e accurata della piramide DIKAS
(data, information processes, knowledges, awarenesses, self-awarenesses)
Come conclusione, provvisoria, della prima parte di questo articolo, si anticipa qui (Figura 4) uno schema grafico che sintetizza la piramide DIKAS in modo più accurato rispetto alla versione approssimativa inserita nel §1 e che verrà commentato nella
seconda parte, che verrà pubblicata nel prossimo numero di AIB studi e nella quale verranno anche affrontate alcune ulteriori questioni terminologiche, epistemologiche, metafisiche e documentarie relative a tale piramide.
La seconda parte di questo articolo verrà pubblicata in AIB studi, 60 (2020), n. 3.