RECENSIONI E SEGNALAZIONI

a cura di Desirée de Stefano e Federica Olivotto

Jorge Carrión, Contro Amazon: diciassette storie in difesa delle librerie, delle biblioteche e della lettura, traduzione dallo spagnolo di Pino Cacucci. Roma: Edizioni e/o, 2020. 197 p. ISBN 9788833572055 (cartaceo); 9788833572345 (e-book: ePub)

I libri si muovono in un quadrato ai cui angoli troviamo le case editrici, le librerie, le biblioteche personali e quelle collettive. Noi lettori siamo al centro centrifugo di questa incessante circolazione. Basta entrare nella biblioteca del proprio quartiere per constatare che non tutte le informazioni si trovano su Internet» (p. 9).Così esordisce Jorge Carrión nella Nota dell’autore, introduzione al libro Contro Amazon: diciassette storie in difesa delle librerie, delle biblioteche e della lettura, uscito a settembre in Italia per le Edizioni e/o.
Carrión, classe ’76, scrive per il New York Times e per La Vanguardia, dirige il Máster en creación literariadell’Università Pompeu Fabra di Barcellona e, prima di tutto, forse, è un turista culturale – come mi è capitato di sentirlo definire – e un appassionato viaggiatore.
Noi che lo seguiamo nelle sue riflessioni e nel viaggio di questo libro ci sentiamo proprio come quei «lettori al centro centrifugo», continuamente in movimento, spinti dalla potenza delle sue storie da un angolo all’altro del quadrato, all’esplorazione del ‘sistema del libro’ con tutti i suoi protagonisti.
Il libro, vincitore di numerosi premi e tradotto in 15 lingue, è una cartografia che attraverso 17 storie – articoli e saggi alcuni corposi altri brevissimi, usciti nell’arco di 6 anni, tra il dicembre 2013 e il gennaio 2019 – guida il lettore nell’esplorazione di luoghi reali e immaginari, esperienze personali e di altri (per esempio di Alberto Manguel e del saggista e poeta messicano Luigi Amara), idee e suggestioni che celebrano l’atto del leggere attraverso l’esaltazione dei suoi giusti tempi e spazi.
E Amazon, dunque? Non è in effetti così protagonista come il titolo – un po’ fuorviante a mio avviso – lascerebbe intendere. Esso ci lascia immaginare un atto di accusa ben strutturato attraverso 17 storie verso un nemico costante che in realtà domina soltanto la prima storia: il saggio Contro Amazon: sette ragioni/un manifesto (p. 13-22) a cui fa da contraltare un ultimo saggio dal titolo Contro la bibliofilia (p. 193-197). Comunque, Amazon comparirà nelle restanti sedici storie pochissime altre volte, appena nominato. Arrivo a pensare che questo titolo non faccia bene al libro, nascondendone la vera bellezza, ma andiamo con ordine.
Il manifesto – da cui deriva il titolo del libro – fu pubblicato per la prima volta nel 2017 da Jot Down Magazine ed è diventato un vero e proprio caso. Con esso Carrión ha voluto sensibilizzare librai, bibliotecari e appassionati lettori su quella che ritiene essere stata una lunga «espropriazione simbolica». Il simbolo espropriato è naturalmente il libro ma anche l’Amazon che l’autore attacca è a sua volta un simbolo, il simbolo di un atto di consumo privo di umanità, improntato alla velocità, il simbolo di una crescita incontrollata, di un approccio non sano alla lettura e più in generale alla vita.
In questo primo saggio Carrión espone le sette ragioni – che non svelerò – per cui ritiene necessario opporsi ad Amazon, da intendersi – ricorda con forza – come un ipermercato e non come una libreria: «Nei suoi magazzini i libri sono collocati accanto a tostapane, giocattoli o monopattini. Nelle sue nuove librerie fisiche i libri sono sistemati di fronte, perché espongono soltanto i cinquemila titoli più venduti e apprezzati dai loro clienti, ben lontano dalle quantità e dai rischi che contraddistinguono le autentiche librerie. Ora progettano di ripetere l’operazione in piccoli supermercati. Per Amazon non c’è differenza tra l’istituzione culturale e un supermercato alimentare e commerciale» (p. 14). Carrión riprenderà alcune argomentazioni di questo saggio nel suo ultimo libro Lo viral, uscito durante l’estate per i tipi di Galaxia Gutenberg, un ‘falso diario’ della pandemia, come lo ha definito l’autore stesso.
Prossimità e lentezza, conversazione e relazione, bellezza e scoperta, narrazione pura sono invece la cifra delle sedici storie che seguono. Qui il tono cambia completamente, dimentichiamo Amazon, il nemico, e celebriamo la lettura, la letteratura e i suoi protagonisti. Comincia qui il vero viaggio, che prosegue quello già intrapreso dall’autore in Librerie: una storia di commercio e passioni (uscito in Spagna nel 2013 e in Italia per Garzanti nel 2015). Utilissima a mio avviso la lettura dei due libri insieme.
Ecco, è qui che lo sguardo di Carrión si allarga e va oltre la storia delle librerie – che meritano di essere studiate, diceva l’autore in Librerías, come risposte a problemi pubblici sorte da iniziative private, libere e prive del sostegno delle istituzioni – abbracciando ora anche le biblioteche.
Lo sguardo che Carrión rivolge alle biblioteche è molto personale e sicuramente è il frutto dei suoi viaggi, delle biblioteche visitate e frequentate e forse ancor di più di quella idea di biblioteca che si è sedimentata nel suo immaginario sin da bambino. Spazia dalle biblioteche più importanti del mondo – che non sono le avveniristiche e spettacolari nordeuropee come Oodi, lo dirà chiaramente – fino alla sua personale biblioteca in procinto di essere disfatta e riordinata; dalle biblioteche ‘di finzione’ – quella del Nautilus di Jules Verne, per esempio – alla magnifica Biblioteca nacional de Argentina attraverso le parole di Alberto Manguel.
Queste storie si prestano ad essere un innesco per riflessioni che portano altrove e che guidano il lettore alla scoperta e all’accostamento con nuovi libri. Per esempio interessante leggere il saggio Disfare la mia biblioteca (p. 51-60) assieme al recente Come ordinare una biblioteca di Roberto Calasso (Adelphi, 2020): entrambi trattano il tema ‘metafisico’ dell’ordinamento della propria biblioteca, quella che sfugge al controllo, suggerendo soluzioni diverse e trovando in Warburg un ‘buon vicino’ comune.
Contro Amazon è un libro che si presta a essere letto in molti modi diversi: in modo sequenziale, ovvero nell’ordine in cui le storie vengono proposte; per temi (per esempio prima i saggi relativi alle biblioteche e poi quelli dedicati alle librerie ecc.); in ordine cronologico, ovvero ricostruendo la successione delle storie secondo la data in cui sono state scritte e pubblicate per la prima volta (io per esempio ho scelto questa nuova sequenza). C’è un modo di leggere il libro che sconsiglio, quello ispirato a una logica ‘apocalittici e integrati’ o ‘dentro e fuori la rete’ come il titolo invece in qualche modo suggerisce. Il modo che suggerisco è quello che va alla ricerca di connessioni.
Per esempio, trovo molto interessante la convergenza che emerge tra librerie e biblioteche come ‘centri emozionali’ e che Carrión non esplicita chiaramente: il ruolo che possono giocare per la crescita delle comunità. Esse cambiano la vita intellettuale nelle città, spostano le conversazioni e modificano il modo di pensare della gente. La relazione con il libro e la conseguente relazione tra le persone che praticano la lettura, nei loro tempi umani e negli spazi pensati per questo, è il vero centro centrifugo dell’opera. Concludo a questo proposito parafrasando una domanda che Carrión rivolge ai librai (p. 165):«Dove finisce l’identità di un bibliotecario e comincia quella della sua biblioteca? In quale spazio di negoziazione con un edificio o un quartiere o una città lo spirito della biblioteca si contrae o si espande?».

Chiara Faggiolani
Sapienza Università di Roma


Viviana Vitari, Come sviluppare le competenze informali del bibliotecario. Milano: Editrice bibliografica, 2020. 81 p. (Library toolbox; 39). ISBN 9788893571388 (cartaceo); 9788893571630 (e-book: ePub).
Viviana Vitari, Come fare coworking in biblioteca. Milano: Editrice bibliografica, 2020; 88 p. (Library toolbox; 43). ISBN 9788893571395 (cartaceo); 9788893572781 (e-book: ePub).

In questi due testi Viviana Vitari stimola riflessioni che vanno al di là delle realtà in cui esercitiamo la nostra professione, allargando l’orizzonte a un contesto internazionale di riferimento al quale dobbiamo prestare attenzione, sia per quanto concerne il raggiungimento degli obiettivi dell’Agenda europea per la crescita e l’occupazione (2010-2020) e per lo sviluppo sostenibile (2020-2030), sia per quanto riguarda gli obiettivi IFLA 2019-2024.
Quali sono le prospettive del bibliotecario in un quotidiano che cambia? Qual è la rotta che dobbiamo seguire per facilitare la creazione di conoscenza?
Vitari suggerisce che dobbiamo imparare a lavorare sulle nostre competenze e sulle esperienze che rientrano a pieno titolo nel vocabolario delle expertise dell’apprendimento informale visto come parte della ‘cura di sé’. Le esperienze maturate e le competenze acquisite devono essere utilizzate per riposizionare i propri saperi e ponderare il nostro rapporto tra teoria e prassi.
Come sviluppare le competenza informali del bibliotecario prende in esame alcuni standard di riferimento dell’Associazione italiana biblioteche e la norma UNI 11535:2014 ma anche alcuni framework europei come ESCO: una classificazione che chiarisce, anche con casi concreti, i concetti europei della Strategia Europa 2020 sull’occupazione e indica un quadro di riferimento europeo di qualificazione su che cosa ci si aspetta di sapere, di capire e di essere in grado di fare.
Dal punto di vista strettamente professionale, Vitari illustra il ruolo dell’Osservatorio Formazione dell’AIB, che aiuta i bibliotecari italiani nel riconoscimento e nella spendibilità della professione sull’intero territorio nazionale. Sta a noi auto-valutarci in modo costante attraverso i suggerimenti forniti dalle comunità di professionisti, piattaforme europee, framework internazionali e confronto con altri colleghi altamente competenti e autorevoli nei vari ambiti di specializzazione perché, come conclude l’autrice, leggere è per noi in primo luogo un verbo transitivo, mai marginale.
Proprio la necessità costante di apprendimento è il fulcro dell’analisi che l’autrice propone anche attraverso il coworking in biblioteca. Questa prassi non è analizzata e proposta dal punto di vista di una gestione condivisa di spazi, costi e allestimenti, come tradizionalmente siamo portati a pensare, quanto piuttosto all’orientamento educativo, alla libera condivisione, non solo della logistica, ma anche e soprattutto della conoscenza.
Nella prima parte del volume si contestualizza il concetto di coworking; successivamente vengono affrontati i nuovi bisogni di spazi e tempi di lavoro; sono poi descritte alcune esperienze, estere e italiane, già in essere. Interessante la doppia valenza del coworking: interfaccia utenti e interfaccia bibliotecari. Nel primo caso la biblioteca costituisce lo spazio fisico in cui lavorare, studiare, condividere le informazioni, prendere contatti, dare suggerimenti, chiedere di essere reindirizzati ad altre conoscenze e risorse.
Lavorare in un luogo in cui contemporaneamente avvengono varie attività è un’immersione di cultura informale che fa la differenza rispetto all’ufficio tradizionale e il coworking, inteso in questa accezione, abbraccia almeno 7 punti dell’Agenda 2030: promozione del benessere, educazione di qualità, crescita economica inclusiva, innovazione, città e comunità sostenibili, riduzione dei consumi, rilancio di nuove forme di partenariato.
Nell’interfaccia bibliotecari, invece, si entra in una logica in cui entrambe le parti traggono vantaggi vicendevoli. Una biblioteca può diventare una ‘co-biblioteca’ in cui gli operatori possono lanciarsi in interazioni e vivere lo sguardo altrui sul proprio lavoro. Il bibliotecario può anche frequentare biblioteche diverse dalla propria per svolgere alcune funzioni che non prevedano necessariamente la sua presenza al banco prestiti.
Tutte queste esperienze portano all’apprendimento informale non solo di nuovi contenuti, ma anche della dimensione di gruppo, rispetto dei tempi per svolgere alcune attività e nuovi modi di lavorare insieme o accanto agli utenti.
Chiudono il volume alcuni interessanti esempi di biblioteche, anche italiane, che già hanno messo in campo alcune di queste modalità di lavoro.
I temi trattati, proprio per la loro attualità meritano, a mio giudizio, un collegamento ad approfondimenti continui che potrebbero trovare spazio sul sito dell’editore o su un blog oppure un sito creato appositamente.

Debora Mapelli
Sistema bibliotecario CUBI


Rapporto sulle biblioteche italiane: 2015-2017, a cura di Vittorio Ponzani; direzione scientifica di Giovanni Solimine. Roma: Associazione italiana biblioteche, 2019. 191 p.: ill. ISBN 9788878122772 (cartaceo); 9788878122789 (e-book: PDF).

Il Rapporto sulle biblioteche italiane 2015-2017 si conferma come uno strumento indispensabile per una corretta lettura della situazione bibliotecaria italiana. Dal 2001, anno della prima edizione, il Rapporto vede uscire il decimo volume della serie. Nel corso del tempo il testo si è arricchito in modo considerevole, aggiungendo ai dati numerici e statistici ampie riflessioni sul contesto di produzione di questi dati e sulla corretta modalità di lettura. La pubblicazione, curata da Vittorio Ponzani con la direzione scientifica di Giovanni Solimine, si caratterizza come un’opera corale alla quale contribuiscono le diverse voci degli autori che affrontano le 5 sezioni del libro: In primo piano, Normativa e politica bibliotecaria, Le biblioteche, Cataloghi e sistemi di automazione, La professione.
Nella prima sezione Andrea De Pasquale presenta alcune nuove forme di gestione delle biblioteche pubbliche statali, illustrando i casi in cui enti pubblici e pubblici-privati hanno stipulato accordi per la valorizzazione di una istituzione o la realizzazione di un progetto. Tali accordi si dimostrano particolarmente utili in considerazione della scarsità di risorse economiche, risultato forse anche dello scarso peso che gli viene attribuito, come sottolinea Chiara Faggiolani nel contributo sulle biblioteche data-driven. Alla mancanza di una valutazione stabile dei risultati delle attività delle biblioteche cerca di porre rimedio l’Indagine sulle biblioteche del Programma statistico nazionale (PSN), svolta annualmente dal 2018 al 2022, che mapperà caratteristiche, patrimonio, attività, servizi e utenza. Il successivo contributo di Laura Ballestra e Chiara Pinciroli, pur trattando il tema specifico delle esperienze di reference e information literacy, si conclude con una riflessione sulla capacità delle biblioteche italiane di emergere in questo ambito, riflessione che si richiama, come i due interventi precedenti, alla necessità di fare sistema.
La sezione successiva ha un taglio normativo e affronta, oltre al tema del diritto d’autore, status e ruolo delle biblioteche pubbliche statali e di quelle delle provincie. Sia Luca Bellingeri che Claudio Leombroni, autori rispettivamente di questi ultimi due contributi, lamentano una certa confusione negli interventi legislativi che, se hanno finalmente innalzato le dotazioni finanziarie almeno delle biblioteche nazionali centrali, non hanno dedicato la medesima attenzione al reclutamento del personale. Interessante la proposta di realizzare dei ‘poli’ che colleghino le biblioteche statali alle altre presenti sul territorio, a prescindere dalla loro natura. L’approfondita analisi della legge Delrio condotta da Leombroni dimostra, ancora una volta, come le scelte fatte per la ‘valorizzazione dei beni culturali’ a seguito della soppressione e riordino delle province abbiano seguito strade diverse con risultati non sempre ottimali. La sezione si chiude con Rosa Maiello che presenta le questioni sulle quali si è incentrato il dibattito sul diritto d’autore, soprattutto a livello di Unione europea: le eccezioni a favore di persone non vedenti o con difficoltà di lettura e la complessa e fluttuante discussione attorno a prestito e riproduzione del digitale.
I contributi successivi si dedicano all’analisi delle biblioteche pubbliche, universitarie, scolastiche e ai progetti di sostenibilità ambientale. Gianni Stefanini utilizza i dati di alcune indagini nazionali per tracciare un quadro delle biblioteche di ente locale, concludendo con alcuni rosei ‘segnali di futuro’ provenienti da esperienze realizzate sul territorio. Si presenta più ricco di sfide il mondo delle biblioteche universitarie tratteggiato da Gabriele Mazzitelli e Serafina Spinelli, segnato da scarni rinnovamenti nel personale e nell’edilizia bibliotecaria e dove il mercato del digitale sembra l’unico elemento di novità seppur guidato, in molti casi, più dai fornitori di contenuti che dai bibliotecari. Il corposo intervento di Fabio Venuda, Gino Roncaglia e Luisa Marquardt con la collaborazione di Elisabetta Laino mette in evidenza, attraverso numerosi dati, luci e ombre delle biblioteche scolastiche, realtà gestite solo nel 5% dei casi da personale in possesso di una qualche formazione biblioteconomica. Solo il Piano nazionale scuola digitale ha dato un poco di respiro, rispetto all’endemica mancanza di riconoscimento istituzionale, all’inadeguatezza delle raccolte e degli spazi. Waldemaro Morgese e Vittorio Ponzani trattano un tema trasversale e molto in voga, quello delle problematiche ambientali in rapporto alle biblioteche, presentando documentazione, progetti e realizzazioni nazionali più significative.
Le ultime due sezioni sono dedicate ai cataloghi, nello specifico a SBN, e allo stato della professione bibliotecaria. Simonetta Buttò, prendendo spunto dal trentennale di SBN, presenta le iniziative, i gruppi di lavoro, i progetti ma anche le difficoltà nel realizzare una piena e proficua cooperazione in ambito catalografico tenendo conto delle infrastrutture tecnologiche esistenti e della sostenibilità a lungo termine delle scelte. Il Rapporto sulle biblioteche italiane 2015-2017 si chiude, purtroppo, con una nota amara: l’analisi di Alberto Petrucciani e Vittorio Ponzani su formazione, reclutamento e occupazione mostra la stagnazione, per non dire il declino, nel numero di possibilità disponibili a quanti, soprattutto giovani, vogliano studiare e lavorare in questo ambito professionale. E poco conforta il fatto che non si tratti di un fenomeno esclusivo dell’ambito disciplinare.
Ogni autore del Rapporto contribuisce con una o più tessere al mosaico che rappresenta la situazione delle biblioteche italiane; nella varietà di temi, punti di vista ed esperienze riportate nei contributi echeggia come nota di fondo il richiamo a istituzioni e persone ad agire sempre di più come un sistema, augurandosi che la voce delle biblioteche assomigli a quella potente di un coro, ricca di colori e registri.

Agnese Galeffi
Sistema bibliotecario Sapienza


Peggy Johnson, Fundamentals of collection development and management, 4thed. Chicago: ALA editions, 2018. XIV, 418 p. ISBN 9780838916414.

Già dall’incipit, nella Preface to the fourth edition, Peggy Johnson dichiara il suo saldo punto di partenza: sebbene il XXI secolo sembri aver posto alcune questioni relative al ruolo e al valore dello sviluppo delle collezioni come specialità professionali, «il ruolo del bibliotecario delle collezioni in questo ecosistema complesso e in evoluzione è ora più importante che mai».
La trattazione riguarda tutte le tipologie di biblioteche e si focalizza in particolar modo sulle esperienze delle biblioteche statunitensi. Inoltre l’intento dell’autrice non è solo quello di fornire una successione logica degli argomenti per una lettura sequenziale destinata ai principianti, ma concepisce i capitoli come se fossero autonomi, così da trattare in modo indipendente ciascuna tematica.
Ognuno dei 9 capitoli è articolato, dopo un breve cappello introduttivo, in sezioni e a volte in sottosezioni e si conclude con corpose note finali e una cospicua reading list, che consente di approfondire l’argomento appena affrontato, con una preferenza evidente per i contributi più recenti, non antecedenti al 2014. Tutti i capitoli, eccetto il primo introduttivo, sono corredati in chiusura da casi di studio fittizi – un aspetto nuovo rispetto alla precedente terza edizione del 2014 – pensati per stimolare il dibattito non solo tra gli studenti ma anche tra i professionisti.
Il primo capitolo individua subito le varie figure che nelle biblioteche di maggiori dimensioni possono avere specifiche responsabilità circa i vari aspetti dello sviluppo e della gestione delle collezioni, svolte invece nelle biblioteche più piccole da un unico bibliotecario: nell’insieme vengono definite dall’autrice con il termine «bibliotecari delle collezioni».
Nella parte di approfondimento storico vengono prese in considerazione tutte le tipologie di biblioteche – pubbliche, accademiche, scolastiche e speciali – affrontando alcune tematiche d’interesse ormai globale. La trattazione si concentra poi sull’analisi della letteratura professionale relativa alla selezione, nel tentativo di trovare un equilibrio nella scelta dei materiali e ponendo l’attenzione su una questione molto attuale quale quella inerente le ‘diversità’, al fine di realizzare collezioni che riflettano la molteplicità della società contemporanea.
Il secondo capitolo affronta le tematiche relative alle responsabilità della gestione e dello sviluppo delle collezioni. L’autrice avverte che lo slittamento dalla selezione di singoli titoli verso la ‘macro-selezione’ di pacchetti, aggregati tematicamente o tramite demand-driven, opzione tipica delle risorse elettroniche, non comporta una riduzione di responsabilità. In quest’ottica il compito della selezione delle risorse acquista invece importanza e può risultare maggiormente complessa, in quanto le scelte e i criteri applicati non hanno conseguenze soltanto nell’immediato ma anche a lungo termine e su un gran numero di titoli, implicando tra l’altro impegni finanziari continuativi nel tempo.
Per quanto riguarda le conoscenze e le competenze richieste al bibliotecario, Peggy Johnson chiarisce che le scuole di biblioteconomia non possono esaurire il percorso formativo in ogni suo aspetto: non è infatti sufficiente la teoria, poiché il lavoro sulle collezioni può essere padroneggiato con successo soltanto attraverso la pratica, che permette di dare senso concreto alla teoria in un processo di miglioramento continuo.
La parte finale del capitolo ha una sua autonomia e riguarda le questioni di carattere etico, specificando che, sebbene i dilemmi morali siano a volte di difficile soluzione, è tuttavia necessario attenersi, nelle decisioni e nelle contingenze quotidiane, a codici di condotta professionali, da applicare insieme ad un forte senso di concretezza. Il bibliotecario ha i suoi strumenti per difendere la libertà intellettuale, quali: la politica di sviluppo delle collezioni, con la relativa sezione della carta delle collezioni, e le procedure per l’eventuale riconsiderazione dei materiali, facendo attenzione tuttavia a non incorrere, oltre che nella censura ‘esterna’, anche nella cosiddetta ‘auto-censura’ che lo stesso bibliotecario può infliggersi.
Il terzo capitolo si occupa della programmazione formale e strategica, trattando di argomenti che vanno dalla politica di sviluppo, e sua stesura in una ‘carta’, al budget e alla programmazione e allocazione finanziaria. La trattazione passa poi a esaminare il tema della necessità di un accurato processo di selezione delle risorse, soprattutto in considerazione della molteplicità dei materiali pubblicati, che consiste nell’utilizzo di strumenti appropriati, nell’attenta valutazione delle proposte editoriali e infine nella decisione dell’acquisizione. Questa analisi prende in considerazione anche le risorse elettroniche, i doni e gli scambi.
Il quinto capitolo affronta da una parte le problematiche e i conflitti d'interesse che possono insinuarsi nei rapporti con i fornitori, dall’altra le tecniche e le abilità di negoziazione, le tipologie dei contratti di fornitura, i conseguenti obblighi legali e le licenze per le risorse elettroniche. L’autrice analizza inoltre la gestione della biblioteca nel suo complesso: dallo scarto alla collocazione nei depositi librari, dalla conservazione alla revisione, alla rivalutazione delle risorse in continuazione ed eventuale sospensione, fino alle misure volte a proteggere e mettere in sicurezza le collezioni.
Nel settimo capitolo si approfondiscono questioni relative all’analisi e alla segmentazione della comunità di riferimento: dal collegamento con essa, in modo tale da stabilire e mantenere comunicazione, comprensione e collaborazione reciproca, alla visibilità della biblioteca stessa in relazione alla sua comunità, sensibilizzando quest’ultima all’uso delle collezioni e dei servizi, anche attraverso la promozione tramite i social media.
A seguire si pone l’accento sui metodi di analisi quali strumento per la gestione ordinaria, che riguardano anche le risorse elettroniche e possono essere distinti in due categorie: i metodi basati sulle collezioni stesse e quelli basati sull’uso e sugli utenti; entrambi a loro volta vengono esaminati attraverso due tipologie di approccio: quantitativo e qualitativo. Si dimostra così il valore e l’utilità di una collezione, bilanciando gli aspetti non solo economici, ma anche quelli sociali o di altra natura.
L’ultimo capitolo tratta, infine, del lavoro coordinato e in collaborazione, un aspetto che rappresenta una condizione essenziale nella situazione attuale di restrizioni di budget e di diminuzione degli spazi fisici.
Un utile glossario, con la spiegazione dei termini tecnici chiude l’esposizione di questi Fundamentals che costituiscono un essenziale e completo testo di riferimento disciplinare, completamente aggiornato nella sua quarta edizione, confermandone validità e utilità.
Peggy Johnson, docente specializzata in sviluppo e gestione delle collezioni, è autrice di libri e di numerosi articoli accademici, editor di periodici sul tema, bibliotecaria ora in pensione presso l’University of Minnesota. Con questa quarta edizione ci offre un’opera che consiste non soltanto in una trattazione completa rivolta agli studenti in Library and information science, ma anche una guida per bibliotecari esperti che intendono assumere nuove responsabilità nell’ambito dello sviluppo delle collezioni, nonché un manuale di riferimento disciplinare per i professionisti impegnati nel lavoro quotidiano, di sicuro valore, ma con un ambito di riferimento esclusivamente anglofono e statunitense.

Francesco Giuseppe Meliti
Biblioteca universitaria di Lugano


Carlo Bianchini, Teoria e tecniche della catalogazione e delle classificazioni. Milano: Editrice bibliografica, 2018. 360 p.: ill. (Biblioteconomia e scienze dell’informazione; 21). ISBN 9788870759723 (cartaceo); 9788893570565 (e-book: PDF).

Questo libro di Carlo Bianchini costituisce indubbiamente un’opera rilevante nell’ambito della teoria della catalogazione bibliografica, e in particolare di quel versante di studi che si situa nell’alveo della tradizione della great tradition anglo-americana.
L’indice è composto da una Presentazione e da una Introduzione, cui seguono due parti, nella prima delle quali sono inclusi tre capitoli, e nella seconda cinque. Il capitolo decimo ha una fisionomia autonoma, dedicata come vedremo a proporre alcune sintetiche considerazioni finali. Seguono un Indice delle esercitazioni e soluzioni, un Elenco delle opere citate, un Indice delle figure. Infine, nella terza parte, sono pubblicate quindici tavole, con funzione principalmente finalizzata agli usi didattici del volume. Da notare che la successione numerata dei dieci capitoli complessivi attraversa in modo continuo la maggior parte del testo, e include anche l’Introduzione, cui evidentemente sono assegnati compiti non meramente paratestuali, e che anzi presentano le linee generali della fisionomia e degli obiettivi in seguito più estesamente descritti e trattati. Alla Presentazione è affidata una funzione di presentazione rapida, maggiormente orientata verso metodi e obiettivi. L’incipit del testo in senso stretto, delineando anche il circostante contesto bibliografico, afferma dunque che: «Questo lavoro ha come oggetto la teoria e le tecniche della catalogazione e delle classificazioni e come ambito l’indicizzazione, intesa come un processo di creazione di indici che consentono di identificare le entità di interesse bibliografico e registrare le relazioni che intercorrono tra di esse» (p. 9).
L’autore si premura di mettere in evidenza il valore differenziale attribuito al suo libro, che ci stiamo accingendo a perlustrare, e che consiste nel «cercare le radici più profonde del processo di creazione del catalogo», individuando nella natura dei nomi delle cose (e dunque nel nomen di IFLA LRM) una delle linee di riflessione più consistenti. Da questo versante che potremmo definire di ontologia catalografica emerge il tratto forse più impegnativo del libro, che credo vada colto nella esigenza di individuare un fondamento unitario dei «fenomeni della catalogazione», da attribuire alla prospettiva funzionale, secondo la quale le due funzioni essenziali della catalogazione sono costituite dalle attività di identificare e collegare, attraverso la realizzazione di adeguati indici.
Ancora nella Presentazione vengono richiamate le sollecitazioni e le istanze che hanno stimolato la scrittura del libro: le riflessioni sul concetto di ‘numero di chiamata’ nel quadro della classificazione Colon e sulla fisionomia del web semantico, orientato alla realizzazione decisamente utopica di un gigantesco e del tutto semantizzato web dei dati. Contestualmente l’autore chiarisce che gli strumenti necessari per questa ciclopica impresa sono costituiti esclusivamente da modelli logici e applicativi elaborati e prodotti nell’ambito proprio della cultura catalografica: IFLA Library Reference Model (IFLA LRM), Resource Description and Access (RDA) e Resource Description Framework (RDF). A IFLA LRM, e alla semplicità del suo modello logico, viene ascritta la possibilità di attuare l’auspicata «visione unificata della catalogazione descrittiva, semiotica e per soggetto».
Su queste premesse, opzioni e obiettivi poggia la struttura del libro, distesa nelle sue diverse parti, alle quali è aggiunto un altro concetto che, molto giustamente, Bianchini sottolinea: quella della storicità dei cataloghi, che per realizzare i propri fini, e cioè per mediare tra libri, informazioni e lettori, hanno dovuto necessariamente utilizzare, con Saussure, i codici di un linguaggio, nel senso di langue, in grado di adeguarsi alle specificità della parole.
Infine, nell’Introduzione viene precisato l’atteggiamento dell’autore rispetto alla complessità che ostacola la comprensione del significato di sistemi di mediazione indicale costituiti secondo questa traiettoria. Il rischio, molto evidente, è quello dell’assenza di loci communes tra linguaggio del catalogo e linguaggio dei lettori, che già Ranganathan aveva qualificato come "sleale", e che tuttavia è in larga misura indispensabile per garantire sia una rappresentazione chiara e non ambigua degli indici, anche solo a partire dai problemi della forma grafica delle traslitterazioni da alfabeti non latini, sia, e soprattutto, una descrizione più breve dell’insieme dei segni attraverso cui l’oggetto della descrizione significa se stesso, evitando in tal modo il celebre paradosso dei cartografi borgesiani che producono mappe di estensione uguale a quella del territorio cui esse si riferiscono. Il problema, al quale sono dedicate le parti che seguono, è dunque quello di provare che è utile convincere i lettori che per loro è indispensabile comprendere la necessità di questa frattura tra la loro lingua e quella del catalogo, con la mediazione fondamentale del bibliotecario. La domanda che in primo luogo mi pongo è se questa prospettiva sia in grado di attecchire, in profondità, negli scenari di radicale trasformazione in atto dei modelli di organizzazione della conoscenza, in una stagione che Luciano Floridi ha convincentemente definito della "iperstoria" e della "ipermodernità".
La prima parte include il capitolo Il catalogo e le sue funzioni che, ricorrendo spesso a Ranganathan, e anche alla lectio di Gorman, descrive le funzioni essenziali del catalogo e le sue relazioni con la biblioteca, che Bianchini evidentemente interpreta come reference library. Il paragrafo 2.2 è dedicato al ‘lettore’, inteso tuttavia, mi pare di poter affermare, solo con lo sguardo e il lessico di Ranganathan; questa parola profila dunque un ‘lettore ideale’, o ‘implicito’, destinato a interagire con i segni e i codici che il bibliotecario catalogatore pazientemente definisce, animato dalle nobili finalità già richiamate. Gli indici servono dunque al lettore per individuare nell’universo bibliografico la risorsa che sta cercando, indirizzandolo verso le ‘cose’ cui gli indici referenzialmente e anche metaforicamente puntano; queste ‘cose’ sono rappresentate, con lessico FRBR, dall’‘opera’, dall’‘espressione’, dalla ‘manifestazione’ e dall’item‘, inseriti nel loro peculiare e idiosincratico ambiente spaziale e temporale. L’architrave degli indici è costituito dal ‘nome’ o nomen, nel senso con cui la denotazione orientata all’oggetto, o res, è garantita in modo tendenzialmente univoco entro i confini dei linguaggi catalografici. Un programma certamente molto coerente e che tuttavia, a mio giudizio, incorre nei limiti contro cui ha cozzato il fisicalismo di Carnap e dei positivisti logici. In questo modo, prosegue Bianchini, approdati a questa saldezza ontologica, epistemologica e infine linguistica, gli indici possono affrontare, ‘in differita’, la loro avventura nei territori della mediazione. Sulla base di queste fondamenta il catalogo, e la tradizione interpretativa a esso collegata, garantisce il reperimento di un principio di ordinamento di porzioni dell’universo bibliografico, ‘identificando’, ‘raggruppando’, ‘collegando’ e ‘caratterizzando’, avvalendosi delle funzioni specifiche della registrazione bibliografica, dei metadati e dei loro punti di accesso, inseriti nei propri ecosistemi culturali e informativi, fino a quelli profilati dalle tecnologie dei linked data. A essi è dedicata una estesa e utile trattazione, che ne individua princìpi (HTTP, URI, RDF, link RDF esterni) e tipi principali di triple (Descrizione e accesso alle risorse). L’ultimo capitolo della prima parte (I modelli logici dell’IFLA) è dedicato a una ampia presentazione di IFLA LRM, della sua correlazione genealogica con FRBR, dei suoi obiettivi («trovare, identificare, selezionare, ottenere ed esplorare»), delle 11 entità in esso individuate, degli attributi, delle relazioni previste e della loro gerarchia, con un particolare rilievo riservato al nomen.
La seconda parte è interamente dedicata alla indicizzazione per soggetto, per quanto nel quinto capitolo (I linguaggi di indicizzazione) venga illustrata la differenza tra sistemi di indicizzazione semiotica (formati con termini prelevati tali e quali dalla risorsa) e semantica, costruiti con termini e concetti riferiti al ‘significato’ della risorsa. Dell’indicizzazione semantica sono descritti fasi, procedure, vocabolario, sintassi e ordine di citazione.
Il sesto capitolo (Le classificazioni bibliografiche) discute i fondamentali concetti di classe e di classificazione, per individuare i tratti che caratterizzano le classificazioni bibliografiche, le quali, precisa l’autore, non si riferiscono direttamente alle cose del mondo reale ma hanno per oggetto i documenti che a esse si riferiscono. Dopo aver distinto le classificazioni gerarchico-enumerative da quelle analitico-sintetiche i due capitoli successivi (La Classificazione decimale Dewey e La Classificazione Colon) descrivono estesamente le caratteristiche principali del sistema più diffuso a livello planetario (la CDD) e quello dal quale l’autore è con evidenza fortemente attratto (la classificazione Colon). Il nono capitolo, infine, illustra gli elementi principali del Nuovo soggettario.
Il decimo capitolo (Verso un approccio unitario alla catalogazione?) tira le fila conclusive delle impegnative domande enunciate all’inizio. A partire dalla posizione iniziale dello sguardo interpretativo, radicato principalmente sull’‘oggetto’ della descrizione, l’argomentazione accede a una sensibile valorizzazione del ‘processo’ comune ai diversi ambiti della catalogazione; è dentro il processo che, a parere dell’autore i desiderati principi comuni possono essere rinvenuti e, come è evidente tenendo conto del profilo di questa opera, individuati nella parte più recente della tradizione catalografica canonica, da FRBR a IFLA LRM; tutto questo suffragato dalla convinzione, già richiamata, che tra significante (i dati e i metadati) e il significato (le cose), ci sia un rapporto di rispecchiamento, un po’ come nel Tractatus del primo Wittgenstein. Questa convinzione, che a mio giudizio è ontologica prima ancora che epistemologica e catalografica, è quella che guida la traiettoria dei linked data nel web, e la funzione semantizzante affidata alla formulazione delle triple.
Il libro di Carlo Bianchini va letto con attenzione e ‘lentezza’, come suggeriva Friedrich Nietzsche nella prefazione di Aurora, pubblicato nel 1881, quando parla della necessità di imparare il ritmo degli «orafi della parola», «maestri della lettura lenta», i filologi. Anche attraverso questa lentezza il lettore può comprendere, e valutare, gli sforzi intellettuali davvero ammirevoli con i quali l’autore cerca di integrare, dotandolo di fondamento, un sapere catalografico che affonda le sue radici storiche in una evidente genealogia pragmatica. Il libro, di lettura decisamente impegnativa, in molte sue parti è accompagnato fortunatamente da un efficace campionamento di esempi pratici, sempre chiari ed espliciti.
A un lettore come me, abituato a incrociare spesso i contenuti, e i lessici, dei campi disciplinari tra di loro, sembra tuttavia che uno dei nuclei concettuali principali cui si affida l’autore (quello della corrispondenza tra significanti e significati) sia piuttosto lontano dall’essere univocamente e unanimemente accettato, e che per interpretare non solo il web semantico ma la perturbante ipermodernità in rapidissima trasformazione in cui tutti siamo immersi, sia necessario qualcosa di più della necessaria, ma temo non sufficiente, comprensione razionale della realtà.

Maurizio Vivarelli
Università di Torino


Systematic searching: practical ideas for improving results, edited by Paul Levay and Jenny Craven. London: Facet, 2019. XXIX, 320 p.: ill. ISBN 9781783303731 (cartaceo); 9781783303755 (e-book: PDF).

Questa raccolta di studi sul tema della ricerca sistematica (RS), recente proposta della biblioteconomia anglosassone, è promossa da CILIP, l’associazione britannica dei professionisti dell’informazione e delle biblioteche. Dal Regno Unito e da altri paesi anglofoni (Australia, Canada, Stati Uniti) provengono infatti, per buona parte, gli autori dei quattordici contributi qui pubblicati: si tratta di docenti, bibliotecari e documentalisti con una lunga esperienza in ambito medico-sanitario (ma non solo), afferenti a istituti universitari, ospedalieri, governativi, privati. Fra questi pare opportuno citare il National Institute for Health and Care Excellence (NICE) e la Cochrane collaboration, nota organizzazione no profit legata alla diffusione a livello internazionale della medicina basata sulle prove d’efficacia, criterio poi esteso ad altre aree disciplinari in cui ha preso solidamente piede nell’accezione allargata di evidence based practice (EBP).
In area medica, l’espressione sta a indicare «l’integrazione delle migliori evidenze scientifiche con l’esperienza clinica e con valori e circostanze individuali del paziente» (https://www.gimbe.org/pubblicazioni/gimbe/Handbook_Competenze_core_per_l_Evidence-based_Practice.pdf, p. 6). Tale indirizzo metodologico si concreta nella revisione sistematica, forma volta a comunicare la sintesi delle evidenze scientifiche, ovvero degli «studi condotti con metodi rigorosi che producono risultati rilevanti per la salute delle persone e per la sanità pubblica» (p. 4). In questo processo di sintesi a essere richieste sono alcune competenze specialistiche del bibliotecario quali la ricerca, il recupero, il riutilizzo dell’informazione.
NICE e Cochrane sono due enti di alto profilo nel settore della ricerca medica e si occupano nello specifico del monitoraggio della letteratura scientifica producendo revisioni sistematiche aggiornate degli studi pubblicati. Al NICE, istituto governativo, è oltretutto in capo il controllo sull’efficacia della ricerca intesa come rapporto tra costi e risultati ottenuti; argomento di rilievo, per tornare alla presente raccolta, considerato il divario tra le dinamiche dell’informazione oggi disponibile – crescente in quantità ma non per forza in qualità – e la contrazione delle risorse umane e finanziarie destinate a gestirla. Il volume si rivolge dunque a quei professionisti interessati ad aumentare efficacia ed efficienza dei propri processi di ricerca, senza trascurare la più ampia platea di studenti, ricercatori, autori di revisioni e di RS in settori che, muovendo da quello medico-sanitario, attingono ormai stabilmente ad altri ambiti – in primis le scienze sociali – applicandovi i criteri metodologici EBP. L’obiettivo si può dire triplice: offrire una rassegna aggiornata degli approcci sistematici alla ricerca e al recupero dell’informazione per fotografarne lo stato dell’arte; fornire materia di aggiornamento allo specialista del settore e riflettere al contempo sull’evoluzione della figura professionale.
Nei capitoli iniziale (Where are we now?) e conclusivo (Where do we go from here?) i curatori delineano un quadro teorico-pratico generale della RS in ambito EBP e presentano una partizione del volume – non segnalata dall’indice generale – in tre sezioni: metodi, tecnologie e operatori. I capitoli interni condividono un impianto comune: presentazione del contesto, discussione, prospettive future, conclusioni e passano in rassegna la letteratura più recente in materia. Al termine di ciascun capitolo, prima della bibliografia, viene incluso un elenco di letture consigliate.
I capitoli 2-5 trattano metodi e tecniche di RS e discutono, rispettivamente, gli approcci innovativi alla revisione sistematica; il complesso tema della ricerca su argomenti che incrociano competenze, approcci e aree disciplinari diversificati; il problema ‘tradizionale’ della scelta delle basi dati e delle tecniche di information retrieval; e quello sempre più centrale della raccolta di prove di efficacia dalla letteratura grigia e da dati non pubblicati. I capitoli 6-9 discutono ognuno una nuova tecnologia per il recupero e l’analisi dell’informazione, sintetizzandone l’impatto sulle metodologie e le strategie di ricerca e di valutazione: si passa dall’impiego dei social media nei processi di RS, al text mining, ovvero i sistemi per l’estrazione di informazione da testi in linguaggio naturale; dall’analisi semantica si passa agli scenari di utilizzo di linked data come strumento per il recupero di informazione altamente granulare, precisa ed efficiente in termini di rapporto tempo/risultati; infine un capitolo è dedicato al problema cruciale del monitoraggio delle prove d’efficacia (evidence surveillance). I capitoli 10-13 sono invece riservati a specifici aspetti della professione: formazione, lavoro in team, comunicazione ed evoluzione della figura del documentalista specializzato.
Nel complesso, i contributi pubblicati propongono una panoramica teorico-pratica della materia sufficientemente esaustiva e bilanciata la quale, tuttavia, rischia di rimanere dottrina astratta se non sostenuta almeno da una conoscenza manualistica, meglio una pratica diretta in fatto di RS. Il lettore non vi troverà ricette operative pronte all’uso, ma apprezzerà l’offerta di schemi e tabelle esemplificativi, di riferimenti biblio-sitografici, di modelli operativi e strumenti tecnologici utilizzabili come punto di partenza per lavorare su qualità ed efficienza del proprio processo di ricerca. Un contributo fondamentale all’opera è offerto dall’ampia bibliografia citata e, in particolare, dai trentaquattro case study distribuiti in ciascuno dei capitoli interni: brevi e sintetici report che riassumono in forma discorsiva un particolare caso di RS oppure presentano realizzazioni significative di strumenti per la RS (frequente è il riferimento a progetti Cochrane). Fra gli apparati di corredo si segnalano l’utile indice dei case study menzionati e le schede personali dei ventitré autori con una breve presentazione dei ruoli e dei titoli, degli interessi, dei curricula scientifici. In fondo al volume è presente un indice degli argomenti e un glossario sufficientemente fornito di termini e (soprattutto) di acronimi tecnici, una risorsa particolarmente preziosa per i non avvezzi alla terminologia anglosassone.
Nel complesso, seppure da un’angolazione molto specialistica, questa pubblicazione riconduce a temi ‘caldi’ quali literacy e overload informativi e stimola la riflessione sulla rilevanza dell’approccio scientifico alla documentazione anche nel nostro paese, al di là dell’ambito sanitario. A eccezione del Manuale per la didattica della ricerca documentale di Piero Cavaleri e Laura Ballestra – per altro sotto diversi aspetti non accostabile a questo volume – ancora sparsi e sporadici sono gli studi rivolti dalla biblioteconomia italiana a questo argomento; occasionali e spesso volontaristiche le opportunità formative, ristrette agli ambiti universitari. Questa e altre analoghe proposte editoriali – certamente degne di essere poste all’attenzione del pubblico italiano – costituiscono quindi delle valide occasioni di informazione e invitano a vagliare criticamente quanto di utile l’esperienza in ambito EBP può offrire al ricercatore, al bibliotecario documentalista o all’addetto al reference – specie per quelli attivi in enti di ricerca – che guarda, oltre i confini disciplinari, a processi caratterizzati da una complessità in costante crescita.

Pasquale Spinelli
Biblioteca di Farmacia e scienze degli alimenti, Università di Parma


Maria Teresa Biagetti, Le biblioteche digitali: tipologie, funzionalità e modelli di sviluppo. Milano: Franco Angeli, 2019. 253 p. ISBN 9788891780478 (cartaceo); 9788891792266 (e-book: PDF).

Curato dall’autrice in qualità di responsabile scientifico di un progetto di ateneo, Le biblioteche digitali viene pubblicato con il finanziamento di Sapienza Università di Roma.
La prima parte, più consistente, presenta lo scenario del settore e oltre venti progetti e case history che rappresentano modelli tradizionali e innovativi, con largo spazio a commenti sull’applicazione delle ontologie. Nel descrivere lo stato dell’arte, l’autrice mostra come i progetti digitali abbiano seguito soprattutto la direzione sostenuta da partner commerciali, stakeholder politico-istituzionali e comunità di ricercatori: le architetture socio-tecniche elaborate negli anni Novanta continuano a essere di attualità (basti osservare, per esempio, che cosa stanno facendo presso la Digital public library of America) alimentando al contempo le due concezioni della biblioteca digitale come archivio e come servizio, ma è pur vero che gli ultimi vent’anni hanno visto proliferare soprattutto depositi di rappresentazioni e di oggetti digitali, con l’obiettivo di creare portali di accesso al patrimonio culturale dei committenti.
Un altro trend documentato dal volume è quello delle sperimentazioni nell’area dei contenuti generati dagli utenti (non solo metadati ma anche annotazioni). Il capitolo sulle esperienze di biblioteche digitali arricchite con funzionalità semantiche e ‘social’ viene completato nella seconda parte del volume, con i contributi di Roberto Raieli (Potenzialità della ricerca multimediale nelle biblioteche digitali), Antonella Iacono (Le competenze dell’utente nello sviluppo delle digital libraries tramite il Crowdsourcing), Antonella Trombone e Simona Turbanti (Sistemi di raccomandazione e filtraggio collaborativo nella ricerca bibliografica).
Di interesse per studenti e professionisti nell’ambito delle scienze librarie, archivistiche e documentarie e dell’area umanistica, il volume potrebbe fare da ponte interdisciplinare per colleghi, ricercatori dei media, cultural studies e comunicazioni di massa, studenti di ingegneria dell’informazione, informatica o altre discipline che si interessano di tecnologie e sistemi per biblioteche e archivi digitali e dei loro modelli di business. Tuttavia, l’opera ha un approccio descrittivo, riduttivo della portata generale dei problemi, a dispetto della ricchezza (o forse proprio a causa della sovrabbondanza) degli esempi considerati. Nell’introduzione è del resto la stessa autrice ad avvertire che temi che potremmo definire controversi (la conservazione, la sicurezza dei dati, gli standard internazionali e le relazioni con gli editori elettronici e multimediali) non sono compresi, in quanto trattati da altri autori. Questo non è in realtà del tutto vero in quanto parlare di web archiving è in buona misura parlare di conservazione delle risorse digitali; parlare dell’ontologia promossa dall’International Council of Museums (ICOM) è anche parlare di standard internazionali.
Il volume ha dunque obiettivi di divulgazione di conoscenze coltivate con zelo nell’ambito di progetti di studio, mentre il mondo delle biblioteche e degli archivi digitali è, al 2020, ancora una realtà complessa in cui problemi organizzativi, finanziari, sociali, tecnologici, di competenze, di legislazione nella creazione e gestione di collezioni e servizi digitali vengono affrontati in modo frammentario. Se è vero che il settore avanza facendo due passi avanti e uno indietro, è altrettanto innegabile che l’interoperabilità tra sistemi tecnici, istituzioni culturali e comunità è sempre più possibile, moltiplicando le prospettive di evoluzione e innovazione.
In conclusione, il libro offre sia al neofita sia all’esperto l’opportunità di un onesto ed erudito confronto con ciò che si è fatto fino a questo punto.

Brunella Longo
Panta rei, Palestra internet


Selling & collecting: printed book sale catalogues and private libraries in early modern Europe, edited by Giovanna Granata and Angela Nuovo. Macerata: EUM, 2018. 311 p. ISBN 9788860565723.

Protagonisti di questa raccolta di saggi, estrapolati dagli interventi della conferenza “Selling and collecting: printed book sale catalogues and private libraries in early modern Europe” (Cagliari, settembre 2017), sono i cataloghi di vendita di editori e librai del Cinquecento e Seicento. Lo scopo è quello di avviare un’indagine innovativa e interdisciplinare volta ad analizzare gli aspetti più strettamente commerciali del mercato librario, attraverso il punto di vista di due figure apparentemente antagoniste che si intrecciano indissolubilmente: quella dei commercianti – librai, editori, stampatori – e quella dei consumatori – lettori, studiosi e collezionisti privati – che, seppur spinti da motivazioni differenti, fanno del catalogo di vendita il loro più fedele alleato.
Il rinvenimento in collezioni private di cataloghi ricchi di annotazioni e di elenchi manoscritti all’interno di quaderni, testimonia come i privati li ritenessero necessari per conoscere in maniera tempestiva i libri in commercio, creare liste di desiderata ed effettuare ordini. Esemplare è il caso dei taccuini di Prospero Podiani presi in esame da Maria Alessandra Panzanelli Fratoni, grazie ai quali conosciamo le edizioni disponibili, quelle esaurite o in corso di stampa. Giovanna Granata, sottolinea come addirittura venissero considerati alla stregua delle bibliografie: secondo il giurista Monserrat Rosselló erano in grado di orientare gli studiosi nel dinamico mondo del libro a stampa per poter accedere al sapere dell’epoca con un respiro sempre più ampio, allargando l’orizzonte oltre la produzione locale. Questa rinnovata attenzione all’internazionalità del commercio librario viene identificata da Pedro Rueda Ramírez nella figura del libraio Simone Vassalini: un catalogo da lui commissionato testimonia la vendita di libri veneziani nel cuore di Madrid. Anche nel caso dei libri d’importazione il canale ufficiale delle librerie spagnole o italiane stabilitesi in Spagna, si intreccia con la rete informale legata all’ambiente della corte: molti italiani giunti in Spagna avevano con sé libri che spesso regalavano o vendevano prima del rientro; viceversa diversi spagnoli in missione in Italia portavano indietro bagagli ricchi di stampati. Graziano Ruffini, sulla base del registro di vendita del libraio Cristoforo Zabata, sottolinea come gli stessi librai, non solo per la propria attività ma anche su commissione di collezionisti o per conto dei propri colleghi, intraprendessero viaggi d’affari per entrare in contatto diretto con i tipografi del luogo o frequentare fiere, dove poter trovare maggiori opportunità. In un mondo commerciale in continua crescita, dove l’offerta si stava diversificando e la concorrenza aumentava in maniera esponenziale, i librai e gli editori fecero del catalogo il loro principale strumento di marketing. Ovviamente le tecniche pubblicitarie, come ci indicano Christian Coppens e Angela Nuovo, avevano subito un’evoluzione: inizialmente i commercianti impiegavano annunci pubblicitari, appesi alle porte o distribuiti dagli agenti, che indicavano il luogo e le modalità di vendita, il prezzo e sottolineavano i punti di forza del nuovo prodotto tipografico. Solo fra il XV e il XVI secolo inizia a diffondersi l'uso dei cataloghi: la loro analisi permette di conoscere le strategie adottate per creare i canali di distribuzione e per la vendita dei prodotti e i fattori determinanti per la scelta dei prezzi. Il lavoro di Flavia Bruni, incentrato su un inventario di bottega di Bernardino Giunti riportante i libri pubblicati e venduti da Francesco De Franceschi, ci testimonia due modalità con cui si assegnava il prezzo di vendita: nella prima il costo era calcolato in termini di prezzo per foglio, proprio a rappresentare la vita di officina, dove i libri appena stampati venivano solitamente venduti sfusi per essere rilegati successivamente; nella seconda si riflette l’abitudine di vendere più edizioni rilegate insieme. Si evince per di più un’evoluzione continua del prezzo dovuta a molteplici varianti: oltre infatti al fattore squisitamente tecnico della manifattura del prodotto libro, che comprendeva qualità della carta, formato, costi e tempi di lavorazione, vanno tenuti in considerazione anche aspetti sociali, per cui si applicavano sconti in base a specifici accordi individuali e caratteristiche più intrinseche al volume, rilevate da Giliola Barbero dalla lista dei Libri spirituali della casa editrice Giolito, quali il contenuto del testo, l’anno e la lingua di edizione, la presenza di illustrazioni.
Le riflessioni contenute in questo volume sono però solo la punta dell’iceberg di una ricerca ben più complessa che pone in maniera preponderante queste risorse documentarie sotto la lente d’ingrandimento delle discipline economiche, necessarie, come mostra Francesco Ammannati, per giungere a un confronto globale fra le diverse aree monetarie, e statistiche, attraverso le quali, sul modello dello studio dei cataloghi dell’editore Robert Estienne svolto da Goran Proot, è possibile aprire un’indagine delle molteplici variabili che influenzano i prezzi del prodotto tipografico.

Ilaria Vercillo
Biblioteca Casanatense


Fiammetta Sabba, Viaggi tra i libri: le biblioteche italiane nella letteratura del grand tour, premessa di Giorgio Montecchi; presentazione di Giovanna Granata. Pisa; Roma: Fabrizio Serra Editore, 2018. 358 p.: ill. (Quaderni di bibliologia; 4). ISBN 9788833151113.

«Non dobbiamo […] sottovalutare l’importanza che le biblioteche, lo scoprire in biblioteca, il leggere in biblioteca [...] hanno avuto, nel passato più e meno recente – e sicuramente anche oggi – al di là dei semplici numeri delle statistiche». Quest’ammonizione di Alberto Petrucciani del 2014, benché riferita in altro contesto alle tracce della presenza di Dino Campana alla Biblioteca di Ginevra, viene ben recepita dal poderoso studio che Fiammetta Sabba ha dedicato ai secoli dal XVII al XIX e alle biblioteche italiane, attraverso la lente della letteratura di viaggio e delle tracce che essa ci tramanda della loro fruizione da parte di chi intraprendeva itinerari di conoscenza e formazione: un particolare modo di viaggiare che, per la sua diffusione nelle società agiate e aristocratiche dell’Europa continentale, diventa fenomeno e ben presto s’identifica con la fortunata definizione di ‘grand tour’.
La Premessa di Giorgio Montecchi al volume (p. 13) sottolinea l’idea di futuro insita in questi viaggi ‘tra i libri’, certo ispirati dalla ricerca delle vestigia del passato, ma che attraverso la lettura e l’uso delle collezioni librarie producevano inattesi legami tra tempo e spazio, coltivando una cultura cosmopolita che – come nota altrove Cesare De Seta, autore di varie pubblicazioni sull’Italia del grand tour– giocherà un ruolo significativo nelle trasformazioni del gusto, delle mentalità, delle idee politiche.
E sempre al futuro è volto lo sguardo dell’autrice, che mira a «suggerire […] nuove ipotesi di ricerca bibliografica e storico-bibliotecaria» (p. 29) entro una riaffermazione del valore trasversale della bibliografia a supporto delle altre discipline. Infatti, l’analisi storica della percezione culturale delle biblioteche, attraverso il loro concreto utilizzo da parte dei viaggiatori e le loro testimonianze al riguardo, e in un periodo – per dirla con le parole della Presentazione di Giovanna Granata – «centrale per la formazione ed il consolidamento del paradigma della biblioteca pubblica moderna» (p. 16), si inserisce tra le linee storiografiche della storia delle istituzioni, dello scavo stratigrafico nelle collezioni, dello studio del servizio bibliotecario, e si presta a interagire con gli approcci già individuati, aggiungendo fonti ed elementi ai metodi d’indagine fin qui consolidati. Questa stessa ricerca scaturisce del resto da una domanda sulle prospettive attuali delle biblioteche, in precedenza affrontata dall’autrice nell’ambito del convegno internazionale “Le biblioteche anche come musei: dal Rinascimento ad oggi” (Biblioteca nazionale centrale di Roma, 16-17 novembre 2016): se e in che modo le biblioteche di antica formazione possano trovare una nuova identità senza rinunciare alle loro prerogative di conservazione, anche aprendosi alla valorizzazione del proprio aspetto di ‘beni culturali’ in un’accezione dinamica e non passiva o puramente conservativa.
Al tema del viaggio come occasione di lettura e di visita alle biblioteche, e alle guide di viaggio come fonte d’informazioni sull’accessibilità di collezioni librarie, erano stati dedicati spunti dagli studi di Attilio Brilli e da varie occasioni di convegno (“Il viaggio e i viaggiatori in età moderna”, Perugia, 10-12 maggio 2007, sugli inglesi in Italia e le opportunità di lettura; “Libri e lettori verso l’Italia unita”, Firenze, 22 aprile 2010, con attenzione alle guide turistiche ottocentesche come fonte per la storia delle biblioteche). Questo volume rappresenta invece una ricognizione sistematica: saldamente ancorato alla prospettiva della storia delle biblioteche, alle cui interpretazioni e articolazioni dedica l’introduzione, propone una rassegna analitica delle fonti bibliografiche e catalografiche: raccolte di scritti odeporici e bibliografie sui viaggiatori, fondi bibliotecari, memorie e resoconti diaristici manoscritti o a stampa, corrispondenze e appunti di viaggio, fonti apodemiche di supporto all’odeporica (guide e raccomandazioni, istruzioni sulle strade, ma anche sulle biblioteche); fonti, tutte, da interpretare alla luce del profilo del viaggiatore, dei suoi intenti e punti di vista; e tutte tradizionalmente meno considerate per la storia delle biblioteche che per altri aspetti. Eppure, se le raccolte bibliotecarie erano parte integrante di molti itinerari di visita, studiarle attraverso questa lente può offrire una visione della realtà effettiva di servizi e collezioni, modalità di fruizione, opportunità di conoscenza offerte. Se ne ricava ad esempio che i viaggiatori (per certi versi in modo non dissimile da oggi) apprezzavano – o commentavano negativamente, se delusi – l’accessibilità e qualità dei cataloghi, la mole delle collezioni librarie, le preziosità antiquarie o architettoniche, le forme di ‘pubblicità’ delle biblioteche, intesa come liberalità nell’apertura e nella disponibilità di documenti.
Le diverse parti in cui è articolato lo studio lasciano ampio spazio alle voci dei protagonisti, commentandone le parole e traendone notizie sui patrimoni librari descritti, per concludere che la rivoluzione culturale operata dal grand tour – almeno fino alla transizione del viaggio da veicolo di scambi, pratica sociale, strumento di formazione, a turismo di svago – coinvolse l’evoluzione delle biblioteche in istituzioni per la formazione delle classi dirigenti, degli scienziati e di una «società intellettuale in grado non solo di apprezzare, ma anche di condividere il patrimonio delle nuove conoscenze» (p. 254). Conclusione ribadita da un successivo contributo dell’autrice, Il viaggio e le biblioteche: una storia di continuo apprendimento sociale e culturale, presentato nel 2019 alla terza Conferenza nazionale dell’Associazione italiana di public history, nel panel da lei stessa coordinato su “L’esperienza del viaggio come veicolo di storia sociale e culturale”.
L’appendice iconografica del volume e il ricco corredo di indici (delle biblioteche, per viaggiatore e per città; dei cataloghi; dei bibliotecari; delle edizioni odeporiche, per luogo di stampa e per editore, oltre all’indice generale dei nomi) completano un lavoro che contribuisce a collocare lo studio delle biblioteche nel più ampio panorama di una storia culturale che non sia mera storia di ‘beni’ da tutelare ma storia del pensiero, delle modalità della sua elaborazione e trasmissione.

Chiara De Vecchis
Biblioteca del Senato della Repubblica “Giovanni Spadolini”


Édouard Chavannes, Libri in Cina prima dell'invenzione della carta, traduzione e rielaborazione a cura di Vincenzo Cannata. [Milano]: Istituto di cultura per l'Oriente e l'Occidente; Luni, 2018.69 p.: ill. (Biblioteca ICOO; 4).ISBN 9788879845533.

La breve monografia pubblicata da Luni editrice nella collana Biblioteca ICOO, nata dalla collaborazione con l’Istituto di cultura per l'Oriente e l'Occidente, come chiaramente dichiarato sul frontespizio, consiste nella «traduzione e rielaborazione» di Vincenzo Cannata di un lavoro pubblicato nella prima decade del Novecento da Emmanuel Édouard Chavannes (Lione 1865 - Parigi 1918). Uscito nel fascicolo di gennaio-febbraio 1905 di Journal asiatique con il titolo Les livres chinois avant l’invention du papier, l’articolo di Chavannes è il risultato emblematico di un periodo particolarmente fiorente per la sinologia europea, in particolare britannica, tedesca e francese.
Nell’Introduzione Cannata, oltre a delineare brevemente la biografia di Chavannes e riportare la bibliografia delle sue principali pubblicazioni, illustra, concisamente ma esaurientemente, la posizione rivestita dall’autore nell’ambito degli studi orientalistici in Europa tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento e le circostanze contingenti che hanno permesso la stesura del suo lavoro dedicato all’archeologia del manoscritto in Cina. Furono infatti i reperti archeologici rinvenuti dall'orientalista britannico Sir Marc Aurel Stein (1862-1943) nel corso delle sue campagne di ricerca in Asia centrale negli anni 1900-1901 – la più celebre delle quali riguarda il ritrovamento di una intera biblioteca murata in una delle grotte dei Mille Buddha di Dunhuang – che permisero a Chavannes di avere accesso a una sconfinata mole di documenti di prima mano, consentendogli una accurata e approfondita analisi dei materiali scrittori utilizzati in Cina prima della carta. I manoscritti e le stampe xilografiche rinvenuti da Stein, una volta giunti in Europa, furono infatti affidati a Chavannes (all’epoca sulla cattedra di Lingue e letterature cinese e tartara manciuriana al Collège de France) per essere studiati, tradotti e descritti, e successivamente pubblicati nel resoconto della missione di Stein Ancient Khotan: detailed report of archaeological explorations in Chinese Turkestan (Clarendon Press, 1907).
Il testo passa in rassegna tutti i supporti scrittori impiegati prima della comparsa della carta in Cina (come noto inventata tradizionalmente da Cai Lun nel 105 d.C.,ma certamente già precedentemente utilizzata) – seta, tavolette di legno e liste di bambù – nonché gli strumenti utilizzati per la scrittura – lo stilo di legno per tracciare i caratteri cinesi con vernice su liste e tavolette e il coltello per cancellare raschiando, il pennello per l’utilizzo dell’inchiostro sulla seta. Si giunge quindi alla conclusione che «gli scritti su seta non fecero la loro comparsa che all’epoca di Qin Shihuangdi e che in realtà fu l’invenzione del pennello che la rese possibile» (p. 48) – proprio nel periodo storico che vide la prima grande distruzione di libri in Cina decretata dall’imperatore Qin nel 213 a. C. – e che, «nonostante l’invenzione della carta nel 105 della nostra era, l’uso delle liste di legno continuò per almeno un secolo e mezzo dopo tale data» (p. 50).
Nella sua puntuale esposizione Chavannes si avvale sia dell’esame della struttura grafica e del significato dei caratteri cinesi che si riferiscono ai vari supporti e strumenti scrittori, sia di una approfondita analisi dei documenti coevi ai reperti archeologici disponibili e dei testi classici cinesi. Costanti sono i riferimenti e le citazioni ai classici confuciani e loro commentari e a quelli storici, in particolar modo lo Shiji (Memorie storiche), monumentale lavoro storiografico di Sima Qian (145 - 86 a.C.) di cui Chavannes fu primo traduttore in lingua occidentale (recentemente tradotto dal francese in italiano dallo stesso Cannata per il medesimo editore Luni, 2017).
A conclusione del volume l’edizione aggiunge, a corredo dello scritto originale, due appendici, dedicate rispettivamente all’Elenco delle citazioni di riferimento e all’Elenco dei libri citati nel testo, e un Elenco dei termini cinesi che, unitamente all’Introduzione e ad alcune note del traduttore, rappresentano non solo un utile contributo alla comprensione del testo ma concorrono a collocare l’opera nel contesto nella quale fu prodotta, ormai oltre cento anni fa.
Nonostante alcuni concetti esposti risultino ormai superati per il progresso degli studi nel settore, dovuto certamente al moltiplicarsi dei ritrovamenti archeologici anche negli anni immediatamente successivi all’articolo del 1905, e per la fase iniziale in cui si devono necessariamente collocare i suoi studi in questo specifico ambito (aspetto rilevato anche anche dallo stesso Cannata, p. 9, 14-15), l’analisi di Chavannes denota un approfondimento e un’accuratezza notevole che permettono al suo scritto di conservare autorevolezza e continuare a rappresentare una fonte documentaria importante in un’area di studio che quasi non conosce traduzioni in Italia.

Federica Olivotto
ISMEO - Associazione internazionale di studi sul Mediterraneo e l’Oriente


Giancarlo Petrella, L’impresa tipografica di Battista Farfengo a Brescia: fra cultura umanistica ed editoria popolare (1489-1500). Firenze: Olschki, 2018. XXXI, 507 p.: ill. (Biblioteca di bibliografia; 208). ISBN 9788822266071.

Brescia fu nel XV secolo un centro significativo quanto a produzione e circolazione libraria, con quasi trecento edizioni a oggi identificate: imparagonabile a Venezia, ma lontana da Padova, città universitaria, con i suoi scarsi duecento titoli. Non tutte le proposte erano destinate al mercato cittadino ma erano indirizzate a rotte commerciali che muovevano a est verso Venezia, e quindi al suo golfo collegato a Oriente e Occidente; rotte che si spingevano a sud verso il fiume Po’, e dunque, lungo le vie d’acqua, verso Mantova, Ferrara, Bologna.
L’interesse di Giancarlo Petrella per la figura del tipografo bresciano Battista Farfengo, come rilevato da Edoardo Barbieri nella sua Presentazione (p. IX), risale almeno al 2004 e dunque si estende su un arco pluridecennale, durante il quale Petrella ha dato numerose prove di esperto incunabolista e attento conoscitore del libro a stampa dei primordi. Il volume ospita l’esito di un’approfondita ricerca che distribuisce la materia in quattro capitoli, cui se ne aggiunge un quinto contenente gli Annali tipografici (p. 343-478) di Farfengo, distinti in quattro serie: quella delle edizioni datate e sottoscritte, delle solo sottoscritte (talvolta incerte) ma prive di data, delle sine notis attribuite e, da ultimo, delle tre edizioni da sottrarre alla produzione del prete-tipografo. Sugli Annali, dove scorrono in rassegna 57 manifestazioni editoriali, basti osservare che Petrella li ha stabiliti dopo aver considerato – direttamente o indirettamente – un numero davvero impressionante di esemplari, ossia tutti quelli a oggi noti. L’Iliade di Omero, tradotta da Lorenzo Valla in latino (IGI 4801, scheda 29, p. 426-444) e datata 6 settembre 1497, è nota a ISTC in ben 79 esemplari. Petrella riscontra invece 77 copie: quella di Göteborg «a un controllo diretto […] è in realtà un facsimile» e quella appartenente alla collezione March di Palma di Maiorca risulta «irrintracciabile» (p. 444). A esse lo studioso aggiunge 5 esemplari battuti alle aste, il lettore immagina scovati anche grazie alla banca dati Rare Book Hub. In proposito segnalo, a margine, che il possessore di quello venduto da Minerva Auction di Roma (n. 79, p. 443) va meglio ricondotto al peraltro ignoto «Nicolai donati de Altottig», stando almeno a quanto si legge abbastanza chiaramente nella riproduzione dell’incipit, disponibile in rete (http://www.minervaauctions.com/aste/libri-autografi-stampe-asta-146/7703-omero-ilias/). Fitti, quindi, i dati di copia, che proprio per la loro ricchezza avrebbero dovuto essere riferiti con maggior rigore alla loro fonte. Non aver separato gli esemplari passati al vaglio dell’autopsia diretta del bibliografo acutissimo, quale Petrella è, da quelli invece esaminati per mezzo di riproduzioni fotografiche o per tramite di incaricati dalle istituzioni detentrici (vedasi la succinta nota metodologica a piè di p. 343), non aiuta a valutare appieno la qualità delle notizie descrittive associate a ciascuna copia. Convince pienamente, invece, la struttura della descrizione annalistica, agile e nel contempo assai dettagliata, completa di una nota di contenuto testuale e paratestuale, puntualmente ricondotta ai repertori bibliografici, alle referenze e ai cataloghi necessari.
Ma non sono gli Annali l’autentico nocciolo del volume, che ampia «importanti cadenzate anticipazioni» (p. XVI) offerte da Petrella dal 2004 al 2014 su «don Baptista da Farfengo». Anzitutto affiorano nuovi documenti d’archivio e, con essi, novità biografiche, che prolungano la vita di «pre Baptista» almeno sino al 1512, ben oltre quel 1500-1501 (more Veneto in agguato) che vide chiudersi la sua impresa tipografica, o comunque che segnò la scomparsa del suo nome dai paleotipi. A dimostrazione che, se ve ne fosse bisogno, è piuttosto la difficoltà professionale o commerciale ad arrestare i torchi, non il termine naturale dell’esistenza di chi ne sorregge l’attività. Petrella indaga approfonditamente le scelte editoriali di Farfengo, che si tiene ben distante da quelle della concorrenza cittadina dei Britannico (presi «in controtempo», p. 108-114). Perché Farfengo guarda piuttosto ai titoli proposti a Firenze, a Venezia, e altrove. Con sagace capacità e tempestiva energia egli sa occupare gli spazi lasciati liberi dalle proposte librarie dei competitori. Farfengo opta per inanellare nel proprio catalogo stampati che «vanno in mano a tutti […]: letteratura d’evasione, novellistica, titoli d’edificazione morale e religiosa nonché di divulgazione scientifica. Quel genere di produzione cui bene si adatta la categoria, per quanto ambigua, di letteratura popolare, o di larga circolazione che dir si voglia.» (p. XVIII). Dalle edizioni messe sotto il torchio si evince non solo la politica editoriale farfenghiana ma la si congiunge strettamente alle soluzioni tecnologiche, alle sospette pause dei torchi (da riempire, in futuro, con nuovi ritrovamenti), ai successi commerciali, al ritmo delle riproposte, alle doppie impressioni, alle scommesse vinte (come quella, non scontata, dell’Ovidio dell’ottobre 1489), alle sperimentazioni paratestuali, alle esigenze di riprogettazione compositiva per ridurre le spese o immettere sul banco del libraio soluzioni editoriali originali. Il catalogo di Farfengo sa trattare anche i residui della biblioteca medievale, quali sono Efrem il Siro o san Bonaventura o lo pseudo Alberto Magno, concepito per professionisti e lettori che conoscono la gramatica, ma prediligono i compendi, lettori ai quali è destinata la sua Philosophia pauperum. Eppure Farfengo è abile nel declinare Alberto Magno anche in versione volgare, di poche carte, dove stampare ricettari, formule, meraviglie alchemiche e altri ritrovati da cerretano, riuniti sotto il titolo di Libro de Alberto Magno de le virtu de herbe et prede et animali et altre cose maraveliose, licenziato a fine 1494, di cui sopravvive un solo esemplare completo. Gli anni novanta del Quattrocento offrono al presbitero, fattosi, e non sappiamo bene come, direttore di stamperia, l’occasione di mettere sotto il torchio una produzione volgare, in poesia, ad ampia diffusione, costituita da instant book sulle conquiste arabe e sulle scorribande turche nell’Europa cristiana, da cantari, romanzi come l’Historia de duobus amantibus di Enea Silvio Piccolomini, brevi poemetti misogini, accostati a sussidi per l’apprendimento o l’esercizio della lingua latina (Esopo e le operette di Cristoforo Barzizza) ad utilitatem discipulorum, come dichiaravano gli incipit. Ciò che colpisce del metodo storiografico di Petrella è il narrare la storia delle scelte tipografico-editoriali di un singolo operatore con il calarlo nelle pratiche d’officina quotidiane, con i loro ritmi regolari e i loro incidenti di percorso, ma pure con il posizionarlo nel contesto specifico del suo stesso catalogo, del côté produttivo cittadino e italiano, delle soluzioni materiali, testuali e culturali che fanno da sfondo ma nel contempo determinano scelte precise, ragionevoli e, spesso, foriere del meritato successo. E successo i libri di Farfengo dovettero averne moltissimo, stando ai precisissimi riscontri statistici sui tassi di sopravvivenza che testimoniano un uso intenso e prolungato delle stampe del prete bresciano.
Se nel capitolo terzo si entra nella bottega di Farfengo dove si è condotti dalla sapienza bibliologica di Petrella, lucido e assai abile conoscitore di carte e filigrane, caratteri e pratiche illustrative e decorative, è nello studio della disseminazione dell’eredità libraria di Farfengo, oggetto del capitolo quarto, che si offrono gli spunti metodologici più innovativi del volume, sottolineati pure da Barbieri nelle pagine preliminari. Ottima è l’idea di esaminare la sopravvivenza delle edizioni farfenghiane nelle liste dell’inchiesta della Congregazione dell’Indice, svoltasi tra fine Cinquecento e primissimi anni del Seicento, per trarne importanti conclusioni sulle dinamiche tra edizioni ed esemplari, conclusioni che spetterà al lettore valutare. Si potrebbero estendere analoghi raffronti – anche con considerazioni e contrario – alla serie dei repertori Ricabim, partendo dall’ultimo nato, per le cure di Adriana Alessandrini, su Il libro a stampa e la cultura del Rinascimento: un’indagine sulle biblioteche fiorentine negli anni 1470-1520 (Sismel Edizioni del Galluzzo, 2018). Non è un caso che la produzione farfenghiana sia poco rappresentata, a testimoniare l’ispirazione "fiorentina" del catalogo bresciano, poco attrattivo quindi per i clienti della città dell’Arno. Nel rintracciare l’uso, la circolazione, le peregrinazioni dei libri di Farfengo, una volta lasciata l’officina da cui sono nati, la storia della tipografia si fa storia del libro, e delle biblioteche, come transito privilegiato di esemplari sopravvissuti e giunti sino a noi, oppure inseguiti grazie alle orme lasciate nelle liste, nei cataloghi, negli ex libris, nelle legature, nelle annotazioni di provenienza, di possesso e di dono, nelle note di lettura e negli indizi disseminati dal tempo sulle carte. I nomi che affiorano sono a volte minori, come il conte Paolo Boschetti fondatore della Congregazione di San Carlo, da cui rinascerà nel 1772 l’Università degli studi di Modena (e a quest’ultima biblioteca va riferito l’esemplare dell’Iliade oggi all’Estense), altre volte invece attestano ben conosciuti e rilevanti percorsi intellettuali, quali quello del cardinale Egidio da Viterbo (1469-1532) che ha lasciato copia fittamente postillata della stessa Iliade, letta nel corso di una delle sue esperienze eremitiche tra il 1499 e il 1506, pochissimi anni dopo la pubblicazione del volume. Le manicule e i segni di attenzione, i notabilia e i margini preparatori a percorsi indicali con cui non solo circumnavigare ma anche sunteggiare e memorizzare il testo omerico offerto nel latino di Valla, proiettano il bibliografo ben oltre la soglia della bottega di Farfengo e ne rendono più comprensibile, e in fondo anche più ricco di senso, il suo percorso di studio.

Paolo Tinti
Alma mater studiorum Università di Bologna


Mauro Guerrini, RDA: resource description and access, con un aggiornamento di Lucia Sardo. Roma: Associazione italiana biblioteche, 2020. 60 p. (ET: Enciclopedia tascabile; 43). ISBN 9788878123014 (cartaceo>); 9788878123076 (e-book: PDF).

Nato dell'impegno del Joint Steering Committee for Revision of AACR-AACR2, poi RDA Steering Committee (RSC), RDA – Resource description and access, è lo standard che raccoglie il testimone delle AACR2, rispetto a cui vi sono però differenze fondamentali. RDA, in uso a partire dal 2013, non è più una successione di regole bensì un insieme di istruzioni, meglio ancora un contenitore di regole, in cui accanto a istruzioni di carattere generico, che lasciano ampio spazio alla scelta del catalogatore (principio del cataloger’s judgement) e che sono pensate per permettere la compatibilità con le schede AACR, vi sono poi linee guida (policy statements e best practices) proprie di singole istituzioni di vari paesi, più simili alle vecchie regole catalografiche. RDA è il primo standard autenticamente digitale: non guarda più alla scheda catalografica cartacea come modello e abbandona ISBD per tutti gli aspetti più legati all’ambiente cartaceo. A livello di registrazione dei dati vengono meno i principi della sinteticità dei dati e di una lettura della scheda in cui ciascun elemento va interpretato alla luce degli altri, a favore di un contesto orientato ai linked data in cui ogni elemento è completo e autosufficiente; la sinteticità delle informazioni diventa più una norma di buon senso. Viene meno la sequenza fissa e lineare dei dati: invece di una registrazione monodimensionale abbiamo un insieme di dati che vengono ricomposti successivamente da attori diversi, in momenti diversi e secondo finalità diverse, con la possibilità di scegliere quali dati visualizzare e come farlo. Non ci sono neanche più regole sulla punteggiatura convenzionale, sostituita da etichette e designatori di relazione, già presenti in AACR2 ma poco usati. Non si parla più di catalogazione: RDA non si rivolge più solo alle biblioteche ma a qualsiasi istituzione culturale e non riguarda più i soli materiali di biblioteca ma qualsiasi risorsa suscettibile di essere descritta.
Il legame col passato non è però del tutto abbandonato: già la denominazione dello standard fa riferimento a quelli che furono i due momenti chiave della catalogazione, la descrizione bibliografica e i punti d’accesso. Chiare sono inoltre le origini biblioteconomiche di RDA che, in quanto standard di contenuto, raccoglie l’eredità di ISBD nel prescrivere: scelta degli elementi, fonti da cui desumerli e modalità della loro trascrizione – ora improntata però al take what you see, ovvero a una trascrizione il più possibile priva di interpolazioni e interpretazioni da parte del catalogatore – e che è fondato su FRBR (e dal 2018 IFLA LRM), modello concettuale dell’IFLA che costituisce il frutto di una riflessione decennale sulle funzioni e l’oggetto della catalogazione.
Se già in passato ci sono stati codici di regole che riprendevano FRBR, RDA è il primo standard autenticamente imperniato su tale modello concettuale, adottato integralmente al punto che tutte le istruzioni sono suddivise sulla base degli attributi e delle relazioni del modello. Altra differenza tra RDA è AACR è che mentre queste ultime nacquero dal contesto angloamericano ed ebbero poi diffusione internazionale, RDA aspira già in principio all’internazionalità e mostra quindi scarsi riferimenti a un contesto specifico di provenienza, per quanto non sia ancora del tutto esente da una connotazione angloamericana; attualmente l’RSC è composto di rappresentanti di Library of Congress, British Library, Libraries and Archives Canada, National Library of Australia e, dal 2011, Deutsche Nationalbibliothek. L’interesse europeo non tarda ad arrivare: sempre nel 2011 si costituisce EURIG, European RDA Interest Group, che promuove la traduzione e l’adozione dello standard in paesi europei. Anche l’Italia ne fa parte: la traduzione italiana, a cura dell’ICCU e coordinata dallo stesso Mauro Guerrini, è disponibile dal 2016 ed è in corso di aggiornamento. In Italia, RDA è stato adottato da URBE, dalla Bocconi e da Casalini libri. Infine, e a differenza delle AACR, che avevano conosciuto tre diverse edizioni (AACR, AACR2 e AACR2R), RDA è risorsa integrativa nel senso più pieno del termine: testo in continua evoluzione, in cui le singole istruzioni di cui è composto vengono aggiornate separatamente ma costantemente, inoltre è utilizzabile online tramite l’RDA Toolkit, strumento interattivo con navigazione ipertestuale e condivisione di strumenti e risorse.
Il libro di Mauro Guerrini, giunto alla seconda edizione e disponibile in versione cartacea ed e-book, ci introduce a RDA in modo sintetico, chiaro e puntuale, grazie anche a numerosi esempi. La nuova edizione, che si avvale della collaborazione di Lucia Sardo per i capitoli finali del libro, presenta un testo interamente rivisto e aggiornato, oltre che ampliato e con una differente disposizione dei capitoli. La cronologia di RDA viene aggiornata agli eventi degli ultimi anni: nel 2014 viene creato il nuovo sito dell’RSC e avviata la traduzione italiana; nel 2015 viene aggiunto il capitolo 23 per i soggetti; nel 2017 viene avviato l’RDA Toolkit Restructure and Redesign (3R) Project; nel 2018 viene implementato IFLA LRM e realizzato il Beta Toolkit, caratterizzato da terminologia rivista, nuove entità e concetti derivati da IFLA LRM, come quelli di dominio e codominio; nel 2019, infine, viene completato il testo consolidato inglese dello standard. Aggiornati e più ricchi di dettagli anche i capitoli dedicati a BIBFRAME e a RDA Registry. L’ultimo capitolo del libro è dedicato ai rapporti tra RDA e IFLA LRM: lo standard riprende infatti il modello dell’IFLA con alcune modifiche; oltre alle entità di IFLA LRM è presente una ‘entità RDA’, classe astratta di oggetti concettuali d’interesse per gli utenti finali.

Giuliano Genetasio
Biblioteca nazionale centrale di Roma