Franco Ferrarotti
Le biblioteche, pubbliche o private che siano, non hanno buona stampa. Nella lingua comune, quella di tutti i giorni, in cui si esprime la saggezza ordinaria e che l’illustre psicanalista francese Jacques Lacan chiamava ‘la lalangue’, la definizione di ‘topo di biblioteca’ non è precisamente un complimento. Esprime e si riferisce a un tipo umano piuttosto umbratile, chiuso in un mondo tutto suo e indifferente, se non disadattato, con riguardo alle questioni pratiche, anche faticose ma dalle quali dipendono i mezzi di sussistenza. C’è di più. Le biblioteche sono, per così dire, i templi dei libri, i luoghi deputati alla loro conservazione, dove si possono consultare, leggere, studiare.
Ma è noto che, oggi, il libro non è più l’unico strumento della trasmissione dei valori culturali. Ha perso la sua aura. È in crisi. Qualcuno dice, magari sottovoce, che è in crisi, una crisi irrimediabile, che prelude all’agonia e alla morte finale.
In queste condizioni, l’amore per i libri e la frequentazione delle biblioteche rischiano di passare ed essere scambiati per necrofilia. Scrivere non è un atto naturale, non viene spontaneo. Bisogna prepararsi, sedersi alla scrivania, procurarsi un ambiente in cui regnino silenzio e solitudine. Elisabetta, la figlia minore di Thomas Mann, il grande scrittore di Lubecca, mi diceva, quando ci si vedeva a Chicago nel 1951, che il padre, ogni mattina, vestito e sbarbato di tutto punto, con l’eleganza richiesta da una particolare cerimonia, si metteva a scrivere come se desse inizio a un’attività liturgica o sacramentale.
In effetti, scrivere non è naturale. Rispondono a esigenze naturali altre attività quotidiane, come il mangiare, il bere, l’evacuare, il dormire. Ma scrivere, no. Nasce da bisogni personali misteriosi. Forse, scrivere per rivivere. In altre parole, per ricordare, per non dimenticare. O, forse, scrivere anche per vivere la vita che non si è vissuta. Scrivere per liberarsi e trascendere la datità originaria.
Ma può anche essere che la scrittura sia una scommessa contro la morte e l’oblio, contro l’inevitabile caduta del corpo, il patetico tentativo, destinato fin dall’inizio alla sconfitta, di eliminare l’esito finale. Scrivere, dunque, per restare vivi, nella memoria; per prolungare il vissuto nel pensato, nello scritto. In fondo, gli umani non sono nulla in senso assoluto e solo l’arroganza filosofica li può immaginare in rapporto con l’Essere. Sono, in realtà, in rapporto con l’‘esistere’, nel senso di ex-sisto, emergo dal nulla e al nulla ritorno. Gli umani sono solo prodotti deperibili senza la data di scadenza. Sono solo ciò che sono stati, che ‘ricordano’ di essere stati. La pagina scritta, il libro, è il ricordo, la traccia lasciata da queste memorie personificate, da questi ricordi ambulanti che sono i maleducati, troppo spesso, ospiti, per una volta, del pianeta Terra.
Considerando che dei tre collaboratori stretti di Adriano Olivetti, vale a dire Geno Pampaloni, Renzo Zorzi e io stesso (ma è noto che Pampaloni e Zorzi potevano dare a Adriano solo una lealtà dimidiata, essendo anche dirigenti della Ditta Olivetti), il caso ha voluto che io sia, oggi, l’unico superstite e che il solo modo di un superstite di farsi perdonare è che diventi un superteste. Posso dunque testimoniare che Adriano Olivetti credeva nel libro, era un fedele, fervente, ma mai intollerante, delle ‘religioni del Libro’; aveva un grande rispetto, che a volte mi era parso anche eccessivo, per la scrittura.
Per me, all’epoca, due logiche, ferreamente contraddittorie, si contendevano la lealtà degli esseri umani, che per una volta passano su questo pianeta: la logica della lettura e la logica dell’audiovisivo. La prima è analitica, si fonda sul principio di non contraddizione e sulla consecutio temporum. Ha quindi bisogno di concentrazione sulla pagina e richiede silenzio e solitudine, quei privilegi che la società tecnicamente progredita solo raramente ci concede. La logica dell’audiovisivo colpisce, invece, con il misterioso potere ipnotico dell’immagine sintetica, fulminea, carica di emotività tendenzialmente irrazionale.
Olivetti non poteva accettare, da quel grande armonizzatore che era, questo secco, a suo giudizio arido, dualismo. Ma la sua idea della biblioteca in ogni piccolo comune del Canavese non è stata capita, neppure dai suoi stretti collaboratori, tanto meno dalla famiglia. Si sa, del resto, che le famiglie raramente capiscono i membri che le trascendono. Si dice: nemo propheta in patria. Bisogna aggiungere: ancor meno in familia.
Per Olivetti il salario monetario non bastava. L’operaio non era un oggetto, una macchina, tanto meno un juke-box in cui inserisci la monetina per avere l’erogazione di una congrua quota di forza muscolare.
L’operaio, il lavoratore subalterno era per lui una persona. Il salario non bastava nella sua forma monetaria. Andava completato, per così dire, dalla cultura. Tornando a casa dalla fabbrica, l’operaio non doveva trovare solo lo splendido vino di Carema o i tomini al pepe di Chiaverano. Doveva trovare i libri sottocasa. Di qui, l’idea olivettiana della biblioteca in ognuno dei quaranta paesi del Canavese.
La biblioteca non era più, nel pensiero di Olivetti, un morto catasto di libri polverosi. Era un organismo vivente, la parte intellettuale, culturalmente viva, del salario operaio. Solo adesso, a sessant’anni dalla morte, comincio a capire la portata di questa idea, in un’epoca in cui sembra che neppure i professori universitari frequentino più le biblioteche. Il predominio dell’audiovisivo, con il suo tipico chiasso interiore, sta essiccando e inaridendo la conversazione con sé stessi, rende desueta l’idea della cultura come progetto di vita.