Il senso e la missione delle istituzioni culturali mutano inevitabilmente nel tempo. In epoche nelle quali per la maggior parte dei cittadini l’accesso alla conoscenza era difficile e la mobilità a largo raggio era una realtà che poteva essere solo immaginata, la possibilità di accedere a un vasto patrimonio librario o quella di poter ammirare da vicino un’opera d’arte o uno spettacolo teatrale diveniva una porta d’accesso pressoché esclusiva alla dimensione dell’esperienza culturale. Il cosiddetto regime mecenatistico di produzione culturale, che ha dominato la scena cultura occidentale dalla Grecia classica alla metà dell’Ottocento, e che continua a essere tuttora una componente fondamentale dell’architettura di qualunque ecosistema culturale, assegna al museo, alla biblioteca e al teatro un ruolo di ‘templi del sapere’ ai quali si accede, fondamentalmente, per elevarsi, ovvero per godere di esperienze estetiche e conoscitive esemplari che sollecitano allo stesso tempo le nostre facoltà cognitive e le nostre emozioni e promuovono il nostro sviluppo umano.
Tutte le civiltà umane sono state plasmate da questa vera e propria simbiosi con l’esperienza culturale, ma il riconoscimento dell’importanza della cultura nella vita di ogni persona è oggi troppo poco presente nella nostra consapevolezza collettiva. Le ragioni di questa situazione sono tante, ma una delle principali va purtroppo ricercata in un limite intrinseco del regime di produzione mecenatistico: il suo carattere fondamentalmente elitario, nel quale il coinvolgimento avviene attraverso forme più o meno esplicite di cooptazione. Per quanto la storia delle politiche culturali dell’ultimo secolo sia stata essenzialmente la storia di uno sforzo costante e spesso ricco di esperienze importanti e riuscite di allargamento del bacino potenziale degli utenti delle istituzioni culturali, bisogna comunque riconoscere che i risultati non sono sempre stati all’altezza delle aspettative.
Ancora oggi, persino nei luoghi segnati da una storia apparentemente indiscutibile di cultura dell’inclusione, continuano a verificarsi episodi che ci ricordano quanto è difficile, soprattutto per le persone portatrici di identità sociali marginali, poco riconosciute e poco garantite, sentirsi davvero a casa e benvenuti in un’istituzione culturale. Perché purtroppo il museo, la biblioteca, il teatro sono luoghi nei quali l’accesso reale e ciò che ne consegue sono stati per secoli, e sono ancora in gran parte, legati al capitale di istruzione, legittimazione sociale e risorse economiche di cui ciascuno può disporre. Non a caso la partecipazione culturale è stata individuata dalla sociologia della cultura come un fattore eminente di distinzione sociale, che proprio grazie al suo fortissimo potere simbolico è in grado di marcare le differenze in modo più profondo di quanto possano farlo il denaro e persino il potere, che appaiono in ultima analisi molto più fungibili e accessibili della cultura. Si può diventare ricchi o potenti in un istante, ma non si può diventare colti in un istante, e non a caso, anche nel nostro Paese, l’associazione tra ricchezza e potere da un lato e ignoranza dall’altro ha mobilitato un consenso sociale fortissimo in vari momenti della nostra storia recente, proprio perché conteneva una promessa implicita di mobilità sociale che al contrario la cultura sembrava voler negare.
La stessa idea di audience development, per quanto sorretta da un forte consenso da parte di tanti addetti ai lavori delle politiche culturali, senz’altro mossi da motivazioni in sé comprensibili e condivisibili, non fa, nel suo apparente desiderio di aprire nuove strade e nuove possibilità all’inclusione culturale, che ribadire questa cesura costitutiva. Nell’idea stessa di audience development c’è infatti un implicito assunto paternalistico secondo il quale chi invita alla partecipazione suppone di sapere meglio di chi è invitato a quali forme di esperienza culturale sarebbe giusto e desiderabile che quest’ultimo accedesse. Vi è in altre parole un assunto implicito di paternalismo benevolo che riflette un atteggiamento di fondo irriducibilmente manipolativo.
L’alternativa che è emersa con il trionfo del modello di sviluppo post-industriale è stata naturalmente quella dell’industria culturale di massa, un fenomeno inizialmente fortemente avversato in Europa nonostante che questa ne fosse stata la culla, tanto dal punto di vista socioculturale che tecnologico. Una volta adottata dagli Stati Uniti come regime di produzione culturale elettivo e autenticamente alternativo rispetto all’ingombrante modello europeo, in un Paese che aveva bisogno di supportare la sua rapidissima conquista di un’egemonia economica e politica globale con la creazione di un adeguato immaginario autoctono ma allo stesso tempo capace di coinvolgere un pubblico autenticamente globale, l’industria culturale e creativa è rapidamente diventata la creatrice di uno spazio sociale nuovo nel quale la differenza culturale sembrava magicamente annullarsi, e quindi includere tutti. Le grandi industrie dell’intrattenimento come il cinema, la musica di largo consumo, la televisione, si sono in gran parte costruite attorno ai gusti del loro pubblico invece che chiedergli continuamente di superare i propri limiti per inseguire una continua, sfidante traiettoria di innovazione di forme e di contenuti. Non che l’industria culturale non sia a propria volta continuamente evoluta, ma lo ha fatto con tempi e modalità che stavano sempre un passo avanti al proprio pubblico, non cinque o dieci passi avanti.
Di conseguenza, l’esperienza culturale non si è più caratterizzata come elevazione del proprio pubblico, ma in termini di coinvolgimento: la capacità di catturare l’attenzione, di intrattenere, di offrire esperienze piacevoli anche quando venivano proposte in forme ‘gradevolmente’ stranianti o disturbanti. A differenza del regime mecenatistico nel quale la produzione culturale, in quanto aliena da una logica industriale, è possibile solo in presenza di una fondamentale quantità di sussidi pubblici o privati, la diffusione dell’industria culturale come regime di produzione sempre più centrale nell’organizzazione sociale ed economica è stata anche favorita dal fatto che quest’ultima produce invece profitti, che possono anche essere consistenti e assumere un ruolo chiave nello sviluppo locale di una città o di una regione grazie al proprio impatto economico. In questa prospettiva, le istituzioni culturali tradizionali come il teatro, il cinema o la biblioteca hanno avvertito una pressione crescente, se non a divenire a propria volta profittevoli (non sono costruite per esserlo e non possono diventarlo senza snaturare oltre misura la propria missione), a operare quantomeno non più come ‘templi della conoscenza’ ma come ‘macchine di intrattenimento’, una torsione in gran parte innaturale, che ha spesso messo a dura prova la tenuta di istituzioni anche grandi e dalla storia secolare.
D’altra parte, è vero che l’industria culturale non pone barriere di accessibilità di natura sociale e cognitiva paragonabili a quelle della ‘cultura alta’ che caratterizza il regime mecenatistico, ma ne pone altrettante dal punto di vista economico, perché solo chi ha una certa capacità di spesa può davvero accedere alla ricca offerta culturale a disposizione, anche se naturalmente è la stessa organizzazione industriale della produzione dei contenuti, e soprattutto la loro riproducibilità tecnologica, a permettere uno spettacolare allargamento del bacino dell’utenza potenziale rispetto alle forme di esperienza culturale più tradizionali. E tuttavia, per quanto per motivi diversi e in modo meno immediatamente percepibile dal punto di vista sociale, anche questo secondo regime di produzione culturale non risolve davvero il problema dell’inclusione, ma si limita a modificare la natura delle barriere.
Ciò a cui stiamo assistendo oggi è però la nascita di un nuovo regime culturale, che potremmo convenzionalmente definire delle piattaforme aperte, nel quale, come effetto di lungo termine della rivoluzione sociale prodotta dalla transizione verso una società della post-scarsità che ha iniziato a manifestare i suoi effetti tangibili a partire dal Secondo dopoguerra, prima negli Stati Uniti, poi in Europa e oggi progressivamente sull’intera scala globale (malgrado il resistere di tante e preoccupanti sacche di povertà), si assiste al proliferare di una quantità impressionante di sottoculture caratterizzate ciascuna dal proprio universo estetico e dai propri sistemi di significato, che frammentano quello che un tempo era la sfera culturale di massa in una vera e propria galassia di micro-sistemi connessi tra di loro in modo estremamente complesso e affascinante. Questa transizione precede la rivoluzione digitale, ma è evidente che quest’ultima ne ha incredibilmente accelerato la proliferazione su scala globale. In questo nuovo regime, la distinzione tra fruizione e produzione di contenuti culturali diventa sfumata, in quanto nella logica orizzontale della comunità che anima una sottocultura tutti coloro che ne fanno parte sono autorizzati a co-crearne i codici e i linguaggi. Emerge così un nuovo senso dell’esperienza culturale, che non è più centrato né sull’elevazione né sul coinvolgimento quanto piuttosto sulla connessione e sull’appartenenza, ovvero sulla capacità di generare legami sociali significativi. Più che un traguardo, l’inclusione diventa qui il senso stesso dell’esperienza estetica, anche se non universalistico ma limitato a coloro che sono parte di quella particolare comunità di senso.
In questo nuovo scenario, il ruolo potenziale delle istituzioni culturali muta ancora, e stavolta lo fa in modo particolarmente interessante. Ciò che si chiede ora alle istituzioni culturali è di diventare spazi abilitanti che permettano a queste comunità di senso di coltivare e di espandere la propria capacità di espressione, la propria identità culturale. È da qui che nasce l’esigenza di trasformare i musei in luoghi di sperimentazione e le biblioteche in piazze del sapere, in vista della promozione di obiettivi socialmente rilevanti come la salute e il benessere psicologico o il dialogo transculturale. È una possibilità nuova e sfidante, attraverso la quale la cultura può ritrovare una nuova centralità, scavalcando finalmente le obiezioni pregiudiziali che continuano a indebolirne il riconoscimento sociale e la presa di coscienza della sua straordinaria rilevanza nel promuovere oggi lo sviluppo umano e la qualità della vita di tutti. Per le istituzioni culturali, la sfida è quella di prendere coscienza del nuovo scenario, di valutarne senza pregiudizi le potenzialità, e di iniziare a esplorare senza paura.
Pier Luigi Sacco