Sette caratteristiche delle biblioteche del futuro

Anacronistica

‘Anacronismo’, etimologicamente, significa ‘contro il tempo’. Data la sua volontà di preservare e di custodire, la biblioteca è essenzialmente anacronistica. Nel suo nome persiste la parola libro (biblion), però è da un po’ di tempo che l’istituzione si è aperta ad altre tipologie di supporti (riviste, diari, CD-ROM, DVD-ROM), di contenuti (mediatici, musicali, audiovisivi) e di espansioni (attività culturali, social network, formazione, consulenza). Il suo nome è, pertanto, anacronistico. Come lo è, anche, la sua natura. La biblioteca sa che il suo lavoro con i testi è un servizio alla comunità. A eccezione delle università private, la stragrande maggioranza delle biblioteche è pubblica. E nel nuovo contesto internazionale, nel quale le grandi piattaforme testuali – a eccezione di Wikipedia – sono per lo più private e con scopo di lucro, assume una particolare importanza questa missione di servizio alla comunità.
È pertanto necessario difendere questa doppia natura affascinante e anacronistica. Bisogna scommettere sulla centralità del libro cartaceo in quel sistema simbolico che è tutta la biblioteca, perché è il codice che dà identità allo spazio e lo collega alla sua tradizione. E non bisogna dimenticare che la biblioteca è un’istituzione democratica, che permette l’accesso all’informazione e alla conoscenza a tutti i cittadini, indistintamente, un bene comune che non deve essere valutato secondo criteri quantitativi ai quali ci ha abituato il pensiero neoliberista e algoritmico, ma secondo criteri qualitativi, tecnica soprattutto umana, sebbene anche questo possa sembrare anacronistico.
In tempi di Netflix e Facebook, ma anche di Stati-nazione o di passeggiate nei parchi o in montagna, come a dire, in tempi di convivenza tra istituzioni, pratiche, estetiche e tecnologie di epoche diverse in uno stesso presente affascinante, le biblioteche devono difendere il fascino dell’anacronismo, il valore di ciò che è umanistico e librario, la sua essenza analogica e digitale. Non bisogna dimenticare che la prima accezione di digitale è: ‘appartenente o relativo alle dita’. Dagli occhi e dalle dita, dalla carta e dai libri, il mondo contemporaneo si sta aprendo in cerchi concentrici, verso i dispositivi e i display, le reti locali e globali, i satelliti e i big data.

Conversazionale

Nei secoli la biblioteca è stata monopolizzata dal silenzio. Era un recinto di lettori silenziosi, di concentrazione, di dialoghi mentali tra lettori e lettura; al massimo di conversazioni a bassa voce tra utenti e bibliotecari. Negli ultimi anni questa idea si è lacerata e non sembra che questa frattura possa essere rimarginata, semmai il contrario.
La conversazione non avviene più solamente tra lettori e testi (o tra testi e testi attraverso i lettori), ma tra lettori e scrittori, tra lettori e addetti ai lavori, tra lettori e lettori o persino tra cittadini che non frequentano la biblioteca per cercare libri ma informazioni. In silenzio, a bassa voce e ad alta voce: le biblioteche sono attualmente spazi di molteplicità sonora. Bisogna pensare nuove architetture che accompagnino queste conversazioni e la loro musicalità. Le sale di lettura tradizionali possono continuare a esistere, in modo da ricordarci – come i codici – il DNA e, con lui, il loro senso; però intorno a esse devono proliferare altri ambiti di scambio e di dialogo, persino di manifattura e di consumo audiovisivo.
Forse la conversazione principale dev’essere svolta tra spazi e spazi, affinché la biblioteca sia intesa come un tutto organico, senza separazioni forzate come barriere architettoniche tra ambiti di lettura, di studio, di formazione, di esposizione o di comunicazione. La forma della biblioteca dovrebbe essere paradigmatica della nostra epoca: una rete. Una rete orizzontale e su scala umana. Dove abbia sempre più importanza l’audio. La terza decade del XXI secolo sarà caratterizzata dal podcast, dai messaggi audio, dagli assistenti vocali. La biblioteca del futuro deve includere una dimensione sonora, che comprenda sia gli audiolibri e la musica sia le conversazioni di vita a voce. Questa intimità e questa comunicazione saranno importantissime.

Digitale e postdigitale

Almeno a partire da Aristotele, forse il primo che pensò a un sistema di ordinamento dei suoi libri privati (che probabilmente ispirò quello della Biblioteca di Alessandria), la biblioteca è stata una sintesi della conoscenza del mondo. Una sintesi dell’universo conosciuto. L’invenzione della stampa moltiplicò esponenzialmente, a partire dalla fine del XV secolo, la quantità di informazioni e di conoscenza, ma la mantenne a portata di mano e dell’immaginazione, contenuta nelle più importanti biblioteche del mondo. L’invenzione di internet, alla fine del XX secolo, ha moltiplicato incredibilmente quel che sappiamo, fino a convertire tutti quei dati in una nuvola virtuale, inafferrabile, impossibile da stampare e archiviare in un unico spazio.
Ci troviamo in un processo irrefrenabile di ‘datificazione’ del mondo. In un passaggio accelerato dall’antropocentrismo al ‘codicecentrismo’ (la realtà amministrata per algoritmi e macchine). La biblioteca non può né deve competere con internet. Per questo dev’essere, allo stesso tempo, connessa e disconnessa, essere sia un luogo di accesso alla dimensione digitale del mondo come uno spazio sicuro, fisico, sensoriale, senza pixel. Non è in alcun modo detto che il futuro della lettura passi esclusivamente dagli schermi. La convivenza tra cartaceo e piattaforme digitali sarà duratura. Le
fanzine continuano a esistere: e molte riviste scommettono sul cartaceo, o dall’origine del progetto, o constatando come sia difficile la sopravvivenza economica esclusivamente attraverso supporti digitali. La velocità di digitalizzazione del mondo è enorme, e non ha fatto altro che crescere durante la pandemia; quella del nostro cervello per assimilarla è di molto inferiore. Continuiamo prendendo appunti a mano, disegnando schizzi e schemi per capirci, sottolineando per ricordare.
Per questo mi è piaciuto tanto scoprire, nella bellissima e innovativa Hyundai Card Music Library di Seul dedicata al design, la presenza di cassette, su tutti i tavoli, piene di matite e fogli bianchi. Anche le altre tre biblioteche di questo innovativo progetto sono tematiche, e cercano anch’esse l’equilibrio tra teoria e pratica: sono dedicate alla cucina, al viaggio e alla musica e, in esse, si può – rispettivamente – sia leggere riguardo gli alimenti e la cucina sia cucinare e mangiare; viaggiare virtualmente e degustare patti esotici; ascoltare vinili e assistere a concerti. La biblioteca come ‘gastroteca’, ‘cartoteca’ o ‘discoteca’. L’importanza della connessione tra le mani e gli occhi per essere lettori e produttori, creativi.

Attiva

Come ricorda Irene Vallejo in El infinito en un junco, la Biblioteca di Alessandria era molte altre cose: luogo di culto, museo, accademia, scuola di traduzione, luogo di residenza di saggi, palazzo. I rotoli erano probabilmente posti in un archivio ed erano la cosa meno iconica e rappresentativa dell’istituzione. Ciò che più contava era l’attività umana.
Almeno a partire da Aby Warburg, siamo consapevoli di come una biblioteca sia anche un sistema di interazioni. Questa consapevolezza ha portato alla progettazione di spazi relazionali in cui i libri e gli altri documenti dialogano tra loro, causando connessioni inaspettate nel cervello del lettore. E la trasformazione delle biblioteche, che durante i secoli hanno dimenticato la loro origine ibrida di Alessandria, in autentici centri culturali.
La mediazione può essere diretta – attraverso itinerari di lettura, di esposizione artistica o divulgativa, di installazioni temporanee, di bibliotecari e altre interfacce – o indiretta – attraverso atmosfere, performance, situazioni spontanee o architetture permanenti –; ma è sempre necessaria e, per estensione, va sempre valutata, al fine di migliorare le strategie di stimolo e di connessione.
La biblioteca non è uno spazio passivo, ma attivo. Non è un archivio, ma un laboratorio. Non è un palcoscenico, ma una palestra, un luogo dove sperimentare, per prove ed errori, l’attesa del momento ‘eureka’. L’utente deve avere a sua disposizione tutti gli elementi che, combinati, lo possano portare alla propria formula. Quanto più stimolante, tanto più acceleratrice di particelle e di progetti.
Nella mediateca del Centro Internacional de Cultura Contemporánea Tabakalera, a San Sebastián, in Spagna, lo sanno molto bene: sugli scaffali, ordinati per tema, si trovano i libri insieme ai CD-ROM e ai giochi da tavolo. I mediatori sono anche mentori e creatori che offrono lezioni private di letteratura o di progettazione di droni. E tra i tavoli di lettura ci sono divani con televisioni per guardare film o giocare ai videogiochi o batterie per fare musica. Questo con gli auricolari e senza far rumore.

Agorà e interrogativa

È finita la lunga epoca delle biblioteche come cattedrali. Dei templi del silenzio. Dei bibliotecari sul piedistallo. Come osserva Marina Garcés, la filosofia è tornata nelle strade, nelle piazze. La biblioteca dev’essere un luogo di incontro e di discussione, un’agorà (altro necessario anacronismo). Un’agorà coniugata in modo interrogativo. Borges direbbe: inquisitrice. È fondamentale che la biblioteca del futuro si consideri come un susseguirsi di domande. Nulla dev’essere dato per scontato. Tanto l’aspetto ideale quanto la metodologia devono basarsi sulla formulazione costante di domande.
I cambiamenti sono vertiginosi: solo i progetti aperti sono quelli sufficientemente flessibili per adattarsi in tempo reale alle sfide messe in atto dalla tecnologia e dalla società e dai virus. Per questo la biblioteca del futuro sarà sempre una biblioteca incompiuta, una biblioteca in corso, una biblioteca aperta. Sia nella sua dimensione concettuale, nella sua ideazione e nel suo immaginario, nei suoi programmi pubblici, nelle sue politiche di acquisto e nelle sue linee di attuazione; sia nella sua dimensione fisica. È importante destinare zone vuote, o indefinite, che assicurino l’adattabilità e che prevedano uno spazio per l’aumento del fondo documentale o la richiesta di spazi di incontro o la trasformazione temporanea. È anche importante creare spazi aperti, verdi, sicuri, che permettano l’organizzazione di eventi nel nuovo tempo segnato dal Covid-19. Il suo esito dipende dalla sua costante adattabilità.
Viviamo in tempi provvisori, precari. Tempi di biblioteche mobili, di biblioteche d’urgenza nelle piazze occupate, di biblioteche portatili che possano essere allestite rapidamente per entrar a far parte di campi profughi o di ospedali da campo.
Ecco perché ricordo sempre il progetto Bibliotecas móviles por la paz, che ha adattato i moduli progettati dalle Biblioteche senza frontiere, e li ha trasportati in elicottero e con altri mezzi in aree devastate dalla guerra in Colombia. Si tratta di proposte ibride, che mescolano classe, mediateca, biblioteca, laboratorio e agorà. Si tratta, soprattutto, di spazi interrogativi e critici: nel senso etimologico della parola, implicano distanza e giudizio. Mentre danno accesso alla formazione o alla cultura, creano sfere di dialogo e di riconciliazione.

Interspecie

Nel contesto del Covid-19, della deforestazione dell’Amazzonia o dello scioglimento dei ghiacciai nei poli, che è parallelo al contesto dell’emersione degli algoritmi e delle intelligenze artificiali, queste agorà devono includere le intelligenze non umane. Perché nelle nostre conversazioni con altri esseri umani e con i testi scritti dai vivi o che scrissero i morti dobbiamo prepararci alle nuove conversazioni della nostra epoca: con altri esseri, animali, vegetali o tecnologici. Le biblioteche sono lo spazio idoneo per l’incontro tra tutti i partecipanti della grande discussione della nostra epoca: quella dell’Antropocene e la vita 3.0.
Se i tetti delle biblioteche ospitano orti urbani o piccole riserve ecologiche, con alveari o laghetti; se troviamo sulle sue pareti dei giardini verticali; se nei suoi interni troviamo serre e laboratori, potremo attraversarle leggendo libri o guardando documenti sulla sensibilità e sull’intelligenza del mondo vegetale, fungino o animale, guardando con i nostri occhi come si articolano queste forme di percezione e di elaborazione della realtà in colonia, in alveare, in reti, zoologiche, non umane. Anche la robotica e la programmazione possono avere un posto nelle biblioteche del XXI secolo. Il loro spirito libresco e umanistico conferisce loro l’autorità e gli strumenti per convertirsi in osservatori interdisciplinari del presente.
Uno dei miei posti preferiti di Barcellona è il Materfad, un archivio di materiali, una ‘materioteca’ dove si possono trovare, toccare, osservare, studiare più di 3.500 materiali diversi. Un altro è il Museu Blau, un museo di scienze naturali, il cui tetto è stato disseminato di verde e riempito d’acqua durante quest’anno pandemico, al fine di combattere il caldo dell’estate e aumentare la biodiversità urbana. Mi auguro che il progetto della grande Biblioteca Provincial de Barcelona, la cui esecuzione è stata procrastinata negli anni, si aggiorni durante i prossimi mesi includendo questo tipo di iniziative, che ci ricordano l’origine biologica della carta, la sua appartenenza a una rete ecologica e la connessione dei lettori umani con il resto degli animali.

Transmediale

La triplice crisi di questo cambio di secolo, quella tecnologica, quella economica e quella ecologica, hanno ridefinito il rapporto tra la società e gli spazi della conoscenza. Allo stesso tempo, mentre i grandi locali delle catene di librerie smettevano di aver senso, tornavano a essere indispensabili le piccole librerie rionali, indipendenti, comunitarie e d’autore. Anche le biblioteche cattedralizie, con i loro edifici iconici e monumentali, hanno perso quel senso che è stato acquisito dalle biblioteche su scala umana, conversazionali, orizzontali, mobili, adattabili, che non intendono competere con questa nuova cattedrale, infinita e astratta, travolgente e matematica, internet, ma che costruiscono relazioni possibili tra le persone e i testi attraverso spazi mutanti e accoglienti, ponendo domande e fornendo gli strumenti per costruire risposte provvisorie, in un contesto di nuovi dialoghi. Dialoghi aperti in spazi aperti, incompiuti, in corso.
Mentre le ripetute quarantene hanno stimolato durante il 2020 la digitalizzazione della cultura e dell’insegnamento e la moltiplicazione delle comunità virtuali, le biblioteche hanno dovuto adattarsi al nuovo ecosistema mediatico. È aumentato, ad esempio, il prestito di audiolibri, e-book o film online. E le biblioteche hanno intensificato la loro presenza sui loro social media. Seguendo il percorso aperto dalla New York Public Library con le sue ‘insta novel’, adattamenti di libri in formato story di Instagram, capitolo per capitolo, molte istituzioni del mondo si sono rese conto di dover incentivare la lettura nel modo più creativo possibile. E aggiornarne costantemente la sua natura transmediale.
Come ci ha ricordato Henry Jenkins, ciò che conta della produzione transmediale è la convergenza dei media. Che tutti i personaggi, le narrazioni, le storie, la complessità finiscano per convergere nel maggior numero di persone. Nel loro cervello, intellettuale ed emotivo. Fin da Alessandria, le biblioteche sono state ibride, transmediali. Non devono dimenticare la loro missione storica: coltivare la conoscenza. Sono archivi, centri culturali, agorà, laboratori, scuole, interfacce, mediatori tra le specie, produttori di contenuti, università anacronistiche e tuttavia contemporanee. Le chiamiamo ‘biblioteche’, perché non esiste una parola migliore. E sono piene di futuro.

Jorge Carrión