a cura di Desirée de Stefano e Federica Olivotto
L’incipit del libro di Andrea Capaccioni ne esplicita in modo evidente una delle caratteristiche principali: «La bibliografia continua a soffrire per il suo nome», che richiama l’espressione utilizzata da Walter Wilson Greg in una conferenza di oltre un secolo fa, che si intitolava, non a caso, What is bibliography?. Il ricorso, già in apertura, alla figura carismatica di una delle personalità intellettuali più note di questa articolata tradizione disciplinare esprime dunque, già nelle soglie paratestuali dell’opera, la consapevolezza dell’autore di muoversi in una ‘zona grigia’ (p. 9), tra un estremo ‘ampio’, nell’ambito del quale la bibliografia assume i tratti generalissimi di una metadisciplina del libro, e uno ‘stretto’, in cui principi, metodi, pratiche di scrittura sono finalizzate alla predisposizione di elenchi repertoriali.
Vediamo in primo luogo qual è la configurazione strutturale di questa Introduzione, riferita a un campo disciplinare decisamente molto frastagliato e incerto. L’opera inizia con una ampia nota introduttiva, che mette in evidenza anzitutto la pluralità dei significati, lessicali e disciplinari, che al termine e al concetto di ‘bibliografia’ possono essere attribuiti. Le oscillazioni definitorie, già in questa elaborazione preliminare, sono riferite con pertinenza alle prospettive di studio, diacroniche e sincroniche, internazionali e nazionali, tra le quali ultime sono evidenziate in particolare quelle di Luigi Balsamo e Alfredo Serrai.
Il primo capitolo è dedicato, in particolare, alla perlustrazione dei confini della disciplina; ed è proprio a partire da questa esplorazione che emerge la labirintica complessità con la quale l’autore è costretto a confrontarsi, cercando faticosamente di precisare l’estensione della ‘missione’ della bibliografia. In questo capitolo, sinteticamente e secondo modalità prevalentemente descrittive, viene richiamata la fase originaria e fondativa della cultura bibliografica, nella prima età moderna, fondata sui territori dissodati da Conrad Gesner e Gabriel Naudé, prendendo via via in esame, ordinandoli lungo un asse contestualmente tematico e cronologico, autori diversi come Friedrich Adolf Ebert e Henri Stein, Walter Wilson Greg e Paul Otlet, George Schneider e George Thomas Tanselle, per approdare al richiamo a opere rappresentative della cultura bibliografica nazionale (Ottino, Fumagalli, Vianello, Caproni, Ferrari, Manzoni, Esposito, Innocenti, Santoro). Successivamente, nel paragrafo Bibliografie, vengono presi in esame principi e strumenti della bibliografia enumerativa e di quella analitica, attribuendo in questa parte un notevole rilievo agli aspetti informativi e comunicativi della bibliografia, per come sono evidenziati nell’opera di Louise-Noëlle Malclès, nella epistemologia sociale di Margaret Elizabeth Egan e Jesse Hauk Shera, nella bibliografia descrittiva di Fredson Bowers. Infine, dopo questa serie di dettagliati resoconti, l’autore cerca di comprendere, a partire dalle definizioni lessicali e disciplinari, quali siano oggetti, metodi e risultati delle diverse prospettive di studio in tal modo individuate.
Il secondo capitolo, nel suo insieme, si qualifica come una discussione critica, ampia e articolata, delle modalità storiografiche secondo cui la ‘narrazione’ bibliografica si è articolata. In quest’ambito il rilievo maggiore è attribuito alla presentazione del profilo intellettuale di un autore cui Capaccioni è particolarmente legato: Theodore Besterman, il celebre autore di The beginnings of systematic bibliography (1935) e di A world bibliography of bibliographies (1939-1940). A partire da questo accurato e attento esame vengono profilati due macroapprocci storiografici (‘ampio’ e ‘stretto’). Qui Capaccioni esplicita con chiarezza il suo punto di vista (collegato anche alla celebre Bibliographia di Rudolf Blum, e più in generale al concetto di Bücherkunde), che non è quello ‘stretto’, della subtradizione analitica, e si basa al contrario su «una proposta di approccio alla storia della bibliografia che prevede di collocare al centro dell’indagine l’evolversi del rapporto tra la bibliografia e la biblioteconomia, in particolare, e le altre discipline cosiddette del libro» (p. 88). Individuata questa linea di indagine, l’autore retrocede poi a dar conto del dibattito sulle origini della bibliografia, richiamando le opere di Schneider, Blum, ancora Besterman, e garantendo un rapido colpo d’occhio anche alle remote e quasi mitiche elaborazioni concettuali predisposte, nel contesto dell’universalismo ellenistico, con i Pinakes di Callimaco, risalendo poi i crinali dei secoli per tornare alla ‘scienza’ dei librai parigini (con in primo luogo Jacques-Charles Brunet), al neo-universalismo di Otlet e La Fontaine e all’emersione novecentesca dell’esigenza di un'organica e coordinata collaborazione istituzionale e sovranazionale.
Il terzo capitolo cerca di rispondere a un’altra domanda capitale – A chi serve la bibliografia? – e anche in questo caso, prendendo in esame opinioni e convinzioni di un gran numero di autori, Capaccioni sembra orientato ad avallare le istanze pragmatico-comunicative di Egan e Shera, secondo cui la bibliografia costituisce il «sistema di trasporto delle idee e delle informazioni» (p. 154), dunque per questo deve essere organizzata in modo realmente efficace.
La conclusione del volume deve perciò confrontarsi con le caratteristiche ormai consolidate e note della società dell’informazione, e con i rischi derivanti dalla diffusione del web, dall’information overload e dalla connessa disintermediazione, prefigurando infine sia pure molto succintamente i compiti della «bibliografia del futuro» (p. 174), che, tenendo conto anche della filosofia dell’open access, e delle posizioni di studiosi del web come David Weinberger, prefigura il possibile ruolo di una ‘open bibliography’ che «non dovrà essere soltanto una bibliografia online ma soprattutto uno strumento di servizio dell’accrescimento delle conoscenze […] maggiormente reperibile e più facilmente consultabile» (p. 187).
In appendice al libro, infine, è pubblicato il saggio di Giovanna Zaganelli Uno sguardo semiotico alla bibliografia che, sulla scorta degli studi di Ferdinand de Saussure e Roland Barthes, propone una dettagliata analisi sulla relazione/distinzione tra ‘sintagma’ («combinazione di segni che ha come supporto l’estensione») e ‘paradigma’ («termini che hanno qualche elemento in comune [che] si raggruppano per associazioni», p. 193). Il linguaggio della bibliografia, proprio nel suo essere linguaggio, assolve dunque «a compiti descrittivi, classificatori, di sintesi, [che] possiedono una loro consistenza testuale, e funzionano come griglie di lettura che, come reti, danno ordine al disordine della realtà» (p. 191). L’obiettivo di Zaganelli, che qui non può essere descritto che per linee generalissime, consiste dunque nell’analizzare le modalità attraverso le quali lo spazio testuale e semantico delle descrizioni bibliografiche viene orientato lungo l’asse della ricezione, e dunque della lettura. È in questo modo, alla fine, che dall’intreccio tra i due assi (del sintagma e del paradigma), con la mediazione della teoria dei metatesti dello studioso cecoslovacco Anton Popoviĉ, trae origine il labirinto indefinito degli ‘spazi intertestuali’, estensione della ‘annotazione bibliografica’, lungo la quale si compone la processione dei segni linguistici che, grazie anche alle descrizioni bibliografiche, sommati tutti assieme, lasciano intravedere, certo opacamente, il profilo incerto dell’insieme dei contenuti sedimentati nella ‘tradizione’.
Nel breve spazio di questa recensione è davvero impresa ardua commentare, oltreché descrivere, un libro articolato e complesso come questa Introduzione allo studio della bibliografia, e dunque può essere interessante intanto rilevare il fatto che il contenuto dell’opera riflette bene ciò che è anticipato dal titolo. L’‘introduzione’ proposta, infatti, riguarda lo ‘studio’, e non direttamente l’oggetto dello studio, cioè la ‘bibliografia’, nella sua articolata dimensione polisemica. In questo senso, e da questa specifica prospettiva, il libro di Andrea Capaccioni può risultare utile per tutti coloro che, ostinatamente, continuano a ritenere che il significato complessivo della ‘tradizione’ bibliografica possa contribuire significativamente al progresso complessivo della cultura, nelle sue diverse implicazioni teoriche e metodologiche. Parafrasando Aristotele, dunque, possiamo concludere affermando sinteticamente che ‘c’è bisogno di bibliografia’. C’è bisogno, cioè, di una prospettiva di interpretazione della realtà documentaria, e della realtà extradocumentaria da cui essa dipende, che affermi e argomenti le necessità della propria esistenza, contribuendo al procedere collettivo della ricerca nella sua accezione più ampia ed estesa. La tradizione bibliografica, pur con le sue molte incertezze, rappresenta a mio parere, nel quadro delle discipline documentarie, la prospettiva disciplinare più vicina al sogno, declinato poi nei diversi contesti storici, di rappresentare e comprendere i ‘libri’, e naturalmente i dati, i documenti, le informazioni, intesi nella loro reale e costitutiva complessità, che include la materialità del supporto, i suoi attribuiti e infine i segni che ne modulano il contenuto informativo. Questo sguardo, disteso nella ‘lunga durata’ dei fenomeni culturali, è necessario, e forse indispensabile, tanto più se si radica consapevolmente negli scenari labirintici dell'attuale ‘ipermodernità’, e coincide in larga misura con il tentativo, distribuito nei diversi contesti storici, di avvicinarsi a una rappresentazione organica e ordinata delle ‘cose’ cui le ‘parole’ della bibliografia si riferiscono.
Maurizio Vivarelli
Università degli studi di Torino
Non è noto quanto Ruggiero Bonghi, il primo a dirigere la Biblioteca Vittorio Emanuele, o Domenico Gnoli, che la resse per quasi trent’anni (1881-1909), ma Luigi Cremona diede un contributo determinante e finora misconosciuto all’organizzazione della biblioteca nei suoi tempestosi albori. Il lavoro di Angela Adriana Cavarra, condotto su fonti di prima mano in gran parte inedite e conservate per lo più nell’archivio storico della Biblioteca nazionale centrale di Roma, riporta alla luce questa importante, poliedrica personalità di patriota, matematico, senatore dell’Italia unita.
Il libro, corredato di ricchissime note che danno conto di ogni persona e fatto menzionato, di un ampio apparato iconografico e di un indice dei nomi, è diviso in due parti. Nella prima, dedicata alla sua biografia (Luigi Cremona e il suo tempo), si parte dagli anni della formazione: la nascita a Pavia nel 1830, gli studi di matematica, interrotti nel 1848 per correre in aiuto di Venezia assediata dagli austriaci, l’amicizia con i fratelli Cairoli, eroi del Risorgimento. Uomo dai molti talenti, Cremona fu chiamato ‘grande geometra’ per le sue fondamentali ricerche che portarono l’Italia a occupare un posto di primo piano nello sviluppo degli studi di matematica. Dal 1873 fu a Roma, incaricato da Quintino Sella di riorganizzare la Scuola di applicazione per gli ingegneri, per cui riuscì a ottenere l’ex convento di S. Pietro in Vincoli dove la Facoltà di ingegneria ha tuttora sede. Nel 1879 venne nominato senatore per particolari meriti scientifici. Il 23 giugno 1880 venne nominato regio commissario alla Vittorio Emanuele, «con tutte le facoltà necessarie per ricostruire e riordinare stabilmente quella biblioteca» (p. 3).
La seconda parte (Regio commissario alla Vittorio Emanuele) descrive la situazione che Cremona si trovò ad affrontare e ripercorre il suo periodo di reggenza, breve ma ricco di risultati. Ruggiero Bonghi, l’autorevole ministro della Pubblica istruzione che dopo l’accessione di Roma capitale aveva fortemente voluto la creazione della Nazionale e la sua installazione al Collegio Romano, assumendone egli stesso la direzione, l’aveva inaugurata il 14 marzo 1876, appena nove mesi dopo il decreto istitutivo e l’inizio dei lavori. Ma fu forse precipitoso. Gravi disfunzioni di carattere amministrativo, organizzativo, bibliografico si manifestarono dopo che egli ebbe lasciato la direzione; i volumi giacevano in grande disordine, moltissimi erano quelli non catalogati (ricordiamo che era stato raccolto al Collegio Romano un grandissimo numero di biblioteche dei soppressi enti ecclesiastici). Finché si giunse, nel 1880, alla costituzione della nota commissione d’inchiesta presieduta da Giovanni Baccelli e alla nomina a commissario regio del senatore Cremona, «noto per rettitudine, per fermezza, per imparzialità, per sagacia e sicurezza d’occhio» secondo le parole dell’allora ministro della Pubblica istruzione, il celebre Francesco De Sanctis, riportate da Cavarra (p. 26). Venne affiancato da un ‘tecnico’, diremmo oggi, con specifiche competenze, il cav. Desiderio Chilovi, bibliotecario della Marucelliana di Firenze. La questione di dotare la biblioteca di personale adeguato era di primaria importanza. Cremona ottenne anzitutto un impiegato efficiente della Ragioneria del Ministero per risistemare l’amministrazione. Poi affidò la catalogazione a un manipolo di promettenti giovani, che avrebbero avuto un futuro luminoso; tra essi il grecista Emidio Martini, chiamato a riordinare i fondi manoscritti. Riuscì anche a ottenere l’ampliamento dell’organico che raggiunse le ventinove unità; persona concreta e illuminata, si preoccupò perfino che il personale ricevesse il giusto compenso. Ma si impegnò anche su altri versanti. Un mese dopo il suo insediamento iniziava la ristrutturazione edilizia del Collegio Romano, con la sistemazione dello scalone di accesso, la creazione di una nuova sala di lettura per i lettori comuni e altre utili innovazioni. C’è un altro aspetto delle capacità organizzative di questo direttore che Angela Cavarra mette in rilievo per le sue implicazioni a venire: la creazione dei titolari dell’archivio secondo i quali furono ordinati i documenti del suo biennio di direzione (riportati in appendice), alla radice di quelli elaborati successivamente.
Luigi Cremona si dimise dal suo incarico il 30 settembre 1881. Rifiutò il Ministero della Pubblica istruzione perché l’offerta gli veniva da Quintino Sella, successore come capo del governo e avversario politico del suo amico Benedetto Cairoli. Grande impegno aveva dedicato anche nella pubblicazione della relazione della Commissione Baccelli, uscita a stampa nel 1880. Nella lettera di accompagno al ministro Francesco De Sanctis constatava «che certe piaghe incancreniscono se non si curano col ferro e col fuoco; e che il mal onde ci andiamo consumando noi italiani risiede appunto nella fiacca tolleranza dell’immoralità e del disordine» (p. 38).
Francesca Niutta
già Biblioteca nazionale centrale di Roma
«Direttrice della più grande biblioteca accademica del Piemonte» (p. 8), studiosa che da anni si occupa di terza missione dell’università declinata sulle sue biblioteche, cioè del loro impegno a beneficio della società, Cassella delinea in questo libro lo stato dell’arte sul tema, focalizzandosi sull’interpretazione che ne viene data nel nostro paese. Dal punto di vista metodologico, l’autrice costruisce percorsi in cui informazioni storiche e teoriche fanno da cornice ad approfondimenti su attività concrete, poiché, come dichiarato nell’Introduzione, il volume intende presentare buone pratiche e condividere esperienze per incentivare l’attività di terza missione. A integrazione di ciò, Cassella si pone in dialogo con la copiosa quantità di letteratura scientifica compulsata e individua tre temi ‘trasversali’, tre binari principali (p. 8-10): la nuova identità della biblioteca accademica, l’ottica di ‘rete’ e il rapporto della biblioteconomia con altre discipline, funzionale alla progettualità di terza missione.
I primi due capitoli (La terza missione: definizioni, fasi, ambiti e La terza missione nell’agenda europea e italiana) trattano il tema in generale e ne richiamano le radici teoriche, soffermandosi sui contesti europeo e italiano, dove è attualmente oggetto di studio dell’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (ANVUR). Così, anche in una virtuosa condivisione di intenti con l’Agenda 2030 dell’ONU (p. 47), programma d’azione sul quale IFLA e AIB sono impegnate, l’intero ventaglio di attività di terza missione assume attualmente grande rilevanza strategica all’interno degli atenei, tanto che il terzo capitolo (Biblioteche accademiche e terza missione) esamina l’operato delle biblioteche in questo settore quale attività istituzionale e si concentra in primis sulle iniziative di public engagement a beneficio anche dei ‘pubblici’ esterni all’accademia. Legata agli obiettivi di raggiungimento e coinvolgimento di (nuovi) utenti è infatti la materia dei due capitoli successivi (La terza missione e la valorizzazione dei beni culturali: le collezioni speciali e Nuovi percorsi di terza missione: biblioteche e citizen science). Qui Cassella sceglie due settori-chiave in cui si concretizza l’interpretazione della terza missione da parte delle biblioteche e dove – specie nel primo – forte si coglie il loro legame con il territorio all’interno del quale sono state concepite e si sono sviluppate insieme con gli atenei di appartenenza. E ciò spesso si verifica per le mostre bibliografiche e letterarie, considerate la ‘principale’ (forse non ‘l'unica’) modalità di piena realizzazione della terza missione (p. 86) e sulle quali Cassella si sofferma in particolar modo. Se la consapevolezza del nesso biblioteca-territorio senza dubbio favorisce la progettualità di terza missione, essa verosimilmente contribuisce alla riflessione sul profilo della biblioteca accademica, oggi protagonista di un rinnovato humus in cui concorrono portatori d’interesse sempre più diversificati: il sesto capitolo (La biblioteca accademica: questioni identitarie, modelli biblioteconomici e spazi) si concentra sul tema della sua identità, che la conduce non solo ad aprirsi ai pubblici esterni per espliciti obiettivi istituzionali, ma pure a contemplare la loro diretta partecipazione alle attività.
Dunque, nelle manifestazioni della terza missione di volta in volta attuate, come si determina il contributo delle biblioteche, la loro azione originale che si svolge all’interno di quella, più ampia, delle istituzioni di appartenenza? Si tratta di un terreno ancora poco esplorato, al quale è dedicato il settimo e ultimo capitolo (La valutazione della terza missione nella biblioteca accademica) che introduce all’attualità del problema dopo aver ripercorso il cammino tracciato dagli studi biblioteconomici.
L’ampia Bibliografia ragionata è infine strumento utile al professionista che opera all’interno dell’ateneo con consapevolezza gestionale, legata alla specificità della propria biblioteca, e concorre a configurare il volume come incentivo all’innovatività: un ‘trampolino di lancio’, che promuove ricerca teorica e applicazioni pratiche, nelle molteplici vie che l’adesione alla terza missione indica e che sono ancora in buona parte da percorrere.
Anna Bernabè
Alma mater studiorum Università di Bologna
L’opera di Danilo Deana, caratterizzata da un approccio ‘orientato all’utente’, non è un saggio per addetti ai lavori ma, come egli stesso afferma nell’introduzione, si rivolge a «chiunque ritenga che le informazioni, non solo quelle bibliografiche, debbano essere messe a disposizione di tutti in modo che sia possibile utilizzarle nella maniera più proficua» (p. 33). Partendo da questo punto di vista, l’autore ripercorre la storia dei cataloghi delle biblioteche – e di pari passo della teoria della catalogazione – sottolineandone le criticità e dando voce alle obiezioni, troppo spesso ignorate, che i frequentatori delle biblioteche hanno sovente rivolto ai bibliotecari, soprattutto mettendoli a confronto con i cataloghi delle principali aziende di e-commerce o di streaming (Amazon, Apple Music, Spotify, ecc.), che si sono rivelati nel tempo molto più efficienti nel rispondere ai bisogni dei loro utenti.
La storia dell’evoluzione dei cataloghi delle biblioteche, a partire dal catalogo a volume, passando per i cataloghi alfabetici a schede fino ad arrivare ai moderni OPAC, è approfondita nei primi cinque capitoli, ricchi di aneddoti e curiosità, ma anche di esempi di registrazioni bibliografiche che servono a rendere meglio l’idea di come una stessa opera sia stata descritta, nel tempo, in cataloghi di tipo differente. Attraverso l’analisi di alcune delle tappe principali, Deana cerca di cogliere le ragioni di un mancato successo e del perché, dopo secoli di dibattiti, i bibliotecari non siano riusciti a trovare soluzioni che fossero in grado di soddisfare pienamente i bisogni degli utenti, pur producendo registrazioni bibliografiche di qualità, le cui potenzialità andrebbero forse sfruttate in modo migliore.
Tra il primo e il quinto capitolo trovano spazio i bibliotecari che hanno fatto la storia del catalogo e della catalogazione, a cominciare da Thomas James con il primo catalogo alfabetico pensato per la Bodleian Library del 1620 (capitolo primo) e da Antonio Panizzi con il catalogo del British Museum e le 91 Regole per la compilazione del catalogo, che fanno a buon diritto del bibliotecario italiano l’iniziatore della great tradition degli studi sulla catalogazione descrittiva (capitolo secondo). L’attenzione si sposta poi nel terzo capitolo sugli Stati Uniti del XIX secolo, dove la crescita e la diffusione capillare delle biblioteche pubbliche stimolarono fin da subito un acceso dibattito. I contributi più importanti furono opera di bibliotecari statunitensi, tra tutti Charles C. Jewett, della Smithsonian Institution di Washington, il quale ebbe l’idea di dare vita a un catalogo nazionale prodotto attraverso le lastre stereotipe delle registrazioni bibliografiche create dalle biblioteche coinvolte, proponendo l’applicazione di 34 regole di catalogazione finalizzati a garantire l’uniformità di queste registrazioni. A queste ben presto si sostituirono le Regole per un catalogo dizionario a stampa di Charles A. Cutter, che ebbero il grande pregio di formalizzare gli obiettivi del catalogo, individuandone le tre funzioni principali (identificazione, localizzazione, raggruppamento) e i mezzi per raggiungerli (capitolo quarto). Il culmine del dibattito sulla catalogazione si ebbe con la conferenza di Parigi (1961), in occasione della quale trovarono voce gli ultimi rappresentanti della great tradition iniziata con Panizzi, ovvero Seymour Lubetzky ed Eva Verona: le funzioni e gli obiettivi del catalogo già enunciati da Panizzi e Cutter divennero parte integrante dei cosiddetti Principi di Parigi, che rappresentano la base per l’elaborazione dello standard ISBD (1974) e dei codici di catalogazione sviluppati in molti paesi nei decenni successivi.
La Library of Congress (capitolo quinto) fu protagonista negli anni Sessanta dell’avvio del processo di automazione della catalogazione e del progetto MARC (Machine readable cataloguing). Prese vita un formato di codifica delle informazioni, leggibile dagli elaboratori e riutilizzabile, che ebbe rapidissima diffusione. Nel frattempo il catalogo cartaceo venne progressivamente sostituito dai cataloghi elettronici (OPAC) e dai cataloghi collettivi.
Il vero spartiacque nella storia della catalogazione è rappresentato dalla elaborazione di FRBR (Functional requirements for bibliographic records) nel 1998, con cui è stato definito l’oggetto della registrazione bibliografica e i suoi elementi funzionali per soddisfare le esigenze degli utenti. All’analisi di FRBR e alle sue successive declinazioni con FRAD (Functional requirements for authority data) e FRSAD (Functional requirements for subject authority data) Deana dedica i capitoli successivi (dal sesto all’ottavo). Egli analizza in modo particolare la struttura del nuovo modello concettuale IFLA-LRM (Library reference model) pubblicato nel 2017, che rappresenta l’evoluzione di FRBR e del suo modello entità-relazione, portando esempi concreti della sua applicazione alle registrazioni bibliografiche e dimostrando come le entità di IFLA-LRM realizzino in maniera soddisfacente le funzioni del catalogo (‘trovare’, ‘identificare’, ‘selezionare’, ‘ottenere’ ed ‘esplorare’).
Dopo questa lunga analisi che si sviluppa per ben due capitoli (settimo e ottavo), l’autore prende in esame il catalogo della ‘sezione libri’ di Amazon (capitolo nono), mettendone in risalto le caratteristiche e riconoscendone la superiorità rispetto ai cataloghi delle biblioteche per quanto riguarda qualità delle registrazioni bibliografiche, assenza di duplicazioni e presentazione dei risultati di ricerca, caratteristiche che lo rendono efficiente nello svolgere il compito per cui è stato progettato, cioè ‘ottenere’ per scopi commerciali. Da questo confronto il catalogo dell’Indice SBN esce pesantemente sconfitto (p. 206): Deana ne sottolinea impietosamente le carenze partendo da esempi reali di descrizioni bibliografiche per poi ripercorrere la storia di SBN e cercare di indicare le strade possibili da seguire per rendere il catalogo dell’Indice efficiente al pari di quello di Amazon (capitolo decimo). Lo stesso tipo di analisi è condotto sui cataloghi di Apple Music e Spotify, messi a confronto a loro volta con quello multimediale dell’Istituto centrale per i beni sonori e audiovisivi del MiBACT (capitolo undicesimo).
Nel dodicesimo capitolo trovano spazio il web semantico e i linked open data che permettono di introdurre il tema affrontato nella parte conclusiva, ovvero la proposta di sfruttare i progressi dell’intelligenza artificiale e i vocabolari controllati (ontologie) per descrivere tutte le entità che fanno parte dell’universo bibliografico e le loro relazioni in modo da far confluire in un’unica base di conoscenza i contenuti dei cataloghi delle biblioteche, finora rimasti inutilizzati dai motori di ricerca e dai siti di commercio elettronico. Un primo passo è stato compiuto con l’elaborazione di FRBRoo (Functional requirements for bibliographic records object oriented), che implementa l’ontologia OWL usata per il web semantico, e di un nuovo formato per le registrazioni bibliografiche in sostituzione dell’obsoleto MARC, ossia BIBFRAME. Solo così, ovvero svecchiando l’attività di catalogazione, migliorando le funzionalità degli OPAC e cercando di tradurre in pratica le riflessioni teoriche sui requisiti funzionali delle registrazioni bibliografiche, si potrà realizzare concretamente quella che l’autore definisce ‘sesta’ legge di Ranganathan: «A ciascuno il suo catalogo» (p. 299).
Elda Merenda
Biblioteca nazionale centrale di Roma
Laura Ballestra torna a occuparsi di information literacy (IL) con un volume costituito da due parti: un’ampia panoramica storica dell’idea di competenza informativa, seguita da un’analisi delle principali questioni sul terreno della pratica didattica. Ovviamente i due ambiti sono interdipendenti, ma l’autrice sceglie di trattarli separatamente per sottolineare la centralità dell’impianto teorico: infatti non c’è pratica formativa che non derivi in modo inevitabile da una specifica visione dell’apprendimento e dell’insegnamento.
Pur non essendo l’IL un tema esclusivo della comunità bibliotecaria, l’argomento è trattato solo da questo punto di vista e offre quindi una sintesi completa delle riflessioni e delle pratiche rilevanti per l’ambito delle biblioteche.
La prima parte del volume ripercorre lo sviluppo del concetto di competenza informativa, avvalendosi della letteratura sul tema pubblicata in lingua italiana e inglese: l’autrice ci guida in questo percorso schematizzando per decenni. Dagli anni Settanta, in cui nasce l’idea di alfabetizzazione informativa come necessità di base per la vita dei cittadini nella società dell’informazione, attraverso gli anni Ottanta in cui il concetto si radica nella comunità bibliotecaria statunitense. Nel decennio successivo il tema si diffonde a livello internazionale e i bibliotecari affiancano l’IL alle più tradizionali pratiche di library instruction: siamo in una fase in cui l’attenzione è puntata soprattutto sull’utilizzo degli strumenti di ricerca. Sono però anche anni in cui si producono elaborazioni teoriche più complesse, in particolare quelle di Christine Bruce, che registra sette ambiti da cui sarebbe composta la competenza informativa e mostra come solo chi sia in grado di produrre nuova conoscenza sia da considerare information literate. Senza dimenticare Carol Kuhlthau, che prosegue e amplia il suo lavoro sul processo di ricerca documentale: non si tratta solo di saper usare la biblioteca e i suoi strumenti ma di sviluppare la «capacità di indagare per creare nuova conoscenza dai documenti» (p. 11). L’indagine sui documenti diventa così un metodo di straordinaria efficacia per apprendere e rielaborare criticamente: in questo senso la sua portata va ben oltre la dimensione della biblioteca per innestarsi sulla didattica tout court. Negli anni 2000 nelle biblioteche prevale ancora la pratica di istruire all’uso degli strumenti di ricerca e si afferma l’utilizzo di standard e linee guida per misurare le competenze e le abilità (skills), in un’ottica prevalentemente comportamentista.
Si arriva a una svolta nel secondo decennio, quando prende forma definitiva una concezione di IL che supera definitivamente i confini delle biblioteche e che può essere ben rappresentata dal nuovo framework ACRL del 2016: al centro dell’azione formativa non è più l’uso della biblioteca e il recupero dell’informazione, ma la complessità del processo di ricerca e l’uso ragionato dei documenti.
Risulta quindi evidente che i significati dei termini ‘information’ e ‘literacy’ non sono assolutamente univoci, e ancora meno lo è la definizione congiunta ‘information literacy’. Tuttavia, nella comunità bibliotecaria attuale c’è convergenza su alcuni assunti fondamentali, di cui viene presentata un’utilissima sintesi: a titolo di esempio, la consapevolezza che l’IL sia indispensabile per la formazione continua e l’autoapprendimento; l’idea che non si tratti di semplici competenze esecutive ma di un insieme complesso di conoscenze, abilità, attitudini che rendono i soggetti autonomi nella ricerca e valutazione dei documenti e capaci di produrre nuova conoscenza; il superamento della fase delle skills.
La letteratura mostra però anche una specificità di riflessioni nei singoli ambiti: la scuola, l’università, le biblioteche pubbliche, i luoghi di lavoro: in ognuno alcune visioni sono sviluppate e altre restano in ombra, alcune pratiche sono diffuse e altre non sono contemplate.
La seconda parte del volume indaga la pratica dell’information literacy in biblioteca, che si innesta su una lunga tradizione di istruzione/educazione ma se ne differenzia per alcuni aspetti importanti: l’IL non si rivolge idealmente solo agli utenti delle biblioteche, ma a tutti; non si realizza solo in biblioteca, ma in molti altri contesti; al centro dell’azione non c’è più il funzionamento della biblioteca e dei suoi strumenti, ma il discente e il suo percorso di apprendimento. I bibliotecari hanno attraversato almeno tre distinte fasi nel percorso che li ha condotti a diventare formatori: da una iniziale reticenza, attraverso la fase delle skills, fino al paradigma attuale esemplificato dal Framework for information literacy for higher education (ACRL, 2016), fondato su 6 ‘concetti soglia’ che il discente dovrebbe assimilare e che non sono semplici abilità ma acquisizioni complesse.
Il bibliotecario formatore si trova poi a scegliere tra diverse modalità di insegnamento, ognuna con vantaggi e svantaggi (in presenza, a distanza, blended), a optare per un metodo didattico, a interrogarsi su come realizzare attività di ricerca documentale. Non solo: si tratta anche di declinare la didattica a seconda del contesto disciplinare, operazione per cui esistono alcuni modelli codificati. Siamo quindi al punto di domandarci ‘cosa’ insegnare, cioè quali siano i contenuti, e ‘chi’ deve insegnare, cioè quali siano le condizioni necessarie affinché il bibliotecario diventi un formatore e sappia progettare, pianificare e valutare oggettivamente i risultati delle attività didattiche.
Il testo si conclude con una accurata selezione di fonti utili per approfondire il tema e tenersi aggiornati: riviste specializzate, voci di reference, blog e siti web, in particolare in particolare quelli delle principali associazioni professionali.
Il contributo di questo volume è prezioso per orientare i bibliotecari, con più o meno esperienza, in quella dimensione fluida che, parafrasando Maurizio Lana (La danza delle literacy, «Biblioteche oggi», 37 (2019), p. 5-12), potremmo chiamare «la danza delle information literacy». Al tempo stesso evidenzia anche alcuni nodi problematici ricorrenti, ad esempio l’asimmetria tra le iniziative formative di ambito accademico e la relativa scarsità di progetti attuati nelle biblioteche pubbliche, accanto alla quasi totale impossibilità di fare formazione nelle scuole. Così solo il vertice della piramide formativa risulta coperto, ma ciò non può garantire a tutti i cittadini le competenze informative necessarie nel contesto contemporaneo. E ancora: alcune elaborazioni teoriche risultano particolarmente significative, ma spesso non è stato possibile tradurre queste visioni in pratiche didattiche altrettanto fondate. Il rischio della banalizzazione è quindi sempre da tenere presente quando si passa all’azione didattica e si può arginare con una vigilanza teorica costante.
Con queste consapevolezze si delinea il contributo che i bibliotecari possono e debbono offrire alla comunità per diffondere le competenze informative e soprattutto per far sì che siano equamente disponibili.
Roberta Gallina
Biblioteca universitaria medica, Università di Modena e Reggio Emilia
Il ventiquattresimo volume della collana Biblioteconomia e scienza dell’informazione di Editrice bibliografica è dedicato allo studio di Alberto Del Fabbro intitolato Origine e sviluppo della biblioteca pubblica in Italia: un modello di analisi tra biblioteconomia sociale e microstoria. Esso si inserisce pienamente nel solco della nota e autorevole collana di cui fa parte, proponendosi come una preziosa fonte di riflessione e di approfondimento teorico-metodologico per i bibliotecari, gli studenti e gli studiosi di biblioteconomia.
La prefazione a cura di Maurizio Vivarelli e l’introduzione dell’autore chiariscono fin da subito gli scopi e i contenuti del lavoro, finalizzato a ricostruire le origini e gli sviluppi dell’identità della biblioteca pubblica in Italia a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso attraverso l’analisi di un caso specifico, ossia quello della biblioteca di Dogliani, inaugurata per volere di Giulio Einaudi il 29 settembre del 1963. Per raggiungere tale intento, l’autore si muove «dal macro al micro, dall’alto verso il basso, dalla storia generale delle biblioteche, passando per la storia delle biblioteche in Italia, fino ad atterrare, a immergerci, un giorno, in una storia particolare, in un ambiente specifico» (p. 8): proprio questa impostazione metodologica rappresenta uno dei principali motivi di interesse verso l’opera di Del Fabbro.
Il volume è articolato in quattro capitoli, seguiti da una conclusione e dalla bibliografia. I primi due forniscono un inquadramento storico-metodologico di grande utilità al lettore sia per comprendere le scelte fatte dall’autore nello studio sulla biblioteca di Dogliani – a cui sono dedicati il terzo e il quarto capitolo – sia al fine di inquadrare il significato di questa esperienza per la relativa realtà locale (ossia quella della cittadina piemontese e del territorio circostante) e per quella italiana, non solo negli anni Sessanta, ma anche nei decenni successivi, fino a oggi.
Entrando più nel dettaglio, il primo capitolo intitolato La biblioteca (pubblica) e la sua storia, dopo alcune precisazioni sul significato della parola ‘biblioteca’, offre una panoramica relativa alla nascita e all’evoluzione del concetto di ‘biblioteca pubblica’ nel contesto occidentale, con particolare attenzione alla Francia, alla Gran Bretagna e, naturalmente, all’Italia.
Il secondo capitolo, intitolato La biblioteca e il suo ambiente: tra biblioteconomia sociale e microstoria, propone inizialmente una riflessione sulla microstoria, un indirizzo di ricerca della storiografia affermatosi in Italia intorno agli anni Settanta del Novecento grazie ai contributi di studiosi come Carlo Ginzburg, Giovanni Levi, Edoardo Grendi. L’ottica microstorica, a detta dell’autore, è un «modo necessario, uno snodo imprescindibile e inedito nel campo della storia delle biblioteche, per affrontare il nostro caso di studio, per riuscire a raccontare adeguatamente la sua singolarità, per tornare più consapevolmente a porci problemi generali, macrostorici» (p. 16).
Nella seconda parte del capitolo, l’attenzione di Del Fabbro si sposta dapprima sulla storia della bibliografia e della biblioteconomia, poi su questioni più attuali, ossia sui modelli della biblioteconomia sociale. Essa, come ben noto alla comunità scientifica e professionale, rappresenta una delle più recenti evoluzioni della biblioteconomia in quanto disciplina ed è al centro di studi e dibattiti anche in ambito italiano. Ai fini della sua indagine sul campo relativa alla biblioteca di Dogliani, Del Fabbro si interroga sull’utilità dei metodi proposti dalla biblioteconomia sociale per analizzare la biblioteca pubblica e ne conclude che le suggestioni più interessanti derivano dal concetto di ‘impatto sociale’, che, come sottolineato in letteratura, può essere portato alla luce attraverso una combinazione di tecniche quantitative e qualitative di indagine. L’autore fa propria la «filosofia umanistica» (p. 153) proposta da Wayne A. Wiegand nel suo volume Part of our lives: a people's history of the American public library, la quale rappresenta «lo sfondo epistemologico» (p. 153) alla base del suo studio sulla biblioteca civica di Dogliani, alla quale, come detto, sono dedicati gli ultimi due capitoli del libro.
In particolare, il terzo capitolo, intitolato Un modello di analisi: il caso della Biblioteca di Dogliani, porta a conclusione l’analisi storica sulla biblioteca pubblica in Italia intrapresa nel primo: l’autore individua due modelli (quello centralista proposto da Virginia Carini Dainotti e quello di impronta regionalista proposto nei primi anni Sessanta dall’AIB e dal suo futuro presidente Renato Pagetti). A questi due si aggiunge un terzo modello, ossia quello rappresentato dalla Biblioteca civica “Luigi Einaudi” di Dogliani, voluta da Giulio Einaudi per ricordare la figura del padre. Si tratta di un’iniziativa privata che «intendeva innovare profondamente l’istituto della biblioteca pubblica in Italia tramite un progetto che si rifaceva esplicitamente all’esperienza della public library anglosassone, nella speranza che quel progetto costituisse il modello a cui guardare, l’inaugurazione di una nuova stagione bibliotecaria in Italia» (p. 169). La restante parte del capitolo è dedicata alla descrizione puntuale e dettagliata dell’origine della biblioteca di Dogliani, delle sue finalità, delle caratteristiche del suo edificio (il progetto architettonico fu affidato a Bruno Zevi), nonché delle sue collezioni (interessante è la riflessione sulla Guida alla formazione di una biblioteca pubblica e privata). Del Fabbro, quindi, si chiede se essa sia entrata a far parte delle vite dei doglianesi, come sia cambiata nel tempo (insieme alla società, oggi sempre più digitale e globalizzata), se sia stata un modello per altre ed espressione della storia della biblioteca pubblica in Italia.
Per cercare di trovare delle risposte a questi difficili interrogativi, nel quarto capitolo, intitolato “L’astronave è calata sulle sponde del Rea”: le parole della biblioteca nell’esperienza di vita di un testimone, Del Fabbro restringe ancora di più l’inquadratura e riporta la trascrizione dell’intervista a Giuseppe Martino, ex sindaco della città piemontese e profondo conoscitore di quella biblioteca, oltre che del contesto in cui essa si inserisce. Egli definisce Martino come il suo ‘Menocchio’, rifacendosi al protagonista del libro Il formaggio e i vermi di Carlo Ginzburg.
Nella seconda parte dell’ultimo capitolo l’autore propone un’interpretazione delle parole di Martino che invece, prima aveva semplicemente trascritto, al fine di non influenzare il lettore con le proprie impressioni. A questo punto lo stile narrativo cambia e anche il testo si trasforma in una sorta di coinvolgente diario che descrive, lasciando spazio alle sensazioni ed emozioni dell’autore, la sua visita presso la biblioteca di Dogliani, il suo incontro con Giuseppe Martino e con la bibliotecaria Monica Porasso. Così si conclude il lungo viaggio – rigoroso dal punto di vista scientifico e allo stesso tempo emozionante – nel quale Del Fabbro ha voluto accompagnare il lettore alla scoperta dell’evoluzione della biblioteca pubblica, sulla base di un approccio metodologico, certamente replicabile per altre ricerche, che oscilla tra visione generale e sguardo ravvicinato della microstoria, si sofferma sul concetto di impatto sociale, si serve del confronto diretto con le persone e delle fonti orali. Un viaggio che non solo ha permesso di scoprire e approfondire la conoscenza di una specifica biblioteca, ma soprattutto di riflettere sul passato, sul presente e sul futuro della biblioteca pubblica, quale «luogo vivente […] di discussione e di incontro, di parole scritte e parlate; un luogo che, nonostante le gigantesche sfide che si profilano nell’epoca della digitalizzazione di ogni cosa, parla ancora» (p. 232).
Sara Dinotola
Biblioteca civica “Cesare Battisti” di Bolzano
Il denso volume, edito in occasione del convegno internazionale Il privilegio della parola scritta: gestione, conservazione e valorizzazione di carte e libri di persona, svoltosi dal 10 al 12 aprile 2019 nel campus di Fisciano dell'Università di Salerno, raccoglie le più recenti acquisizioni e riflessioni in materia di archivi e biblioteche personali e d'autore.
Il dibattito, articolato in tre sezioni tematiche, affronta le questioni di metodo relative al trattamento e alla valorizzazione di tali risorse documentarie, nella loro precipua forma scritta. Le novità introdotte dall'avvento del digitale hanno infatti necessariamente cambiato la fisionomia di questi documenti, decretando non tanto la necrosi della carta e del libro quanto piuttosto la loro naturale e fisiologica mutazione verso nuovi formati.
I tre sostantivi scelti per il titolo circoscrivono di fatto il campo semantico del discorso e costituiscono idealmente le linee guida per esaminare nel dettaglio i percorsi argomentativi delle singole sessioni. Il sostantivo ‘conservazione’ costituisce il filo conduttore sotteso all'intera prima sezione intitolata Libri, carte, carteggi: le officine personali della scrittura e delle arti, coordinata da Marcello Andria e Giovanni Di Domenico. Le ‘officine’, centri nevralgici di produzione e laboratori di scrittura, costituiscono le sedi centrali dell'intero processo creativo deputate a raccogliere e conservare tutto ciò che nel tempo andrà a costituire un archivio e una biblioteca personale o d’autore. Il centro inteso come fuga, caso emblematico l'esperienza di Italo Calvino con le sue tante biblioteche, esaminato nel contributo di Laura Di Nicola e il centro come ritorno, si legga il lavoro di Concetta Damiani e Alessia Ricci sull'archivio di Ugo Gregoretti.
Nella gestione dei materiali rinvenuti all'interno di questi luoghi ‘ideali e reali’ – si veda la seconda sezione coordinata da Raffaella Maria Zaccaria e intitolata I fondi di persona nelle attività di scavo, descrizione e gestione – Eleonora Cardinale sottolinea l'importanza decisiva, in tema di biblioteche d'autore, del riconoscimento e dello studio delle carte sommerse o ‘ritrovate’.
La terza e ultima sessione intitolata I fondi di persona tra spazio fisico e spazio digitale: i percorsi dell'accesso e della valorizzazione, coordinata da Fiammetta Sabba e Vincenzo Trombetta, allarga lo spazio fisico e metaforico alle più recenti soluzioni di consultazione in chiave digitale, rese necessarie al fine di garantire la tutela dei documenti più facilmente deperibili. Un progetto che ben si sposa con la politica condotta dal direttore della Biblioteca nazionale centrale di Roma Andrea De Pasquale. L’istituto, sede del primo e unico museo italiano interamente dedicato alla letteratura italiana del Novecento, ha incrementato negli ultimi anni i progetti di digitalizzazione delle sue collezioni ponendo particolare attenzione alla valorizzazione delle collezioni letterarie novecentesche. La nascita del portale Spazi900 si configura come l'ultima tappa di un percorso in continuo divenire.
Altro merito del convegno è la presentazione delle Linee guida sul trattamento dei fondi personali (https://www.aib.it/struttura/commissioni-e-gruppi/gbaut/strumenti-di-lavoro/linee-guida-sul-trattamento-dei-fondi-personali/) redatte dalla Commissione nazionale biblioteche speciali, archivi e biblioteche d’autore dell’Associazione italiana biblioteche.
Le relazioni dei due curatori, ad apertura e chiusura dei lavori, possono aiutare il lettore a tratteggiare i confini del discorso: alle specifiche e stringenti ragioni di un nuovo convegno enucleate dall'intervento introduttivo di Giovanni Di Domenico risponde l'analisi conclusiva di Fiammetta Sabba che, partendo dalle tradizionali riflessioni di metodo sui fondi d'autore e di persona, auspica nuovi approcci di studio e ricerca, volti a scovare territori sinora inesplorati.
Nella dialettica delle parti, addetti ai lavori da un lato e studiosi dall'altro, risulta quanto mai comune un preciso obiettivo: salvaguardare dalla dispersione e dall'inevitabile caos del tempo un patrimonio culturale collettivo, un bene prezioso da conservare e restituire, per quanto possibile integro, alle generazioni che verranno.
Annamaria Piccigallo
Roma
Mara Conti nell’opera Il libro scolastico in Italia: dalla ricostruzione all’era digitale traccia l’evoluzione di una particolare tipologia di prodotto editoriale: il libro scolastico.
Il saggio si presenta come una guida per il lettore che vuole addentrarsi nella storia dell’editoria scolastica italiana dal periodo fascista ai giorni nostri. Si tratta di un prezioso contributo per gli studi sulla storia dell’editoria in Italia e, come dichiara la stessa autrice nell’Introduzione, vuole essere un tentativo di colmare l’assenza, nella letteratura di settore, di una vera e propria storia storia dedicata a questo ambito.
Il volume è articolato secondo una precisa metodologia. Nel primo capitolo viene presentato il contesto generale in cui si inserisce il libro scolastico. Vengono definite le caratteristiche di questa particolare tipologia libraria, quali sono i rapporti tra il manuale e i docenti, nonché l’uso da parte degli studenti; in quanto parte dinamica e vitale del mondo dell'istruzione viene presentato dall’autrice come un manifesto dell’evoluzione e del rinnovamento della scuola stessa, con riferimento ai cambiamenti avvenuti nella relativa normativa nel corso del Novecento fino a oggi.
Sempre nel primo capitolo viene affrontato il tema della produzione libraria con particolare attenzione al passaggio dal cartaceo al digitale. Interessante è la riflessione sui diversi meccanismi che animano l’editoria scolastica rispetto a quella tradizionale. Viene descritto in maniera estremamente dettagliata il lavoro di squadra che si cela dietro la produzione del manuale di scuola, vengono presentate, inoltre, le attività di produzione e i canali di distribuzione, fino ad arrivare alla fase finale di acquisto. Come spiega l’autrice, per la ricostruzione delle tappe della filiera scolastica è stato fondamentale quanto emerso dall’intervista con Monica Pedralli (manager presso Pearson Italia).
Dal secondo capitolo fino al quinto viene presentato per ogni decennio il quadro storico ed editoriale di riferimento. Il capitolo sesto prende in esame gli attuali sviluppi dell’editoria scolastica connessi all’affermazione dei supporti di lettura digitali e alle attitudini dei millennial legate alla diffusione del web 2.0 (uso delle app, social network, piattaforme online).
Nelle Conclusioni, la riflessione finale ha l’obiettivo di mettere in luce l’enorme potenziale di un uso consapevole, da parte dei docenti e degli alunni, del digitale nelle scuole; l’autrice in questa parte fornisce al lettore degli spunti sulle possibili modalità di utilizzo, i vantaggi e gli svantaggi, le prospettive future dell’affermazione delle nuove tecnologie a supporto di una didattica innovativa e al passo con i tempi.
Il volume è arricchito con un interessante apparato bibliografico alla fine di ciascun capitolo e con immagini inerenti all’evoluzione delle copertine, dei frontespizi e degli attuali supporti tecnologici per la lettura e si conclude con le trascrizioni di due interviste a importanti operatori del settore. Si tratta indubbiamente di un utile strumento per chi si trova a dover approfondire il tema dell’editoria e per chi lavora con la scuola, i ragazzi e i libri.
Questo saggio di Mara Conti, oltre a presentare le caratteristiche distintive del libro scolastico e della sua filiera, si struttura come un interessante strumento per il lettore in quanto offre stimolanti spunti di riflessione su come la lettura scolastica sia cambiata rispetto al passato, com’è oggi e come potrebbe cambiare nei tempi a venire.
Caterina Barillari
Sapienza Università di Roma
«Trovandomi in ospedale [...] la pregherei che mi facesse il piacere e non lo sa neanche lei che piacere mi farebbe a donarmi dei libri come riviste giornali illustrati libri romantici anche vecchi» scrive a Giulio Coggiola, direttore della Biblioteca Marciana, un soldato ricoverato (p. 252). «Desideriamo che tutti i generi, salvo il noioso, trovino ospitalità negli eleganti volumi del Romanzo del soldato, il quale […] desidera contentare tutti i gusti» è il programma della collezione Il romanzo mensile del soldato dell’editore fiorentino Nerbini (p. 103). «La sala di lettura fu subito ultrapiena sempre, il che mi fece molto piacere» (p. 56) sottolinea negli anni Cinquanta don Giovanni Minozzi ricordando la sua attività di cappellano militare nella Grande guerra.
Lettori, libri, biblioteche: intorno a questi concetti si dipana il volume di Loretta De Franceschi, che rielabora in forma organica circa un decennio di ricerche, condotte dall’autrice su materiali documentali vari e sparsi, per delineare la produzione e la circolazione libraria tra i soldati nel teatro della Prima guerra mondiale. Dal saggio emergono risposte a molte delle domande che il non troppo consueto binomio ‘libri e soldati’ ancora pone, e il valore di punto di riferimento d’insieme – come la prefazione di Alberto Petrucciani mette in risalto – per gli studi in questo settore.
I lettori, in servizio nell’esercito, si trovano al fronte, negli ospedali da campo, nelle prigioni militari, o frequentano le Case del soldato, centri di accoglienza con finalità ricreativo-assistenziali, diffusi fin dal 1915 grazie all’opera di un comitato che include – accanto al promotore don Minozzi – nomi della cultura e della politica nazionale, da Benedetto Croce a Grazia Deledda, da Luigi Albertini a Pasquale Villari. Sono lettori assetati di distrazione, di narrativa, di riviste illustrate, del materiale da scrittura che permette di restare in contatto con la famiglia lontana.
I libri proposti ai soldati dagli editori (alcuni dei quali sollecitati proprio dalla guerra a lanciarsi sul mercato) spaziano tra manualistica self-help e letteratura d’evasione, tra storia patria e propaganda politica, tra opere a carattere moralistico-religioso e testi specializzati o divulgativi delle basilari cognizioni igienico-sanitarie. La guerra stessa stimola una produzione editoriale articolata in collane (di Treves e Bemporad, come di editori meno noti) appositamente concepite per soddisfare le esigenze di mobilitazione e incitamento morale o di approfondimento sui paesi belligeranti e i problemi della nazione. Ma già negli anni precedenti al conflitto, l’Istituto nazionale per le biblioteche dei soldati diffondeva presso i vari corpi d’armata biblioteche di varie dimensioni a partire da un catalogo di circa 40.000 titoli, nel contesto di una politica culturale di alfabetizzazione e consolidamento della coscienza nazionale.
Le biblioteche si fanno promotrici di iniziative di donazione a cui sensibilizzano la cittadinanza, selezionano le pubblicazioni, predicano l’importanza dell’uso del libro e si concentrano sull’aspetto della circolazione più che sulla conservazione fisica, in una moderna concezione del valore del libro per il suo uso. La guerra diventa anche occasione di raccolta bibliografica per documentare una così scottante attualità, con iniziative come la Raccolta bibliografica della guerra delle nazioni avviata nel 1915 da Giuseppe Fumagalli presso la Biblioteca universitaria di Bologna, o con la compilazione di repertori, a cui si dedicò sin dal 1914 Piero Barbera, e cui posero mano dopo di lui Giuseppe Prezzolini, Alberto Lumbroso, fino alle bibliografie redatte negli anni Venti e Trenta – ancora vive le ripercussioni del conflitto.
Soprattutto, le storie dei libri e delle biblioteche (come sempre) sono sfondo e materia per le storie di uomini e donne, attivi in comitati ma anche attori di singole iniziative. Troviamo così ancora Fumagalli, negli anni della sua direzione della biblioteca universitaria, presiedere il comitato locale per l’invio di libri ai soldati, nel quale era coinvolto anche il direttore dell’Archiginnasio Albano Sorbelli. Ascoltiamo Gaetano Burgada, direttore della Biblioteca universitaria di Padova, lamentarsi «che nei mesi di guerra le biblioteche siano semplicemente solitarie e deserte custodi di libri» (p. 218), quando possono raccogliere e selezionare quelli ricevuti in dono dai cittadini per solidarietà coi combattenti e i feriti a cui vengono destinati. Seguiamo Adolfo Orvieto, delegato speciale del Ministero dell’Istruzione, nel sopralluogo alla Biblioteca Estense, dove il direttore Domenico Fava è impegnato ad affrontare, tra le molte questioni, il quesito (incidentalmente attualissimo per chi legge nel 2020) se i volumi possano veicolare malattie passando di mano in mano tra soldati e feriti. Leggiamo la Lettera ai combattenti in cui Angelo Fortunato Formiggini, il quale al fronte coadiuva la distribuzione di libri alle truppe, può constatare il gradimento di testi umoristici, che in quanto editore dei Classici del ridere si affretta a donare. Incontriamo ancora Coggiola con la collaboratrice Ester Pastorello, intenti a far diventare la Marciana un centro di raccolta di libri da distribuire agli ospedali che ospitavano feriti di guerra, poi anche ai depositi militari al fronte: vere e proprie ‘bibliotechine in cassetta’, con una classificazione ad hoc. Tra le bibliotecarie ricordate nel volume, vediamo anche Amalia Vago – volontaria nella Croce Rossa – vigilare sulla distribuzione di quanto spedito negli ospedali cittadini.
Questo elenco – limitata sintesi della parte seconda del volume, dedicata ai Comitati per i libri ai soldati – fa torto a molti personaggi le cui vicende emergono dallo studio dell’autrice, ma vale a dare almeno un’idea della molteplicità di percorsi in cui ci si può addentrare tra le sue pagine, efficace spaccato di anni convulsi: libri, lettori e biblioteche, enucleati quali temi del saggio, risultano in effetti intrecciati nelle sue pagine dall’elemento umano che le governa e anima.
Chiara De Vecchis
Biblioteca del Senato della Repubblica “Giovanni Spadolini”
L’esperienza pluriennale di Luigi Gavazzi, da animatore e da partecipante di gruppi di lettura (abbreviato GdL), traspare tutta da questo libro e ne è il punto di forza. Fondatore del blog http://gruppodilettura.com e collaboratore della Rete dei gruppi di lettura gestita dal Sistema bibliotecario nordest di Milano, Gavazzi stesso dichiara fin dall’introduzione di aver adottato nella sua opera il punto di vista del lettore. Infatti largo spazio viene dato alle testimonianze, anonime, dei lettori da lui intervistati. L’autore, forte sostenitore dei gruppi di lettura autogestiti, non solo dà voce ai lettori, ma si rivolge a loro come destinatari privilegiati del suo libro. Se infatti la maggior parte dei gruppi di lettura sono gestiti da addetti ai lavori in contesti istituzionali (biblioteche, librerie, scuole, ecc.) e con programmi rigidi, quando sono organizzati ‘dal basso’ hanno in potenza una carica di vitalità, fluidità e spontaneità superiore, che potrebbe consentire la buona riuscita del gruppo e garantire la sua durata nel tempo.
Nel primo capitolo, Come creare un gruppo di lettura e farlo vivere felice, si prova a dare una definizione di gruppo di lettura, nella consapevolezza che ne esistono di diversissimi: si va da quelli in cui tutti i partecipanti leggono lo stesso libro a quelli in cui ciascuno parla di un’opera diversa, da quelli in cui la discussione è sincrona in presenza a quelli in cui è asincrona online (blog, chat, social network, ecc.), da quelli ospitati in una biblioteca pubblica a quelli organizzati in un caffè. La caratteristica che li accomuna va quindi ricercata non in qualcosa che sia irrinunciabile in uno specifico gruppo, ma nella condivisione dell’esperienza di lettura attraverso un confronto articolato con gli altri: in altre parole è proprio questo ultimo aspetto a dare un senso alla partecipazione a un GdL.
Il secondo capitolo, Condividere la lettura, si focalizza sul desiderio/abitudine di comunicare la propria esperienza di lettura ad altri e sulla disponibilità ad ascoltare quella riportata da altri. Desiderio che i lettori generalmente provano e che occasionalmente realizzano partecipando a un gruppo di lettura.
Leggere sapendo di dover condividere le proprie riflessioni di certo cambia il modo di leggere, come sostiene lo stesso autore nel terzo capitolo, Il gruppo di lettura è “La discussione”. Rispetto alla lettura solitaria, quella in gruppo è infatti più consapevole, meno superficiale, ma forse anche meno spontanea e innocente. Ecco allora che il GdL si trasforma in un palco in cui i partecipanti recitano la parte del lettore-tipo che hanno scelto di interpretare, puntando su alcuni aspetti del libro piuttosto che su altri e condividendo emozioni o dettagli autobiografici (talvolta con effetto terapeutico) scaturiti dalla lettura.
Dal terzo capitolo in poi si entra nel vivo del contenuto e si perdonano i continui rimandi alle parti successive che nei primi due interrompono un po’ troppo frequentemente la scorrevolezza del testo. Si ha la percezione che qui l’impianto sia più scientifico; si insiste però eccessivamente sugli aspetti teorici, contravvenendo all’indicazione dell’autore stesso che questo libro è destinato ai non addetti ai lavori e contrastando con il taglio più pratico e discorsivo dell’ultima parte.
Il quarto e ultimo capitolo, Come parla il gruppo di lettura, certamente il più necessario, fornisce a chi vuole gestire un GdL un vero e proprio decalogo, che l’autore chiama «piccolo manuale anarchico di lettura ravvicinata» (p. 164). La ricetta giusta sembra non esistere, ma il consiglio che serpeggia tra le ultime pagine è che, per avere successo, un gruppo di lettura dovrà imparare a trovare il giusto equilibrio tra una discussione non generica e banale da un lato, e una discussione fin troppo guidata dall’altro.
Amalia Maria Amendola
Centro per il libro e la lettura
Dopo alcuni anni di minore attenzione da parte degli studiosi per l’editore modenese Angelo Fortunato Formiggini (1878-1938), da qualche tempo è tornato un vivo interesse per questa figura di ‘intellettuale tecnico’, che non solo fu in grado di realizzare e portare avanti per un trentennio un’impresa editoriale di medie dimensioni, caratterizzata da un’eccellente produzione di libri e riviste, ma che ebbe anche un ruolo importante nel dibattito culturale contemporaneo, in particolare sul fronte della promozione del libro e della lettura.
Tra i libri più recenti dedicati a Formiggini va segnalato questo di Elisa Pederzoli: un corposo studio di quasi cinquecento pagine, che ha vinto l’edizione 2018 del Premio Giorgio De Gregori.
Vorrei cogliere questa occasione, prima di entrare nel merito dei contenuti del volume, per ricordare e ringraziare Francesco e Luigi De Gregori, che da oltre dieci anni (la prima edizione è del 2007) per onorare la memoria del padre Giorgio, illustre bibliotecario, promuovono con l’Associazione italiana biblioteche questo premio, costituito, oltre che da una somma in denaro, anche dalla pubblicazione dell’opera vincitrice nelle edizioni AIB. Sono sicuro che Giorgio De Gregori, un vero «bibliotecario e gentiluomo» – come recitava il primo bando – sarebbe stato contento di un premio a suo nome, e credo anche che avrebbe apprezzato le opere premiate nel corso degli anni, ben selezionate da un’attenta giuria. Ma ancora di più avrebbe gradito il fatto che il premio sia destinato a lavori di ricerca di autori di età inferiore a 35 anni, lui che aveva sempre dimostrato una grande attenzione e disponibilità soprattutto nei confronti dei colleghi più giovani.
L’ultimo volume vincitore pubblicato, quello appunto di Elisa Pederzoli, è nato dalla sua ricerca di dottorato svolta presso l’Università di Bologna. Il libro ha come oggetto, lo ripetiamo, la figura dell’editore modenese intelligente e colto, a tratti geniale, in grado di realizzare collane indimenticabili come i Classici del ridere, ma anche di introdurre nella sua produzione editoriale quel carattere di approfondimento bibliografico e repertoriale (si pensi, ad esempio, alle collane dei Profili o delle Guide bibliografiche, al repertorio: Chi è, o alla rivista di informazione bibliografica L’Italia che scrive), che permettevano anche ai lettori non specialisti, ma curiosi, di approfondire autonomamente i temi più diversi. In questo modo anticipò, rispetto al resto dell’editoria italiana, un’idea moderna di cultura democratica già diffusa nel resto d’Europa, per la quale la produzione editoriale doveva comprendere anche efficaci strumenti bibliografici per consentire un più agevole accesso ad altri libri e più in generale alla cultura.
L’autrice ha scelto di approfondire la figura di Formiggini da un angolo di visuale importante e certamente già noto, ma finora meno studiato, cioè il suo ruolo di editore come sostenitore della cultura italiana nel mondo, motivato certamente da ragioni di promozione commerciale delle proprie edizioni, ma soprattutto – come scrive Paolo Tinti nella Prefazione – dal desiderio di «spiegare le ali dell’editoria italiana verso orizzonti lontani dalla Penisola» (p. 10), per dare maggiore visibilità al libro italiano e promuovere la cultura italiana all’estero. Per realizzare tutto questo, egli stabilì solidi rapporti con le più importanti istituzioni culturali italiane (si pensi, ad esempio, al Circolo filologico milanese oppure agli intellettuali riuniti intorno alla rivista Nuova antologia), ma anche internazionali, come la Library for american studies in Italy di Roma o l’Istituto librario italiano di Zurigo.
L’attività di promozione del libro italiano all’estero – come ben ricostruisce l’autrice – fu favorita in particolare dalle relazioni che Formiggini stabilì con Giuseppe Prezzolini, all’epoca presidente della Casa italiana della Columbia University di New York (molto interessante e ricca la documentazione trovata presso l’archivio della Columbia), e la partecipazione dell’editore modenese alle Italian book exhibitions, organizzate dal governo italiano tra la fine degli anni Venti e gli anni Trenta in America per promuovere l’editoria italiana.
Quando però Formiggini si rese conto che perseguire gli obiettivi di promozione del libro a livello internazionale come singolo individuo/editore costituiva un fattore molto limitante, decise di costituire, nel 1921, un organismo pubblico; l’Istituto per la propaganda della cultura italiana, nel cui consiglio direttivo furono rappresentati eminenti uomini di cultura, mentre lui stesso ne fu eletto amministratore.
È a questo punto che Formiggini realizzò che tutto il suo entusiasmo e tutti i suoi sforzi erano sostanzialmente vanificati da un contesto politico ostile, in particolare rappresentato da Giovanni Gentile, con cui cominciarono contrasti, anche molto aspri, che prima portarono alla trasformazione dell’Istituto, da parte dello stesso Gentile, in Fondazione Leonardo per la cultura italiana, poi all’accusa a Formiggini di irregolarità amministrative, costringendolo a dare le dimissioni e infine, nel 1925, all’assorbimento della Fondazione, con tutto il suo patrimonio, nell’Istituto nazionale fascista di cultura, presieduto dallo stesso Gentile.
A partire da questa vicenda, che lo stesso editore modenese ha ricostruito nell’amaro – e a tratti drammatico – pamphlet intitolato La ficozza filosofica del fascismo e la marcia sulla Leonardo (1923), Elisa Pederzoli denuncia con acume l’errore di prospettiva storica in cui cadde Formiggini, che attribuì l’intera responsabilità di quanto era accaduto al solo Gentile (è riferito a lui il termine ‘ficozza’, che in romanesco significa ‘bernoccolo’, cioè un’escrescenza spuntata sulla testa del fascismo), mentre assolveva il fascismo e Mussolini, verso il quale dimostrava invece una forma di ammirazione per la sua politica innovativa e il dinamismo nel voler riportare l’Italia al ruolo di grande potenza dopo il disastro della Prima guerra mondiale.
Formiggini, quindi, riteneva che la filosofia del manganello e la violenza squadrista fosse solo un effetto collaterale da attribuire ai tirapiedi del fascismo, senza che la responsabilità potesse ricadere sul capo del regime. «Pur non diventando mai un aperto sostenitore di Mussolini o del fascismo egli scelse comunque di cavalcare l’onda dell’energica rivendicazione dei valori nazionali e patriottici promossa dalla nascente ideologia fascista per trarne una propulsione funzionale ai propri ideali» (p. 140-141), non rendendosi conto di diventare, progressivamente, «prima strumento consenziente e, poi, vittima» (p. 144).
Lo sconforto provocato dalle sue vicende personali, in particolare dalla ‘marcia sulla Leonardo’ alla sua estromissione dalla fondazione, contribuì a renderlo sempre più consapevole dell'autentica matrice violenta e autoritaria del fascismo, ma era troppo tardi, e quando nel 1938 fu pubblicato il Manifesto della razza e introdotte le leggi razziali in Italia, considerò questo un vero e proprio tradimento da parte di Mussolini e della sua politica. Pochi mesi dopo, infatti, il 29 novembre 1938, l’editore si suicidò, gettandosi dalla torre della Ghirlandina di Modena, al grido di «Italia, Italia, Italia!», un gesto certamente disperato ma anche un’orgogliosa rivendicazione della sua libertà.
Uno dei maggiori pregi del libro, che caratterizza Elisa Pederzoli come studiosa competente e matura, è l’assenza di un approccio agiografico nei confronti di questo personaggio la cui intelligenza, il carattere brillante e la simpatia umana facilmente avrebbero favorito un’ammirazione incondizionata. Se quindi l’autrice non intende negare (anzi!) tutti i lati positivi del carattere di Formiggini, e ancor meno i grandi risultati della sua attività di editore, d’altra parte riesce a collocare la sua complessa e talvolta contraddittoria personalità – riprendendo la famosa immagine di Primo Levi – nella «zona grigia, dai contorni mal definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi», non solo in relazione all’ambivalenza nei confronti del regime e di Mussolini, ma anche rispetto ai risultati, a tratti deludenti, di alcune delle sue migliori iniziative (penso, oltre che alla più generale attività di promozione del libro italiano, anche alla creazione e gestione, per oltre un quindicennio, della Biblioteca circolante de L’Italia che scrive). Così scrive l’autrice a proposito dell’attività di propaganda della cultura italiana: «Tuttavia, pur essendo la più geniale e all’avanguardia tra tutte le iniziative di Formiggini, per la quale l’editore, spesso, trascurò il suo mestiere originario, il progetto di promozione del libro e della cultura italiana nel mondo ci appare allo stesso tempo come il suo più profondo fallimento personale» (p. 27).
In conclusione, il libro rappresenta un’ottima indagine complessiva, seria e metodologicamente rigorosa, che va probabilmente a costituire una pietra miliare degli studi sull’editore modenese per l’ampiezza e l’approfondimento dei temi trattati, per la ricchezza delle informazioni rinvenute in archivi italiani e statunitensi, attraverso le quali l’autrice è stata in grado di ricostruire il contesto nazionale e internazionale dei primi decenni del Novecento all’interno del quale Formiggini operò per la promozione della cultura italiana.
Vittorio Ponzani
Biblioteca dell’Istituto superiore di sanità