di Maurizio Vivarelli
In questo contributo verranno proposte alcune considerazioni suscitate dalla lettura del libro di Chiara Faggiolani Come un ministro per la cultura, che ricostruisce gli interventi di Giulio Einaudi sul ‘libro’ e il ‘sistema del libro’, «uno e indivisibile», nella prima metà degli anni Sessanta del Novecento1. Si tratta di un libro importante, per aspetti diversi che verranno trattati in seguito, due dei quali mi sembrano particolarmente rilevanti. Il primo è costituito dall’oggettivo rilievo della personalità intellettuale di Giulio Einaudi nella storia dell’editoria e della cultura del secolo scorso2; il secondo riguarda la connessione tra questi aspetti e la storia delle biblioteche pubbliche italiane, in un periodo in cui si afferma, anche in Italia, il modello della public library anglo-americana3; il terzo riguarda la metodologia e lo stile con cui questi argomenti vengono presi in esame, elaborati a discussi.
Inizierò dunque con una presentazione descrittiva, schematica e molto semplificata, del libro, necessaria per seguire le tracce testuali utilizzate per ‘spiegare’ argomenti ‘complicati’, e tra di loro inestricabilmente intrecciati: la personalità intellettuale ‘ossimorica’ di Giulio Einaudi, il ‘progetto Dogliani’ e la sua configurazione, la storia delle biblioteche italiane negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, i loro diversificati contesti, l’evoluzione del progetto e del modello a esso sotteso, le finalità ideali e politiche perseguite. L’asse narrativo centrale lungo il quale il libro si articola è costituito dalla figura di Giulio Einaudi, il ‘Ministro della cultura’ evocato nel titolo, nelle sue diverse e contrastate manifestazioni intellettuali ed editoriali.
Al centro di queste considerazioni sul ‘libro’ si situa dunque, circolarmente, quello scritto da Faggiolani, con la sua struttura, le sue fonti, i suoi metodi, il suo stile. Successivamente, procedendo per cerchi concentrici via via più ampi, ci si occuperà del ‘come’ i temi presi in esame siano elaborati, e infine si passerà a discutere il ‘perché’ le vicende di Giulio Einaudi e del ‘progetto Dogliani’ abbiano dato forma al percorso che il libro invita a seguire.
Dopo la Prefazione di Paolo Traniello e l’Introduzione dell’autrice, l’opera si sviluppa in quattro capitoli che includono due appendici documentarie, e termina con le Conclusioni, la ricca e utile Bibliografia e l’Indice dei nomi.
Il capitolo 1 (Il prototipo ibrido di Dogliani: la biblioteca civica “Luigi Einaudi” nel miracolo economico) presenta il tema centrale, il ‘progetto Dogliani’, interpretato come un complesso organico di attività orientate a trasformare la realtà attraverso la diffusione della cultura, concretizzata in misura rilevante nel libro e nelle biblioteche. Avviato da Giulio Einaudi nel settembre del 1963 per dedicare e intitolare una biblioteca al padre Luigi, economista e Presidente della Repubblica tra 1948 e 1955, il progetto viene introdotto con la citazione di una lettera scritta da Einaudi all’architetto Bruno Zevi, ringraziandolo per aver realizzato il progetto della futura biblioteca rinunciando al compenso, con un gesto dal profondo «significato culturale e civile»4. Un progetto che, scrive Faggiolani, non va inteso come la tessera irrelata di uno dei vertiginosi puzzle immaginati da Georges Perec, ma che tende con «approssimazione realizzatrice» al suo fine, che può essere raggiunto solo grazie al concretizzarsi di tutte le sue parti, tra loro interconnesse5. Le ‘parti’ del progetto sono poi introdotte dai protagonisti umani e ideali che si affacciano sulla scena: Paolo Terni, il contesto del progetto, la sua natura di prototipo esemplare. Quanto al contesto viene rilevata l’importanza del libro di Werner Mevissen Biblioteche, pubblicato non casualmente dalle Edizioni di comunità di Adriano Olivetti. Anche su questa base teorica poggiano le pietre angolari della visione di Giulio Einaudi, e in particolare l’idea di un «servizio pubblico», con al centro la cultura e l’idea di progresso, in una fase di grandi rivolgimenti economici, sociali, antropologici6. Questa relazione tra il modello di Mevissen, che prefigurava una forte integrazione tra servizi della biblioteca e attività culturali, venne da subito estesa al contesto del ‘progetto Dogliani’, orientandolo verso il tessuto delle biblioteche pubbliche della provincia di Torino, in un humus in cui si avvertivano la presenza pervasiva ed egemonica della FIAT e gli effetti dei cambiamenti rapidi degli stili di vita, con le molte tensioni prodotte dalla progressiva e problematica democratizzazione della cultura e della società7. In questa cornice, e come accadrà a Dogliani, «la biblioteca comunale [era] percepita come centro di cultura», attraente alla stessa stregua del «luccicante juke-box» e del «caffè con televisione»8. Per questo lo spazio doveva essere gradevole e razionale, il patrimonio librario aggiornato con continuità, e il «responsabile del centro» (che non coincide interamente con la figura del ‘bibliotecario’, o almeno con la sua rappresentazione stereotipata) doveva essere «dinamico, intelligente e abile»9. Su queste fondamenta intrinsecamente coese si originò il progetto, la cui concretizzazione architettonica fu compiuta come si è detto da uno dei più accreditati e innovativi professionisti del periodo, Bruno Zevi. Insieme allo spazio vennero definite le caratteristiche delle collezioni, profilate nella celebre Guida alla formazione di una biblioteca pubblica e privata, e del comitato «permanente» o «direttivo» che doveva presiedere al funzionamento dell’assieme. Il modello era stato in tal modo delineato10.
Il capitolo 2 (L’origine del progetto. Il paradigma ancestrale e quello razionale) è centrato sulla genesi intima del progetto, a partire dalle relazioni tra Giulio Einaudi e i libri, indagate a livello personale prima ancora che editoriale, per capire «quale posto i libri dovessero trovare nello spazio intorno»11. Per questo viene accuratamente ricostruito l’ambiente familiare, e il rapporto con la passione anche bibliofilica del padre, in un contesto in cui la passione per i libri si fondeva ‘ancestralmente’ con quella per la terra, ambedue «cose altamente produttive»12. Poi, procedendo verso l’esterno, si precisa il campo delle relazioni culturali e sociali, che trovano il loro punto di coagulo nella «confraternita» del Liceo D’Azeglio di Torino, nella figura testimoniale del «professore» Augusto Monti, nei contatti con coloro che entrarono a far parte del ‘lessico famigliare’ einaudiano, da Leone Ginzburg a Cesare Pavese, da Norberto Bobbio a Massimo Mila a Franco Antonicelli13. La «confraternita» è l’autentico incunabulo e «cervello collettivo» della casa editrice, avviata fin dal 1933 (quando il fondatore aveva 21 anni), in Via dell’Arcivescovado 7 di Torino, nello stesso edificio in cui aveva avuto sede l’Ordine nuovo di Antonio Gramsci14.
Il capitolo 3 (Il «discorso di fatti» per la pubblica lettura: da Dogliani al Paese) amplia ancora la prospettiva del ‘progetto Dogliani’, e si apre al confronto con quanto accadeva in quel periodo in Italia in un periodo in cui si rafforza il dibattito su ruolo, identità, funzioni della biblioteca pubblica; in questa traiettoria molto significativo è il rapporto tra Einaudi e Virginia Carini Dainotti, anche lei ex allieva del Liceo D’Azeglio di Torino, all’epoca impegnata nella realizzazione del Servizio nazionale di lettura, rapporto che rimarrà sempre caratterizzato da una reciproca stima ma anche da una significativa divergenza di vedute, che opponevano lo statalismo austero di Carini Dainotti alla visione anti-convenzionale e creativa di Einaudi15. A questa fase, orientata a «inserire le biblioteche in una politica globale di sviluppo»16, va collegata la partecipazione di Einaudi al Convegno nazionale per le biblioteche popolari, tenuto a Firenze nel 1962. Faggiolani mette in evidenza, in particolare, la convinzione congiunta di Einaudi e di Carini Dainotti della esigenza di delineare e disporre «un modello da seguire, […] di un prototipo», nella sua singolare unicità, e che tuttavia non smarrisse la sua capacità di inserirsi «in un contesto più ampio»17. In questo importante intervento, interamente riportato nella prima delle appendici, affiora un elemento che attraversa tutto il libro, e riguarda la valutazione negativa che Einaudi attribuiva all’«eccesso di tecnicismo» della comunità bibliotecaria18. Questa è una fase cruciale del ciclo di vita del progetto di Dogliani, durante la quale Einaudi mobilitò tutta la propria rete di relazioni per favorirne la diffusione, ed entro la quale Pasquale Saraceno, vicepresidente del Centro nazionale per la programmazione economica, costituì uno snodo essenziale per l’elaborazione di importanti documenti programmatici dei governi di centro-sinistra di quegli anni. L’obiettivo di Einaudi era quello di contribuire alla attuazione di «un massiccio e globale intervento statale, per risolvere i problemi del quale non bastavano certo i pannicelli caldi di tentativi embrionali e sporadici»19. In questo intenso periodo, il 29 settembre del 1963, aveva luogo l’inaugurazione della Biblioteca “Luigi Einaudi” di Dogliani, alla presenza del Presidente della Repubblica Antonio Segni, cui fece seguito, due anni dopo, la ‘replica’ realizzata in un paese vicino, Beinasco. Si tratta di mesi di fervida attività, nei quali inizia a profilarsi una linea di criticità rispetto alla elaborazione che andava consolidando in ambito bibliotecario, profilata nel ‘modello’ tracciato in quello che, un po’ riduttivamente, Einaudi definì «il famoso opuscolo dell’Associazione bibliotecari italiani»20. Si tratta invece, va detto (e in particolare in questa sede editoriale) di un documento importante: La biblioteca pubblica in Italia: compiti istituzionali e principi generali di ordinamento e funzionamento, che aveva tratto impulso iniziale da un intervento del 1962 di Renato Pagetti, direttore della Biblioteca civica di Milano21, con il quale il modello precedente della popolare evolve in quello della public library, da affidare alla gestione del sistema delle autonomie locali22.
Il capitolo 4 («Perì di noi gran parte». Il silenzio dell’editore e la piantumazione degli edifici), anch’esso seguito da una ampia appendice documentaria, mette in evidenza il ruolo chiave di Paolo Terni, marito della figlia dell’editore Ida, nella attuazione del progetto e in particolare nella realizzazione della celebre Guida alla formazione di una biblioteca pubblica e privata, pubblicata nel 196923. Terni aveva lavorato negli anni precedenti al ‘progetto Sardegna’, in collaborazione con la già ricordata Emma Morin, che vide la partecipazione attiva del Soprintendente bibliografico Luigi Balsamo, orientato a definire un modello organico e replicabile di sviluppo territoriale in grado di trasformare la biblioteca in «luogo di incontro e punto di riferimento per la vita della comunità»24. La Guida, pubblicata nella Piccola biblioteca Einaudi, e che aveva nel frattempo assunto una propria autonoma configurazione, non limitandosi a essere solo il catalogo della biblioteca di Dogliani, era caratterizzata dalla visione di orientamento marxista dello storico Delio Cantimori, secondo la quale doveva riuscire a ospitare almeno «il seme di tutto»25. In questo modo veniva prefigurato un modello bibliografico di biblioteca senza limitazione alcuna, oltre i limiti dello spazio e del bilancio, e che come «una piccola serra» doveva adoperarsi, a vantaggio di tutti, per far crescere anche «qualche fiore difficile»26. Faggiolani dà ampiamente conto delle polemiche seguite alla pubblicazione della Guida, accusata di volta in volta di essere ideologica, faziosa, squilibrata, arbitraria, illuministica, paternalistica, in accese discussioni che coinvolsero anche Goffredo Fofi, la cui critica si estese al profilo culturale complessivo della casa editrice27.
In questo periodo emerge sempre più chiaramente la delusione e la disaffezione di Einaudi rispetto alla configurazione originaria del progetto, mentre in Italia continuano a essere elaborate ipotesi di organizzazione del sistema territoriale delle biblioteche, dai centri di servizi culturali del Formez28, attivati con molte ombre tra 1968 e 1972, al modello ‘comunitario’ di Adriano Olivetti, all’esperienza delle biblioteche di quartiere di Modena29. Il capitolo si chiude infine con la segnalazione della pubblicazione della seconda edizione della Guida, in un contesto in cui le originarie tensioni psicologiche, etiche, politiche della fase originaria si erano ormai definitivamente dissolte30.
Nelle Conclusioni (Giulio Einaudi: come un Ministro per la cultura) l’autrice tira le fila del suo lungo e appassionato percorso, e lo fa a partire dalla bellissima citazione di Tecla, una delle Città invisibili di un ‘einaudiano’ tra i più importanti, Italo Calvino. Su questi aspetti, sospesi tra nostalgia e prefigurazioni del futuro, tornerò alla fine.
Questo breve, scarno e parziale riepilogo, naturalmente, non aspira a dar conto della varietà e della ricchezza dei contenuti trattati, e delle numerose fonti documentarie utilizzate, tra le quali un particolare rilievo va attribuito a quelle orali. Al linguaggio delle fonti si intreccia inestricabilmente la voce dell’autrice, con il suo asse narrativo e le sue controllate ‘parentesi’, sempre annunciate e giustificate, nel timore che il ‘lettore empirico’ possa perdere il filo principale del ragionamento proposto. Ho già accennato in precedenza, e vorrei confermare in chiusura, che lo stile dell’autrice mi è parso molto gradevole ed efficace. La personalità di Faggiolani è sempre chiaramente distinguibile, rispetto ai contenuti delle fonti, utilizzate con un metodo e una sensibilità documentaria e stilistica che ne valorizzano adeguatamente il valore in senso lato informativo. Mi pare insomma che in questo libro, come in una pietanza ben cucinata, si comprendano nettamente le ‘voci’ dei documenti, e attraverso essi le voci dei protagonisti, o almeno dei principali dei protagonisti, primo tra tutti Giulio Einaudi. Ma, insieme alle loro, si avverte anche il timbro della voce dell’autrice, in particolare nella Introduzione e nelle Conclusioni, che lasciano manifestare, oltre al ‘come’ e al ‘perché’ dei fatti, il ‘perché’ che l’autrice aggiunge, e che attualizza a oggi il valore persistente del ‘progetto Dogliani’. In che modo, dunque, nella frammentazione delle biblioteche e della realtà contemporanea, può essere possibile ritrovare la coesione organica di un progetto capace di coinvolgere tutto il sistema del libro?31
Fino a questo punto ho cercato di dar conto essenzialmente dei contenuti trattati ed elaborati nel libro, per fornire al lettore una idea vaga e sommaria del profilo complessivo dell’opera, della fabula che ne caratterizza la struttura testuale, in cui si intrecciano resoconti e commenti di fonti ampie ed eterogenee, in una rappresentazione linguistica e stilistica efficace sia sul piano storico e storiografico che su quello narrativo e comunicativo. Si tratta, vorrei sottolinearlo, di un merito da non trascurare, ben presente nelle corde e nella sensibilità di Faggiolani, e che tuttavia non era ancora emerso con questa stessa chiarezza nelle opere precedenti, riferite ad argomenti più specificamente tecnici della ricerca biblioteconomica e sociale. Ho l’impressione che questo stile, rigoroso e desideroso di farsi comprendere, possa costituire un ottimo auspicio per il futuro di Faggiolani, anche attraverso un libro che, con una analogia un po’ ardita, può essere pensato anche come un coraggioso, e mi pare riuscito, ‘romanzo di formazione’.
Vediamo ora queste stesse questioni, riferite alle pratiche di scrittura, con una lente più analitica. Mi pare che nell’opera siano presenti una pluralità di ‘lettori ideali’, tutti appartenenti alle diverse province della comunità del libro. Persone situate in campi disciplinari, intellettuali, sociali tra loro molto diversi, che pure condividono la fiducia nelle potenzialità del libro in quanto «piccolo parallelepipedo che lo racchiude», come ha scritto in pagine celebri Michel Foucault, che sta al centro di molte reti, cementate da una visione solo in parte unitaria, comune e condivisa32. Utilizzando un’altra frase celebre, si può affermare che Faggiolani elabora con forza emotiva e razionale il concetto di libro come «fermento», con cui si chiude la classica opera di Lucien Febvre ed Henri-Jean Martin33. Non sto evocando gli scenari ‘archeologici’ – nel senso di Foucault – della prima età moderna, per un semplice vezzo erudito. La passione per il libro, come è noto, era molto presente nel profilo di Luigi Einaudi e nei valori condivisi dalla famiglia, era nell’aria nelle parole di Augusto Monti e nelle aule del Liceo D’Azeglio. Una passione declinata e interpretata in tanti modi diversi, e che tuttavia ancor oggi si respira a Torino, dalle vetrine silenziose dei librai antiquari agli spazi affollati e caotici del Salone del libro. Non c’è da meravigliarsi dunque se Giulio Einaudi, immerso in questa atmosfera, abbia deciso da subito di abbracciare il mestiere dell’editore, in un’ottica in cui la ‘cura’ per il libro si saldava a solidi valori etici e in senso lato politici. Il libro e la cultura come strumenti di progresso, insomma.
Proprio qui si situa (ma questo è un parere mio, non direttamente dell’autrice) la crescita parziale dei cantimoriani «semi» della biblioteca e del ‘progetto Dogliani’, che videro la luce in un periodo di grandi trasformazioni, immersi nel crogiuolo ribollente del boom economico, confusi dall’affiorare di nuovi canali di comunicazione, di nuove domande e di nuove risposte. Ed è in questo crocevia denso che si intrecciano, parlando linguaggi solo in parte comuni, i modelli di Giulio Einaudi – e del già richiamato «cervello collettivo» che ne costituiva l’estensione –, e quelli che nello stesso periodo la comunità biblioteconomica stava approntando, nella fase in cui il decentramento regionale si stava prefigurando, e la ricezione del modello salvifico della public library sembrava finalmente discendere anche in Italia. Tuttavia, come ha mostrato convincentemente Paolo Traniello, l’affiorare di questo modello nei nostri anni Sessanta avveniva proprio quando la configurazione generale del modello stesso iniziava a entrare in quella crisi paradigmatica che da quel periodo in avanti ne ha intaccato sempre più profondamente il profilo, per l’avanzare sempre più impetuoso della postmodernità e delle culture digitali. È una coincidenza anche questa decisamente ‘ossimorica’ che una delle tessere del puzzle del ‘progetto Dogliani’, la Guida alla formazione di una biblioteca pubblica e privata, sia stata pubblicata nello stesso anno in cui si iniziava l’avventura a-centrica di Arpanet. Si congiungevano nello stesso anno, dunque, la canonizzazione di un microuniverso bibliografico selezionato da una prestigiosa élite intellettuale e l’inizio del ciclo di vita di quell’ambiente, poi divenuto il web, che avrebbe irreversibilmente trasformato i modelli antropologici e tecno-sociali di organizzazione e comunicazione della conoscenza. Al di là di queste impressioni, tuttavia, va rilevato che, con tutta evidenza, il ‘progetto Dogliani’, se si eccettua l’interesse in numerose occasioni mostrato da Virginia Carini Dainotti (anche per la comunanza relazionale), non si è del tutto integrato alla elaborazione che in quegli stessi anni la comunità bibliotecaria stava portando avanti, definendo il modello ideale di biblioteca pubblica, che con un termine molto espressivo Giulio Einaudi, come si è già ricordato, qualificò sbrigativamente con l’epiteto «opuscolo»34.
Non era la prima volta che proprio a Torino personalità non direttamente appartenenti alla comunità bibliotecaria abbiano preso a cuore la promozione delle funzioni della biblioteca, in una dialettica non propriamente convergente con gli ambienti biblioteconomici e bibliotecari. Era accaduto a metà Ottocento con un altro editore, Giuseppe Pomba, grazie all’impulso del quale era stata inaugurata nel 1869 la biblioteca civica35; era accaduto ancora nello scorcio finale del secolo, quando Alberto Geisser, economista con vocazioni filantropiche, opponendosi alla rigidità arcigna dei biblioteconomi fin de siècle sosteneva con entusiasmo che Torino avrebbe dovuto disporre di una «biblioteca circolante», e in cui addirittura avrebbe potuto essere finalmente legittimata la letteratura ‘amena’, che le élite bibliografiche locali convintamente osteggiavano36. Basti ricordare, in tal senso, la querelle che aveva visto contrapposti Giuseppe Pomba e Bernardino Peyron, vicedirettore della Biblioteca nazionale di Torino tra 1860 e 1871, sostenitore della priorità da attribuire al profilo storico-erudito della sua identità culturale e bibliografica37.
Volendo generalizzare ancora è proprio all’interno di queste tensioni che, tra fine Settecento e inizio Ottocento, si era consumata quella frattura tra esperienza della lettura e profilo disciplinare della biblioteconomia che ancor oggi caratterizza quella che, in altra sede editoriale, ho definito «incerta alleanza» tra biblioteche e lettura38. Lo stesso Giulio Einaudi, esaurito l’entusiasmo dei primi anni successivi al 1962 dovette prendere atto della diversità degli stili, dei linguaggi, degli obiettivi, rispetto a una comunità biblioteconomica che proprio in quel periodo stava compiendo un complicato mutamente di pelle, disciplinare e professionale, passando dal radicamento esclusivo nell’erudizione storico-bibliografica a una prospettiva che, auspice anche Carini Dainotti, guardava con entusiasmo e fiduciosa speranza al modello anglo-americano, con tutte le implicazioni teoriche e metodologiche a esso collegate. La centralità della tecnica, codificata nella prospettiva pragmatistica e positivistica della ‘library and information science’ stentava a dialogare con le altre ‘voci’ del poliedrico parallelepipedo foucaltiano. Questo è il motivo per cui, ancora oggi, il campo della ‘filiera del libro’ risuona, non sempre ma frequentemente, di voci diverse e dissonanti, accomunate spesso da una sincera passione profonda, e tuttavia distanziate da valori, metodi, modelli, lessici, forme dell’agire professionale. Tenuto conto di questa oggettiva, e probabilmente costitutiva complessità, qual è il modo migliore per riaprire il cantiere di Tecla, per riprendere la bella immagine utilizzata dall’autrice?
Il libro, come già si è accennato e come capirà meglio chi lo leggerà, si chiude con l’evocazione in chiaroscuro, e dunque anch’essa ossimorica, del cantiere di Tecla, La città e il cielo nel gioco combinatorio delle Città invisibili, in cui, come lo stesso Calvino ha scritto nelle Lezioni americane, prende forma la matrice combinatoria di una rete «entro la quale si possono tracciare molteplici percorsi e ricavare conclusioni plurime e ramificate»39. Una anticipazione molto espressiva della complessità contemporanea.
Seguendo la metafora di uno degli ‘einaudiani’ più celebri, elemento centrale del «cervello collettivo» di cui in precedenza si è parlato, integrata nel testo di Faggiolani, il ‘progetto Dogliani’ viene rappresentato come la concretizzazione diurna, attiva, solare, di una visione creativa, nascosta nella rete combinatoria delle possibili varianti (Figura 1). Per i motivi che in parte sono stati trattati nel paragrafo precedente, sul cantiere simbolico di Tecla è poi, inevitabilmente, calata la quiete della notte, che tuttavia consente di vederne meglio la struttura, e nello stesso tempo rischia di lasciarsi irretire dal disincanto, e dalla stanchezza per la difficoltà di armonizzare i molti punti di vista che al ‘libro’ sono rivolti, e che, oltre le molte retoriche anche bibliografiche che cercano di inquadrarne la funzioni, come «il guardiano di Kafka […] preserva un segreto che non possiede»40. Ed è proprio a questo punto che emerge la voce dell’autrice, con il suo invito a orientare lo sguardo, e una possibile nuova ‘visione’, verso i giovani, mettendoli al centro del cantiere di un futuro che, come sempre, è il luogo ‘altro’ in cui possono prendere forma gli incerti paesaggi di Utopia. Quando il fragore delle impalcature e dei tralicci di Tecla è dunque attenuato, quella notte si rivela non così impenetrabilmente oscura come quella di Juan de la Cruz: è illuminata dalle stelle, e un altro ‘pro-getto’ può nuovamente cominciare a delinearsi41.
Figura 1 – Struttura dell’opera Le città invisibili di Italo Calvino42
Le pagine finali sono caratterizzate da una cifra riflessiva, in cui si intrecciano nostalgia, per un tempo che Faggiolani rimpiange di non aver vissuto, e speranza, concorrendo ossimoricamente alla prefigurazione del futuro, e per cui servono, non da ora, «entusiasmo, follia, vitalità, speranza, intuito, immaginazione. Utopia»43. In questa prospettiva, messa in evidenza dall’isolamento grafico della parola finale, può essere raggiunta, nei limiti della «approssimazione realizzatrice», una rinnovata «utopia concreta», come lo sono state quelle di Giulio Einaudi e di Adriano Olivetti. Qui mi pare che si individui il ‘perché’ del libro, e anche il ‘perché’ questi studi e queste storie che si muovono intorno al «sistema del libro» possano e debbano, incessantemente, essere immaginate, pensate, progettate, scritte e raccontate, nelle luci e nelle ombre delle vicende umane, delle biblioteche, dei documenti, e delle parole con cui queste indeterminata storia viene raccontata, nelle molte reti del libro, della lettura, dei lettori e delle persone reali e possibili.
Ultima consultazione siti web 15 aprile 2021.