di Alberto Del Fabbro
Nel corso degli ultimi anni si è sviluppato, su scala internazionale, un intenso dibattito che ha riguardato il ‘modello’ della biblioteca pubblica contemporanea, nella sua complessa dimensione teorica, metodologica, organizzativa. Sono stati messi in evidenza, da vari punti di vista e differenti realtà geografiche e culturali, gli elementi di criticità presenti nel modello classico della public library, profondamente modificato dal mutare delle condizioni storiche, economiche, sociali, culturali e tecnologiche. Queste profonde trasformazioni hanno incrinato la solidità del paradigma e del modello classico, e a partire da questa crisi sono state elaborate ipotesi nuove, complesse, in alcuni casi anche molto diverse, in competizione tra di loro. La parola chiave per riassumere questa ‘nuova onda’ – pur problematica ed eterogenea – della biblioteconomia è ‘sociale’. Secondo buona parte della comunità professionale la biblioteca del XXI secolo, se vuole resistere alle sfide del presente e avere un futuro, deve infatti diventare ‘sociale’, pensarsi cioè come un organismo che agisce, cresce e si radica entro i propri contesti urbani e sociali. Ma come? E da dove arriva l’idea di una ‘biblioteconomia sociale’?
Sorta negli Stati Uniti verso la fine degli anni Trenta del Novecento, la progressive librarianship è la prima manifestazione di biblioteconomia sociale che, polemizzando con la biblioteconomia ‘classica’ e convenzionale, intendeva dar vita a una disciplina militante, attivista, critica, attenta alle dinamiche socio-politiche. Erede di questa visione biblioteconomica è oggi l’area dell’America Latina laddove si parla da qualche decennio di bibliotecología progresista, bibliotecología crítica, e più recentemente di bibliotecología (o biblioteconomia) social1. In area anglosassone continua a essere diffusa la progressive librarianship2, mentre da qualche anno David Lankes ha iniziato a profilare il campo della participatory librarianship3, dove la ‘conversazione’, più che il ‘libro’, diventa il fulcro della biblioteca del XXI secolo; conversazione non solo fisica, nel luogo-biblioteca, ma anche online, all’interno di una sorta di doppio virtuale di biblioteca, sulla scorta del modello Second Life o, se si vuole, di una ipotetica nuova piattaforma che potremmo chiamare ‘Second Library’. In Italia4, Spagna e Portogallo5, intanto, si discute da qualche anno di biblioteconomia sociale (social), intesa come strumento di welfare a disposizione della popolazione, secondo una prospettiva meno orientata all’azione politica e più connessa a un’azione d’ausilio sociale, quasi una missione di tamponamento alle falle dei poteri pubblici più che al mutamento degli stessi. Per quanto riguarda l’area francese6, non esiste un termine sintetico equivalente, e tuttavia si notano alcune relazioni tra il termine ‘biblioteca’ e il concetto di cittadinanza, molto rilevante, com’è noto, nel contesto e nella storia francesi. In ultimo, nell’area tedesca e scandinava7 la denominazione ‘biblioteconomia sociale’ emerge in relazione a concetti quali cittadinanza, partecipazione, collaborazione, che in area tedesca trovano la loro sintesi in Soziale Bibliotheksarbeit, una sorta di servizio alla cittadinanza reso dal lavoro del bibliotecario rispetto all’utenza.
Edgardo Civallero8 è uno dei più importanti esponenti e studiosi della bibliotecología progresista, la versione latino-americana della ‘biblioteconomia sociale’. Argentino, classe 1973, Civallero è coordinatore della biblioteca e dell’archivio della Fundación Charles Darwin delle isole Galápagos. I suoi interessi di ricerca riguardano la memoria, l’identità, le identità, nello specifico quelle identità e quelle memorie schiacciate da un modello univoco di biblioteca che privilegia la narrazione eurocentrica basata sul documento scritto che Civallero chiama, senza mezze misure, ‘biblioteca coloniale’. La biblioteca del XXI secolo, secondo lo studioso argentino, deve infatti aprirsi a tutte le sensibilità, tradizioni, culture emarginate e, tra queste, spicca necessariamente quella india, una delle più minacciate dall’oblio determinato dal modello classico e nordamericano di biblioteconomia. La biblioteca, in tal senso, deve smettere di pensarsi neutra, aggredire la società e le sue contraddizioni determinate dal pensiero a una dimensione della globalizzazione, scegliere la strada di una biblioteconomia progressista e militante. Il sapere si deve dunque decolonizzare dalle scorie dei circuiti massmediatici, dal modello unico, dall’ubiquità oppressiva del mainstream e delle sue logiche commerciali. La ‘biblioteca contemporanea’ è, nella visione di Civallero, attiva, militante, in questo senso compiutamente sociale, luogo aperto dove sviluppare lo spirito critico, cementare valori come l’uguaglianza, la giustizia sociale, la libertà, la verità, la solidarietà, la dignità dell’uomo. Contro ogni colonialismo inteso come oppressione, esclusione, appiattimento su un canone ‘totalitario’ che omologa e rischia di condurre verso l’oblio la ricchezza e le diversità culturali, in particolar modo in quei luoghi dove il colonialismo ha storicamente emarginato e decimato le culture native. Parliamo di America Latina. Dove il ‘modello’ di biblioteca e di sapere – e con lui ogni altra forma di convivenza e di società – non è mai stato negoziato ma imposto. Parlar di biblioteche è sempre un modo per parlar (anche) d’altro.
La biblioteca contemporanea, e per ‘biblioteca contemporanea’ intendo il modello di biblioteca attuale, egemonico, ampiamente diffuso in America Latina e nel resto del mondo, è una struttura che può essere considerata, fin dall’origine, straniera, esterna nei confronti delle società dell’America Latina e delle sue culture tradizionali, così come possono esserlo, in una certa misura, il formato ‘libro’ o il sistema ‘scrittura’.
Inutile dire che ci troviamo in un momento storico in cui questa istituzione, questo formato – come tanti altri – e questo sistema sono stati assimilati da buona parte delle società latino-americane. Tuttavia, qualcosa non pare essersi del tutto compiuto in questo processo di assimilazione: permangono ancora molte lacune, spazi vuoti, assenze. Queste lacune includono, tra le altre, la significativa assenza, nelle collezioni bibliotecarie, di voci che rappresentino l’‘alterità’ latino-americana: un’alterità composta da gruppi e popolazioni ‘minoritari’, da posizioni socio-politiche divergenti dal discorso egemonico, dalle lingue indigene, dai ricordi che sfidano la ‘storia ufficiale’…
In un certo senso, le società latino-americane si sono adattate, o sono state costrette ad adattarsi, alla biblioteca, alle sue strutture, alle sue collezioni e ai suoi servizi. Dal canto suo, la biblioteca non si è sempre dimostrata così duttile. Al contrario: in molti casi il suo modo d’agire può essere assimilabile a un ‘trapianto’ mai completamente adattatosi al contesto nel quale è stato inserito o ai suoi utenti, alle loro caratteristiche e alle loro esigenze, forse perché la questione dell’adattamento non è mai stata ritenuta davvero necessaria. In fondo, la biblioteca è una sorta di ‘strumento di alta cultura’: uno strumento che non ha bisogno di adattarsi a niente e a nessuno, che è stato e continua a essere utilizzato per ‘istruire’ determinate popolazioni. Ma anche per acculturarle, per ‘civilizzarle’: azioni che costituiscono un capitolo della ancor poco diffusa storia oppressiva e opprimente della biblioteca, parallela a quella di istituzioni come la scuola. Come ha sottolineato Gustavo Esteva,
in Messico il sistema educativo è stato creato come un sistema per rimuovere l’indianità agli indiani. Quando si propose di imitare i gringos nel trattamento della questione indiana, i legislatori dissero al Congresso che non avrebbero potuto commettere un genocidio, che bisognava comunque educarli, ma educarli all’estinzione9.
Lontana dall’adattarsi all’universo nel quale è arrivata, la biblioteca ha pertanto avuto la tendenza a impiantare e implementare, o imporre direttamente, un modello che ha privilegiato e reso egemoniche determinate conoscenze, forme, formati, risposte, idee, credenze, supporti, linguaggi, politiche, immagini, epistemi, metodologie, usi della conoscenza e norme.
E, così facendo, ha escluso molti altri.
Sebbene la biblioteca abbia un ruolo di innegabile rilevanza in America Latina, svolgendo un’autentica funzione di ‘trincea’ per molte resistenze, attivismi e militanze socioculturali, allo stesso tempo è responsabile di non pochi errori, avendo incluso nei suoi schemi e nelle sue strutture una quantità significativa di ipocrisie e contraddizioni, dimostrando, dunque, di possedere non pochi difetti. Conscia o meno di queste dinamiche, la biblioteca, quotidianamente, esclude, omette, zittisce, ignora e/o discrimina certe realtà, discorsi, identità e storie.
La biblioteca contemporanea posa le sue fondamenta su un modello che originariamente favoriva il vincitore, la narrazione dominante, il genere/sesso ‘forte’, la classe ‘alta’: in molti casi, continua a farlo. A tutto questo si aggiunge che il paradigma bibliotecario si basa, di default, sul formato scritto; e la scrittura è un sistema che, a sua volta, ha storicamente favorito alcuni gruppi sociali: quelli che padroneggiavano la lingua e la letteratura ufficiali.
Sia la scrittura sia la biblioteca ‘tradizionale’ gerarchizzano il sapere. Le idee dominanti meritano di essere conservate, mentre le altre sono potenzialmente sacrificabili. In questo modo si perpetua l’esistenza di una voce e di uno sguardo egemonici: maschile, bianco, ricco, ‘colto’, scritto in lingue ufficiali/dominanti. E si rafforza la stratificazione all’interno della produzione della conoscenza, privilegiando cioè i ‘soliti noti’, gli autori accademici o gli scrittori ‘famosi/riconosciuti’: i più ‘forti’. Forti perché possiedono lo strumento, la scrittura, la narrazione ufficiali, quel sapere-potere necessario per poter, appunto, alzare la voce.
Si tratta dunque di un sistema di legittimazione della conoscenza ‘corretta’ e di parallela esclusione, negazione, silenziamento o invisibilità delle conoscenze ‘altre’.
Possiamo, a tutti gli effetti, parlare di una biblioteca ‘colonizzata’ e, allo stesso tempo, ‘colonizzatrice’, raramente consapevole di essere uno spazio occupato e colonizzato e/o di agire come braccio esecutivo di questo processo di colonizzazione all’interno della sua comunità.
La biblioteca necessita di un radicale cambio di paradigma, di una profonda revisione strutturale e di un urgente cambio di rotta, che deve orientarsi, soprattutto, in una direzione de-coloniale. I suoi obiettivi, le sue missioni, le sue visioni non devono mutare, ma le categorie su cui si basano dovranno essere riviste: esse sono distorte, limitate, manipolate. Ad esempio, la biblioteca risponde alle esigenze di una categoria di utenti, ‘utenti’ che sono definiti secondo convenienze ben definite: cittadini medi ideali che rispondono a certi stereotipi o a statistiche ingannevoli.
Una parte del collettivo bibliotecario latino-americano – in particolare in quelle biblioteche considerate ‘di base’, come le biblioteche popolari, comunitarie, rurali, indigene, contadine, scolastiche e pubbliche, che costituiscono la struttura elementare del sistema bibliotecario del continente – è in grado di rilevare, entro le attuali biblioteche, la scarsa o nulla reattività dei loro servizi e delle loro strutture riguardo numerose situazioni, bisogni e problematiche locali e, in generale, l’assenza, o, se vogliamo, debolezza, di un legame fondamentale e intimo con le culture e le identità regionali.
Un enorme patrimonio di conoscenze, realtà e identità latino-americane non trova spazio nelle biblioteche del continente; parliamo proprio di quegli elementi che fanno sì che l’America Latina sia quello che è e nient’altro. In questo contesto, molti bisogni sono del tutto ignorati, e, nel migliore dei casi, la risposta che viene loro concessa assomiglia a un ‘letto di Procuste’. A partire da queste lacune, che la biblioteca e la biblioteconomia disvelano nel contesto latino-americano, nasce la necessità di pensare la biblioteca, e le stesse discipline del libro e dell’informazione, secondo un’altra prospettiva, da un punto di vista autonomo, senza colonizzazioni.
È necessaria, dunque, parafrasando il famoso motto zapatista, ‘una biblioteca che contenga molte biblioteche’.
In questo contesto sorge la necessità di generare una proposta di biblioteca il cui punto di riferimento è Abya Yala. ‘Abya Yala’ è un’espressione della lingua Gunadule, la lingua indigena di Panama e Colombia. È il nome attualmente utilizzato dalle comunità indigene e dai gruppi decoloniali per riferirsi all’America Latina come spazio geografico e culturale. È generalmente intesa come ‘la nostra terra’. Abya Yala, dunque, come spazio – l’America Latina – occupato da tutti e in cui tutti possiamo entrare, con le nostre storie e idee, passate e presenti. Abya Yala come contenitore di tutte le nostre parole ed esperienze, di tutti i nostri percorsi. Dello scritto e del parlato. Di tutti i nostri modi di vivere la realtà, di tutti i nostri modi di pensare.
Questa idea di contenitore di tutti gli aspetti identitari e culturali del continente dovrebbe costituire la base di un modello bibliotecario latino-americano, soprattutto per le biblioteche pubbliche, popolari, scolastiche, rurali, di quartiere e comunitarie.
In tutte le culture del pianeta, le ‘case della conoscenza’ tendono a essere selettive per natura. La tradizione – sia orale, sia scritta – utilizza un processo di decantazione che salva dall’oblio solo una manciata di voci, autorizzate dal gruppo dominante per qualche motivo o seguendo alcuni criteri (status, potere, verità, solidità nel tempo, utilità). Nel corso della storia, compresa in quella dell’America Latina, la biblioteca è stata, in qualche modo, la ‘casa del sapere’ soltanto per alcuni gruppi sociali. Oggi le società sono plurali: mescolanze più o meno eterogenee di differenti etnie e strati sociali. Esse hanno bisogno di ‘case della conoscenza’ che rappresentino tutte le realtà allo stesso modo e che diano spazio a tutte le voci, di tutti i tempi, di tutti i luoghi, e a tutti i modus pensandi. Le comunità indigene che hanno creato o accettato l’esistenza di ‘biblioteche’ nei loro territori le chiamano ‘case delle parole’ o ‘case della conoscenza’, intendendole come spazi concettualmente diversi dalle tradizionali ‘biblioteche’ delle società occidentalizzate. In questi luoghi c’è spazio, tra gli altri, per l’espressione orale, la gestione delle lingue indigene, e per forme di raccolta, organizzazione, codificazione e gestione del sapere mai incluse negli standard bibliotecari generali.
Una biblioteca che muove dal Sud, da Abya Yala, dovrebbe pertanto chiedersi chi sono i suoi utenti e perché questi dovrebbero volere una biblioteca. Per quale motivo la dovrebbero volere, a quali esigenze vorrebbero che la biblioteca rispondesse. E dovrebbe rispondere a tali esigenze rispettando le caratteristiche e le capacità dei suoi utenti in modo sostenibile. Nella maggior parte dei casi ciò implicherebbe l’abbandono di alcune strutture chiaramente eurocentriche e il loro adattamento e/o sostituzione con altre più ‘amichevoli’, secondo un approccio culturale locale e regionale. Aspetti cognitivi e culturali come l’oralità e gli altri sistemi di trasmissione dell’informazione, le classificazioni e le categorie epistemologiche native, il senso di comunità e di rete, devono essere urgentemente e consapevolmente incluse nella gestione e pianificazione delle biblioteche latino-americane.
I passi da seguire per raggiungere questo obiettivo sono complessi, come accade normalmente con qualsiasi azione che proponga un cambio di paradigma, non importa quanto lento e innovativo possa essere. E, a prescindere da quel che si intende fare, è sempre necessario stabilire degli standard e trovare delle ragioni convincenti per portare avanti il progetto, il mutamento.
Innanzitutto, è necessario esaminare, identificare, trovare quali sono le ‘falle’ nel paradigma dominante e da dove derivano. Ove percepissimo delle assenze, legate a soluzioni, materiali, voci o metodologie, e delle carenze, queste devono essere prontamente identificate, con estrema chiarezza.
Oltre a quelle che ‘percepiamo’, è necessario adoperarsi a individuare tutte le altre falle esistenti. Per fare ciò, sarebbe necessario stabilire alcuni criteri volti ad analizzare cosa la biblioteca non fa o dove fallisce.
E, da qui, iniziare a definire una serie di azioni volte a contrastare queste problematiche. Ci vuole molto tempo, un grande dialogo e una capacità decisionale che sappia essere critica e ponderata. Bisogna farlo adesso, per non doverci trovare ad accettare decisioni già prese, senza alcuna possibilità di dibattito, perché sì, ‘perché ci conviene’.
Ogni momento è l’occasione giusta per parlare di ‘biblioteche in decolonizzazione’ come processo. Sarà un processo di investigazione-azione e sviluppo di base, che ha le sue radici in un discorso ribelle, libertario e anti-sistema, legato a una biblioteconomia critica e sociale. Ne uscirà una biblioteca che non cercherà d’imporre un modo di sapere, di conoscere o di apprendere, ma che si presenterà come uno spazio plurale, aperto a molti approcci, modelli, conoscenze e identità, perché questo è, esattamente, Abya Yala oggi: un crogiuolo. Uno spazio, dunque, in cui tutte le voci e tutti i discorsi verranno recuperati consapevolmente.
Il risultato di questo processo dovrà condurre a una biblioteconomia che fornisca gli strumenti adeguati per affrontare questa nuova realtà. Una disciplina che apra ad altre classificazioni del sapere, altre misure del tempo, altri formati rispetto al libro. Una disciplina senza gerarchie, dove non esistono saperi ‘superiori’ e ‘inferiori’. Una disciplina capace di riconoscere l’assoluta uguaglianza e dignità tra le diverse forme e modalità del conoscere.
Per implementare qualsiasi tipologia di ‘sistema’ all’interno di una comunità, vengono solitamente effettuati alcuni studi preliminari volti a conoscere quale sarà la risposta della comunità stessa, quali le opportunità, quali i punti deboli. Curiosamente, nessuno ha ancora posto queste domande riguardo il modello standard di biblioteca: di solito si presume, fin dall’inizio, che una biblioteca ‘convenzionale’ sarà utile e ben accolta, quando invece la vera risposta può essere, tra lo stupore dei più, molto diversa.
Perché pensare a una biblioteca da una prospettiva regionale e locale? Perché è necessario proporre delle idee, dei progetti bibliotecari che siano significativi per gli utenti, che siano a loro vicini. Una biblioteca con la quale gli utenti possano identificarsi totalmente. Una biblioteca che non sia uno strano innesto, che sia ben accolta e intimamente assimilata.
Per quale motivo? Per rispondere alle necessità e alle aspettative degli utenti in maniera più pertinente e, quindi, per ottenere risultati migliori.
Per pensare a un progetto bibliotecario per l’America Latina diverso da quello attuale, basato sul paradigma euro-americano, è necessario tenere conto delle caratteristiche peculiari del continente in termini di produzione e gestione della conoscenza e dell’informazione.
I saperi, le lingue, le identità e i tratti culturali locali devono necessariamente essere considerati come la principale collezione di qualsiasi biblioteca e non come una piccola ‘collezione speciale’, una curiosità folcloristica o antropologica. Qualora fosse necessario, si dovrebbero adottare programmi bibliotecari per la raccolta e l’organizzazione di questi tipi di materiali, stringendo alleanze con altri attori, dalle università alle case editrici, per la loro produzione e diffusione.
È necessario tenere in considerazione le modalità tradizionali di trasmissione dell’informazione che sono ancora in vigore: a tal fine possono essere utilizzate sia le modalità di narrazione tradizionali sia le nuove tecnologie multimediali. Lo sforzo, in tal senso, deve essere sostenuto da un atteggiamento serio e coerente.
La conoscenza, in America Latina, è espressa ed è codificata attraverso molti supporti e molti canali diversi dai libri e dalla scrittura: dai dipinti e le acconciature agli oggetti e all’oralità. Essa utilizza linguaggi e dialetti diversi e ha logiche epistemiche differenti da quelle euro-americane. È quindi necessario capire che l’America Latina è una terra diversa, con i suoi codici, le sue idee, i suoi modi di capire il mondo. E che tutto questo non appartiene a un passato preispanico, né è stato nascosto nelle comunità indigene. Viviamo in quella realtà: una realtà permeata da mille storie e nutrita da mille radici. Storie e radici che non sono ‘inferiori’ a nessun’altra.
È necessario che la biblioteca si colleghi alla società e ai suoi movimenti. Che abbandoni la ‘torre eburnea’ della neutralità e diventi parte della comunità, dei suoi movimenti, dei suoi spazi educativi popolari, delle sue azioni collettive. Bisogna creare una biblioteca critica. Critica, soprattutto, verso l’idea di sviluppo.
In conclusione, è tempo di porre fine a certi neocolonialismi attivi che tendono a dare estrema rilevanza a ciò che viene dall’esterno. Una sorta di ‘maledizione di Malinche’10 che, nel caso dei bibliotecari, tende a condurli verso una specie di fascinazione e predilezione verso modelli di azione stranieri invece di scommettere sulla produzione e sull’intraprendenza locale. Molte delle idee venute dall’esterno sono assolutamente inapplicabili, sia a medio che a lungo termine, in America Latina. Molte delle idee prodotte in questo continente avrebbero un enorme successo se una piccola percentuale dell’interesse, della libertà d’azione e dei fondi ricevuti dall’esterno fosse dedicata a loro.
Credo che il primo passo verso la costruzione di una biblioteconomia latino-americana inizi proprio da qui: abbandonando il rispetto e l’ammirazione per i modelli esterni e iniziando a lavorare e a rispettare l’interno, quel che abbiamo dentro. Recuperando le nostre parole, i nostri nomi, invece di indossare aggettivi e sostantivi egemonici ed eurocentrici.
Ultima consultazione siti web: 7 aprile 2021.