Recensioni

a cura di Desirée de Stefano e Federica Olivotto

Chiara Reatti, Tra aula e torchio: libri e scuola a Bologna da Napoleone all'età della Restaurazione, postfazione di Paolo Tinti. Bologna: Clueb, 2020. XXI, 265 p.: ill. (Impronte: libri e cultura scritta. Studi e cataloghi; 1). ISBN 9788849156591.

L’editore bolognese Clueb, specializzato nella produzione di saggistica e manualistica di autori accademici, ha accolto nel proprio catalogo il frutto di una ricerca bibliografico-documentaria che ha come oggetto di studio proprio i libri per l’insegnamento. Tra aula e torchio affronta in particolare l’editoria scolastica bolognese nel trentennio compreso tra il 1796, in cui la città, conquistata da Napoleone Bonaparte, era stata eretta capitale della Repubblica Cispadana, e il 1826, quando (ormai a dieci anni dalla Restaurazione) papa Leone XII, con un importante provvedimento, interveniva a regolare nuovamente la produzione dei libri destinati all’istruzione pubblica. Il volume trova quindi la sua collocazione senz’altro nell’ambito della storia sociale del libro e della lettura, che da qualche decennio anche in Italia ha iniziato a popolarsi di studi di un certo spessore; e in proposito ci piace rilevare l’esistenza di una nuova collana editoriale dedicata alle discipline del libro e del documento, Impronte: libri e cultura scritta, inaugurata proprio da questo volume.
Per Chiara Reatti Tra aula e torchio rappresenta il compimento di una ricerca realizzata qualche anno fa con la guida del professore Renzo Rabboni e confluita nella tesi di dottorato in Scienze bibliografiche, del testo e del documento, discussa all’Università degli studi di Udine. L’analisi dell’autrice si è concentrata sull’editoria riguardante il primo livello educativo, quello elementare, senza prendere specificamente in considerazione i libri per l’istruzione superiore, che potrebbero essere oggetto di approfondimento in una successiva indagine.
La parabola politico-militare di Napoleone produsse i suoi effetti nel territorio bolognese anche nel campo educativo, ed è molto dettagliata e puntuale la ricostruzione fatta dall’autrice delle riforme che gradualmente concorsero a mutare profondamente l’assetto precedente. Fino alla fine del Settecento anche a Bologna l’alfabetizzazione era stata sostanzialmente basata su sistemi di istruzione collegiale determinati e retti dagli ordini religiosi, rimanendo minoritarie le pratiche didattiche legate a contesti privati, con le loro forme di insegnamento individualizzato.
Agli albori del XIX secolo assistiamo, invece, a politiche di accentramento e controllo da parte delle autorità pubbliche, le quali avviano un processo di laicizzazione dell’istruzione senza precedenti. Emblematico il caso delle Scuole pie, negli anni repubblicani ribattezzate ‘civiche’ e poi ‘normali’. A questi istituti era tradizionalmente collegata una cospicua produzione di manuali scolastici, ed è su questo terreno che Reatti inizia ad approfondire l’argomento, anzitutto fotografando la situazione preesistente all’avvento della Repubblica Cispadana mediante l’esame analitico del contenuto di un importante documento conservato presso l’Archivio storico comunale di Bologna – l’Inventario del capitale di carta, e libri a tutto li 27 agosto 1796 delle Scuole – in cui era intervenuto, per le perizie di stima, anche il libraio e tipografo Giacomo Longhi. La svolta impressa dal regime napoleonico rispetto alla tradizione si intravede fin dal 1796 con l’abolizione della privativa di cui aveva goduto fin dal 1781 la stamperia dell’Istituto delle scienze di Bologna, ed è poi concretamente avviata, come sottolinea l’autrice, per l’iniziativa del nuovo ispettore della municipalità bolognese Francesco Gambarini, opportunamente assecondata dal tipografo felsineo Floriano Canetoli, editore tra l’altro del periodico di chiaro taglio filo-francese Il genio democratico. In attuazione del Piano provvisorio per le scuole nazionali primarie della Comune di Bologna del 1798, Canetoli sottoscrisse un accordo con la commissione municipale, con cui rilevava l’intero corpus degli esemplari allora in dotazione alle Scuole in cambio di un pacchetto di commesse editoriali che lo ponevano in posizione dominante nel programma editoriale del nuovo regime. Escono in questo periodo dai suoi torchi il Catechismo repubblicano ai giovani della Cisalpina, l’Abbecedario repubblicano ad uso delle scuole nazionali primarie e numerosi altri testi scolastici destinati a una diffusione capillare presso insegnanti e discenti degli istituti educativi del territorio bolognese. Un programma temporaneamente interrotto dalla reggenza austriaca nel biennio 1799-1800, quindi ripreso tra l’inizio del nuovo secolo e la Restaurazione col sostegno di una serie di provvedimenti legislativi in materia di pubblica istruzione e stampa. Chiara Reatti ripercorre con meticolosa attenzione tutti i passaggi cruciali di questo quindicennio, dalla legge del 1801 sul diritto d’autore a quella sulla pubblica istruzione del 1802, completata per il comparto elementare solo con un regolamento emanato nel 1812, soffermandosi sui decreti sulla revisione delle stampe e sulla libertà di stampa (1804-1805). I due ambiti di intervento del legislatore convergevano, nel 1807, con il testo di due decreti: uno sul catechismo nazionale e l’altro sui libri di testo da adottarsi in tutto il Regno, entrambi destinati, tuttavia, a un insufficiente radicamento nel tessuto sociale del Dipartimento del Reno, sia a causa dell’endemica condizione di povertà della maggior parte della popolazione, sia per il sopraggiungere delle circostanze politiche che di lì a poco avrebbero condotto alla caduta del governo francese. Nonostante ciò, come ben evidenzia l’autrice, il programma complessivo di riforme dell’istruzione in senso laico e l’esperienza avviata negli anni del regime napoleonico sarebbero serviti da base ineludibile di confronto per tutti i governi della penisola scaturiti dal Congresso di Vienna.
Tornando al caso bolognese, non costituiscono dettagli trascurabili, in tal senso, le determinazioni in quegli anni sulle modalità di abilitazione degli insegnanti, mirate a perseguire maggiore qualità e omogeneità nell’attività didattica. Altrettanto importante l’indagine conoscitiva sulle stamperie dell’area renana promossa da Giovanni Scopoli nel 1810, altra fonte molto ben focalizzata dall’autrice per lumeggiare l’andamento della produzione editoriale bolognese in questo periodo, oltre che per descrivere meglio, nello specifico, come si andava ridisegnando la ‘geografia tipografica’ del mercato del libro destinato alle scuole. Dalle risposte al censimento affiora come accanto a chi continuava a lavorare in un regime di privilegio ‘generalizzato’ (come la stamperia camerale Sassi, retta dall’intendente Gaspare Parmeggiani, o la stamperia arcivescovile Longhi, di cui era proprietario Giuseppe Masetti) vi fossero già altri tipografi capaci di specializzarsi nel settore scolastico con nuove edizioni ad ampia circolazione: è il caso di Giuseppe Lucchesini e di Giuseppe De Franceschi, mentre altri artieri cercavano di ritagliarsi un proprio spazio in questo mercato emergente (tra questi, Jacopo Marsigli, Ulisse Ramponi e i fratelli Riccardo e Spiridione Masi). Nel frattempo il rinnovamento del settore della stampa induceva le autorità a promuovere, pressappoco nello stesso giro di anni, un’analoga indagine sulle botteghe librarie ‘autentiche’ (cioè non gestite da editori o tipografi), allo scopo di far valere disposizioni più stringenti in merito ai requisiti necessari a ottenere una ‘patente’ per l’esercizio della professione. Anche sotto questo aspetto Tra aula e torchio regala al lettore uno spaccato storico estremamente interessante, delineando con ampi riferimenti documentari l’entità e la natura delle attività di distribuzione commerciale del libro (non solo scolastico) a Bologna in epoca napoleonica, anche per difetto: dal censimento dell’ispettore Landi spicca, ad esempio, l’assenza di un libraio del calibro di Antonio Marcheselli. L’arco temporale esaminato dall’autrice comprende un ultimo segmento che data dal 1815, quando infine lo Stato Pontificio, ripreso il controllo politico, seppe muoversi con equilibrio, evitando di smantellare nella sostanza (pur intervenendo con diversi riassetti formali) quanto era stato riorganizzato negli anni precedenti. La Chiesa agì con una certa lentezza, considerato che solo negli anni 1825-1826 fu rinnovata la legislazione in materia di stampa e di tutela della proprietà letteraria. Le nuove norme emanate da Leone XII prevedevano, tra l’altro, un ritorno alla privativa editoriale per tutti i libri di testo delle classi elementari, stavolta in favore dell’Ospizio apostolico di San Michele a Ripa a Roma, con validità per tutto lo Stato Pontificio. Ciò finì indubbiamente per ridurre l’iniziativa imprenditoriale dei librai bolognesi, i quali peraltro erano stati abilmente in grado di riposizionarsi rapidamente, in seguito alla situazione politica determinatasi per effetto delle decisioni di Vienna. Reatti completa questa parte del libro tratteggiando, accanto agli editori e tipografi (tra i quali emergono nuovi protagonisti, come Annesio Nobili), alcune interessanti figure di autori attivi ‘fra banchi e tipografie’ nella prima metà dell’Ottocento: insegnanti delle Scuole pie come Gaetano Atti o Filippo Conventi, oppure maestri/letterati operanti soprattutto in scuole private, come Camillo Minarelli.
Non poco merito, infine, deve tributarsi all’autrice per avere redatto, mediante utili appendici al suo volume, quelli che possiamo considerare dei veri e propri ‘annali’ tipografici dell’editoria scolastica bolognese nel periodo considerato: le edizioni censite (alcune rarissime) sono opportunamente distinte per officina tipografica e sono presenti preziose informazioni sulla localizzazione degli esemplari rinvenuti.
Completano l’opera l’indice dei nomi, in cui sono posti in particolare evidenza nomi e denominazioni sociali dei professionisti del libro attivi a Bologna nel periodo considerato, e un sintetico quanto pertinente apparato iconografico. Si nota l’assenza di una lista finale di riferimenti bibliografici, ma intuiamo che ciò vada letto come chiaro segnale del fatto che il volume è stato concepito e sviluppato percorrendo un terreno poco battuto dalla storiografia e meno ancora dagli storici italiani del libro (con poche eccezioni). C’è dunque da sperare, come fa Paolo Tinti nella sua documentata postfazione, che l’autrice voglia ulteriormente addentrarsi nella geografia italiana del libro per la scuola a cavallo tra Sette e Ottocento, anzitutto mediante opportuni confronti con la situazione delineatasi negli altri grandi centri ricompresi nel Regno italico, così come sarebbe oltremodo interessante (quanto impegnativa) una comparazione con il quadro legislativo coevo sull’istruzione pubblica in alcuni paesi europei viciniori (Austria, Francia, Spagna), per saggiarne in parallelo gli effetti sullo sviluppo dell’industria editoriale. Nel frattempo, condividiamo il giudizio di Tinti secondo cui, in vista di approcci storici che ambiscano ad affrontare dimensioni più vaste, gli studi italiani sull’editoria scolastica dovranno d’ora in avanti necessariamente «tornare alle pagine di questa storia particolare, non tanto per il suo carattere esemplare ma per la seria e documentata, e pure appassionata, riflessione che ne pone le fondamenta» (p. 236).

Domenico Ciccarello
Università degli studi di Palermo


Mariangela Donà (1916-2017): scritti, ricerche, testimonianze: “perché il mondo deve sapere...”, a cura di Ottavio Beretta. Genova: De Ferrari, 2020. 2 vol. (XIII, 260 p.; XXII, 404 p.): ill. (Musica e teatro). ISBN 9788855031264.

Mariangela Donà, musicista dotata di orecchio assoluto e musicologa, conferenziera, bibliotecaria, raffinata traduttrice dal tedesco, socia fondatrice di ben tre associazioni in campo musicologico e biblioteconomico (Società italiana di musicologia, Associazione per l’Ufficio ricerca fondi musicali, IAML Italia - Associazione italiana delle biblioteche, archivi e centri di documentazione musicali), colta e capace di attirare a sé giovani collaboratori e studiosi alle prime e ‘seconde’ armi per indirizzarli nell’arduo mondo della ricerca in musica, lascia in questo ampio volume in due tomi una testimonianza sia biografica, attraverso la fedele ricostruzione di Ottavio Beretta, sia scientifica, tramite la raccolta dei suoi scritti inerenti alla musica già usciti in separate sedi, ovvero ancora inediti.
Inutile dire che il suo nome è parte della storia della bibliografia musicale italiana, soprattutto in quanto collaboratrice di Claudio Sartori nella fondazione dell’Ufficio ricerca fondi musicali italiani di Milano, che a sua volta diresse per lunghi anni, per non parlare della sua ampia attività internazionale come membro e referente italiano di due delle quattro ‘R’ – RILM (Répertoire international de littérature musicale) e RIdIM (Association répertoire international d’iconographie musicale) – oltre che per molti anni rappresentante italiana della IAML (International association of music libraries) e attiva partecipante nei numerosi convegni di questa organizzazione in Italia e all’estero. I particolari della sua lunga esistenza sono stati raccolti ed evidenziati dal curatore nel primo volume di questo ampio lavoro, insieme a immagini e testimonianze di amici e collaboratori che la conobbero, e in varia misura le furono vicini, mentre nel secondo volume sono stati pubblicati una parte dei suoi scritti (1942-2013), preceduti da un elenco cronologico di questi ultimi a cura di Ottavio Beretta (p. VII-XVIII) e dall’elenco delle voci apparse a sua firma su diversi dizionari ed enciclopedie, a cura invece di Maurizio Tarrini (p. XIX-XXII).
Il primo volume dell’opera si apre con la sua biografia. Allieva di Antonio Banfi, con cui si laureò all’Università di Milano in filosofia con una tesi in estetica della musica, e del cui ricordo aveva mantenuto straordinaria memoria, Mariangela Donà conobbe e frequentò intellettuali e musicisti diversi e tra questi ebbe come caro amico fin dall’infanzia il musicologo Luigi Rognoni. Più volte lei stessa mi parlò del suo legame di amicizia con Rognoni e la sua famiglia; tramite lui ebbe modo di conoscere personalità della musica e tra questi la vedova di Alban Berg, che Mariangela incontrò proprio nel salotto di casa Rognoni. Grazie al lavoro storico preciso e rigoroso di Ottavio Beretta, che unisce al racconto le testimonianze fotografiche di lettere, documenti, diversi appunti manoscritti, è stato possibile ripercorrere la biografia di Donà attraverso i suoi studi, le iniziative musicali e inoltre la sua attività di bibliotecaria alla Braidense e – per poco tempo – anche alla Biblioteca universitaria di Messina, oltre che di studiosa di estetica e bibliografia musicale di rilievo, sempre attiva in Italia e all’estero. Il primo volume, ricostruisce anche alcuni dei punti salienti del suo lavoro: il secondo capitolo dedica ampio spazio alla storia dell’Ufficio ricerca fondi musicali di Milano. Il terzo capitolo è invece destinato a un’altra delle sue più importanti collaborazioni, quella cioè con l’Associazione Musica rara di Milano, che Beretta riassume come una collaborazione molteplice fatta di riscoperte di composizioni antiche, scelta e trascrizione della musica, edizione e inoltre redazione di programmi di sala per l’associazione stessa (p. 151). Alcuni di questi programmi sono stati pubblicati in coda al primo volume dell’opera.
Gli scritti di Donà, pubblicati nel secondo volume, rispecchiano i suoi molteplici interessi nel campo della musicologia, bibliografia e biblioteconomia musicale, delle fonti musicali e anche dell’estetica della musica, di cui se ne citano, a titolo esemplificativo, solo due. Nel 1985 aveva tradotto e curato per l’editore Discanto un volume di testi dello scrittore romantico tedesco E.TH.A. Hoffmann, del quale è riproposta l’introduzione (p. 263-273). L’anno successivo, nel 1986, uscì l’edizione musicale delle Pièces modernes pour le clavecin di Carlo Monza (1696 ca.-1739), a cura della stessa Donà e di Lorenzo Ghielmi, ove la studiosa ebbe modo di rivelare uno dei numerosi casi di plagio musicale settecentesco che vide protagonista postumo Giovanni Battista Pergolesi: a quest’ultimo infatti erano state attribuite composizioni in realtà dello stesso Carlo Monza senior (p. 277-288).
Con l’auspicio che la biografia di Mariangela Donà possa trovar posto nel Dizionario bio-bibliografico dei bibliotecari italiani del xx secolo <https://www.aib.it/aib/editoria/dbbi20/dbbi20.htm>, questo duplice volume che ne riassume la vita e l’opera, le idee e i molteplici interessi, costituisce la principale ed efficace prova della sua rilevante attività di bibliotecaria e studiosa di musica. Al di là di tutto, resta in chi l’ha conosciuta, l’esempio e la testimonianza di una personalità, ancora in tarda età, tenace e indomita.

Carmela Bongiovanni
Conservatorio “Niccolò Paganini” di Genova


Maria Stella Rasetti, Come raccontare in modo efficace la tua biblioteca. Milano: Editrice bibliografica, 2020, 80 p. (Library toolbox; 42). ISBN 9788893572095 (cartaceo); 9788893572569 (e-book: ePub).


Anna Busa, Come facilitare l’incontro con i pubblici della biblioteca. Milano: Editrice bibliografica, 2020, 88 p. (Library toolbox; 38). ISBN 9788893571791 (cartaceo); 9788893571791 (e-book: ePub).

Catturare l’attenzione dei pubblici nelle biblioteche rimane ancora laborioso in paesi che, come il nostro, fanno i conti con bassi indici di lettura rispetto alla media europea (si vedano ad esempio i dati AIE 2020). L’attrattività dell’‘infosfera’ e la consuetudine alla disintermediazione dei cittadini rispetto alle fonti destabilizzano anche quelle relazioni di prossimità che una volta facilitavano i monitoraggi di tipo longitudinale.
I libri di Anna Busa e Maria Stella Rasetti colgono gli indizi di questa recessione e stimolano verso l’accrescimento dei pubblici attraverso il superamento di quei pregiudizi e stereotipi di cui si è ancora un po’ tutti ‘portatori asintomatici’.
Nel volume Come raccontare in modo efficace la tua biblioteca Rasetti individua nella qualità e nella personalizzazione dei servizi, più che nella loro quantità, i postulati della comunicazione pubblica efficace. La teoria degli stakeholder insegna come non si possano usare le stesse parole e gli stessi toni per tutte le platee, né il pubblico va ingannato con ‘strumenti d’assalto’. La comunicazione etica rimane un dovere sociale. È questo uno dei punti su cui l’autrice entra in accordo ideale con Anna Busa, specialista di marketing culturale: per entrambe si può allentare il lavoro di segmentazione dei target e operare invece con altri sistemi volti a una crescente empatia e coinvolgimento delle persone.
Ritornando ai suggerimenti di Rasetti, quasi tutto il core business dell’azione bibliotecaria non possiede ‘la caratteristica saliente della notiziabilità’. La destrezza sta nel trasformare senza infingimenti i non-eventi in eventi, l’ordinario in storie da raccontare tramite i social network, le vetrine tematiche o la disposizione di oggetti imprevisti.
È il criterio di contrapposizione che candida la biblioteca allo stupore e alla sua attrattività. Né vanno dimenticati i colleghi che con le loro microstorie dietro le quinte alimentano anch’essi un ‘capitale narrativo’ da considerarsi come «qualcosa di più profondo e autentico dello storytelling a cui ci hanno abituato le imprese emozionali del capitalismo odierno»(p.58). Se si dà voce a sé stessi, lo si fa infatti non per un personal branding, ma per il ruolo sociale di «agenti attivi del miglioramento della vita».
Anna Busa, nel suo volume Come facilitare l’incontro con i pubblici della biblioteca, aggiunge informazioni in linea con Rasetti, facendo però leva non tanto su strumenti di tipo promozionale o motivazionale, ma piuttosto sull’inbound marketing e strategie di tipo controintuitivo. L’autrice rileva come il nomadismo sociale determini nuove forme di aggregazione e incoraggi a passare dai servizi ‘per’ gli utenti ai servizi ‘con’ gli utenti in un’ottica di marketing umanistico. Gli utenti non sono inquadrabili come consumatori o scontati destinatari di servizi, ma contano per i loro valori, le loro opinioni e abitudini. Se il target è un obiettivo idoneo per le analisi quantitative, le personas lo diventano per le analisi qualitative e comportamentali. A questo occorre aggiungere il design thinking, decisamente più composito, che richiede un reiterato approccio pratico secondo il principio per cui «l’innovazione è soprattutto uno stato d’animo» (p. 35), sempre nell’obiettivo di ampliare ‘l’orizzonte di interlocuzione’.
In conclusione entrambe le autrici affrontano la mancanza di profondità relazionale, una delle cause di allontanamento dei pubblici dalle biblioteche: Rasetti lo fa incentivando in particolare le cosiddette soft skills e le piccole opportunità di un quotidiano che cambia, mentre Busa pone l’accento sulle hard skills, competenze tecniche tangibili e spesso controintuitive. Entrambe offrono strumenti per la resilienza che, se aggiunti a un avveduto lavoro di squadra, incrementano il grado di autonomia e di flessibilità del professionista.

Viviana Vitari

Biblioteca comunale “Lanfranco da Albegno” di Treviolo, Rete bibliotecaria bergamasca


Fabio Venuda, Antonella Biscetti, Come realizzare biblioteche scolastiche efficaci. Milano: Editrice bibliografica, 2020. 88 p. (Library toolbox; 37). ISBN 9788893571692 (cartaceo); 9788893572552 (e-book: ePub).


Luigi Catalani, Come educare al sapere libero nella biblioteca scolastica. Milano: Editrice bibliografica, 2020. 74 p. (Library toolbox; 36). ISBN 978893571265 (cartaceo); 9788893571647 (ebook: ePub).

Entrambi i libri presi in esame, sebbene con obiettivi diversi, si fanno portavoce di un bisogno impellente dell’istruzione italiana: la necessità della biblioteca scolastica, del bibliotecario scolastico e di un sistema educativo integrato, in cui insegnanti e docenti bibliotecari cooperino in maniera sinergica per dare vita a quel long life learning project di cui tutti gli studenti e coloro che sono impegnati nel mondo scolastico dovrebbero essere i protagonisti.
Il volumetto di Venuda e Biscetti rende bene l’idea di questo bisogno insoddisfatto fin dalla citazione iniziale tratta da Le Biblioteche scolastiche di Antonio Bruni, che già nel 1872 esprimeva l'esigenza che ogni istituto scolastico fosse fornito di una biblioteca che «dev’essere il completamento della scuola» (p. 7).
Iniziando con il descrivere il panorama delle biblioteche scolastiche (BS) italiane, il loro stato e come la loro presenza abbia influenzato i risultati didattici, Venuda fa un breve excursus storico delle proposte politiche che, a partire da fine Ottocento e fino ai giorni nostri, hanno cercato di normare e sostenere economicamente le biblioteche nelle scuole. Quello che emerge è una discontinuità di intenzioni e di atti, soprattutto finanziari, che hanno portato a un panorama contemporaneo di ‘piccole e povere’ biblioteche inadatte a soddisfare i bisogni della scuola e dei suoi utenti, a parte alcune rare eccezioni. Tutto ciò non ha di certo favorito la nascita di una percezione nei docenti della biblioteca scolastica come ‘laboratorio multidisciplinare’, come luogo dove l’information literacy, che coinvolge ogni campo della conoscenza, venga esplorata e appresa.
La parte cruciale del libro è rappresentata dai dieci punti essenziali per creare o riavviare una BS: un’analisi delle ragioni per cui allestire la biblioteca, come arredare gli spazi, quali sono le risorse digitali di qualità e soprattutto come scegliere i software di gestione. Consigli pratici a cui seguono in maniera decisa le necessarie quattro manovre politiche che devono verificarsi affinché queste istituzioni non rimangano pure utopie.
Biscetti descrive, quindi, come il ‘fare rete’ sia il punto nodale su cui fare leva in modo che le biblioteche scolastiche, cooperando, diventino punti di riferimento nell’intero territorio, descrivendo l’esperienza di TorinoReteLibri (una rete di biblioteche scolastiche della città e dell’area metropolitana di Torino). Così facendo le biblioteche possono condividere risorse, collaborare, creare progetti didattici e culturali e, cosa molto importante in un settore poco considerato dagli investimenti pubblici, risparmiare. In sostanza il testo tira le somme su ciò che si è fatto finora e indica la strada per andare ben oltre l’attuale povera realtà.

Il volume di Luigi Catalani è un manuale a uso di docenti e bibliotecari sulla creazione di una biblioteca che in Italia purtroppo definiremo ‘d’avanguardia’: uno spazio transdisciplinare dove bibliotecario scolastico e insegnante trovano la strada per trasmettere quella digital information literacy di cui gli studenti hanno bisogno.
L’autore indica Wikipedia come strumento d’eccellenza per educare al sapere libero: «la più grande impresa di costruzione collaborativa della conoscenza intrapresa nella storia dell’umanità» (p.21), e ci mette di fronte ad una scelta di principio. Insegnare ai nostri ragazzi che cos’è il sapere libero, ovvero l’insieme di fonti libere da copyright e che, seguendo i principi e le regole delle licenze Creative Commons (CC), sono utilizzabili da tutti, significa insegnare loro la cooperazione e la condivisione, secondo un principio non solo giuridico ma anche etico. Concetto base di tutto il saggio è che la conoscenza non è più un bene a uso elitario ma qualcosa che deve essere progettato e vissuto insieme, in uno scambio virtuoso che generi consapevolezza e capacità critica.
La biblioteca scolastica è il luogo in cui questi insegnamenti trovano la loro collocazione ideale e la sua promozione e valorizzazione potrebbe essere, citando Gino Roncaglia, «la mossa forse più importante per rinnovare il nostro sistema educativo» (p. 17).
Catalani descrive come l’utilizzo di Wikipedia e le altre piattaforme da esso derivate abbiano numerosi risvolti didattici da un punto di vista sia concettuale che pratico. La partecipazione alla scrittura enciclopedica assume un valore pedagogico nello spingere gli insegnanti a sostenere il cooperative learning e il peer teaching, richiedendo agli studenti di sviluppare abilità di divulgazione, sintesi e rielaborazione di informazioni. L’autore offre spunti concreti su come utilizzare Wikipedia, partendo dalla riflessione sui suoi ‘cinque pilastri’ e sul concetto di fonte, facendo di questo testo una guida per tutti coloro che necessitino di un punto di partenza per promuovere l’information literacy in un modo finalmente contemporaneo. L’utilizzo di queste risorse digitali non rende il tipico patrimonio della biblioteca scolastica obsoleto. La realizzazione dei progetti ‘wiki’ evidenzia come non esista una dicotomia tra risorse analogiche e digitali, precisando come entrambe queste fonti costituiscano un unicum informativo necessario.
Vengono quindi presentati altri progetti nati dopo Wikipedia che incontrano bisogni diversi, sia dal punto di vista dell’età del discente sia delle specificità disciplinari. Di ogni progetto presentato vengono descritte alcune delle sue possibilità didattiche corredate da esempi di realizzazione da parte di alcuni istituti scolastici. Fanno parte della rosa dei progetti evidenziati, Vikidia, dedicato ai ragazzi dagli 8 ai 13 anni; Wikibooks, Wikiversità e Wikisource, biblioteche digitali di risorse con licenza libera; Wikimedia Commons per la diffusione e l’uso di materiale multidisciplinare; Wikivoyage e OpenStreetMap per la partecipazione attiva degli studenti alla valorizzazione del territorio.
Wikimedia Italia e i suoi progetti, volti a incitare un insegnamento che renda lo studente attivo, partecipe e promotore di un sapere libero, hanno già attirato l’attenzione del Ministero dell’istruzione, dell'università e della ricerca, che ha stipulato con l’associazione un protocollo d’intesa, volto anche alla creazione di corsi di formazione per insegnanti di cui nel saggio si trovano alcuni riferimenti.
In conclusione il libro risulta essere una risorsa fondamentale per bibliotecari scolastici e insegnanti, fornendo utilissimi spunti per un’evoluzione necessaria della didattica, che trovi parte della sua nuova efficacia nella biblioteca scolastica.

Ilaria Buccedi
Early years and elementary library, Rome International School


Leslie Howsam, Vecchi libri e nuove storie: introduzione agli studi sulla cultura del libro e della stampa, traduzione di Roberta Cesana. Milano; Udine: Mimesis, 2019. 132 p. (Libricolae; 7). ISBN 9788857546971 (cartaceo); 9788857559834 (e-book: ePub).

Pubblicato ora in Italia da Mimesis nella collana “Libricolae diretta da Giorgio Montecchi, con il contributo dell’Università degli studi di Milano, questo agile volumetto, la cui edizione originale è datata 2006, offre un’interessante opportunità di riflessione su quello che per circa vent’anni, tra il 1980 e il 2000, fu noto in ambito anglosassone come The Darnton debate, dal fortunato scritto di Robert Darnton del 1982, tradotto in italiano nel 1994 con il titolo Che cos’è la storia del libro. Proprio questo titolo è diventato nel frattempo un meme tra gli esperti, molto citato e adottato da altri autori, come il recente What is the history of the book di James Raven uscito nel 2018 che continua, e idealmente aggiorna, l’opera di Howsam. <
Gli studi di storia del libro nell’ultima decade hanno visto, infatti, un’accelerazione lungo la direttrice interdisciplinare auspicata dall’autrice: a suo tempo Howsam ne affermava la necessità, ancorando tuttavia la storia del libro alle aree degli studi storici, della bibliografia e della letteratura (o critica letteraria) di cui lamentava l’inesorabile frammentarietà e incompletezza.
Il testo non rende dunque giustizia alla ricerca più recente che da ogni angolazione disciplinare e per tradizione ha attratto studenti e lettori non specialisti e confermato una crescita di interesse per il soggetto. Ricercatori di varia provenienza sono sempre più indifferenti a barriere disciplinari e attenti, invece, a documentare aspetti particolari, speciali e di immenso valore dell’esperienza umana di cui la storia dei libri è testimonianza: da Too much to know della studiosa di Harvard Ann Blair all’italiano La fabbrica delle parole di Andrea De Pasquale, per citare due testi che personalmente ho apprezzato molto.
La mancanza di aggiornamento indebolisce complessivamente non poco il peso che quest’opera può avere oggi come introduzione allo studio della materia per lo studente universitario italiano. Ciò nonostante si presta ad essere uno strumento didattico e storiografico molto accurato per chi voglia considerarlo come tale: la stessa autrice avverte nella prefazione a questa edizione italiana del 2019 che la spinta propulsiva di numerosi progetti delle digital humanities, animati da un approccio socio-tecnico, ha ulteriormente affermato la natura interdisciplinare, globale e transnazionale della storia del libro.
Lo sguardo di insieme del primo e del secondo capitolo introduce e spiega lo schema semplice ma efficace alla base dell’intero lavoro: nella triangolazione tra letteratura, storia e bibliografia, Howsam vede emergere feconde collaborazioni disciplinari e aree di indagine. Per esempio, la contaminazione di letteratura e bibliografia dà origine alla sociologia dei testi (la corrente di Donald F. McKenzie, molto attuale oggi con la proliferazione di ricerche sul paratesto) e agli studi sulla lettura, mentre la storia del commercio librario scaturisce dall’incrocio tra storia e bibliografia e gli studi sulla cultura si collocano all’incontro di storia e letteratura.
Nel terzo capitolo troviamo una sintesi puntuale e ragionata delle idee di Darnton (1982), Adams e Barker (1993), McDonald (1997) e Secord (2000) che hanno espresso concetti contrapposti nell’ideale dibattito sul ‘posto del libro nella storia’ per circa due decadi: privilegiando chi l’industria della comunicazione, chi la tradizione degli studi bibliografici, chi la critica letteraria e la storia della divulgazione della scienza, questi autori sono responsabili di un livello di rappresentazione concettuale dell’oggetto di studio che merita, secondo l’autrice, la definizione di ‘modelli’.
Dov’è il libro nella storia? è la domanda ricorrente che dà il titolo al quarto capitolo, forse il più interessante per gli storici, dove ci si potrebbe aspettare, appunto, un approfondimento storiografico. Invece, al contrario, l’autrice colloca qui la problematica della comunicazione nelle culture del passato con riferimenti a Innis, McLuhan, Johns, Chartier. Le considerazioni sul dibattito aperto nell’area dei media e degli studi sulla cultura continuano infine nel quinto capitolo, dove trovano spazio le riflessioni di Eisenstein, McKitterick e Marcus.
In una così densa summa di riferimenti anglosassoni fa piacere trovare citati, seppure solo in pochi paragrafi, Guglielmo Cavallo (unico nome italiano) e altri che hanno studiato le trasformazioni della lettura, della scrittura e dell’editoria nella tradizione francese delle Annales, radicata negli studi storici ma con una impronta interdisciplinare, cara a molti in Italia. Non a caso, si ricorderà che l’introduzione di Armando Petrucci alla traduzione, del 1977, de L'apparition du livre di Febvre-Martin (uscito nel 1958) si intitolava – già allora, e molto prima di Darnton – Per una nuova storia del libro. Lascia pertanto una certa amarezza il fatto che un testo introduttivo promosso da un’università italiana non includa autori come Marc Bloch o Carlo Ginzburg, a proposito di riflessioni sulla storia del libro in rapporto a campi più ampi degli studi storici contemporanei come storiografia, microstoria, storia locale o della letteratura popolare: Il formaggio e i vermi fu pubblicato nel 1976 e sospetto abbia avuto una grande influenza sugli studi transnazionali di sociologia dei testi di McKenzie nella decade successiva. Così pure lo studente di bibliografia potrebbe trovarsi disorientato dall’assenza di autori come Whittaker, Katz, Totok e Weitzel ma anche di un italiano di rilevanza internazionale come Luigi Balsamo, la cui opera tradotta in inglese e spagnolo negli anni Novanta, La bibliografia: storia di una tradizione (Sansoni, 1984), potrebbe egregiamente considerarsi pionieristica della prospettiva interdisciplinare.
L’autrice sembra aver escluso dalla sua indagine la storia della stampa e dell’editoria come attività produttive: la prospettiva economica è infatti considerata in modo marginale, solo nel contesto degli studi sulla comunicazione del quarto capitolo. Questa appare come una lacuna non trascurabile, specialmente oggi che l’intero comparto dei media e della stampa attraversa straordinarie trasformazioni strutturali e tecnologiche: l’area degli studi economici potrebbe apportare alla storia del libro, non solo per quanto riguarda quello moderno ma anche per la comprensione dei circuiti del libro antico, una dimensione profondamente educativa, abituando lo studente a considerare gli aspetti di questa disciplina direttamente in relazione con il mondo del lavoro.
Rispetto all'edizione originale, questa italiana presenta note bibliografiche a piè di pagina anziché in un capitolo finale: la scelta facilita la lettura, considerato che la pubblicazione consiste di fatto in un’originale bibliografia ragionata. Non altrettanto felice, vista l’estrema densità del testo che suggerisce costantemente una puntigliosa revisione di idee e nozioni, è invece la riduzione dell’indice analitico inglese, inclusivo di soggetti, al solo indice dei nomi.
Il testo è corredato anche da una comprensiva e utile bibliografia finale. La traduzione è quasi sempre scorrevole e precisa tranne che in poche occasioni: tra queste, il titolo del quinto capitolo reso, ottimisticamente, con Osservazioni interdisciplinari mentre il testo originale si limita a parlare, più esattamente, di ‘cross disciplinary observations’: la storia del libro a metà degli anni Duemila era ancora pervasa da tensioni e contrasti tra specialisti, non a caso riflessi in cautele linguistiche non trascurabili.
In conclusione, il volume potrebbe utilmente essere utilizzato per un ideale corso di bibliografia critica, di alfabetizzazione bibliografica o di media e information literacy, da proporre agli studenti con l’ausilio di istruzioni per l’uso ed esercizi per ricerche supplementari. In fin dei conti, non c’è niente di più istruttivo che riscrivere la storia infinita delle storie del libro.

Brunella Longo
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Lorenzo Baldacchini, Il libro antico: storia, diffusione e descrizione, 3. ed. Roma: Carocci, 2019. 281 p.: ill. (Studi superiori; 1168). ISBN 9788843096091.

A distanza di diciotto anni dall’ultima edizione de Il libro antico, a cadenza quasi ventennale per ciascuna delle edizioni di questa fortunata opera, Baldacchini presenta una terza edizione, stavolta nella collana “Studi superiori” della Carocci, dedicata all’amico e collega prematuramente scomparso Giuseppe Mazzocchi, testimone delle prime due edizioni dell’opera e fin da allora auspice (col senno di poi, profeta) di una terza. Si tratta di un’edizione completamente rivista e aggiornata in base ai nuovi e molteplici scenari configuratisi sul tema in questi anni, in collegamento ideale (e non solo) con La descrizione del libro antico edito nel 2016 per Editrice bibliografica. Segno del cambiamento anche la scelta per questa nuova edizione di un sottotitolo, che corrisponde alla ripartizione dell’opera in tre parti: la storia, la diffusione e la descrizione del libro antico, inteso come libro antico a stampa (hand-printed book).

Baldacchini non ha certo bisogno di presentazioni, men che meno in riferimento al tema in oggetto. Questo suo ultimo lavoro si articola in undici capitoli, corredati da utili riferimenti bibliografici a piè di pagina, completati da una Premessa alla nuova edizione, un Congedo, da un Indice dei nomi e dai Riferimenti bibliografici finali (parte molto ricca e consistente, di 27 pagine).

La voce ironica dell’autore cattura soprattutto nelle parti topiche della Premessa e del Congedo. Nella prima è infatti dichiarata l’intenzione (di sicuro apprezzata dal lettore) di risparmiargli il calcolo delle percentuali delle parti variate o invariate rispetto a precedenti edizioni o sue pubblicazioni.
Le due parti iniziali (storia e diffusione) coincidono essenzialmente con il primo (Una storia di lunga durata) e il secondo capitolo (Il libro dell’ancien régime). Nel primo si accennano i precedenti dell’Estremo Oriente (Cina, Corea), altra novità di questa edizione; si propongono in nuova luce gli esordi del libro antico che sono, contrariamente al credo comune di un ingenuo lettore, all’insegna della continuità più che della rottura e viene altresì approfondito il vero ruolo dell’inventore Gutenberg. Nel secondo viene tratteggiato un primo approccio a questa «rivoluzione inavvertita» (p. 43), con riferimenti al contesto tecnologico, storico, politico ed economico (per esempio relativamente ai costi e ai trasporti).
La terza parte (descrizione), ben più consistente, coincide con il resto dei capitoli. Nel terzo viene introdotta la parte più tecnica – la fabbricazione del libro antico – resa agevole dall’apparato iconografico di accompagnamento. Di particolare interesse il capitolo quarto (Un universo in parte ancora da esplorare) che, oltre a ben spiegare concetti di base per la moderna bibliologia come copia ideale, impressione, emissione e stato, prospetta anche nuove strade di ricerca, come il nuovo filone di studi legati alla provenance; presenta anche nuovi modi di considerare il libro antico, che tale diventa, oggetto non solo di preservazione ma anche di conservazione, anche per effetto dello sguardo della società su di esso.
Nei capitoli successivi vengono analizzati i principali fattori della nascita (nonché attuale esistenza) del libro: il lavoro intellettuale, il capitale, il lavoro manuale, il pubblico.
Il capitolo quinto (Gli uomini) è dedicato alle figure dell’autore e dell’editore/tipografo, il successivo (Il paratesto) analizza alcuni elementi del ‘peritesto editoriale’ (frontespizio, colophon, legatura, copertina, illustrazioni, dedica), sottolineando al contempo una carenza di studi sul fenomeno delle copertine editoriali stampate in Italia; un capitolo a sé stante è il settimo (La dedica) destinato all’unico elemento paratestuale che è anche un microgenere letterario: la dedica o epistola dedicatoria. Il capitolo ottavo (Privilegi, censura, copyright) delinea i passaggi fondamentali nella protezione prima dell’investimento finanziario da parte dell’editore, poi delle idee e del lavoro intellettuale dell’autore. Il nono (Non solo libri) estende lo sguardo anche a quelli che potrebbero essere definiti ‘materiali non librari’.
Di notevole interesse i due capitoli finali: il decimo (La legibility) pone al centro la dimensione della lettura, dell’uso del libro da parte del lettore, tanto più interessante quanto più difficile da indagare, mentre l’ultimo (Parole conclusive sulla descrizione) presenta le problematiche connesse alla descrizione del libro antico, con distinzione degli scopi dei cataloghi e delle bibliografie tratteggiando la storia dell’interesse, degli studi, dei dibattiti e delle normative riguardanti la descrizione e catalogazione del libro antico, con particolare riguardo all’Italia (SBN(A) e REICAT). Di grande aiuto l’apparato iconografico, come per esempio la presentazione sinottica della trascrizione facsimilare di un frontespizio e della sua descrizione in SBN. In quest’ultima parte vengono sottolineati ulteriori spunti di ricerca, da quello relativo all’assenza di studi sul ‘genere’ della pubblicazione a quello riguardante la necessità di un ulteriore livello di catalogazione, quello per le raccolte omogenee di libri antichi, preliminare alla consueta catalogazione delle singole parti della raccolta.
A chiusura del testo, Baldacchini lascia la sua impronta (per restare in tema) ironica nel Congedo, valido sostituto delle consuete ‘conclusioni’, non previste in questa pubblicazione a motivo, spiegato da lui medesimo, della natura stessa di questo lavoro. L’auspicio, in stile agée proprio come in un libro antico, si articola in una climax di cinque ipotesi sugli esiti di quest’opera per il lettore e, parallelamente, per il suo autore, il quale, con la citazione manzoniana finale «non si è fatto apposta», prega di voler credere alla sua non intenzionalità dell’eventuale noia procurata (ipotesi remota, vien subito da dire).
In conclusione, questa ricca pubblicazione è a mio avviso una rigorosa ma piacevole narrazione, che presenta nei suoi contenuti e destinatari un’apertura, un respiro che vanno oltre le precedenti edizioni e anche oltre il consueto concetto di ‘manuale’: può essere di aiuto nella didattica, ma anche nella ricerca, a motivo dei suoi generosi spunti sui nuovi percorsi di indagine.
Nella mia prospettiva di bibliotecaria accademica, in permanente dialogo con la mission dell’università, questa pubblicazione sembra accogliere e far proprie, accanto alle tradizionali intenzioni didattiche e di ricerca, anche la terza missione: quell’apertura alla società e al territorio, oggi tanto attuale (accanto a una prefigurata ‘quarta’), qui rappresentata da un’impostazione coinvolgente anche per un lettore semplicemente curioso.
A fine lettura la mia prima impressione è stata quella di un percorso fluido, alla (ri)scoperta della ricchezza, materiale e immateriale, nonché della complessità, del libro antico a stampa, spesso accompagnato da inediti e originali punti di vista. Il lettore potrà sentirsi condotto a sicuri approdi ma anche stimolato a ulteriori domande e ad avventurose partenze, alla scoperta di quanto c’è, e ancora ci sarà, di nuovo sul libro antico e sulla sua ‘bellezza tanto antica quanto nuova’.

Fiorenza Ciaburri Scinto
Biblioteca di Area umanistica, Università di Foggia


Angelo Maria Bandini in viaggio a Roma (1780-1781), a cura di Fiammetta Sabba. Firenze: Firenze University press, 2019. 209 p.: ill. (Biblioteche & bibliotecari; 3). ISBN 9788864539621 (cartaceo); 9788864539638 (e-book: PDF).

Non è necessario ricordare quanto le edizioni critiche dei racconti di viaggio risultino utili agli storici o quanto grande sia il loro contributo alla storia delle rappresentazioni, a quella delle pratiche materiali dello spostamento e del soggiorno temporaneo nelle città di Antico Regime e alla storia sociale e dei luoghi di sapere, spesso descritti con accuratezza e perspicacia dai viaggiatori. I diari dello studioso e bibliotecario fiorentino Angelo Maria Bandini (1726-1803), che viaggia in Lombardia e in Piemonte nel 1778, poi a Roma e a Napoli nel 1780 e nel 1781, non fanno eccezione. Conservati presso la biblioteca Marucelliana di Firenze (mss. B.I.16 e B.I.18), sono già stati oggetto di curatele parziali. Fiammetta Sabba fornisce qui un’edizione critica della parte romana, corrispondente ai soggiorni che Bandini effettua dal 30 ottobre 1780 al 14 gennaio 1781 e poi, di ritorno da Napoli, dal 7 aprile al 4 maggio 1781. L’edizione, molto accurata, è corredata da tre capitoli introduttivi, da un ricco apparato di note, da appendici iconografiche e da un prezioso indice dei nomi e delle collezioni citate dal bibliotecario viaggiatore.
Sono molte le piste che questa edizione invita a seguire. Ci si limiterà a presentarne tre. La prima riguarda le scritture del viaggio e la materialità del loro supporto – un aspetto, questo, che altre edizioni recenti hanno analizzato con rinnovata attenzione: si pensi alle Éphémérides romaines (14 mars-14 octobre 1775) di François de Paule Latapie, pubblicate a cura di Gilles Montègre (Classiques Garnier, 2017). A differenza del Diario di viaggio in Piemonte e Lombardia di Bandini (ms. B.I.16), copia ben curata e pronta per una pubblicazione mai avvenuta, il Diario di viaggio a Roma… (ms. B.I.18) ha l’aspetto di un work in progress. Redatto su pagine bipartite, presenta molte note marginali (integrate con chiarezza nel testo dalla curatrice) che permettono di cogliere il lavoro sul testo e le precisazioni aggiunte, in alcuni casi, parecchi anni dopo. Bandini eccelle nell’arte della formula post mortem, di spietata franchezza: chi ha dimestichezza col personaggio vi riconoscerà i giudizi perentori riportati sulle cartelle della sua corrispondenza, già studiati da Maria Monica Angeli (Ritratti di contemporanei. In: Un erudito del Settecento: Angelo Maria Bandini, a cura di Rosario Pintaudi. Sicania, 2002).
Se il testo è uno strumento di memoria per il futuro, lo è anche per il passato. La narrazione di Bandini è profondamente modellata dai ricordi dei suoi precedenti viaggi (le biblioteche frequentate negli anni della formazione, le vecchie conoscenze che rivede a Roma), che la rendono simile a un palinsesto. Il racconto di viaggio dialoga con il racconto non scritto della memoria, ma anche con l’universo delle scritture del bibliotecario. La redazione quotidiana, probabilmente serale e scandita dalla data del giorno, menziona molte altre pratiche di scrittura, prima fra tutte quella legata alla corrispondenza, che occupa una parte delle sue giornate. Le copie di iscrizioni, di titoli di opere, le citazioni precise fanno pensare che il viaggiatore raccogliesse appunti e note nel corso delle sue visite. I molti biglietti, lettere, fascicoli a stampa o manoscritti, le note delle spese sostenute raccolti tra le pagine del diario (e accuratamente descritti in appendice, p. 158-161 e 166-173) finiscono per farne un oggetto composito, un ‘tesoro’ del viaggio.
In secondo luogo, come fa giustamente notare la curatrice del volume, il racconto di Bandini mette in scena un tableau vivant dei modi di socialità della Roma dell’epoca: vi si incontrano e vi si incrociano il mondo delle cerimonie ecclesiastiche, quello dei salotti dell’alta società e quello delle istituzioni culturali. L’estrema attenzione rivolta dal bibliotecario alla composizione delle collezioni, allo stato dei manoscritti, alla loro circolazione e alle annotazioni degli studiosi ne fa una fonte di prim’ordine per la storia delle biblioteche romane, come testimoniato dall’apparato di note. Al di là degli elementi di storia dell’erudizione, questo racconto permette anche di proseguire la riflessione sulle biblioteche come luoghi di visita, di scambio e di lavoro intellettuale, aspetti già evidenziati da un’altra opera della stessa Sabba (Viaggi tra i libri. Serra, 2018). Particolarmente interessanti sono le osservazioni che Bandini riporta sull’apertura – o meglio, sulla non apertura – al pubblico delle biblioteche romane, sullo stato dei cataloghi, sullo zelo professionale dei bibliotecari (o, a contrario, sul bibliotecario della Barberiniana, che «con dieci scudi di provvisione, ed una comoda abitazione, [...] la tiene aperta solamente il giovedì», p. 74), considerazioni che l’indice dei luoghi permette di reperire facilmente.
Il racconto di Bandini potrebbe, infine, prestarsi a una storia delle emozioni del viaggio. La descrizione neutra, precisa e fattuale delle proprie attività alla quale l’abate per lo più si limita non fa che rendere più visibile nella narrazione il manifestarsi di sentimenti più forti. È il caso della sorpresa che questi prova nello scoprire le nuove sale della Biblioteca Vaticana (p. 48) o del dispiacere di dover lasciare le meraviglie di Villa Albani (p. 54): pagine da cui traspare una franchezza che va ben oltre l’ammirazione di convenienza spesso presente nei racconti di viaggio. A tal proposito, il lungo incontro del bibliotecario con papa Pio VI, il 10 dicembre 1780, costituisce uno dei punti culminanti del soggiorno romano (p. 82-86).
Per la ricchezza dei contenuti, questa edizione interesserà dunque lo storico delle istituzioni culturali della Roma moderna così come quello dei viaggi o quello delle scritture della memoria, siano queste itineranti o sedentarie.

Emmanuelle Chapron
École pratique des hautes études, Aix Marseille Université


Francesca Romana Grasso, Primi libri per leggere il mondo: pedagogia e letteratura per una comunità educante. Milano: Editrice bibliografica, 2020. 235 p.: ill. (I saggi; 18). ISBN 9788893572132 (cartaceo); 9788893573368 (e-book: ePub).

Il saggio ha lo scopo di illustrare al pubblico un’interpretazione del mondo dell'infanzia e di chi se ne prende cura in relazione ai libri di qualità destinati ai bambini. In quanto dottore di ricerca in Scienze dell'educazione e studiosa di letteratura per l’infanzia, Grasso offre una visione competente e allargata destinata a insegnanti, operatori, genitori e bibliotecari specializzati nell’ambito del libro rivolto ai piccolissimi e nel suo miglior utilizzo per assisterli nella crescita. Si tratta di una visione fondata sulle più significative esperienze pedagogiche del Novecento diffuse in Occidente e arricchita dalla pratica e dall'esperienza dell’autrice nei servizi per bambini da 0 a 6 anni di varie località dell’Italia centro-settentrionale. Assunto fondamentale è che un progetto di lettura condiviso da un’équipe, o almeno da un soggetto trainante, ha grandi possibilità di essere efficace; dunque non è il caso di scoraggiarsi di fronte a primi cenni di disinteresse. In molte strutture i volumi di qualità vengono custoditi fuori dalla portata dei bambini, mentre quelli a disposizione sono cartonati o rotti: una scelta da mettere in discussione, poiché rivela la sfiducia degli adulti verso le capacità dei bambini e non consente loro di imparare gradualmente a rispettare i libri. Per il proprio sviluppo i piccoli non hanno necessità di sollecitazioni da parte degli adulti: ciò che conta nei primissimi anni è la libertà di movimento, il senso di sicurezza e la ‘co-costruzione’ di una relazione significativa tra bambini e adulti, e il libro può essere un importantissimo veicolo facilitatore di queste dinamiche.
Il testo presenta inizialmente un excursus storico da Pestalozzi a Munari, passando per Itard, Montessori e altre figure ed esperienze che hanno lasciato importanti eredità. Più avanti si concentra sull’integrazione e le buone pratiche nei ‘servizi 0-6 anni’ e nelle biblioteche, ponendo l'accento sugli ambienti costruiti per essere accoglienti e aperti, soprattutto per non intimidire i fruitori, e sull’importanza e la centralità di un’offerta di alta qualità. In particolare il volume evidenzia un messaggio implicito e allo stesso tempo portentoso, che una biblioteca ben organizzata può comunicare ai cittadini, soprattutto quelli in crescita: «hai molti diritti, hai alcuni doveri, se ognuno fa quel che può, le cose funzionano e vinciamo tutti» (p. 87). L’autrice inoltre sottolinea con forza che la competenza e le strategie di comunicazione di un bibliotecario specializzato nella letteratura per ragazzi sono molto complesse e trasversali, e non si possono improvvisare.
La seconda parte del volume è dedicata alla presentazione di una rassegna di titoli con relative note bibliografiche e di autori prestigiosi: tra gli altri Hoban, Komagata, Tullet. È presente una sezione con immagini di copertine corredate di didascalie e bibliografia. I capitoli affrontano tutte le tipologie di libri per la primissima infanzia: da culla, di stoffa, a leporello, con i buchi, con fustellature, da bagnetto, sonori, brulicanti e infine cataloghi ed elenchi di oggetti. Un intero capitolo è dedicato ai libri fotografici, oggetto di un’improvvisa impennata di interesse da quando, nel 2018, hanno fatto il loro trionfale ingresso alla Children's Book Fair di Bologna, sebbene in Francia fossero già ampiamente diffusi. L’ultimo capitolo è dedicato alla grammatica dell’albo illustrato, su cui non c'è bisogno di dilungarsi, vista l'attenzione diffusa che ormai viene riservata a questa tipologia.
Senza dubbio siamo di fronte a un felice e autorevole approfondimento sul tema e a una messa a fuoco puntuale della stimolante e complessa relazione che esiste fra pedagogia e letteratura per l'infanzia, rapporto che contempla un aspetto pratico indispensabile per l’efficacia degli interventi in questi ambiti: i relativi servizi di riferimento.

Alessandra De Luca
Biblioteca centrale ragazzi, Biblioteche di Roma Capitale


Gabriele Sabatini, Visto si stampi: nove vicende editoriali. Trieste; Roma: Italosvevo, 2018. 83 p. (Piccola biblioteca di letteratura inutile; 15). ISBN 9788899028282.

Leggere questa raccolta di brevi saggi mi ha fatto venire in mente i primi versi di una gioiosa canzone di Gianni Togni dei primi anni Ottanta: «Vivi tutte le passioni con gli Oscar Mondadori di qualche anno fa». Perché quasi tutti i libri oggetto di questa raccolta di bei saggi appassionati sono stati pubblicati nella celebre e popolare collana “Oscar” tra il 1962 e il 1980. I nove testi raccolti in questo libretto di Gabriele Sabatini (Premio Cibotto sezione Critica 2019) erano già stati pubblicati nel sito web della rivista culturale online Doppiozero <https://www.doppiozero.com>, e lì ancora oggi possono essere letti, ma assurgono, per volontà dell’editore triestino Italosvevo, a dignità di carta stampata. Stampata ma non rifilata, poiché per leggere il volume il lettore dovrà munirsi di tagliacarte e farsi strada pazientemente tra le pagine intonse del libro. Sabatini sceglie un gruppo di opere emblema della più alta letteratura italiana del Novecento. È un invito alla lettura di testi importanti per la nostra storia culturale; una raccolta che vuole testimoniare, sulla base della solida preparazione e il lungo studio appassionato dell’autore, un modo di ‘fare libri’ molto distante da quello odierno. Libri che oggi difficilmente troveremmo tra le offerte in primo piano sugli scaffali di una libreria e che quindi vale la pena riscoprire. La scrittura di Sabatini ha il merito di ‘stuzzicare l’appetito’ del lettore facendo emergere il contesto particolare all’interno del quale ciascuna di queste opere letterarie venne alla luce. Egli riporta curiosi retroscena che fanno da sfondo all’evento creativo di ognuna, mettendo in luce il ruolo degli editori, come testimonia l’introduzione scritta da Cesare De Michelis, importante protagonista nel panorama dell’editoria italiana, per molti anni alla guida della casa editrice Marsilio e recentemente scomparso. Le vicende che stanno dietro a ciascuno di questi libri sono affascinanti non solo per gli addetti ai lavori, ma lo saranno anche per i lettori tout court; sono storie ricche di aneddoti, come scrive De Michelis: «spesso affidate alla tradizione orale, alle voci di corridoio, se non addirittura alle leggende o ai pettegolezzi, ma proprio per questo anche illuminanti, nel senso che portano alla luce avventure e misteri altrimenti irraggiungibili» (p. 8). Il contesto comune a tutti è quello drammatico della guerra. Lo sfondo è via via quello della Prima guerra mondiale, come per lo scandaloso esordio di Viva Caporetto! di Curzio Malaparte alias Kurt Erich Suckert, oppure della Seconda guerra mondiale, come per la sofferta opera prima Il sergente nella neve di Mario Rigoni Stern; a volte è rappresentato dalle tragiche vicende sociali dell’Italia nel periodo della dittatura fascista come per Il piatto piange di Piero Chiara o Cronache di poveri amanti di Vasco Pratolini; è anche l’avventura coloniale italiana del Tempo di uccidere di Ennio Flaiano, premiato nel 1947 alla prima edizione del Premio Strega, in cui si narra la vicenda, in parte biografica, di un ufficiale dell’esercito italiano in Abissinia nel 1936, un omicida che non verrà mai punito per il suo crimine. Quest’ultima opera è interessante collegarla alla lettura che ne fa in epoca contemporanea la scrittrice italiana di origini somale Igiaba Scego.

Queste Nove vicende editoriali sono consigliate ai bibliotecari che si propongono di promuovere la buona letteratura al pubblico delle biblioteche, perché offrono stimoli per tracciare percorsi di lettura interessanti, con collegamenti anche trasversali ai diversi media: da alcuni di questi titoli sono state tratte pellicole di grande successo alle cui sceneggiature hanno contribuito gli stessi autori: ad esempio il caso di Vitaliano Brancati con Il vecchio con gli stivali/Anni difficili o La ragazza di Bube di Carlo Cassola. Infine una critica: in questo libro manca l’indice dei nomi, che in un testo del genere, ricco com’è di nomi di persona, sarebbe risultato molto utile.

Emiliano Favata
Università degli studi di Palermo


Eric Gill, Saggio sulla tipografia, 2. ed. italiana interamente riveduta dall'editore. Monticello Conte Otto: Ronzani, 2019. 211 p.: ill. (Typographica; 2). ISBN 9788894911152 (cartaceo); 9788887007206 (e-book: ePub).

Il Saggio sulla tipografia (An Essay on Typography) è il contributo teorico sull’arte del lettering e il testamento di una visione etica dell’uomo e degli aspetti tecnici della professione che Eric Gill consegna al mondo anglosassone del XX secolo. La sua analisi esplora il campo della tipografia nella cultura anglosassone e celebra il ruolo dell'artigianato in un’era industriale in cui manualità e meccanicità non possono raggiungere un compromesso efficace.
Nella nuova veste grafica, questa seconda edizione italiana dell’opera a cura di Lucio Passerini, riveduta dall’editore Ronzani e accompagnata dal testo originale inglese (del 1931), offre al pubblico degli addetti ai lavori, e non solo, una riflessione più profonda – ancora oggi illuminante – sul valore del lavoro dell’uomo in una società notevolmente influenzata dal progresso e dalla tecnica.
Allievo di Edward Johnston, tra i protagonisti del rinascimento grafico di quell’epoca, Eric Gill (1882-1940) si avvicina all’arte dell’incisione sostenuto da Stanley Arthur Morison e si afferma come tipografo di grande fama anche grazie a Beatrice Warde, divulgatrice della cultura tipografica in Inghilterra. L’interesse giovanile di Gill è indirizzato ai modelli epigrafici su pietra ed è per questo che Morison affida a lui la creazione di un nuovo carattere tipografico con grazie per la Monotype Corporation, il Perpetua (1925): la scelta di far incidere i punzoni delle lettere a mano dall’incisore Charles Malin prima di ‘incassarli’ nella macchina stampante fu vincente in un momento in cui la meccanizzazione della stampa con le grintose Linotype e Monotype si apprestava a rendere la stampa col torchio a mano una modalità di produzione artistica e di nicchia. Da intagliatore di lapidi Gill diventa presto incisore di iscrizioni su pietra, scultore affermato, artista grafico e, infine, tipografo e disegnatore di caratteri come il Gill Sans (1929), «primo carattere lineare di ampia diffusione modellato sulle proporzioni delle lettere di tradizione umanistica» (p. 17), e il Joanna (1930-1931), dedicato alla figlia e usato per stampare il suo Essay.
Nell’introduzione a questa nuova edizione italiana, Lucio Passarini delinea i tratti essenziali della biografia dell’autore e fornisce una sintetica messa a fuoco dei contenuti dell’opera. Il contesto spazio-temporale in cui prende forma il pensiero di Gill è l’Inghilterra del 1931 e l’idea di partenza è che «con l’arte, ossia mediante il lavoro svolto con responsabilità e dedizione, l’uomo ha la possibilità di rendere gloria a Dio», suo Creatore e a sua volta creatore di cose belle: «il lavoro è la dimensione in cui l’essere umano esprime pienamente se stesso» (p. 18). Secondo quanto l’autore afferma in apertura (The theme), la perfetta aderenza uomo-lavoro emerge chiaramente nell’attività dell’artigiano e più in generale nel lavoro manuale in cui l’artista modella liberamente la sua arte sull’oggetto, diversamente che nella società industriale, dove il lavoro è condizionato da altri e in funzione di altro, parcellizzato tra più soggetti e più fasi, ‘diversamente umano’ perché meccanizzato. Il tipografo è un artigiano che esprime liberamente la sua arte in un rapporto empatico con gli strumenti del suo mestiere, contrariamente all’operaio, condizionato nei tempi e nel metodo del suo lavoro. L’artigiano è un artista e il suo lavoro coincide con la sua stessa vita, senza necessarie pause giornaliere e riposi settimanali che ne interrompano il flusso lavorativo per la realizzazione di un prodotto impeccabile: l’arte manuale incarna l’identità culturale del lavoratore senza pretendere che sia necessariamente perfetta. In un’epoca in cui l’industrializzazione ha ormai vinto sull’arte manuale – senza però mai riuscire a soppiantarla del tutto – si possono oggettivamente riconoscere i vantaggi dell’una rispetto all’altra, «la forza dell’industria, l’umanità dell’artigianato» (p. 25), la definizione dei confini tra questi due mondi e dei rispettivi standard nel lettering e nella produzione dei libri: «la stampa è ovviamente una delle cose necessarie, e realizzarla usando modalità non meccaniche appare sempre più assurdo» (p. 26).
A questa breve introduzione concettuale e metodologica seguono nove capitoli dedicati ciascuno a una tappa dell’attività tipografica. Nel primo capitolo l’autore riflette sul tempo e sul luogo della trattazione (Composition of time and place) e sulle conseguenze che la produzione meccanica comporterà via via relativamente al lavoro manuale, fra cui il rigore rispetto a una pagina scritta elaborata e fantasiosa, frutto dell’entusiasmo dello spirito artistico, la razionalità nel disegno di forme astratte – che sono le lettere (Lettering) – e la strumentalizzazione dei tratti in base all’impiego, caratteri diversi nei secoli ma nati sempre entro un modello tradizionale, come ben si nota dalle diverse riproduzioni delle immagini che arricchiscono il saggio. Il che non si traduce immediatamente nell’assunto secondo cui i prodotti in serie siano falsi tentativi di ‘buon gusto’, ma nell’idea che più semplicemente «dobbiamo accettare l’impossibilità di un compromesso; in quanto industrializzati, dobbiamo essere orgogliosi dell’industria e delle sue forze nella produzione di massa, e riconoscere che in tale produzione il buon gusto consiste nell’assoluta semplicità e funzionalità» (Typography, p. 87-88). Questo è il motivo per cui i caratteri incisi prima dell’era industriale mostrano la vivacità e la logica del loro produttore, impossibili da riprodurre in un sistema meccanizzato: «se le potenzialità del processo di incisione meccanica dei punzoni sono apparentemente illimitate, le sue effettive possibilità sono limitate alla produzione dei tipi di lettere più semplici e chiaramente misurabili» (Punch-cutting, p. 92). Passando a un registro linguistico più teorico, la stessa logica si applica alla qualità e al formato della carta e all’intensità e alle varietà dell’inchiostro, elementi che assumono un certo valore solo al di fuori del mondo industriale (Of paper and ink), così come alla disposizione delle righe cui il ‘letto di Procuste’, cioè il compositoio, ha imposto una spaziatura larga «per la tirannica uniformità nella lunghezza delle linee del testo» (The procrustean bed, p. 102) a dispetto della qualità della lettura, più agevole che gradevole. E sebbene lo stampatore alla macchina e lo stampatore al torchio debbano entrambi tenere sotto controllo lo strumento per la realizzazione del prodotto, tuttavia al tipografo-artigiano è richiesto un maggiore sforzo per governare la volubilità dello strumento manuale, mentre quello meccanico si caratterizza per una maggiore stabilità nonostante i ritmi richiesti dal mercato per la produzione di massa (The instrument). In definitiva, esistono dunque due modi di produzione e due principi, quello della migliore qualità e quello del massimo profitto possibili: «l’industria può diventare più rigorosamente e nobilmente utile se riconosce i propri limiti intrinseci, mentre il mondo del lavoro artigianale, rinunciando infine a ogni competizione, può raggiungere una dimensione più rigorosa e più umana» (The book, p. 121). Nell’ultimo capitolo (But why lettering?), aggiunto nella seconda edizione del 1936, Gill prende posizione in merito alla riflessione coeva sull’ortografia inglese sottolineando l’importanza della fonografia: «l’unico modo per riformare le lettere moderne è abolirle» (p. 132); dunque, per una piena corrispondenza tra suoni e segni della lingua, è preferibile favorire l’abbandono dell’alfabeto latino per la notazione stenografica della lingua.
L’approccio critico con cui l’autore presenta i principi della sua ‘filosofia tipografica’ in questo celebre contributo offre spunti di riflessione utili e interessanti anche nel mondo dell’editoria d’oggi, in particolare a proposito del futuro dell’oggetto-libro. A distanza di un secolo l’introduzione della produzione a stampa meccanizzata manifesta similitudini inaspettate con l'attuale rivoluzione digitale della stampa, la ‘quarta rivoluzione’ (Gino Roncaglia, La quarta rivoluzione: sei lezioni sul futuro del libro. Laterza, 2010). Nonostante tutto, il libro cartaceo sopravvive alla presenza dell’e-book, il quotidiano cartaceo alle breaking news social e i manifesti pubblicitari alle inserzioni web, così come continuano a esistere generazioni di collezionisti amanti della carta da lettere vergata con l’iniziale miniata, bibliofili alla ricerca dello stampato in bella pagina, scrittori che pubblicano solo in edizioni d’arte, lettori che trovano piacere nella pagina scritta. Seppur marginale questa sopravvivenza conferma quanto profetizzato da Gill, e gli artigiani del libro come André Beuchat, la cui attività si basa tuttora sul torchio a mano, resistono accanto a editor sempre più artisti e a prodotti digitali di buon gusto.
«Il mondo industriale può essere affondato dalla cattiva finanza e dalle guerre che la cattiva finanza fomenta, oppure, ma appare meno probabile, potrebbe sorgere un ‘mondo nuovo’ dove la produzione meccanizzata sia organizzata secondo un metodo logico. In entrambi i casi gli uomini continueranno a comunicare, ci sarà ancora bisogno della stampa, e gran parte di questo libro sarà ancora utile» (p. 27). Più che un classico della disciplina tipografica, il testo si pone come un’opera visionaria della saggistica inglese che ha avuto un’enorme influenza sul design grafico moderno.

Annalisa Anastasio
Sapienza Università di Roma


Rimediare ri-mediare: saperi, tecnologie, culture, comunità, persone, a cura di Francesco De Biase. Milano: Franco Angeli, 2020. 363 p. (Pubblico, professioni e luoghi della cultura; 57). ISBN 9788891790835 (cartaceo); 9788835102502 (e-book: PDF); 9788835102519 (e-book: ePub)

Il volume Rimediare ri-mediare, curato da Francesco De Biase, dirigente dell’Area Attività culturali della città di Torino, è il frutto del lavoro di un gruppo di esperti in diversi ambiti. Si tratta di ventisette contributi, raccolti con approccio volutamente inclusivo e diversi per contenuti, stile e lunghezza, e che affrontano temi che vanno dall’economia, al cibo, alla psicanalisi, alla medicina, fino alle tecnologie, alla comunicazione, alla cultura. L’intento che sottende l’intero volume è di far chiarezza mediante una riflessione sull’impatto prodotto dai cambiamenti in atto inerenti alle dinamiche sociali, economiche, politiche e relazionali. L’obiettivo è di stimolare una riflessione e proporre possibili soluzioni per un presente e un futuro sostenibili, come si evince dal titolo stesso: rimediare, cioè riparare, trovare una soluzione e una cura, ma anche ri-mediare, cioè individuare una strada percorribile rispetto al problema, cruciale, della disintermediazione.
Questi diversi testi, ordinati in cinque sezioni tematiche – saperi, tecnologia e comunicazione, culture, comunità, esperti e partecipazione – possono essere letti nella loro autonomia, come risposta puntuale rispetto alle varie questioni sollevate o, ancor meglio, come un sistema complesso di analisi interdisciplinare. I temi portati alla nostra attenzione sono l’impoverimento progressivo di alcune fasce di popolazione e il parallelo accrescimento della ricchezza di pochi, la cancellazione del welfare, la riduzione del sostegno alla ricerca e alla formazione, l’ascesa del populismo e la fine della democrazia rappresentativa, la distanza tra classe politica e cittadini, tra individuo e collettività, come anche i pericoli insiti nell’audience development, il rifiuto del sapere specialistico in nome di un modo culturale senza gerarchie e il conseguente diffondersi di processi di disintermediazione. Se oggi, infatti, la rete è l’infrastruttura su cui poggiano tutte le nostre azioni e in essa è possibile reperire qualsiasi tipo di informazione, sembrerebbe indebolirsi ogni forma di mediazione culturale da parte di quelli che, avendo sviluppato competenze ed esperienze, dovrebbero essere in grado di organizzare e validare quelle stesse informazioni. Problema che colpisce pesantemente, tra l’altro, anche il mondo delle biblioteche pubbliche, come è stato evidenziato nel recente volume di Giovanni Solimine e Giorgio Zanchini La cultura orizzontale (Laterza, 2020), e che porta la nostra categoria professionale a interrogarsi sul futuro e sul ruolo delle biblioteche e dei bibliotecari.
Quali possibili soluzioni e come, dunque, ri-mediare? La proposta del curatore e degli esperti, che costituiscono essi stessi una piccola comunità all’interno del volume, è quella di creare connessioni tra le conoscenze e di riconsiderare il rapporto tra individuo e comunità come luogo di condivisione e inclusione aperto alla diversità di ogni genere. Da una parte, infatti, la compartimentazione delle conoscenze e delle discipline porta in qualche modo a una semplificazione e a una banalizzazione, e fa sì che non ci si interroghi sui grandi problemi, generando forme di ‘ignorantismo’; la cultura della complessità ha invece il merito di riconoscere l’incertezza e l’insufficienza delle informazioni acquisite e ci stimola a costruire collegamenti tra i vari saperi. D’altro canto è necessario recuperare il concetto sano di comunità, non come spazio nel quale trovino rafforzamento elementi identitari e di separazione, ma come luogo di inclusione e di condivisione. La strada proposta è pertanto quella delle pratiche partecipative, che si possono sviluppare solo recuperando una relazione attiva tra cittadini ed esperti.

Simona Cives
Istituzione sistema biblioteche centri culturali di Roma Capitale