Valentina Sonzini, Lucia Sardo e Giulia Crippa
La riflessione che segue, dedicata all’analisi in un’ottica di genere di tre aspetti delle discipline del libro (professione, catalogazione semantica e storia del libro), si colloca nel più ampio ambito della biblioteconomia critica, e intende approcciare queste tematiche con la consapevolezza che si tratta di una introduzione inevitabilmente non sistematica per la complessità e l’ampiezza della discussione. Tuttavia, si è ritenuto necessario aprire un dibattito o quantomeno porre la questione, poiché in Italia tali aspetti non sono stati ancora affrontati con sistematicità e organicità e vengono dibattuti marginalmente e conflittualmente, senza che si riesca a giungere a una sintesi di senso che accolga e rielabori i processi sociali ormai in atto da anni e le istanze provenienti dalle comunità che esprimono un modo di essere e di sentire complementare a quello canonico del maschile1.
La critical librarianship, locuzione che si traduce come biblioteconomia critica, può essere definita in diversi modi, ma in sintesi è una riflessione e l’applicazione della giustizia sociale in campo biblioteconomico. Generalmente ha trovato uno sfogo naturale nell’information literacy e nella pedagogia dell’informazione, così come nella catalogazione, sebbene un aspetto importante delle sue trattazioni riguardi la gestione della biblioteca tout court2. In quest’ottica «la biblioteconomia critica sostiene la convinzione che, nel nostro lavoro di bibliotecari, dovremmo esaminare e combattere i tentativi di oppressione sociale»3 indipendentemente dalla tipologia di servizio che si intende offrire.
Il primo apparire del termine risale al 2007, quando Sanford Berman lo suggerisce come nuova intestazione di soggetto al Cataloging Policy & Support Office della Library of Congress4.Tale proposta, in ogni caso, esemplifica ciò che la biblioteconomia critica incarna, cioè
pone la biblioteconomia all’interno di un quadro teorico critico che è epistemologico, autoriflessivo e di natura attivista. Secondo Elaine Harger, i bibliotecari che praticano la biblioteconomia critica si sforzano di comunicare i modi in cui le biblioteche e i bibliotecari sostengono consapevolmente e inconsapevolmente i sistemi di oppressione. La biblioteconomia critica cerca di essere trasformativa, empowering e una sfida diretta al potere e al privilegio5.
Mentre negli Stati Uniti la biblioteconomia critica, secondo Garcia, è stata praticata dai bibliotecari fin dagli anni Trenta del secolo scorso6 – e si riflette nella professione «sia all’interno delle associazioni professionali con la creazione dell’ALA Social Responsibilities Round Table nel 1969 sia al di fuori delle associazioni formali con la formazione della Progressive Librarians Guild nel 1990 e le discussioni e le ‘non conferenze’ #critlib su Twitter iniziate nel 2014»7, in Italia il tema non è stato affrontato in modo sistematico. Infatti, solo negli ultimi anni la teoria biblioteconomica si è concentrata su aspetti e pratiche che in parte potremmo definire affini e assimilabili a quelli della critbib di stampo nordamericano. Come affermano Chiara Faggiolani e Giovanni Solimine, si può parlare di cambiamento di paradigma nella disciplina che – pur con la consapevolezza che i modelli precedenti possono convivere con quello attuale, cosa che nella formulazione originale dell’espressione non avviene – subisce un processo di trasformazione da biblioteconomia documentale, a gestionale, a sociale.
Questa centralità delle persone rispetto ai servizi (biblioteconomia gestionale) e ai documenti (biblioteconomia documentale) ci porta a parlare di biblioteconomia sociale che si configura come la disciplina che si occupa della biblioteca come “sistema sociale fatto dalle persone per le persone”. Una disciplina che alla transazione antepone la relazione, che rispetto alla qualità del servizio non si pone in modo autoreferenziale, perché il concetto di qualità è socialmente e storicamente determinato e che oltre al concetto di soddisfazione dell’utente rispetto alla mission istituzionale delle biblioteche, contempla anche, a livello più generale, il benessere dell’individuo e l’impatto che la frequentazione della biblioteca contribuisce a generare, tenendo in considerazione anche la dimensione simbolica, relazionale e sociale per essere in sintonia con l’evoluzione dei valori socialmente condivisi e fare in modo che le biblioteche riflettano lo spirito del tempo8.
Benché si ravvisino elementi comuni fra la critical librarianship e la biblioteconomia sociale, va sottolineata una diversa declinazione, a nostro avviso espressa non solo dal fatto che la seconda è più legata a questioni metodologiche che pratiche, ma anche al differente contesto sociale e culturale in cui le due espressioni vengono utilizzate e si sono progressivamente sviluppate.
Per questo, il tentativo di affrontare anche in Italia alcuni temi legati alla critbib deve appunto confrontarsi con gli aspetti che caratterizzano la nostra società e non può utilizzare modelli d’importazione difficilmente calzanti con la realtà del nostro paese.
Si è quindi privilegiato l’approccio alla questione con un’ottica di genere, sia per quanto riguarda la professione, sia in ambito catalografico, sia negli studi di storia del libro, ritenendola il vulnus interpretativo della situazione italiana nella quale le tematiche etniche e razziali sono ancora lungi dall’interessare i nostri ambiti disciplinari. Il genere diviene quindi la chiave interpretativa da cui vogliamo partire per uscire dal paradigma dato per rielaborarlo, stravolgerlo anche negli assunti essenziali, poiché il riconoscimento della presenza del diverso come elemento sopraffatto e volutamente taciuto, è la chiave di volta dell’apertura all’altro, a una dimensione fuori da noi, diversa da noi.
Per quanto profondamente vincolante per il femminile, il sistema binario patriarcale ha creato finora una zona di comfort, di riflessione nella quale ci siamo accomodate per immaginare un altrove che, in realtà, è già presente e sta ridefinendo la quotidianità.
La marginalizzazione e la discriminazione del femminile, nonché le questioni legate all’orientamento sessuale saranno qui affrontate analizzando brevemente il ruolo e la professione di chi lavora in biblioteca, quindi dal punto di vista catalografico per poi passare al contesto della storia del libro.
Le biblioteche partecipano al processo sociale come contesti in grado di cogliere i segni della sofferenza sociale. Pertanto, non è sufficiente progettare biblioteche in cui i tecnici, gli amministratori, i bibliotecari hanno le necessarie competenze sociologiche, di comunicazione e di creatività; ma andrebbero pensate come laboratori di cittadinanza molto più vicini ai processi della vita reale di quanto non lo siano attualmente: laboratori permanenti di appropriazione dello spazio collettivo e di azioni condivise. Intendiamo qui porre alcune basi per una più ampia mappatura delle donne come protagoniste nella produzione e circolazione del sapere istituzionalizzato nelle biblioteche, così come nel ruolo di agenti che si appropriano dell’informazione.
Gli ideali che stanno alla base della biblioteconomia attuale sono spesso radicati in una tradizione moderna che emerge in un ciclo storico positivista. Il principio della ‘sistematizzazione’ di quest’ultimo sembra essere guidato dall’identificazione con l’universalismo e l’eternità delle certezze già raggiunte, appartenenti all’ottimismo nel progresso del XIX secolo e, soprattutto, a un modello funzionale della configurazione dello Stato moderno. Alla biblioteca come centro di concentrazione e distribuzione dell’informazione stampata e non, che si propone come luogo di modellazione dell’opinione pubblica, corrisponde, in effetti, la necessità della formazione di ‘quadri funzionali’, i bibliotecari, deputati a una attività di controllo e mantenimento del sapere ‘legittimo’ e ‘illegittimo’. A questa formazione ‘tecnica’, alla quale un gran numero di donne ha avuto accesso dalla fine della Seconda guerra mondiale, corrisponde un ruolo di gestione intellettuale, responsabile di dirigere le politiche di informazione della biblioteca in termini di criteri di selezione e di accessibilità, sulla base di un profilo di ‘utente’ designato come ‘cittadino’.
Curiosamente, questa funzione intellettuale è caratterizzata, nella storia delle biblioteche dello Stato moderno e dei suoi bibliotecari, da una significativa assenza di donne che la esercitano, almeno fino agli ultimi trent’anni del XX secolo. Oggi, con le nuove tecnologie, è necessario riconoscere che non è più fondamentale il libro, nella sua materialità, ma l’informazione in esso contenuta, sotto forma di memoria codificata dalla scrittura, richiedendo così professionisti addestrati a lavorare con rappresentazioni di oggetti, e a creare meccanismi per localizzare questa informazione. Nella lettura degli articoli che discutono il profilo del bibliotecario, osserviamo la presenza di modelli e stereotipi che, anche se presentano chiare tracce di distinzioni di genere nella costruzione dell’immaginario sociale, non ricorrono alla categoria analitica di genere per valutare sia l’impatto di una dialettica di inclusione/esclusione delle donne nello spazio rappresentato dalla biblioteca, sia in termini di rafforzamento/indebolimento dell’area quando sottoposta a un’analisi di questa natura.
In tutte le discussioni sul problema politico (cioè di spazio pubblico) rappresentato dalle biblioteche, viene analizzato in modo riduttivo o, più semplicemente, ignorato l’elemento ancora oggi più evidente: la composizione maggioritariamente femminile della categoria professionale dei bibliotecari. In generale, una certa insoddisfazione professionale delle bibliotecarie si riferisce, superficialmente, alla segregazione delle donne nel settore come risultato di un’emancipazione non realizzata, oppure è ricondotta a un bilancio negativo dei vantaggi e degli svantaggi del mestiere: il lavoro in biblioteca, scelto da molte donne come reddito familiare complementare, si rivela, in realtà, sempre meno conveniente, sia in termini di stipendio che di impegno.
Un’altra analisi della crisi della professione bibliotecaria può però essere collocata sulla base di una analisi di genere: il disempowerment delle donne che lavorano nelle biblioteche come espressione della fatica nello svolgimento di un ruolo, del peso di una funzione che, nella misura in cui è tradizionalmente presentata come affidata alle donne, trasforma i bibliotecari in trasmettitori di una cultura neutro/maschile e, più in generale, dei valori patriarcali e dei modelli di trasmissione del sapere.
Affermare che il disempowerment del ruolo di bibliotecario è radicato nell’alienazione delle donne dalla cultura che gestiscono sotto forma di ordine informativo offre una proposta politica attraverso la quale il loro mestiere può cambiare significato.
Discutere, già a livello universitario, le pratiche di una differenza sessuale nella scrittura, nella lettura e nell’organizzazione del sapere significa mettere in atto rappresentazioni professionali generate in un orizzonte di senso in cui l’essere donna, invece di essere uomo, riflette un modo diverso di esistere, di vivere, di scrivere, di leggere e di pensare il sapere e la sua organizzazione. L’esperienza e la conoscenza femminile non appaiono, nella misura in cui l’esperienza e la conoscenza maschile sono presentate come proposizioni universali, determinando così la norma. Il fatto che i professionisti e gli utenti delle biblioteche siano in maggioranza donne è considerato irrilevante, purché si conformino al modello normativo.
Il moderno sistema di organizzazione e diffusione dell’informazione nelle biblioteche, basato sugli ideali di uguaglianza e democrazia, ammette, senza ombra di dubbio, le donne accanto agli uomini, sia nel campo della manutenzione dell’informazione che nella sua circolazione e appropriazione. Ogni donna accede al mondo dell’informazione e della costruzione della conoscenza, se lo desidera, e se ne possiede i requisiti materiali e simbolici, sulla base di un diritto riconosciuto; tuttavia, non lo fa per una necessità umana e sociale intrinseca al suo genere: è una donna, ma potrebbe anche essere un uomo9.
Nella misura in cui le donne possono accedere a un modello di biblioteca che genera e fa circolare informazioni concepite e realizzate secondo le linee della modernità patriarcale, si crede che la loro integrazione conferisca all’istituzione una validità universale: dalla differenza interiorizzata, fonte di discriminazione, si ottiene la cancellazione della differenza10.
Le bibliotecarie, a loro volta, sono entrate sempre più numerose nel mercato del lavoro offerto dalle biblioteche, disponendosi a cambiare abilità e competenze per adattare il loro mestiere ai tempi, accettando di negare progressivamente l’appartenenza al genere, fino a rimanere o come un residuo di marginalità sociale da cui la società raggiunge materia viva per un lavoro di scarso prestigio, o come qualcosa di superfluo, sempre più secondario dei processi di produzione della conoscenza.
Non può essere vero, valido, universalmente efficace, invece, un sistema di conoscenza basato su un ordine informazionale che non offre una ragione alla differenza di essere uomo/donna, che lascia la differenza femminile priva di un significato intrinseco e autonomo di circolazione e appropriazione delle informazioni, capace di portare a un’idea corretta di miglioramento e perfezionamento delle proprie condizioni di vita.
Se la circolazione e l’appropriazione dell’informazione femminile è pensata e proiettata dall’‘altro’ che, universalizzato e definito neutro, nega le differenze, e se finora le donne hanno visto la mediazione come qualcosa che l’‘altro’ ha reso accessibile, il loro compito è stato quello di mantenere silenziosa la propria esistenza insieme ai significati che la società ‘neutra’ ha trovato per i loro desideri, aspirazioni, bisogni informativi e culturali.
Se, come affermato prima, oggi non è più il libro materiale ad essere centrale, ma l’informazione in quanto memoria codificata, si richiede una formazione rivolta al trattamento delle sue rappresentazioni e alla creazione dei meccanismi di localizzazione di questa informazione11. In definitiva, il potere di relegare/negare i risultati della parola, sia essa scientifica, letteraria, intellettuale, artistica o popolare ricade su coloro che la manipolano, la selezionano, la rendono intelligibile per la ‘riduzione delle incertezze’ e per la ‘decisione’, e l’ordine che si stabilisce come base per strutturare l’informazione diventa l’ordine della verità.
Per le donne, la circolazione e la contestualizzazione del loro lavoro e delle loro idee è sempre stata una questione primaria, per l’evidente necessità di diventare protagoniste della storia, visibili, di essere parte delle discussioni su di loro e sul loro rapporto tra pubblico e privato12. Gli studi di genere, fornendo gli strumenti per analizzare come e per chi la partecipazione delle donne diventa un elemento di trasformazione della realtà e fa parte della storia, diventano significativi nelle azioni di organizzazione, mediazione e appropriazione delle informazioni in un sistema di circolazione istituzionalizzata della conoscenza13.
Le dicotomie ricorrenti di maschile/femminile, oggettivo/soggettivo, razionale/emotivo, sulle quali la nostra cultura ha costruito le sue concezioni di ciò che è la conoscenza, lasciano trasparire la costante connotazione positiva del primo polo e la sistematica svalutazione del secondo, come analizza Olson14, specificamente in relazione alla Scienza dell’informazione.
Le stesse attribuzioni di valore si ritrovano anche nei processi di mediazione, fino ad oggi dominati da una concezione privata dei significati relazionali dell’autonomia cognitiva proposta in termini di inevitabile e accentuata separazione della sfera razionale dalla propria e altrui soggettività, così come dall’oggetto della conoscenza. Anche laddove, nella produzione teorica sulla mediazione, interpretazioni più recenti hanno cercato di correggere l’enfasi sulla separazione15, riconoscendo il ruolo fondamentale dell’esperienza soggettiva e del contesto relazionale, lo schema universalistico che ci permette di parlare di soggetti e corpi come entità neutre e asessuate non è cambiato. Oggi è evidente che, in realtà, questo schema è il risultato di un processo di universalizzazione che diventa il fondamento attraverso il quale il soggetto maschile acquisisce pienamente, anzi potenzia, l’appartenenza al proprio genere, costringendo l’altra alla negazione di sé stessa, alla cancellazione del suo corpo diversamente sessuato.
Se, in termini generali, la struttura della mediazione femminile acquisisce il compito essenziale di ordinare il disordine del reale causato dal dominio di una parte del mondo sull’altra, nella sfera della circolazione dell’informazione, fin dai primi tempi dell’accesso delle donne all’educazione formale, questo compito si traduce nell’offrire una realtà sessuata al linguaggio e ai codici simbolici e culturali, affinché in essi si esprima l’esistenza dei due generi e non solo di uno.
La mediazione da parte di un’autorità femminile, quando riconosciuta e accettata, possiede la forza di liberarsi da quegli elementi di dipendenza e costrizione che impediscono l’emergere e il potenziamento delle capacità umane delle utenti, perché rappresenta la fonte di legittimazione per essere pienamente nelle cose del mondo, senza rinuncia o perdita di sé.
L’atto di far circolare l’informazione non fornisce autorità solo perché appartiene al regime della verità istituzionale. Per acquisire autorità è necessario stabilire un contesto favorevole, costituito da una rete di relazioni sociali, su cui contare, di condizioni materiali e politiche all’interno delle quali quelle parole acquistano significato. Anche questo, però, non basta: questa rete deve trovare la sua struttura secondo un ordine simbolico che identifica il suo posto nel riconoscimento di una genealogia femminile, riconosciuta in qualche misura come relazione di autorità. La mediazione di una bibliotecaria, portata avanti individualmente, sostenuta solo dalla solitudine e non manifestata nel quadro di una rete, può certamente costruire un discorso informativo che è ‘vero’, ma è privo di autorità. L’autorità deriva da una risonanza pubblica, cioè politica. Si basa su una prospettiva di critica femminista in cui, crediamo, dovrebbe essere ripensata la rappresentazione del genere e la sua proposta di mediazione nell’ambito della formazione professionale. La natura costruita della cultura e della comunicazione costringe a una scelta tra cultura erudita e popolare, divisione tradizionale, e da un profondo rinnovamento della comprensione della ‘cultura’ nel suo filone più completo, che identifica tutto ciò che permea la vita quotidiana in ogni suo aspetto. La mediazione ne diventa parte integrante, poiché la cultura è qualcosa che si costruisce attraverso processi comunicativi, indicando così un nuovo orizzonte per i processi di mediazione. Non più come apice della diffusione, nel triangolo selezione/conservazione/diffusione, apparentemente ancora il motto delle discipline che trovano qualche affinità con il campo della biblioteconomia, ma una trasposizione dell’atto di diffusione verso una dialettica viva del corretto trasferimento dell’informazione (cioè: nella prospettiva storico/sociale e culturale del contesto dell’opera) e della sua appropriazione, cioè: il pubblico non è ‘vuoto’, ma carico della sua identità di genere, che fornisce la base alla sua interpretazione dell’informazione come costruzione di conoscenza. Diventa quindi necessario pensare a nuovi approcci che permettano il flusso della comunicazione culturale, mettendo al centro la ‘costruzione del significato’.
Le bibliotecarie hanno bisogno di confrontarsi sulla necessità di un impegno nella costruzione di un sapere ‘agito’ a partire dalla differenza e dall’individualizzazione, appropriandosi del mondo senza essere dislocate nella genealogia maschile.
Per poter introdurre le questioni di genere in ambito catalografico è opportuno definire che cosa sia la critical cataloguing, ovvero quella parte della riflessione teorica catalografica che si concentra maggiormente su questioni etiche e di inclusione. Una definizione recentissima è quella presente nel Cataloguing code of ethics realizzato nel 2021 dal Cataloging Ethics Steering Committee, che ha come membri professionisti provenienti dalle comunità catalografiche di Stati Uniti, Canada, Regno Unito, e come consulenti esperti internazionali: la catalogazione critica è un sottoinsieme della biblioteconomia critica e si concentra sulla comprensione e sul cambiamento di come le organizzazioni della conoscenza codificano i sistemi di oppressione. Per non dare adito a polemiche terminologiche, «il termine catalogatore/catalogatrice16 è usato come abbreviazione per riferirsi a chiunque sia coinvolto nel lavoro di catalogazione e metadati»17.
I principi etici stabiliti sono pochi e semplici18, e nella loro semplicità non paiono porre problemi, anche se quando si parla di utenti si corre il rischio di cadere nella generalizzazione e nel mantenimento dello status quo. È questa una delle critiche principali mosse alle dichiarazioni di obiettivi e principi catalografici da Cutter in poi, passando per Dewey e per la realizzazione di schemi di classificazione19. L’idea cioè che gli utenti abbiano tutti le stesse esigenze e gli stessi bisogni e che questi possano quindi essere soddisfatti grazie a pratiche standardizzate ed esportabili in tutto il mondo con relativamente piccole modifiche è uno degli aspetti più problematici della pratica catalografica, e questa riflessione riguarda ovviamente anche gli aspetti legati al femminile e al genere. Il problema della definizione degli utenti e dei loro bisogni non è solo catalografico, ma investe di necessità l’intera realtà bibliotecaria. Nel momento in cui si parla di principi generali quali la convenienza dell’utente, facilitare l’utente, presentare le risorse per favorirne la ricerca, ci si immagina sempre un tipo di pubblico tarato sulla maggioranza, con una idea omogenea del mondo, con prospettive e modalità di ricerca analoghe e uniformi. Tali assunti non sono ovviamente riscontrabili in nessun contesto bibliotecario. La tirannia della maggioranza emerge vistosamente quando si presentano affermazioni di questo tipo. In questo modo però, l’unico risultato che si ottiene è appunto rafforzare lo status quo e la visione esistente delle cose, della maggioranza ma non di tutti. Un’ulteriore questione poi sorge quando non si valuta che la ‘maggioranza’ non necessariamente costituisce la ‘maggioranza in assoluto’ degli utenti, ma semplicemente il punto di vista predominante e preferenziale, solitamente declinato al maschile, nel caso specifico.
Secondo Olson, anche la cosiddetta garanzia letteraria (literary warrant) può avere effetti non sempre positivi, poiché contribuisce a rinforzare il canone mainstream nei diversi domini della conoscenza; se poi questa visione viene fatta propria non solo da una biblioteca o da una rete di biblioteche ‘omogenee’ per contesto e situazione, ma diventa la base per la condivisione di dati catalografici ecco che le diversità si appiattiscono e tendono a essere marginalizzate se non del tutto escluse20.
Gli aspetti che la catalogazione critica affronta riguardano sia la catalogazione descrittiva, sia quella semantica. Non volendo entrare nel dettaglio di ciascuna criticità, ci si limita a una breve esposizione delle diverse tipologie di questioni da affrontare. I problemi legati alla catalogazione descrittiva sono principalmente di due tipi, sia in generale, sia limitandosi al tema proposto nell’articolo. Il primo riguarda la completezza e l’accuratezza dei dati delle descrizioni bibliografiche, e il secondo la scelta della forma dei punti di accesso per le risorse. Al primo di questi problemi è legata la annosa querelle fra rapida disponibilità delle risorse e tempi necessari per una catalogazione accurata. Il secondo problema invece, tocca più da vicino le questioni specifiche legate all’autodeterminazione e alla privacy. Ad esempio, si tratta di rispettare le decisioni delle persone in merito alla propria identità e a come questa viene presentata, cosa che non sempre viene rispecchiata dalla risorsa che si deve catalogare: pensiamo anche solo alla questione del cosiddetto deadname21 e alle implicazioni che può avere a livello catalografico. Le persone e i gruppi di persone dovrebbero essere nominati utilizzando i nomi/accessi che vorrebbero fossero usati e non altri. Nel caso della privacy invece si tratta di permettere al singolo di decidere quali informazioni su di sé vuole rivelare e in questo caso un esempio può essere quello relativo al genere negli authority record.
Se invece si considera l’indicizzazione semantica, le questioni sono probabilmente ancora più problematiche perché, come condivisibilmente afferma Cavaleri (e non è il solo a farlo)
ogni classificazione, biblioteconomica e non, come ogni standard, è un intervento sociale, autoritario, che intende prescrivere come interpretare il mondo attraverso un linguaggio artificiale che per sua natura include ed esclude concezioni, punti di vista, interessi. Le classificazioni hanno successo quando le rappresentazioni del mondo che propongono sono funzionali alla struttura di potere della società o quanto meno della disciplina che le esprime e utilizza22.
In questi casi il ‘potere di nominare’ (titolo di un lavoro di Olson sul tema dei limiti della rappresentazione per soggetto nelle biblioteche) è un aspetto cruciale del lavoro del catalogatore e degli strumenti che ha a disposizione per farlo. Colui che cataloga
decide come rappresentare i soggetti e, quindi, influenza l’accesso e l’uso delle informazioni contenute e della conoscenza derivata dai documenti che vengono catalogati. Nominare è l’atto di dare un nome, di etichettare, di creare un’identità. È un mezzo per strutturare la realtà. Impone un modello sul mondo che è significativo per chi lo nomina23.
Va rilevato anche il fatto che gli stessi strumenti tendono a essere usati e condivisi su scala sempre più globale in contesti culturali radicalmente differenti. Non si tratta quindi solo di imporre la visione della maggioranza a ‘minoranze’ interne (e ricordiamo che non sempre si tratta effettivamente di minoranze, ma piuttosto di marginalizzazioni di parti rilevanti della società) ma di imporre una visione del mondo e un modello culturale all’intero pianeta.
Nello specifico di nostro interesse, a parte l’articolo già citato di Cavaleri che affronta il tema del trattamento dell’identità personale nella Classificazione decimale Dewey e gli articoli di Carlo Revelli dedicati non solo all’indicizzazione per soggetto ma al tema delle donne e delle ‘minoranze’ in biblioteca (dal punto di vista dei servizi dedicati e della professione)24, gli aspetti dei vocabolari controllati e degli schemi di classificazione da prendere in considerazione riguardano le modalità con cui vengono affrontate le tematiche relative alle donne, alle questioni di genere, alla sessualità. Una semplice ricerca nel Nuovo soggettario utilizzando i termini ‘donne’ e ‘uomini’ fornisce esempi di quanto detto sopra25. Sicuramente grandi passi in avanti sono stati fatti dalla pubblicazione del Thesaurus del Nuovo soggettario e, a livello internazionale, sono crescenti le attenzioni verso questi aspetti di ‘inclusività’, anche se sicuramente la strada da percorrere è ancora lunga26.
Se l’approccio all’utente, alla catalogazione e al profilo professionale sono focus inevitabili per ritarare il paradigma biblioteconomico in senso intersezionale, la storia del libro e la didattica della storia del libro si pongono come un ulteriore terreno laboratoriale dove agire politiche antidiscriminatorie e di inclusività.
I quesiti di partenza riguardano specificatamente la modalità con la quale da una parte inquadriamo il discorso generale sulla storia del libro e poi dell’editoria; definiamo dall’altra l’orizzonte semantico nel quale collochiamo il discorso sulla nascita della stampa, le maestranze coinvolte, il sistema economico nel quale il nuovo prodotto si colloca e il suo pubblico/target di riferimento; e infine, di quali strumenti ci dotiamo per spostare la visuale dal contesto sociale al manufatto e viceversa in un dialogo continuo fra oggetto e soggetto, nel quale quest’ultimo – dagli effimeri contorni neutri – assume invece una propria identità specifica.
In ambito italiano la storia del libro, e quindi quella della stampa e dell’editoria, è stata prevalentemente declinata al maschile. Infatti, la categorizzazione attraverso un sistema binario, che ha posto sempre al centro del discorso l’uomo europeo bianco, ha fortemente condizionato la visione d’insieme più frastagliata e complessa.
Gli studi affrontati di recente27 sulle tipografe italiane del passato e gli approfondimenti sulle figure di editore, traduttrici e agenti editoriali, hanno insinuato il dubbio che la visione di un mondo al maschile, nel quale mere logiche patriarcali hanno affermato procedure e prassi protratte da uomini, non fosse l’unica accettabile per ricostruire con interezza il quadro storico.
Sebbene si tratti ancora di incursioni marginali nell’insieme della produzione scientifica italiana, le assenze eccellenti, i silenzi non percepiti, stanno progressivamente cedendo il passo a interventi inclusivi. In essi si evidenzia il reale tentativo di far emergere analisi (come quelle sul paratesto –per attenerci allo stretto campo bibliografico – dove, abbandonata la vetrina del frontespizio, la tipografa può firmarsi con il proprio nome, lasciare tracce del proprio lavoro, delle relazioni intessute con autori e committenti28, liberarsi cioè dalla convenzione sociale che le obbligava al camuffamento) e scenari abitati da presenze femminili.
L’approfondimento storico ha privilegiato, sia nei documenti, sia nelle introduzioni annalistiche, uno sviluppo che prende in considerazione prevalentemente il soggetto maschile e, tutt’al più, la dimensione aziendale dell’officina, invece di enfatizzare o declinare, ove possibile, il discorso al femminile. L’approccio si perpetua anche nel presente quando si tende a collocare le tipografe nel contesto familiare di provenienza citandole come ‘vedove di’ (fra le tante, la vedova di Niccolò Valauri della quale non si conosce neppure il nome)29, e/o celandole dietro la dicitura ‘eredi di’ (in quest’ultimo caso creando talvolta confusioni tali da rendere difficoltosa l’attribuzione delle edizioni prodotte dalla tipografia di appartenenza). L’esiguità o la mancanza di spunti documentali spesso rendono difficoltoso perfino attribuire loro un cognome, restituire loro la dignità di soggetti autonomi, relegandole continuamente nel contesto famigliare30 che ne certifica l’identità, autorizzandole all’esistere solo in funzione dell’appartenenza. Come in una spirale inarrestabile, il tentativo di farle uscire dalla costrizione sociale del clan di fatto le riconduce ad esso qualora si tenti di ricostruire le loro esistenze frammentarie e nebulose.
È ciò che è accaduto per esempio nella compilazione delle schede per il progetto Wikipedia Repertorio delle tipografe in Italia dal Cinquecento al Settecento. Quando si è trattato di approcciare, fra gli altri, i profili di Caterina Bozzola, Dorotea e Menica Accolti e Anna Maria de’ Cervetti si è dovuto optare per inserire le loro biografie all’interno della più ampia voce dedicata alla famiglia31. Mentre per Lorrena e Olimpia Commandino, addirittura, si rimanda alla voce ‘Federico Commandino’, non avendo potuto, per carenza di fonti, bypassare il concetto di enciclopedicità della voce e dovendo sottostare alle scelte e alle direttive della community wikipediana. Anche in contesti più strutturati e istituzionali, come quelli di gestione dell’authority file di EDIT16 per esempio, si assiste ancora all’insistente utilizzo del cognome maschile anche quando è noto quello da nubile (per le edizioni della Dall’Aglio il rimando è comunque sempre a Bodoni), sebbene vadano rilevati concreti tentativi di normalizzazione degli accessi: per Caterina Mayr, censita con il cognome del marito Sigismondo, è stato creato un rinvio anche per il suo nome da nubile ‘De Silvestro, Caterina’.
Da una parte si assiste all’‘effetto Matilda’32 a causa del quale si stenta a riconoscere i successi, o anche solo l’implicazione delle donne in un processo riconosciuto come maschile; dall’altra, come sostenuto da Valentina Sestini33, le donne non vengono né citate, né raccontate perché presenti – date per scontate, implicitamente riferite all’omogeneità/neutralità del cognome del padre, e quindi l’impresa – ed è un dato di fatto che non si è ancora stati in grado di sistematizzare, nominare la loro assenza/presenza per ciò che rappresenta: il riconoscimento legale e giuridico per i figli minorenni, o il passaggio di testimone da una famiglia all’altra.
Il sistema endogamico, attraverso il quale veniva perpetrata la dignità di tipografo e l’appartenenza alla corporazione di riferimento, esprime la complessità di un universo nel quale il femminile, seppur taciuto, ha giocato spesso un ruolo determinante per il mantenimento del nome con il quale venivano riconosciute le officine tipografiche. Mentre nel Novecento, la presenza di donne nelle case editrici ha portato all’affermazione di linee editoriali con un’ampia apertura verso tematiche gender, LGBT e queer grazie all’inserimento nel mercato di saggiste e narratrici spesso straniere riconosciute per il loro impegno femminista e militante (si vedano, fra gli altri, il catalogo de La tartaruga, casa editrice fondata da Laura Lepetit, quello dell’Orsa maggiore citato più avanti e, in tempi più recenti quello di Fandango).
Guardare alle discipline del libro in ottica di genere, significa, almeno in ambito italiano, percorrere sentieri inesplorati, favorire itinerari di ricerca inediti, ribadendo la constatazione che il processo tipografico, per come lo conosciamo e viene insegnato, si è diffuso attraverso l’Europa grazie a tipografi che oggi definiremmo migranti, stranieri in terra straniera, camminatori di percorsi storici, che diffondono una tecnica che diventa di dominio pubblico, coinvolge artigiani provenienti da contesti manifatturieri diversi, e apre nuovi scenari commerciali che vanno a sovrapporsi e quindi a sostituirsi ai precedenti con l’inserimento di ulteriori figure professionali.
Al di là quindi di una storia del libro che privilegi il punto di vista di tutti gli attori coinvolti nel sistema, ammettendo la compresenza di uomini e donne, stranieri e indigeni, tipografi fonditori illustratori e incisori, centrale rimane anche la questione della didattica della storia del libro a stampa. Nel nostro paese, ma probabilmente in tutta la compagine occidentale, è stata approcciata, implicitamente e forse neppure troppo consapevolmente, con una visione squisitamente eurocentrica e patriarcale.
Solo per sommi capi si vuole qui affrontare la questione introdotta da Yoonha Hwang nel suo intervento al panel promosso dalla SHARP alla RSA 2020, Decentering book history pedagogy34. In esso l’autrice sostiene che «while the study of book history has increasingly become interdisciplinary and diverse, book history pedagogy, however, particularly in introductory book history courses, still remains heavily Eurocentric in scope». La cronologizzazione di una storia che inevitabilmente interseca l’evolversi della lettura e della fruizione dei testi può facilmente riassumersi nei cinque punti teorizzati da Leslie Howsam:
manuscript codex replaces the unwieldy scroll; printing with moveable type makes authorship, publishing, and reading accessible to elites; steam-powered technology extends accessibility to ordinary people; mass-market publishing in paperback makes the book a commodity; digital technology changes everything – the format of books, their production and marketing, and the reading experience.
La progressività diacronica non cede il passo a una visione euristica dell’insieme analizzato: lo scorrere del tempo scandisce il processo tecnologico che a sua volta genera significativi accadimenti sociali in un contesto comunque occidentale. Gli apporti che fugaci intromissioni in altri ambiti geografici e culturali apportano alla didattica servono semplicemente per sostenere e talvolta giustificare una visione eurocentrica concentrata su se stessa, non disposta a ulteriori intromissioni, talvolta sostanziali. L’invenzione della carta in Cina, la mediazione araba del supporto scrittorio, e l’importanza conservativa operata dalle traduzioni arabe di testi greci diversamente perduti, servono alla didattica del libro antico solo per avvalorare una posizione, ribadire la paternità europea della scoperta e dell’invenzione. La narrazione proposta da queste tesi favorisce prevalentemente una sola visione della questione, standardizza e fossilizzata con un forte sbilanciamento verso il maschio, bianco e occidentale, e verso un paradigma economico liberista. Oltre al fatto che:
despite the use of printing in other parts of the world, including medieval Arabic block printing and Korean movable metal type, the pedagogical emphasis on Western printing attributes greater value on Western “information, knowledge, and stories” by placing this Eurocentric interpretation of history on a pedestal as if it were a pioneer for exemplary intellectual growth.
L’assunto suggerisce che le trasformazioni tecnologiche che hanno portato all’affermazione della tipografia come mezzo di trasmissione del sapere, sono di fatto l’unica evoluzione possibile, l’evoluzione per eccellenza, la migliore possibile, che quindi azzera e oblitera qualsiasi altro tentativo di preservazione del sapere.
La storia del singolo individuo, la microstoria, così come la storia sociale ci consentono invece di leggere i processi storici da un altro punto di vista arricchendoli e destrutturando le categorie di pensiero: ciò che è vero in generale, non necessariamente può risultare vero per il singolo e nello specifico. Si afferma così la necessità di guardare alla storia del libro non solo come il percorso dei Manuzio e dei Bodoni, ma come un insieme di apporti che si concretizzano in contesti geografici molto differenti fra loro (senza che questo diventi un ulteriore termine di discrimine), dove necessità articolate portano le maestranze a esprimersi attraverso prodotti editoriali di diversa caratura e destinazione (una tipografia sviluppatasi oltreoceano, per esempio, fa riferimento a gusti estetici e a bisogni informativi/culturali completamente diversi da quelli di una tipografia del basso Piemonte impiantata grazie all’attenzione e al volere del potere costituito).
Includere le tipografe negli itinerari del libro è un gesto concreto di riposizionamento, di capacità di lettura non pregiudiziale, soprattutto quando si intercettano e approfondiscono alcune vicende editoriali contemporanee nelle quali l’estro femminile ha saputo restituire esiti inediti. Infatti, spesso ciò che è ai margini è radicale, ha possibilità di movimento impensabili per chi invece aderisce al paradigma di riferimento. Si pensi all’editrice Orsa maggiore35 brevemente attiva a Milano nel dopoguerra – quindi in un periodo storico particolarmente delicato per il nostro paese che usciva dal secondo conflitto mondiale con un analfabetismo altissimo, e con un livello culturale generalmente basso –, grazie all’intraprendenza della traduttrice Mimi Oliva Lentati ha portato alla ribalta l’intera produzione di un’autrice discussa anche in patria quale Radclyffe Hall, dichiaratamente lesbica, le cui opera ha una forte impronta queer.
Quindi, parlare dell’apporto significativo dato dalle donne all’affermarsi anche nel nostro paese di tipografia ed editoria come veicoli di trasmissione del sapere, significa riconoscere il ruolo che esse hanno avuto e ricoprono nella nostra società, e nei processi decisionali, tecnologici ed economici; significa iniziare a nominare le cose per ciò che sono.
Decolonizzare la storia del libro, introdurre nuove prospettive descrittive in ambito catalografico, guardare alla professione bibliotecaria valutando l’incidenza del genere, sono anche scelte politiche, di definizione di un nuovo ordine del mondo: colui che descrive decide che nome e che forma dare a ciò che descrive. Si tratta quindi di un’azione concreta di governance dei processi di apprendimento, categorizzazione delle informazioni, didattica della storia che in parte esula dai campi disciplinari biblioteconomici e storici per intercettare anche altri spazi di conoscenza.
Tuttavia, come evidenziato nel paragrafo dedicato alla professione, non è solo una questione di approccio in un’ottica di genere ai temi trattati, ma anche di riconoscimento della presenza delle donne nel campo del sapere.
Per questo riteniamo che la decolonizzazione delle discipline del libro in ambito italiano può probabilmente passare, come fin qui abbiamo tentato di dimostrare, inizialmente solo dai gender studies.
Useremo queste dichiarazioni etiche, elencate senza un particolare ordine di importanza, per guidare e migliorare le nostre pratiche di catalogazione:
Le autrici hanno concepito e discusso insieme tutto il contenuto dell’articolo, ma per quanto riguarda la redazione Lucia Sardo ha scritto il paragrafo La biblioteconomia critica (critical librarianship – critlib) e La catalogazione critica e le questioni di genere; Giulia Crippa ha scritto il paragrafo Professione; Valentina Sonzini ha scritto il paragrafo Intersezionalità e storia del libro.
Ultima consultazione siti web: 17 settembre 2021.