Madel Crasta
Contribuiamo tutti ad arricchire i punti di vista sulle questioni che ci stanno a cuore e tanti temi di quelli che tratterò sono stati già affrontati qui su AIB studi. Le mie esperienze lavorative sono iniziate dalle biblioteche negli anni Settanta e per molti anni sono stata bibliotecaria con tutta me stessa. Ora ritorno alle biblioteche dopo diversi ruoli nella produzione e nei servizi culturali, ma il filo conduttore di esperienze professionali e approfondimenti tematici sono sempre stati i contenuti: dalla formazione delle raccolte all’allargamento della base sociale che sostiene l’eredità culturale e il pensiero critico. È lo stesso obiettivo che oggi mi riporta nei luoghi che offrono potenzialmente le migliori condizioni nel favorire l’incontro delle persone con questa eredità; le biblioteche, infatti, diffuse nel Paese (siano esse dello Stato, degli enti territoriali, del sistema educativo e della ricerca, del sistema produttivo), predisposte (per lo più) al servizio e già orientate all’aggregazione in sistemi, sono nella posizione più favorevole per tessere relazioni fra persone, istituzioni, contenuti e mezzi, cuore pulsante del nostro tempo. Sono inoltre convinta che, nel suo complesso, la professione del bibliotecario abbia bisogno di individuare nel contesto attuale una ragione forte di rimotivazione, ponendosi al servizio di un rilancio sul piano civile e culturale, non solo delle biblioteche ma dell’intero Paese, non nel futuro ma adesso.
Non è detto che il potenziale si realizzi, m’interrogo quindi sulle condizioni che ne favoriscano l’attuazione, pur consapevole che per non essere velleitari sarebbe già tanto invertire tendenze e innescare processi. Per questo motivo preferisco concentrarmi sulle politiche culturali e sull’istituzione biblioteca nel suo insieme piuttosto che su specifiche declinazioni e, rispetto all’innovazione, rifletterò sul contesto in cui si realizza, per capire se la biblioteca debba in qualche modo allargare il suo raggio d’azione e rimettere a fuoco un altro sguardo, quello culturale. Non penso affatto a un’inversione di tendenza rispetto al sociale ma a una sintesi in risposta alle nuove domande e a quelle di sempre. Ripercorrendo alcune scelte professionali che hanno orientato la direzione delle biblioteche negli ultimi cinquant’anni, mi soffermerò sull’interpretazione del ruolo culturale dell’istituzione, anche in rapporto con la progressiva penetrazione della cultura digitale, ben oltre la dimensione tecnologica. Rispetto alla lettura del nostro contesto attuale, emerge in modo macroscopico una questione culturale con cui i bibliotecari si dovranno misurare, per un altro passaggio di fase, reso necessario da un’emergenza che riguarda tutti. L’hub di comunità1 è una conquista per tutte le tipologie di biblioteca – comprese le speciali – che, qualunque sia il loro interlocutore, accolgono, interpretano, rispondono e creano relazioni. Si tratta ora di dare ai luoghi d’incontro e all’inclusività un maggiore contenuto di conoscenza, di orientamento, di ricostituzione della trama che lega il passato al presente con i suoi attori vecchi e nuovi. Si potrebbe definire un’impronta più culturale in senso lato, intesa come parte integrante del ruolo sociale. Non sembra infatti credibile che il dilagare di risorse digitali trasportate da qualsiasi device, i diversi modi di apprendere e i confini conosciuti che cadono, richiedano solo piccoli graduali aggiustamenti delle istituzioni e delle professioni culturali. Se aggiungiamo a questi scossoni due crisi successive – la crisi economica del 2008 e la crisi pandemica in corso – possiamo cogliere i presupposti per una nuova mediazione culturale con un’impronta fortemente connettiva, fondata sulle relazioni.
La domanda di connettività (sociale, cognitiva e tecnologica) non si esprime in modo esplicito in un tessuto sociale, come quello italiano, storicamente dominato da una logica dicotomica/oppositiva/disgiuntiva che certo non favorisce la dimensione relazionale del digitale. Eppure, questo carattere orizzontale2 e policentrico ha già impregnato di sé la società, anche se ostacolato dalla persistenza del verticale/disgiuntivo nelle visioni opposte che si fronteggiano su qualsiasi tema. Credo che un contributo alla comprensione di questa transizione, possa rinnovare la formula ‘diffusione della cultura’ e ricucire una trama che appare consumata. Certo un linguaggio meno controllato e categorie interpretative esterne ai saperi professionali rischiano d’inoltrarsi in terreni non presidiati dagli statuti disciplinari; mi chiedo, però, se possiamo permetterci di trascurare strumenti di comprensione e competenze traversali che integrano lo sguardo sulle persone nella loro interezza, dentro e fuori le biblioteche, dentro e fuori la ‘zona culturale’. E ancora possiamo ignorare, per esempio, la percezione d’instabilità e d’impotenza che, anche nella dimensione professionale, determina comportamenti lavorativi e sociali, incidendo su scelte e risultati?
Il cambiamento è vissuto come un valore in sé tanto da apparire taumaturgico a prescindere dalle condizioni e dalla direzione. Diverso è dare nuove forme alle cose, applicare modelli innovativi o confermare quelli esistenti, darsi il tempo di sperimentare e procedere con modalità non distruttive del tessuto sociale e istituzionale. Anche i bibliotecari si sono sentiti pronti a cambiare ipotesi di lavoro per abbracciarne altre in una logica oppositiva e sequenziale piuttosto che dialettica.
Nell’ultimo quarto del Novecento è iniziata anche per le biblioteche un’epoca di svolte ravvicinate, ognuna delle quali ha cercato di reagire alle trasformazioni che penetravano anche nel nostro mondo abbastanza riparato. Di queste onde d’urto, contrariamente al passato, le biblioteche si son trovate a essere protagoniste, luoghi del presente e non solo storici, perché gli sconvolgimenti riguardavano proprio i modi e i luoghi della memoria, del sapere e dell’informazione. Nelle biblioteche, molto prima che nei musei e negli archivi storici, si è sentita la necessità di rileggere la propria missione e i caratteri della società. I bibliotecari, infatti, fin dagli anni Settanta del Novecento, consapevolmente o no, hanno vissuto direttamente in poco meno di cinquant’anni una serie di processi: crescita del pubblico della cultura; espandersi progressivo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione; processi di globalizzazione; pienezza della cultura digitale, slittamento dei confini e delle coordinate consolidate; bisogno di luoghi d’incontro e di socialità a fronte di un indebolimento della coesione sociale, con l’emarginazione delle periferie e il dilagare della povertà educativa. Ogni tipologia di biblioteca ha fatto i conti con il suo pubblico, anche anticipandone le domande quando era nelle condizioni di farlo, ma in linea di massima il protagonismo della società, la disponibilità dei nuovi media e l’inedita mobilità dei contenuti immateriali hanno progressivamente inciso sulla struttura stessa delle istituzioni culturali per quanto ‘resilienti’ esse siano. In Italia questa struttura si è storicamente organizzata secondo una spiccata verticalità, ben oltre quella necessaria alle finalità documentarie, ai caratteri specifici dei differenti supporti materiali conservati nelle teche (musei, biblioteche, archivi storici e, poi, fototeche, mediateche). Le rappresentazioni digitali degli oggetti e la relativa trama semantica hanno dato una forte scossa a quest’assetto verticale, rendendolo più permeabile e connettendo oltre le mura delle sedi il potenziale di significati che gli oggetti della memoria sprigionano in noi.
Tento uno schema di queste fasi in successione, come le ho vissute in prima persona e da osservatrice interessata, per visualizzare sia la pressione della società verso nuovi ruoli e relazioni, sia la nostra interazione e l’inevitabile andamento a svolte. Non mi sembra utile discutere la necessità o la funzionalità di queste svolte, credo invece possa essere utile non una nuova svolta ma una sintesi in cui il ruolo culturale sia vissuto come indifferibile domanda del sociale.
Questa rapida carrellata mi riporta al nodo di fondo che sono convinta vada affrontato, cioè se sia possibile per le biblioteche svolgere un ruolo incisivo nel clima culturale del Paese e, eventualmente, come e con chi.
Siamo abituati a considerare come nazionale la questione meridionale ma direi che la questione culturale è quella che in fondo sottende tutto e rappresenta oggi la vera sfida rispetto alla contemporaneità. Non mi riferisco ai beni culturali in sé – definizione prevalsa nel nostro ordinamento – ma all’insieme dell’eredità culturale, poliedrica, articolata e strettamente intrecciata. L’eredità è anche antropologica, sociologica, psicologica e, non da ultima, giuridica; eredità sono i modelli comportamentali e organizzativi, la propensione individualistica e, più ancora, familistica, il culto della diversità (la propria), la diffidenza nei confronti delle istituzioni, il rapporto con la legge e, non ultima, la retorica.
Questione culturale, diseguaglianza e povertà educativa sono diventate oggi cruciali nel determinare il futuro del nostro Paese, la capacità di rappresentanza di una democrazia anch’essa in trasformazione e lo stesso clima psicologico, per il ruolo che l’informazione e la percezione della realtà giocano nelle valutazioni dei cittadini. Le immense periferie – spaziali, sociali, educative e psicologiche – sono lontane da un accesso diffuso ai contenuti culturali e alle conoscenze organizzate e questo crea dissonanze pericolose in una società che è, allo stesso tempo, bersagliata dai media e abituata a esprimersi con immediatezza sui social. Non paragoniamo le attuali moltitudini alle masse realmente analfabete della storia, perché la società scolarizzata è pervenuta nel frattempo al digitale e con esso al diritto di tutti a leggere e ‘pubblicare’ senza filtri (o pochi e problematici) anche da uno smartphone. Certo i nostri sono ‘mali antichi’ ma nelle condizioni attuali assumono un ruolo determinante per l’ingigantita capacità di disgregazione del tessuto sociale.
Il percorso della società italiana emerge con chiarezza non solo dall’ormai classico Prima non leggere di Armando Petrucci, ma dalle analisi di Tullio De Mauro e dai più recenti lavori di Giovanni Solimine e di Mauro Guerrini8, tanto per citare alcuni studiosi connessi con il mondo delle biblioteche e in grado di collocarle in una più ampia analisi del contesto. Le preoccupazioni che puntualmente emergono nei media sul livello culturale degli italiani e sulla diffusione dell’analfabetismo funzionale non trovano risposta e, d’altra parte, la scuola, l’università e la cultura afferiscono a ministeri diversi, ognuno impegnato nel suo specifico e sempre alle prese con governi di breve durata. Fra la crisi economica del 2007, la crisi pandemica (entrambe non superate), e le ‘riforme non riforme’, temo si vada restringendo quel pubblico della cultura che si era verificato dagli anni Settanta ai primissimi anni di questo secolo. Sul fenomeno della ‘cultura di massa’ si sono espressi giudizi anche brutalmente contrastanti, ma rispetto al tema di queste pagine, l’allargamento del pubblico ha segnato comunque maggiori opportunità e possibilità di scelta per l’offerta culturale e una più ampia circolazione di contenuti culturali nel ceto medio, allora allargato e riflessivo, ora ristretto e disilluso.
Comprendere meglio i caratteri e le contraddizioni della società digitale, con le sue aspettative di condivisione che convivono con l’individualismo di massa, darebbe al tessuto professionale del patrimonio culturale più strumenti per interagire con la collettività, interpretandone i nuovi bisogni. Chi, per funzione e per responsabilità, opera scelte che incidono a più livelli sulla collettività e sulla qualità dello sviluppo non può che fondarsi su un’analisi del contesto, che ne individui i caratteri preminenti e le priorità per un’innovazione non di superfice. Senza obiettivi di respiro, il nostro scontento si riverserà senz’appello sulle inamovibili ‘incapacità degli italiani’, oggetto di frustrazione e di tanti nostri alibi. Abbiamo analisi autorevoli della società contemporanea e della situazione culturale nelle sue articolazioni, statistiche culturali prodotte dall’Istat e da altre agenzie di settore, molto più mirate rispetto al passato e, non da ultimi, strumenti di conoscenza dei contesti specifici, sui quali non vanno automaticamente calate le analisi più ampie. Come in tutte le professioni contano la formazione, l’esperienza e le sensibilità personali, ma in linea di massima s’impone rispetto al passato la dimensione relazionale. È un passaggio non facile e lo si può anche ignorare ma a rischio di ruoli riduttivi o esclusivamente tecnici, perché anche l’unico bibliotecario/a di una piccola biblioteca si troverà comunque a fare o proporre scelte decisive e dovrà essere in grado di motivarle in un linguaggio non specialistico. Non escludo, per esempio, che si possa, riorganizzando le procedure, diminuire il tempo dedicato ad altri impegni, mentre escludo, per la ‘contradizion che nol consente’ che una biblioteca sia priva di bibliotecario/a.
L’intensa ricerca di programmi culturali online nel pieno del lockdown ci conferma almeno che l’esigenza di strumenti e momenti di conoscenza non diminuisce in quella parte di popolazione che già ne ha esperienza, mentre sono l’economia e l’organizzazione dell’offerta culturale a deprimere la domanda. Il lungo tempo di sospensione della vita conosciuta durante la pandemia ha reso macroscopiche le disuguaglianze, un deficit diffuso che è insieme tecnologico e culturale.
L’affermarsi del digitale e del digital heritage ha reso disponibile un universo di significati e di dati che si aggiungono al patrimonio esistente dei formati tradizionali, muovendosi velocemente e connettendosi fra loro attraverso protocolli condivisi o anche solo per l’approssimativo abbinamento semantico dei motori di ricerca. La continua generazione di linked data consente l’analisi di flussi informativi e di risposte a domande che prima non si potevano neanche porre. Interessa notare, nel quadro di questa nuova affermazione della dimensione semantica, che chi si mostra in grado di formulare queste domande ha spesso una formazione umanistica come ammettono anche i data scientist, nonostante il perdurante e vecchio appello allo studio delle sole scienze dure, appello ora esteso alle donne, nel caso volessero raggiungere le pari opportunità nelle professioni. Ebbene sì, anche le questioni di genere ci riguardano perché la cultura politico-governativa ripete nelle sue proposte l’equivoco del ‘tutti uguali’, mentre la componente femminile della professione bibliotecaria – e, a mio parere, anche quella maschile – ha proprio oggi l’interesse a coltivare la ‘diversità’ degli studi umanistici, in grado interpretare al meglio le opportunità relazionali della cultura digitale. Il linguaggio digitale, infatti, supera oggi il balbettio dell’infanzia, è policentrico, trasversale e vive di connessioni semantiche, agite o potenziali. Il cittadino apprende in modo diverso, perché sia sul piano cognitivo sia sul piano emotivo richiede una trama, una narrazione che rappresenti le relazioni. So che ‘narrazione’ è un termine ormai tanto usurato quanto poco applicato, ma al di là delle banalizzazioni ‘il narrare’ non è affatto una pragmatica concessione alle esigenze di comunicazione, ma corrisponde proprio all’architettura della mente umana9. Se non si restituisce la trama di significati, pur esistente nella vita reale, non si realizza il potenziale conoscitivo delle informazioni, tranne forse agli occhi di chi già possiede le coordinate interpretative.
In risposta a questa domanda servirebbe mettere a fuoco strategie diverse, uno sguardo connettivo e trasversale, una nuova mediazione che superi i confini delle biblioteche, e diventi un punto di vista aggregante su quel ‘culturale’ che da anni ci affligge. Per questo obiettivo strategico serve un’interazione vera, una consuetudine a integrare i punti di vista di bibliotecari, docenti disciplinari, sociologi, psicologi e antropologi, formatori e l’AIB con le altre associazioni professionali del patrimonio. Interlocutore privilegiato delle biblioteche è già da tempo il mondo dell’associazionismo, attore indiscusso sul campo e capace di mobilitare i quartieri su obiettivi vicini alle persone. In questa tela di collaborazioni il sapere specialistico è condizione necessaria ma non sufficiente a interpretare nella nostra epoca il ruolo culturale delle biblioteche. Solo insieme potremo lavorare concretamente per far riemergere le trame di significati realmente esistenti, assecondando la mobilità trasversale e multimediale dei contenuti che amplificano la possibilità di coinvolgimento delle esperienze e delle conoscenze dei molti (non dei pochi).
Le storiche istituzioni della cultura si trovano a operare come poli di un reticolo fra supporti materiali, contenuti immateriali, collettività e territori; reticolo che può sviluppare il suo potenziale cognitivo solo se ben segnalato nelle mappe che orientano i cittadini. Questo è un ruolo insostituibile, oggi e sempre di più, per le biblioteche, da sempre legate alle fonti della conoscenza e progressivamente alla catalogazione semantica e ai linked data. La questione da porsi è se questo valore abbia ancora una sua centralità da reinterpretare o sia destinato a ritagliarsi un posto nel novero dei programmi dell’hub sociale. Mi pongo questa domanda avendo letto con molto interesse e condivisione il libro di Cecilia Cognigni sull’azione culturale della biblioteca pubblica10, da cui emerge una certa distanza verticale delle attività culturali dagli altri processi lavorativi, mente tutta l’impostazione del libro ne afferma (in modo anche implicito) la centralità, richiamando semmai all’esigenza di un più solido impianto teorico e programmatico come azione che attraversa la biblioteca pubblica.
Un’ipotesi per me convincente, in sintesi con la questione di cui sopra, è che la funzione comune, da declinarsi poi nelle specificità, sia una funzione connettiva nel ricucire i frammenti che società e rete spargono ovunque in tutti i sensi, utilizzando a tal fine in modo coordinato tutti gli strumenti di cui la biblioteca dispone (compresi certamente incontri ed eventi) e anche altri che la comunità può rendere disponibile. In Italia questo ruolo sembrerebbe particolarmente necessario perché la frammentazione digitale s’innesta in un contesto storicamente, e geograficamente molto frammentato. Ripetiamo come un mantra che la diversità è una ricchezza, ma è anche divisiva e dispersiva, richiede che ci si comprenda reciprocamente: una mediazione culturale, dunque. Anche in questo caso il retaggio storico ha fatto sì che nella percezione degli italiani la diversità s’identifichi con distanza, pericolo, inimicizia: così è stato per secoli e, ammettiamolo, non tutto è cambiato. Le nostre mille diversità diventano distruttive quando impediscono le connessioni, il disegno dell’insieme, il passaggio fluido delle idee, la capacità di generalizzare le esperienze. In queste condizioni, tuttora dominanti, sembrerebbe utile una nuova robusta e diffusa mediazione culturale, con uno sguardo prioritariamente connettivo e partecipativo, inteso come condizione di efficacia nel raggiungimento della generale finalità sociale dell’istituzione biblioteca (e delle altre istituzioni culturali). Se, infatti, si sta compiendo in senso multimediale la trasformazione della ‘memoria del sapere’, comprendendo vecchi e nuovi media, se i contenuti immateriali diventano soggetti aggregatori dei supporti materiali, se tutto questo è in atto sembra ragionevole far sì che l’intera architettura istituzionale della conservazione e della valorizzazione ne dia conto proficuamente. Sarebbe astorico pretendere che l’impianto istituzionale stratificatosi nei secoli possa oggi rispondere a una domanda d’interconnessione per cui non esistevano prima le condizioni. I bibliotecari hanno imparato per primi ad attraversare le mura, possiedono già per formazione, almeno in parte e come metodo, le chiavi d’accesso agli altri aggregati informativi, reti museali, archivistiche, civiche, turistiche, sanitarie, commerciali e produttive. Soprattutto dal punto di vista intellettuale e comportamentale avrebbe un alto valore emblematico se le biblioteche diffondessero la loro profonda consapevolezza, così rara in Italia, dell’essere sistema, del rispetto degli standard per interagire con il mondo senza per questo perdere la libertà, del valore di non essere sempre e comunque diversi.
Hub di comunità senz’altro, ma hub culturali e informativi, come parte integrante del sociale, perché è al sociale che vengono a mancare le coordinate fondative della coesione sociale, dell’appartenenza e perfino del tempo e dello spazio.
Cogliere la centralità delle relazioni11 è determinante perché, dentro o fuori della rete, il potenziale di idee, scoperte, scambio, interpretazioni, ricostruzioni, viene dal connettere ciò che la società segmentata e la rete stessa disperdono. Ugualmente di connessioni è fatto il sentimento del passato, respinto ai margini dai caratteri del XXI secolo che tendono a rendere remoto perfino il Novecento. A questo estraniamento partecipano anche i bibliotecari: nelle biblioteche di pubblica lettura, dove il presente e l’altrove s’impongono per la natura stessa del rapporto con il territorio e con la multiculturalità; nelle biblioteche pubbliche statali, pur immersi nella dimensione storica, stentano a riconoscere nel passato la loro ragion d’essere. Nelle loro biblioteche/monumenti si mettono in campo eventi spesso distanti dalla storia della biblioteca e dei luoghi di cui sedi e raccolte sono insostituibile espressione, ormai convinti che gli studi e la storia abbiano perso il loro pubblico privilegiato. Una perdita vera ma non inesorabile, direi anzi provocata da una serie di condizioni prima descritte e, in particolare, dal permanere di un rapporto con il passato di cui oggi si sta prendendo coscienza.
Il nostro immenso passato, sotto forma di beni culturali (intesi ancora prevalentemente come testimonianze materiali), assorbe le risorse disponibili, mentre rimane sottesa l’eredità culturale che, come insieme di corpo e pensiero, attraversa l’intero territorio e ne determina la fisionomia, pur restando estranea a parte consistente della popolazione italiana. Domina la fisicità dei beni come se l’interesse per noi umani non stesse nell’insieme di contenuti che essi potenzialmente ci trasmettono e nella storia che la loro connessione ci restituisce. Una sottovalutazione, a dir poco, del loro valore per noi perché, privando la materia di tanto valore conoscitivo, depauperiamo gli oggetti e noi stessi, con il risultato che l’eredità culturale così settorializzata perde appunto tanta parte delle relazioni da cui come bene relazionale è nata.
La public history12 (storia per tutti) può diventare uno strumento strategico a favore di una democrazia un po’ meno fragile e di una maggiore capacità di conoscere e gestire i conflitti. In quest’ottica si va diffondendo – fra gli storici e le altre professioni che curano la conoscenza del passato – l’impegno a ‘mettere la storia al lavoro’ costruendo, in modo condiviso, consapevolezza e sensibilità storiche, strumenti di comprensione critica del passato. Guardando alla trasmissione della conoscenza storica, è possibile riflettere sullo stile comunicativo con cui in Italia si è insegnata la vita passata «scarnificandola» tanto da perdere «il suo aspetto carnoso e verde di foglia fresca […]»13. E ancora da Luciano Canfora «[…] il pathos narrativo (la partecipazione emotiva, non il volgare patetismo) non è un cascame del lavoro storiografico ma al contrario l’indizio della perdurante vita del passato dentro di noi […]»14. Non averne consapevolezza porta a non riconoscere né sé stessi né gli altri, né i luoghi, né il perché dello stare insieme. Altro che diminuire la presenza della storia nelle scuole e nei concorsi: si tratta, semmai, di condividerla come bene comune in cui la dimensione storica è componente imprescindibile della cultura così come lo è la contemporaneità. Se ‘essere è tessere’15, la cultura è realmente la tela che ci rappresenta e tiene insieme i nodi; al di fuori di questo tutto è possibile e cangiante.
Comprendere cos’è il passato, riconoscere nelle vicende storiche la nostra umanità, le dinamiche, l’evolversi di idee e conoscenze, i fattori di cambiamento e di permanenza, può significare per le persone riconoscersi in un’eredità culturale molteplice e interconnessa, sentirla come propria piuttosto che bella ma estranea. Se identificare le biblioteche con i beni culturali poteva snaturare l’identità informativa, è altrettanto vero che le biblioteche erano e restano un pilastro, parte costitutiva dell’eredità culturale e di questa si fanno carico, anche quando non ne sono ben consapevoli.
Del resto, nonostante una copiosa letteratura e autorevoli testimonianze sul valore sociale, politico ed economico della cultura e della conoscenza come humus che nutre uno sviluppo sostenibile, tanto più ai fini della così detta transizione ecologica, sembra prevalere ancora a livello politico-decisionale la tradizionale classificazione della cultura come settore, spesso confermata dagli stessi protagonisti delle professioni culturali.
Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) apre degli spazi su una migliore «accessibilità fisica e cognitiva di istituti e luoghi della cultura»16, ma dovrà essere il tessuto professionale degli attori sociali a elaborare idee e proposte per riempire questi spazi.
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Ultima consultazione dei siti web: 10 agosto 2021.