Per una cultura del cambiamento, oggi: brevi considerazioni sull’eredità della biblioteconomia gestionale

Stefano Parise

Il tema della gestione consapevole della biblioteca e dei suoi servizi rappresenta un elemento peculiare della riflessione condotta da Giovanni Solimine nell’arco del quindicennio che va dalla pubblicazione di Gestione e innovazione della biblioteca1 (1990) a quella di Gestire il cambiamento2 (2003). I due volumi, pur nella loro marcata diversità, evidenziano sin dal titolo la centralità della tematica gestionale3, che da un lato si collocava nel solco tracciato dalla biblioteconomia anglosassone a cui si guardava (e si guarda) come a un modello da cui trarre temi e derivare approcci da adattare alla realtà italiana, dall’altro risentiva della temperie culturale che accompagnò le riforme della pubblica amministrazione realizzate negli anni Novanta del Novecento.
Varrà la pena ricordare che la spinta riformista mirava a spingere la pubblica amministrazione oltre le secche di un approccio ‘per adempimenti’ che rappresentava (ora come oggi, al di là della retorica sulla semplificazione amministrativa) un ostacolo allo sviluppo economico e sociale del paese, individuando nel recupero d’efficienza, nell’innovazione organizzativa e nella rinnovata attenzione ai bisogni – in una parola nella ‘cultura del risultato’ – i vettori per rimediare alla crisi generalizzata di sfiducia che connotava (e purtroppo ancora connota) il rapporto fra cittadini e istituzioni.
Nel tracciare un breve bilancio di quella stagione il suo principale artefice, Franco Bassanini, ha scritto:

le riforme degli anni novanta, ancorché incompiute, hanno infatti rappresentato – nonostante contraddizioni, insuccessi e incertezze – il più importante tentativo di ammodernamento della Pubblica Amministrazione italiana dall’Unità ad oggi4.

Ma alcuni risultati di questo processo (come, ad esempio, la riduzione del costo della macchina amministrativa pubblica, passata sostanzialmente attraverso la riduzione del costo del personale: meno 2 punti di PIL fra 1990 e 2000), all’apparenza positivi, rappresentano un frutto avvelenato i cui effetti i settori più deboli della PA, come quello bibliotecario, stanno ancora scontando le conseguenze.
Su un piano qualitativo,

le istituzioni territoriali furono dotate di assetti istituzionali più moderni, di governi più stabili, di compiti, poteri e risorse molto più rilevanti, anticipando processi di decentramento oggi avviati in tutte le principali democrazie europee. […] Sia pur con adattamenti e deroghe, furono largamente importati, nel settore pubblico, metodi gestionali e rapporti di lavoro da lungo tempo in uso nel settore privato (e nei sistemi amministrativi anglosassoni). Programmazione strategica, controllo di gestione, valutazione delle performance, responsabilità, merito, customer satisfaction cessarono di essere parole estranee alla cultura delle amministrazioni pubbliche e divennero, almeno sulla carta, strumenti ordinari della loro attività5.

Ed è sempre figlia di quella stagione (in positivo) la separazione delle prerogative di politici e tecnici, ovvero la distinzione fra poteri di indirizzo e controllo e attività di gestione, e (in negativo) l’irruzione in scena dei processi di esternalizzazione della gestione dei servizi pubblici, come conseguenza della ridefinizione del perimetro di intervento della PA.
Tali vicende rappresentano lo sfondo entro cui collocare i due volumi citati e, più in generale rappresenta il contesto di riferimento per la cosiddetta ‘biblioteconomia gestionale’, ovvero l’indirizzo di studi e di pensiero che a partire dalla metà degli anni Ottanta del secolo scorso ha ampliato l’orizzonte tematico della produzione scientifica di settore, favorendo l’avvicinamento della biblioteconomia alle discipline gestionali e del management:

la biblioteconomia deve riuscire perfino a prescindere dalla biblioteca, così come essa è stata storicamente determinata, e deve essere capace di proporre i suoi contenuti disciplinari in un quadro di riferimento più ampio e variegato, in cui la biblioteca si trova oggi ad agire insieme ad una pluralità di strutture e servizi che si occupano di organizzare l’informazione e i documenti6.

La chiave di lettura dell’avvicinamento della biblioteconomia al management risiede dunque nella ricerca di criteri di gestione che favoriscano il raggiungimento delle grandi finalità sociali e culturali del servizio bibliotecario.
Ed è esattamente qui, in questo assunto, che si rivela il leitmotiv della ricerca di Solimine: la definizione del profilo, o meglio dell’‘idea’ di biblioteca in grado di individuare, declinare e soddisfare tali finalità sociali e culturali, ovvero di soddisfare i bisogni emergenti inserendo l’istituto bibliotecario nel vivo delle dinamiche sociali del proprio tempo, oltre le prassi consolidate della biblioteconomia.
Una riflessione che l’AIB aveva avviato almeno dai primi anni Settanta sull’onda dell’entusiasmo per l’attuazione del regionalismo e che si era coagulata negli assunti enunciati dalle ‘tesi’ approvate durante il Congresso nazionale AIB di Viareggio (1987): l’idea che la biblioteca, istituto della contemporaneità, abbia bisogno di poggiare su un progetto culturale che ne giustifichi e orienti l’azione; il principio dell’autonomia della biblioteca, intesa come primato delle istanze della professione su quelle istituzionali; la connotazione della biblioteca come servizio informativo che ridefiniva la missione dell’istituto sganciandolo definitivamente dalla tutela e dalla sfera dei beni culturali («portare le nostre biblioteche verso un futuro che le veda rispondere meglio ai bisogni informativi della società civile»)7.
Basta leggere l’introduzione a Gestione e innovazione della biblioteca per calarsi nella temperie del dibattito di quegli anni, per cogliere le domande che lo caratterizzavano (in che direzione va la biblioteca? Quali elementi di razionalizzazione vanno introdotti nella sua gestione? Quali vantaggi e quali rischi comporta l’impiego delle nuove tecnologie?) e i sentieri battuti per individuare i punti di forza di una politica di rinnovamento delle biblioteche: gestione consapevole delle risorse, innovazione attraverso l’uso delle tecnologie dell’informazione, rafforzamento della professione; ma anche, la richiesta di maggiore autonomia amministrativa come garanzia per un migliore funzionamento dei servizi bibliotecari. Il primato della biblioteconomia sulla politica affermava a un tempo l’orgoglio di appartenere a una compagine di professionisti competente e responsabile e la necessità di fondare la rivendicazione di una politica per le biblioteche su istanze di trasformazione e innovazione dei servizi, non su alchimie legislative o istituzionali, pur considerate essenziali (si veda, ad esempio, la richiesta di una ‘legge-quadro’ sulle biblioteche, che accompagna da almeno mezzo secolo le richieste formulate dall’AIB ai vari governi repubblicani).

La rivendicazione di un ruolo attivo nei confronti della società, l’individuazione di un profilo peculiare – quello informativo – e la consapevolezza di essere entrati in una stagione di profondi mutamenti economici, sociali e tecnologici portava quasi naturalmente le frange più sensibili della professione a teorizzare e praticare la necessità di un allargamento dei suoi confini, di una revisione del ruolo del bibliotecario e di un radicale aggiornamento del profilo di competenze necessario per svolgere con efficacia un ruolo imperniato sempre più sulla mediazione informativa, da cui discendeva quasi come necessità l’attenzione ai vari aspetti della gestione consapevole delle biblioteche.
L’attenzione alla misurazione e valutazione dei servizi, agli standard bibliometrici, i tentativi di tradurre l’operato delle biblioteche in unità di misura economiche e di misurare il loro impatto sociale, lo sviluppo di tecniche per la gestione delle politiche documentarie (in luogo dei meri ‘acquisti’) e il project management applicato all’attività bibliotecaria costituiscono alcune delle declinazioni di un percorso articolato e a più voci compiuto dalla biblioteconomia italiana a cavallo fra i due secoli, all’interno del quale è possibile identificare un filo rosso unificante nel tema della gestione del cambiamento, inteso come capacità di interpretare le variabili d’ambiente e di elaborare strategie finalizzate all’interazione con esse, a cui è dedicato il secondo volume considerato.

Tutti, o quasi tutti, – afferma nella prefazione a Gestire il cambiamento Giovanni Solimine – si dicono convinti che la conduzione delle biblioteche debba essere orientata all’efficacia e che l’erogazione dei servizi e la soddisfazione degli utenti debbano costituire il principale obiettivo dell’attività biblioteconomica: in una parola, possiamo dire che il servizio è l’essenza stessa della biblioteca8.

Quella convinzione era forse il frutto migliore dell’abbondante messe di sperimentazioni che ha caratterizzato gli anni Novanta del secolo scorso, condotte a volte con rigore metodologico, più spesso procedendo per tentativi. Il volume, articolato in un’introduzione del curatore e in quattro saggi che declinano il tema della biblioteca come servizio secondo la prospettiva della pianificazione, della gestione, della comunicazione e della valutazione d’efficacia9, si proponeva come il primo tentativo di sistematizzare in maniera coerente e coordinata gli aspetti qualificanti di una riflessione ormai ventennale, offrendo uno strumento di lavoro utile a diffondere e consolidare fra i bibliotecari italiani una cultura del risultato.
Oggi, a distanza di un ulteriore quindicennio, quanto di tale riflessione si è tradotto in pratiche professionali consolidate? Difficile dare una risposta netta. Certamente la generazione di bibliotecari a cui appartengo si è formata e nutrita in quella temperie, modellando visione e operatività sul concetto di gestione consapevole, mutuandovi la strumentazione concettuale e i ferri del mestiere. Chi è riuscito a entrare nei ruoli nei primi due decenni del XXI secolo ha certamente beneficiato delle conquiste e delle riflessioni – non solo di matrice biblioteconomica – della stagione precedente. Tuttavia il blocco del turnover nella pubblica amministrazione italiana, motivato dalla necessità di ridurre il debito pubblico, ha prodotto effetti devastanti sulla possibilità di trasferire e dare continuità alle culture e alle pratiche di servizio, vanificando anche gli sforzi fatti da una parte del sistema universitario per adeguare i contenuti dei percorsi di studio dei futuri bibliotecari alle istanze emergenti.

Rimanendo nel contesto italiano, il primo decennio del secolo si è aperto con la riforma del Titolo V della Costituzione che nelle intenzioni dei promotori doveva rilanciare il processo di devoluzione di competenze dallo Stato alle regioni in una prospettiva compiutamente federalista. Il processo si è inabissato nel volgere di un decennio, lasciando sul terreno la moltiplicazione dei centri di costo, un eccesso di regolazione e un aumento del contenzioso fra Stato e regioni sulle competenze concorrenti, senza che a tale processo abbia corrisposto una rinnovata attenzione allo sviluppo dei sistemi bibliotecari regionali. Anche in alcune delle aree del paese in cui tale spinta si era efficacemente manifestata sin dagli anni Settanta, la capacità propulsiva e l’interesse per un servizio che ormai si tende a dare per scontato si sono fortemente affievoliti, gli uffici regionali (e provinciali) di riferimento spopolati o depotenziati. Possiamo senz’altro dire che il regionalismo, a cinquant’anni dal suo varo, mostra la corda e le biblioteche hanno la necessità di ripensare il concetto di ‘autonomia’ sulla base di processi di collaborazione orizzontale in assenza di riferimenti istituzionali in grado di ergersi ad autentici interlocutori per il governo e lo sviluppo dei servizi sul territorio. Sempre sul fronte delle riforme istituzionali, ha sicuramente prodotto effetti più duraturi e omogenei il provvedimento che nel 1989 ha introdotto l’autonomia universitaria, e non è un caso che tale possibilità abbia indotto un significativo sviluppo dei servizi offerti dai sistemi bibliotecari di ateneo, il comparto che più ha saputo confrontarsi con il cambiamento tecnologico senza dover rimettere in discussione la funzione della biblioteca come infrastruttura per l’accesso alla conoscenza e all’informazione.

La crisi economica globale scatenata nel 2007 ha indotto una crisi di finanza pubblica con conseguenze disastrose sulla capacità di spesa degli enti titolari di biblioteche, determinando un oggettivo arretramento dei servizi bibliotecari e riducendo al lumicino le risorse e gli organici disponibili: basterà, a titolo di esempio, ricordare il grido d’allarme lanciato dal direttore della Biblioteca Braidense, che è a rischio di chiusura perché rimasta con due soli bibliotecari in servizio (e con una trentina di addetti). La situazione emergenziale richiederebbe una accresciuta capacità di pianificare, organizzare, gestire, investire che risulta nella maggior parte dei casi inibita dalla situazione in cui versa la maggior parte degli istituti italiani, i quali sono costretti a reazioni di tipo difensivo o, nel migliore dei casi, resilienti (termine molto di moda che tuttavia rimanda al precetto del fare di necessità virtù, in quanto tale non particolarmente virtuoso).
Più in generale, ciò che all’inizio del nuovo millennio poteva sembrare un processo tutto sommato governabile – il cambiamento – è oggi una condizione immanente delle società contemporanee che rischia di travolgere tutto e tutti (non a caso IFLA ha messo in guardia dal rischio già con il primo Trend report intitolato Riding the waves or caught in the tide?). L’inarrestabile velocità del cambiamento tecnologico, la pervasività delle tecnologie digitali e l’accesso alla rete in mobilità, la datificazione del mondo richiedono una reattività e una capacità di adattamento che mi paiono fuori dalla portata di istituzioni costrette all’interno di procedure burocratiche anacronistiche, obbligate a rincorrere i fenomeni invece che ad anticiparli. Solo per fare un altro esempio, le biblioteche di ente locale italiane hanno rivalutato, con la pandemia, il ruolo delle risorse digitali per il prestito, ma scontano un enorme ritardo nel tematizzare la trasformazione dell’intera organizzazione della biblioteca in senso digitale, adottando una filosofia di gestione data driven e tecniche di machine learning per decodificare comportamenti e bisogni della propria utenza. Senza contare che il digitale, lungi dall’essere un elemento di perequazione, può accentuare le diseguaglianze territoriali che ben conosciamo.

C’è un elemento, vorrei dire un presupposto, della riflessione sviluppata sulla gestione consapevole della biblioteca che, almeno per quanto riguarda le biblioteche di pubblica lettura, mi pare stia scomparendo irrimediabilmente dai radar: l’idea di biblioteca come servizio di natura informativa sta lasciando il campo a un concetto di biblioteca come spazio pubblico, come luogo in cui l’universo di possibilità una volta racchiuso nelle collezioni si sta spostando verso le relazioni. Nel passaggio dalla serendipity documentaria a quella situazionale, le potenzialità non dipendono più dall’incrocio di domanda d’informazione e offerta documentaria ma dalla disponibilità di spazi e di strumenti che risultano utili nella misura in cui sono utilizzabili creativamente, ‘qui e ora’: il valore non viene più prodotto dalla mediazione informativa ma da un altro genere di mediazione, di natura relazionale. Ciò che va rielaborato non è quindi la centralità della biblioteca ma il posizionamento del bibliotecario con il suo bagaglio di competenze e di cultura professionale, in funzione della necessità di concepire la biblioteca pubblica di base non solo come strumento per l’accesso a un determinato patrimonio di conoscenze ma come luogo di partecipazione, di sperimentazione e di perequazione: è sulla capacità di costruire e condividere competenze, è sull’empowerment individuale, sul capacity building e sulle varie literacy digitale, partecipativa, informativa che si giocherà, probabilmente, il futuro della biblioteca e della nostra professione.
Si tratta di un cambiamento all’insegna della complessità, perfettamente in linea con la realtà che ci circonda e per il quale servono una cultura professionale fondata sulla capacità di analisi e di previsione, programmazione, gestione, valutazione, e uno sguardo aperto sul mondo. In questo senso, la strada tracciata trent’anni fa dai fautori di una biblioteconomia gestionale è un’eredità preziosa, in grado di indicare, se non la direzione del viaggio, almeno l’equipaggiamento necessario per non perdersi.


Note

Ultima consultazione dei siti web: 13 novembre 2021.

1 Giovanni Solimine, Gestione e innovazione della biblioteca. Milano: Editrice bibliografica, 1990.
2 Gestire il cambiamento: nuove metodologie per il management della biblioteca, a cura di Giovanni Solimine. Milano: Editrice bibliografica, 2003.
3 Oltre ai due volumi citati, si veda Giovanni Solimine, Le raccolte delle biblioteche: progetto e gestione. Milano: Editrice bibliografica, 1999.
4 Franco Bassanini, Vent’anni di riforme del sistema amministrativo italiano, p. 2, https://www.bassanini.it/wp-content/uploads/2013/10/Ventanni-di-riforme-del-sistema-amministrativo-italiano-1990-2010.pdf.
5 Ivi, p. 2-3.
6 Gestire il cambiamento cit., p. 23.
7 G. Solimine, Gestione e innovazione della biblioteca cit., p. 7.
8 Ivi, p. 12.
9 G. Solimine, La biblioteconomia e il management, p. 17-68; Anna Galluzzi, La pianificazione dei servizi: analisi, obiettivi, metodi, p. 69-144; Giovanni Di Domenico, Lavorare per progetti, p. 145-236; Rosella Labriola; Michele Rosco, Le biblioteche verso il web marketing, p. 237-288; A. Galluzzi, Modelli e strumenti per la valutazione dell’efficacia, p. 289-385.