Alberto Salarelli
Sarebbe fin troppo facile riprendere in mano Senza sapere dopo sette anni dalla sua prima pubblicazione per verificare se e come potrebbe essere mutata la posizione del nostro Paese nelle molteplici classifiche riportate dall’autore relativamente ai consumi culturali e al grado di alfabetizzazione degli italiani. Proveremo a resistere a questo tentativo di aggiornamento (più che altro per la spiacevole sensazione che esso potrebbe portare a far emergere un quadro ancora più cupo di quello tratteggiato da Solimine) provando invece a prendere in esame due fatti significativi che si sono verificati in Italia dal 2014 (anno di pubblicazione del volume) a oggi, due fatti che, a mio modo di vedere, forniscono nuovi spunti di rilettura di molti temi presenti in quelle pagine: mi riferisco alla vittoria elettorale del Movimento 5 Stelle nelle elezioni politiche del 2018 e, naturalmente, alla pandemia da Covid-19.
Partiamo dal Movimento che, quando venne pubblicato il volume, era già in formidabile ascesa verso quello che pochi anni dopo si sarebbe rivelato il punto più alto di consenso registrato nel corso della sua storia: la tornata elettorale del marzo 2018 consacrò i pentastellati primo partito d’Italia con una percentuale del 32%: quasi un terzo di coloro che si erano recati alle urne avevano posto la loro croce sul simbolo del partito di Beppe Grillo. Questo risultato eccezionale consentì a coloro che avevano sempre sostenuto che «uno vale uno» – si badi: non un mero slogan ma uno dei cardini del loro credo politico – di portare ai vertici della Repubblica, in ruoli chiave, personaggi del tutto alieni da una cultura della competenza, poveri di idee e di esperienza. La riflessione che ne potremmo trarre, con una battuta, è che anche ‘senza sapere’ si può riuscire a fare una bella carrierona ma, appunto, sarebbe una mera battuta. Mi pare invece più interessante provare ad affrontare la questione con un altro approccio, ovvero: di che tipo di sapere sono portatori gli onorevoli Di Maio, Dadone, Sibilia, Fontana e Cancelleri?
Al di là del titolo del volume, Solimine è sempre sollecito nell’avvertire il lettore che la sua idea di sapere non ha a che fare con un concetto monolitico e inchiavardato su sé stesso: il sapere (quello di ciascun individuo ma anche quello condiviso a livello sociale) è in realtà una sommatoria di differenti tipologie di conoscenza che si assorbono e si rielaborano in modi e contesti molto differenti. Riprendendo la tripartizione dei saperi delineata da Guido Martinotti in un saggio pubblicato ormai diversi anni fa ma ancora molto attuale1, Solimine evidenzia i distinguo tra il sapere ‘colto’ (legato alle strutture istituzionali della ricerca e delle arti), quello ‘organizzativo’ (tipico delle pratiche burocratiche e organizzative) e quello ‘diffuso’ (indefinibile per la varietà di forme e mezzi attraverso i quali si sviluppa e si manifesta su larga scala). Saperi molto differenti tra loro e che, tuttavia, risultano oggi meno facilmente delimitabili l’uno rispetto all’altro a motivo del fatto che
i mezzi di comunicazione di massa e la Rete hanno scardinato un canonico schema di riferimento che in passato appariva ben delineato e, in alcuni casi, hanno reso anche meno facilmente intellegibili le cesure che separavano l’uno dall’altro questi tre mondi del sapere2.
Lo sfumarsi delle soluzioni di continuità tra i saperi – tema poi ripreso e ampliato da Solimine in un lavoro successivo: La cultura orizzontale3 – non li ha però resi indistinti, almeno fino ad ora: la comparsa di zone grigie sempre più ampie ove i differenti tipi di sapere si sovrappongono e/o si ibridano non inficia la tripartizione di Martinotti, perché tuttora differenti sono le condizioni con cui queste classes of knowledge si sviluppano, così come diversi sono gli effetti che esse riverberano sulla collettività. Quindi, per tornare agli onorevoli pentastellati menzionati sopra che fanno parte dell’attuale esecutivo (e, per carità di patria, tralasciamo i nomi di chi sedeva sugli alti scranni in quello precedente) si può ragionevolmente ritenere che essi siano portatori di un certo livello di sapere diffuso e organizzativo: in fondo, anche in un movimento fondato su un’idea di uguaglianza drastica e livellatrice, un leader per emergere dovrà pur dimostrare di avere – oltre al fiuto istintivo dell’animale politico – qualche talento, qualche dote, qualche competenza su come gestire un gruppo, su come articolare un progetto. I problemi si presentano quando chi occupa posizioni di vertice manifesta profondissime lacune in quello spazio mentale che dovrebbe ospitare il sapere del primo tipo, il sapere colto, perché sono proprio le competenze derivanti da esso che consentono di poter assumere decisioni strategiche, di ampio respiro, di lunga gittata temporale, quelle decisioni – insomma – che dimostrano, in chi ha il coraggio di assumerle, di avere i mezzi per affrontare la complessità sempre crescente dell’azione di governo: il costo dell’ignoranza, a questo livello apicale di responsabilità, è particolarmente gravoso. Ora, si dirà, ministri e sottosegretari incompetenti provenienti dalle fila di tutti i partiti se ne sono sempre visti (e, lo sappiamo, ancora se ne vedono) nei governi dell’Italia repubblicana. Il che è indubbiamente vero. La differenza sostanziale rispetto al Movimento 5 Stelle – e, ribadisco, per questo ne scrivo in questa sede traendo spunto dalla rilettura del volume di Solimine – è che mai si era vista nel passato un’aggregazione di stampo antipolitico fare del disprezzo delle competenze una vera e propria bandiera e, temo conseguentemente, così facendo ottenere un successo di tale portata in grado di traghettare i nipotini feroci di Guglielmo Giannini e di Corrado Tedeschi al comando del Paese. Il clamoroso consenso elettorale riscosso dal Movimento, al netto della quota indubbiamente non irrilevante dovuta al voto di protesta, credo sia uno dei segni più evidenti di quel mancato dissodamento culturale all’interno della società italiana lamentato in tante pagine del volume di Solimine. Ma c’è di più: l’attacco sistematicamente rivolto dal populismo grillino ai saperi colti è logicamente collegato ai portatori che più emblematicamente incarnano codesti saperi: gli intellettuali. Li si accusa di un inguaribile snobismo, di essersi asserragliati in una sempre più inaccessibile torre d’avorio dalla quale pretendono non solo di osservare il resto del mondo, ma pure di guidarne le sorti in un perverso accrocchio con i professionisti della politica. L’antipartitismo del Movimento, insomma, è anche un modo per colpire quella che viene additata come l’élite (anzi, la casta) dei mandarini e ciambellani che sussurrano all’orecchio dei potenti. Ora, premesso che non tutti gli intellettuali sono avvezzi a frequentare le stanze dei bottoni, è vero che la figura dell’intellettuale organico ha alle spalle una lunga e controversa tradizione nell’ambito della quale si sono visti agire tanto interpreti supinamente pronti ad avallare le scelte del principe, quanto figure schierate sì, ma sempre con la schiena dritta e con lo sguardo lungo. Fare di ogni erba un fascio con i ritornelli di una retorica bieca e semplificatoria, cioè parificando tutti gli intellettuali a servi di un qualche potere forte, significa azzerare l’importanza del loro ruolo civile al servizio della democrazia, un ruolo delineato con parole limpide da Sabino Cassese:
Gli intellettuali servono alla società: informano, alimentano il dibattito pubblico, forniscono le coordinate concettuali, aiutano il pubblico a entrare nei meandri del pensiero, a ragionare con la propria testa4.
Dopodiché interpretare ogni richiesta di supporto o consulenza proveniente dalla politica come collusione nei confronti di chi può offrire laute prebende è semplicemente frutto di uno sgangherato pensiero qualunquista, incapace di distinguere tra gli accordi illeciti (che purtroppo hanno avuto e hanno luogo, nessuno lo nega) e la messa a disposizione di un sapere formatosi con lo studio, la ricerca e l’esperienza a favore dell’intera collettività. Una qualsiasi società complessa può permettersi di rinunciare a questo sapere? La risposta, ovviamente, è no: come lamenta Solimine, abbiamo ora più che mai bisogno di intellettuali che siano in grado di consigliare i governanti e di ‘fare cultura’ nel proprio ambito di riferimento.
La pandemia da Covid-19, sotto questo aspetto, si è malauguratamente rivelata la migliore cartina tornasole che ci si potesse aspettare: se stiamo uscendo, seppur con molta, molta fatica, da questa tragedia è perché i saperi scientifici ci hanno messo a disposizione, a tempo di record, vaccini sicuri ed efficaci e perché i saperi organizzativi hanno preso atto che dòxa e epistème non sono propriamente la stessa cosa, soprattutto quando non ci si trova in campagna elettorale ma, invece, si devono smaltire le bare accatastate negli obitori.
Come è ovvio che sia, in parte per la naturale divergenza di visioni e di strategie che alimenta il dibattito scientifico, in parte per la situazione emergenziale che, con le sue urgenze, non contribuisce a sminuire i toni, non tutto è andato per il meglio; non tutto va per il meglio. Ammesso e non concesso che si abbia una chiara idea di cosa sarebbe questo ‘meglio’. Tra comitati tecnico-scientifici manchevoli di alcune competenze fondamentali, cabine di regia in cui non si capiva chi guidasse il tram, stimati virologi ed epidemiologi senza alcuna pregressa cognizione di come si comunica sui media divenuti più popolari degli anchorman che li invitavano nelle loro trasmissioni, non c’è dubbio che i nostri governanti abbiano avuto i loro bei grattacapi nel decidere il da farsi, purtroppo in molti casi senza potersi giovare del conforto di una loro propria statura culturale e autorevolezza di carattere.<
In compenso, nella sfortuna di una epidemia globale, l’Italia ha potuto trarre vantaggio da un fatto unico, un qualcosa forse mai visto prima a tali livelli, cioè una condivisione internazionale dei saperi:
La risposta più incoraggiante è stata autenticamente globale: la collaborazione spontanea e libera di team di ricerca e grandi imprese, che ha consentito di ottenere in tempi ridotti vaccini che hanno limitato gli esiti peggiori della malattia innescata dal virus5.
È particolarmente gravoso osservare come questo straordinario traguardo, dovuto allo sforzo di decine di migliaia di menti esperte, di ricercatori impegnati in tutto il mondo grazie soprattutto all’investimento di denaro pubblico, non è stato adeguatamente comunicato: non ricordo un solo intervento realmente incisivo del precedente ministro dell’università che spiegasse ai milioni di italiani in procinto di vaccinarsi come si fosse giunti a tale risultato e, quindi, come dovessero essere ritenuti strategici gli investimenti nell’alta formazione. Ma un solo intervento non sarebbe comunque bastato: occorreva pensare e articolare una strategia comunicativa, cosa che nemmeno l’attuale titolare del dicastero mi pare abbia in animo di fare.
E cosa dire del PNRR? Anche sul piano della ripresa economica è il contesto sovranazionale, europeo in specie, che consentirà all’Italia di beneficiare di un’apertura di credito di dimensioni paragonabili a quelle del piano Marshall. Ebbene: il passaggio dalle proposte ai fatti non potrà non essere pesantemente condizionato da quella situazione di ignoranza, da quella mancanza di competenze critiche di base, di capacità di ‘lettura’ in senso lato che affliggono tanta parte della società italiana e che Giovanni Solimine rilevava nel suo saggio. Un’insipienza che, da allora, nessuno si è preso la briga di affrontare seriamente. Più dei no-vax, dei seguaci delle più strampalate teorie pseudoscientifiche e dei complottisti di ogni risma, peserà verso una vera ripresa il freno a mano rappresentato dalla piaga sociale dei diversi analfabetismi che affliggono troppi italiani sui quali, anche per questo, i benefici rappresentati dal Next generation EU faranno fatica a manifestare i loro effetti. L’auspicio è che una quota consistente di questo piano – come del resto nelle previsioni – possa realmente essere dedicata al potenziamento non solo della ricerca, ma anche delle attività di istruzione pubblica a tutti i livelli. Sarebbe il modo migliore, come direbbe Churchill, per non sprecare una buona crisi.
Articolo proposto il 25 ottobre 2021 e accettato il 31 ottobre 2021.
ALBERTO SALARELLI, Università degli studi di Parma, Dipartimento di Discipline umanistiche, sociali e delle imprese culturali, Parma, e-mail alberto.salarelli@unipr.it.
AIB studi, vol. 61 n. 3 (settembre/dicembre 2021). DOI 10.2426/aibstudi-13343. ISSN: 2280-9112, E-ISSN: 2239-6152 - Copyright (c) 2021 Alberto Salarelli
Il costo dell’ignoranza, l’anticultura al potere, il virus: rileggere Senza sapere ai giorni nostri
La rilettura del volume Senza sapere di Giovanni Solimine a distanza di sette anni dalla pubblicazione sollecita alcune riflessioni attorno al tema delle sempre più preoccupanti carenze culturali che affliggono la società italiana. In questo torno di tempo si sono manifestati due effetti significativi connessi a tali carenze: 1) la vittoria del Movimento 5 Stelle nelle elezioni politiche del 2018, compagine spiccatamente qualunquista in grado di elevare al governo del Paese una pattuglia di incompetenti e 2) l’epidemia da Covid-19 che ha posto in primo piano l’esigenza di specifiche conoscenze scientifiche e organizzative per tentare di superare la crisi. L’auspicio è che il PNRR (Piano nazionale di ripresa e resilienza) possa fungere da stimolo per tracciare le linee di una politica di sviluppo culturale a tutti i livelli sociali.
The cost of ignorance, the anti-culture to power, the virus: to reread today Senza sapere
The rereading of Giovanni Solimine’s book Senza sapere seven years after its publication calls for some reflections on the cultural deficiencies affetting Italian society, an even more pressing issue. In this period of time, two significant effects related to these shortcomings have manifested: 1) the victory of the Five Star Movement in the 2018 political elections, a Man in the Street Party able to bring a group of incompetents to the Government of the country and 2) the Covid-19 pandemic which has highlighted the need for specific scientific and organizational knowledge to try to overcome the crisis. The hope is that the Italian NRRP (National Recovery and Resilience Plan) can act as a stimulus to trace the lines of a cultural development policy at all social levels.