Alberto Petrucciani
Non credo che sia casuale che nelle difficili condizioni in cui tutti ci troviamo, per l’epidemia in corso, e che hanno inciso molto fortemente anche sull’attività delle biblioteche, ci si sia interrogati più del solito, negli ultimi mesi, su cosa siano e cosa debbano fare le biblioteche e i bibliotecari.
Proprio quando la pandemia ha chiuso le biblioteche pubbliche, ha bloccato l’accesso alle sale di lettura e ha accelerato sia l’acquisto privato di libri attraverso le grandi piattaforme di vendita sia la de-materializzazione del libro cartaceo consultabile online, è uscita questa ricerca di Antonella Trombone su una stagione che sembra lontanissima. Al centro di questo agile volume è la storia di come l’istituzione bibliotecaria si sia formata dopo la proclamazione del Regno anche in ambito locale1.
Così inizia, mettendo subito a fuoco questione storica e attualità, l’acuta e generosa analisi che uno storico di vaglia come Edoardo Tortarolo ha condotto sul recente volume dedicato all’attività di Teresa Motta e della Biblioteca provinciale di Potenza negli anni più neri del fascismo e della guerra.
Sempre nel 2020 è uscito, tradotto in italiano nello stesso anno dell’edizione originale, La biblioteca di Parigi, di Janet Skeslien Charles2: un romanzo, sì, e architettato in modo abbastanza complesso, ma certo un libro fondamentale per definire la funzione della biblioteca e la missione e i valori del bibliotecario (che poi, come si sa, è più spesso una bibliotecaria). Un libro che invece mi sembra passato quasi completamente inosservato nella nostra letteratura professionale, in cui non mancano purtroppo le chiacchiere vacue e ripetitive. L’importanza del libro è stata forse capita almeno dalle biblioteche di base, dove spesso alberga più buon senso che in riviste e convegni: in SBN infatti le localizzazioni di La biblioteca di Parigi sono già più di 950.
Si può osservare che entrambi i libri riguardano anni molto difficili, più o meno gli stessi, la realtà di persone perseguitate, per motivi politici o razziali, e di pericoli, e di biblioteche e bibliotecari che potevano trovarsi loro stessi in grave pericolo (come l’American Library di Parigi sotto l’occupazione militare tedesca della città). Insomma un po’ il contrario dello stereotipo per il quale la biblioteca sarebbe il posto più tranquillo (magari anche noioso) che c’è, e quello del bibliotecario non sarebbe quasi neanche un lavoro, ma una sorta di sinecura, che ad esempio può servire come distrazione a una signora che non abbia proprio altro di cui occuparsi.
Nell’editoriale dell’ultimo fascicolo di Biblioteche oggi trends (dicembre 2021), Tra utopia e realtà: la biblioteca possibile, Giovanni Solimine ci ricorda che «Le biblioteche sono luoghi fisicamente determinati e saldamente piantati in un preciso contesto» ma nello stesso tempo sono «pervase da una fortissima carica simbolica, che trascende la realtà»3.
«È sempre stato così», continua l’autore, facendo anche esplicitamente riferimento all’antichità classica, all’Umanesimo e al Rinascimento. Ma a rappresentare la ‘dimensione utopica’ della biblioteca Solimine indica – e la cosa potrà sembrare oggi un po’ curiosa – i due ‘storici’ programmi dell’IFLA, Controllo bibliografico universale (CBU o UBC) e Disponibilità universale delle pubblicazioni (DUP o UAP), che certo affondano le loro radici molti secoli indietro – da Bessarione a Gesner, tanto per citare solo due nomi – ma suonano inevitabilmente come modelli o obiettivi tipici della visione complessiva della società del welfare della seconda metà del ventesimo secolo. Una società che ha rappresentato certamente la migliore aspirazione e realizzazione mai raggiunta nelle millenarie vicende della civiltà umana – riconoscendo ad esempio i diritti dei lavoratori e quelli delle donne, l’istruzione universale, la tutela della salute e le assicurazioni sociali per tutti, e così via – ma che ormai da tempo percepiamo istintivamente, con maggiore o minore preoccupazione, essere da qualche decennio sostanzialmente alle nostre spalle, un’esperienza chiusa.
Da parecchi anni, purtroppo, l’IFLA trascura questi due programmi, CBU e DUP, e viene istintivo domandarsi se questo non dipenda dall’incapacità di confrontarsi seriamente con il cambiamento sociale, con cosa è cambiato, e come, negli ultimi decenni.
Nell’‘età della rete’, come tutti sappiamo, la ricerca di informazioni e anche la circolazione di testi scritti si svolgono in gran parte, per lo più, tramite apparecchi elettronici sulla rete stessa. Vi è quindi, evidentemente, una certa analogia tra i programmi storicamente perseguiti dalle biblioteche e i servizi che offre la rete, e in particolare quelli dei grandi operatori commerciali.
I big players della rete hanno sostanzialmente sfruttato quanto prodotto o conservato dalle biblioteche (i dati bibliografici usati da Google e da Amazon sono per lo più scaricati dalle basi dati bibliotecarie e il progetto GBS è stato costruito sulla digitalizzazione di parte delle raccolte delle biblioteche di ricerca che hanno firmato l’accordo con la società californiana) ma, al di là di queste dipendenze e delle analogie, non è poi difficile riconoscere anche le differenze fondamentali, di finalità e di approccio, tra i programmi di radice bibliotecaria e i servizi commerciali di massa sulla rete.
Dal punto di vista del controllo bibliografico, dovrebbe essere evidente che non è a convergenze e affinità che bisogna guardare ma, proprio al contrario, alle differenze fondamentali. Un operatore come Google può offrire, con le risorse di cui dispone, ricerche del tipo ‘ago nel pagliaio’ che non sono di fatto alla portata di altri, o non lo sono a un livello comparabile di quantità e di efficacia. Ma senza nulla togliere alla grande utilità di quel servizio (anche per gli studiosi e gli specialisti, non solo per il grande pubblico), è evidente che il controllo bibliografico d’ambito bibliotecario è cosa profondamente diversa, per la quale le biblioteche, in cooperazione fra loro, sono piuttosto ferrate, mentre è obiettivo sostanzialmente privo d’interesse per un grande operatore commerciale. Lo conferma, ad esempio, la ricerca di libri in Amazon (ma anche in Google libri) riguardo all’identificazione di uno stesso autore (non parliamo di una stessa opera, o della distinzione degli omonimi): insomma quello che è pane quotidiano, e necessario, della catalogazione bibliotecaria, è assente (ignoto? fantascientifico?) per i grandi operatori di business, e viceversa.
Anche per quanto riguarda la disponibilità delle pubblicazioni, che oggi significa principalmente il ricorso al digitale e ai servizi a distanza, è facile vedere che quello che occorre nelle biblioteche è un atteggiamento molto diverso, se non opposto, a quello delle big corporations. Ad esempio, le biblioteche dovrebbero evidentemente dare priorità al mettere a disposizione di tutti, gratuitamente, il patrimonio dell’editoria pubblica, di ricerca, di documentazione, e l’eredità del passato, così che ognuno possa perseguire liberamente i suoi interessi e conoscere meglio il mondo che lo circonda.
Le biblioteche dovrebbero quindi dedicarsi, come del resto è piuttosto ovvio, alle funzioni loro proprie, che altri non svolgono, non sanno o non vogliono svolgere, e che sono tipiche di istituzioni pubbliche (come le biblioteche in larga maggioranza sono) o che comunque hanno finalità sociali diverse dal profitto (istituti culturali, associazioni scientifiche ecc.).
È evidente che nelle funzioni delle biblioteche rientrino in primo luogo gli scopi di assicurare la raccolta e la conservazione il più possibile completa di quanto è stato prodotto e documenta lo sviluppo del sapere umano e tutte le forme di espressione della nostra specie, e quindi di organizzare l’informazione in proposito, in cataloghi completi e tecnicamente adeguati a quanto ha elaborato la teoria della catalogazione e dell’indicizzazione dai grandi dell’Ottocento fino a oggi (veramente direi fino a ieri, visti i pasticci e le ingenuità che circolano negli ultimi anni, anche nei documenti IFLA...), e infine predisporre modalità di accesso, digitali e non, adeguate alle esigenze e alle circostanze attuali di vita e di lavoro.
Nel percorso di ricerca, di riflessione e di intervento di Giovanni Solimine, come sappiamo, dopo il volume del 2004 La biblioteca: scenari, culture, pratiche di servizio, sono seguiti, sempre presso Laterza, L’Italia che legge (2010), Senza sapere: il costo dell’ignoranza in Italia (2014) e, con Giorgio Zanchini, La cultura orizzontale (2020). Vi leggo – e spero che l’autore non vorrà smentirmi – l’esigenza indispensabile di allargare l’orizzonte, di leggere il mondo in cui le biblioteche operano, e di tornare innanzitutto a riflettere sul libro, la lettura, l’istruzione, che sono l’orizzonte più immediato, centrale, pertinente, per le biblioteche stesse (non l’informazione, o le tecnologie, secondo un indirizzo avviato qualche decennio fa, a partire soprattutto dall’ambiente professionale britannico, ma rivelatosi in gran parte improduttivo, dispersivo, perdente).
Ma di questi temi si è già trattato ampiamente, anche da parte mia, nella raccolta di studi e interventi che gli è stata offerta qualche anno fa, Percorsi e luoghi della conoscenza: dialogando con Giovanni Solimine su biblioteche, lettura e società4.
Proporrei qui invece, prima di concludere, di fare un passo indietro, tornare a due volumi oggi meno conosciuti, com’è ovvio, quelli della collana Bibliografia e biblioteconomia dell’Editrice bibliografica, in cui confluivano le riflessioni di Giovanni Solimine degli anni Ottanta: L’informazione in biblioteca, del 1985, e Gestione e innovazione della biblioteca, del 1990.
Dell’importanza del tema dell’informazione per le biblioteche, quindi, l’autore era ben avveduto, tempestivamente, consapevole che «Un sistema documentario è uno strumento di crescita di una società e un servizio sociale», ma anche che «l’impatto sociale delle biblioteche è oggi troppo ridotto»5. Molto era da fare, a suo parere, per l’aggiornamento delle discipline bibliografiche e biblioteconomiche, per lo sviluppo di un sistema bibliotecario integrato capace di offrire un servizio unitario favorendo nel contempo la specializzazione delle singole strutture, e per il rinnovamento della professione.
In Gestione e innovazione della biblioteca (con un’epigrafe dalle recenti Lezioni americane di Calvino) l’autore esordiva: «In che direzione va la biblioteca? Quali elementi di razionalizzazione vanno introdotti nella sua gestione? Quali vantaggi presenta e quali rischi comporta l’impiego delle nuove tecnologie dell’informazione? Come si sta evolvendo la professione bibliotecaria?»6. Tutte questioni che era indispensabile esaminare e valutare attentamente, certo, ma senza dimenticare che si trattava, alla fin fine, di questioni di mezzi, di strumenti, di tattiche, da far servire a una visione.
Il volume, non a caso, era dedicato ad Angela Vinay, con cui l’autore aveva lavorato all’Istituto centrale per il catalogo unico delle biblioteche italiane e per le informazioni bibliografiche, scomparsa mentre il libro era in stampa: «Angela Vinay, che ha speso con intelligenza e passione ogni sua energia per dare un futuro alle biblioteche italiane».
Di questo volume vorrei ancora ricordare, in particolare, il paragrafo sulla ‘gestione per obiettivi’, per notare che oggi tutte le biblioteche dovrebbero avere dei piani precisi, definiti come obiettivi concreti e verificabili, almeno sulle due problematiche principali di cui si è parlato: un piano per la catalogazione, essendo indecoroso e oggi perfino incomprensibile che, dopo oltre 35 anni di attività della rete nazionale SBN, le grandi biblioteche e sistemi bibliotecari (locali, universitari ecc.) non abbiano ancora recuperato, mai o quasi mai, tutto il loro patrimonio nel catalogo elettronico, e un piano per la digitalizzazione, essendo altrettanto incomprensibile e poco meno indecoroso che le biblioteche in genere non abbiano ancora digitalizzato nemmeno le proprie pubblicazioni (intendo quelle prodotte da loro, su cui è evidente che non si pongono problemi di copyright, non quelle possedute), e tanto meno l’insieme più ampio di quelle di propria competenza. Naturalmente un bibliotecario adeguatamente formato sa che cosa si debba intendere con pubblicazioni ‘di propria competenza’, senza che lo si debba spiegare qui.
Chiarissimo, in entrambi i volumi, era il messaggio che da soli non si va da nessuna parte, che le biblioteche devono cooperare fra loro, a livello nazionale oltre che locale, per i vantaggi evidenti che questo comporta su entrambi i ‘fronti’ principali della loro attività. La rete nazionale SBN era giustamente definita come «la novità di maggior rilievo introdotta nelle biblioteche italiane dal dopoguerra ad oggi»7 e l’ambito di riferimento necessario per lavorare in direzione degli obiettivi che le biblioteche italiane dovevano perseguire.
Ma tornando dall’orizzonte complessivo e dai programmi che si potevano tracciare negli anni Ottanta alla realtà, tutt’altro che confortante, di oggi, non posso evitare, in conclusione, di proporre all’attenzione due questioni di fondo sulle quali bisognerebbe certamente aprire, anche se non qui, una seria discussione.
La prima, e forse la più banale, dipende da come funziona oggi la società: se cerchi di servire a tutto e niente, o dici di farlo, come tendono molto spesso a presentarsi le biblioteche, il risultato è che servi a niente, non si fa caso alla tua esistenza. Si rimane, o diventa, invisibili. Mentre se servi bene e precisamente a qualcosa (di ben definito, delimitato, circoscritto), molto spesso è facile capire, e far capire, che si tratta di una funzione che è facile, e utile, integrare con altre.
La seconda, è che ‘neutralità’ e ‘tecnicizzazione’ delle biblioteche (e dei bibliotecari) sembrano aver fatto il loro tempo, ed essere diventate gravi elementi di debolezza, non solo in Italia ma almeno in gran parte d’Europa: ad esempio nell’inarrestabile declino delle biblioteche pubbliche britanniche, ormai contrastato solo da movimenti di base dei cittadini nella sostanziale assenza di quella che era una volta la Library Association, o nelle situazioni spesso critiche, e di percepita estraneità tra utenti potenziali e biblioteche e bibliotecari pubblici, che si manifestano da tempo in Francia (come ci hanno insegnato Denis Merklen e Mariangela Roselli). Problemi non meno seri attraversano le biblioteche pubbliche in Germania, la cui gestione è stata in gran parte abbandonata al volontariato, e nei Paesi Bassi, da tempo in crisi di servizi, e in vari paesi europei l’elemento che si avverte più chiaramente è l’allentarsi, o perdersi, dei contatti con il ‘popolo dei lettori’, il ‘popolo del libro’, che non sente più la biblioteca come il tradizionale ambiente amico, la sua ‘casa’.
Indebolito e a volte quasi perduto il rapporto col ‘popolo del libro’ – molto più numeroso, sia detto per inciso, dell’utenza delle biblioteche –, molto sottovalutata è stata ed è la funzione educativa che alla biblioteca è connaturata (con buona pace di chi tenta di negarlo). E dio solo sa quanto la funzione educativa della biblioteca andrebbe sostenuta e messa in primo piano oggi, tra no-vax, terrapiattisti, molestatori e violentatori di ragazze, dilagare della violenza domestica, proliferazione degli infortuni sul lavoro, e così via. Con un livello di ignoranza scientifica così diffuso che si chiedono continuamente ‘certezze’ – non solo sulla pandemia – quando è da circa un secolo che è stato definitivamente chiarito – con Einstein, con Heisenberg, e con altri – che la scienza si occupa di probabilità, mentre le certezze sono cosa semmai da filosofia, o da religione, ma sicuramente non da scienze.
L’educazione scientifica è certo uno dei temi a cui le biblioteche dovrebbero dedicare la maggiore attenzione, ma non è il solo (basta pensare all’ambiente, al lavoro, ma anche alle relazioni interpersonali). Anche il rapporto col ‘popolo dei lettori’, come si è detto, è tutto da ripensare e da ricreare.
Senza i propri valori, senza l’utopia, senza la missione di progresso, di crescita personale e culturale ma anche di sostegno al cambiamento sociale che le biblioteche hanno coltivato per qualche secolo, le biblioteche stesse soffocano, deperiscono, muoiono di inutilità, oltre che di incomprensione. «Le biblioteche hanno bisogno di un disegno che sappia distaccarsi dalla realtà, di un orizzonte senza confini, di una vision che si collochi nel mondo delle idee»8.
ALBERTO PETRUCCIANI, Sapienza Università di Roma, Dipartimento di Lettere e culture moderne, Roma, e-mail alberto.petrucciani@uniroma1.it.