Riccardo Ridi
Ogni proposizione dotata di senso è una verità:
tante verità, nondimeno, di ordine diverso e di valore distinto
(Nicolás Gómez Dávila, 1954)
Fra il 2017 e il 2019 si è svolto, sulle pagine di questa rivista, un ampio e acceso dibattito sulle fake news, la post-verità e la neutralità intellettuale dei bibliotecari1. Tale discussione è stata recentemente ripresa a livello internazionale, arricchendola di nessi con la pandemia attualmente in corso che hanno esplicitato la drammatica concretezza di ragionamenti che, all’epoca, sarebbero forse potuti apparire a qualcuno meramente accademici. Per primo Peter Johan Lor (olandese residente fin dall’infanzia in Sud Africa, bibliotecario, docente universitario di biblioteconomia, segretario generale dell’IFLA dal 2005 al 2008, noto soprattutto per i suoi studi di biblioteconomia internazionale e comparata2) ha commentato nel 2020 sul suo blog3 alcuni dei contributi al dibattito italiano e ne ha poi citati anche altri in un articolo4 pubblicato insieme ad altri due autori, l’anno successivo, sul trimestrale Libri: international journal of libraries and information studies. Nella stessa rivista, infine, è apparso, sempre nel 2021, un articolo5 di Thomas J. Froehlich (americano, docente universitario prima di filosofia e successivamente di scienze dell’informazione, noto soprattutto per i suoi studi sull’etica dell’informazione6), che commenta quello di Lor e, indirettamente, l’originario dibattito italiano7.
I due aspetti della discussione ospitata da AIB studi che sono stati maggiormente analizzati da Lor e da Froehlich, e sui quali anche questo articolo si concentrerà, sono stati la maggiore o minore rilevanza del concetto di verità per le biblioteche e la proposta (avanzata per primo da Giorgio Antoniacomi8) di introdurre fra i principi deontologici dei bibliotecari il rispetto dei ‘diritti aletici’9 teorizzati dalla filosofa italiana Franca D’Agostini e così da lei stessa sintetizzati:
I diritti aletici (DA) di cui dovremmo tenere conto sono sei, due per ciascun settore.
Riguardo alla rilevanza della verità, già nel 2018 avevo scritto che, a mio avviso, i bibliotecari «non devono preoccuparsi troppo della verità […] o meno di quanto viene affermato nei documenti da loro custoditi e, quindi, della veridicità dei documenti stessi»11, supportando la mia posizione (oltre che con i pareri di alcuni autorevoli biblioteconomi anglofoni12 e con la terminologia prevalente nelle carte delle collezioni e nella manualistica sulle acquisizioni13) con tre argomenti: 1) la problematicità tecnica dell’appurare tale veridicità e del gestire, poi, gli eventuali documenti già acquisiti che – anche solo parzialmente – non vi si conformassero; 2) la presenza, nelle collezioni e nelle nuove acquisizioni di qualsiasi biblioteca, di grandi quantità di documenti sulla cui veridicità non ha alcun senso interrogarsi (romanzi, poesie, musica, film a carattere non documentaristico, saggistica non strettamente scientifica o comunque non recente ecc.); 3) il rischio che la pretesa della veridicità possa confliggere con il diritto degli utenti delle biblioteche di poter accedere (in nome della ‘libertà intellettuale’14) a qualsiasi fonte informativa pubblicata e al dovere dei bibliotecari (in nome della ‘neutralità intellettuale’15) di non negare o ridurre tale diritto sulla base dei propri orientamenti ideologici, politici o religiosi.
Anche Lor e i suoi coautori riconoscono che «dovendosi confrontare coi diritti degli utenti, le procedure standard basate sui codici deontologici bibliotecari si preoccupano soprattutto del diritto ai documenti, alle informazioni e (talvolta) alla conoscenza – ma non necessariamente del diritto alla verità»16. Ciò dipenderebbe da tre premesse implicite: «i bibliotecari per lo più presumono che l’accesso alle informazioni sia di per sé benefico, [che] la maggior parte delle informazioni sia per lo più veridica [e che] le informazioni per lo più non procurino danni»17. Poiché, però, non tutte tali premesse sono in realtà vere, perché molte informazioni sono menzognere e dannose, gli autori dell’articolo ne concludono che «l’enfasi della biblioteconomia sul diritto all’informazione è idealistico e irrealistico. I bibliotecari hanno bisogno di affrontare il complesso e impopolare problema della verità e della falsità nelle collezioni che essi raccolgono e rendono disponibili, ma ciò deve iniziare con un radicale ripensamento delle nostre assunzioni etiche su questi concetti»18.
Froehlich, invece, che chiaramente non ha letto né il dibattito in lingua italiana né la sua sintesi in inglese sul blog di Lor, si limita, sbrigativamente, ad affermare, che «la verità è sempre stata qualcosa che riguarda le biblioteche, in una certa misura in contrasto con Ridi quando reclama che la verità non è un concetto rilevante per i bibliotecari […]. La verità è un elemento di cui tenere conto sia per le decisioni sulle collezioni che per l’uso e la fornitura di fonti in risposta a una domanda di reference»19, ignorando completamente argomentazioni e testimonianze addotte per sostenere l’irrilevanza in questione, e quindi evitando di criticarle o confutarle analiticamente.
Lor e Froehlich, pur concordando sull’opportunità di attribuire importanza alla veridicità delle collezioni bibliotecarie, discordano però sia sul livello di innovatività e di rottura con la tradizione biblioteconomica attribuito a questa posizione che sull’utilità, per raggiungere tale obiettivo, di ricorrere ai ‘diritti aletici’ di D’Agostini. Lor e i suoi coautori sono perfettamente consapevoli che, allo stato attuale, «la professione bibliotecaria esibisce spesso un’opposizione categorica e dogmatica a qualsiasi forma di censura o di selettività»20 e che «Ridi ha cogentemente argomentato che stabilire la verità non è compito dei bibliotecari»21, ma ritengono che tale orientamento vada modificato, per ridurre i rischi sociali legati alla circolazione di troppe informazioni volontariamente o involontariamente erronee, evidenziati, ad esempio, dall’ampia diffusione di pericolose teorie cospirazioniste e no-vax durante la pandemia di Covid-19. La situazione, dunque, richiederebbe «una riconsiderazione delle attitudini e degli approcci bibliotecari alla veridicità dei materiali nelle collezioni che costruiamo e delle informazioni che forniamo agli utenti. […] Ciò implica che alla verità debba essere attribuita una posizione più alta nella gerarchia dei valori che guidano l’attività dei bibliotecari»22. I ‘diritti aletici’ di D’Agostini vengono quindi trascritti e commentati da Lor e dai suoi coautori con lo scopo, esplicito, di suscitare «un dibattito sul diritto degli utenti alla verità e sulle nostre concomitanti responsabilità»23 e con quello, implicito, che essi (o qualcosa di simile o comunque di logicamente equivalente) vengano prossimamente aggiunti ai codici deontologici delle associazioni bibliotecarie.
Froehlich, invece, ritiene che in tali codici siano già presenti istanze di verità, come ad esempio laddove – nel primo articolo del Library bill of rights dell’ALA – si raccomanda che «i libri e le altre risorse della biblioteca devono essere messi a disposizione per l’interesse, l’informazione e l’istruzione di tutte le persone appartenenti alla comunità servita dalla biblioteca stessa»24, sebbene egli stesso ammetta che ciò crei una «ambiguità» o una «tensione»25 con altri principi presenti nei medesimi codici, come ad esempio il secondo articolo dello stesso Library bill of rights, per il quale «le biblioteche devono fornire materiali e informazioni che rappresentino tutti i punti di vista su argomenti sia correnti che storici. I materiali non devono essere proibiti o rimossi per motivi dottrinali o di parte»26. L’argomentazione di Froehlich, a mio avviso piuttosto debole, si basa interamente sul termine enlightenment (che qui è stato tradotto come ‘istruzione’, ma che può anche avere il senso di ‘progresso culturale’), che secondo lui implicherebbe che chiunque lo fornisca starebbe «offrendo qualcosa di benefico (come, ad esempio, materiali che provochino una crescita intellettuale o emotiva)»27 e che, quindi, deve necessariamente risultare veridico. Ma, anche prescindendo dall’accostamento (nel Bill of rights) della ‘istruzione’ alla ‘informazione’ e all’’interesse’ (esigenze diverse fra loro, alcune delle quali potrebbero benissimo essere soddisfatte anche da documenti né veridici né benefici) restano comunque da dimostrare sia che nessuna istruzione o progresso culturale possano mai scaturire da documenti involontariamente erronei o deliberatamente menzogneri (cosa che invece può benissimo verificarsi, soprattutto abbinandoli ad altri documenti che li commentino o li contestualizzino oppure alle chiose di un buon insegnante) sia che fornire a qualcuno un documento non veridico non possa mai rappresentare un’azione benefica (cosa che invece si verifica ogni volta che all’utente serve un libro che deve per forza leggere – ad esempio per motivi di studio o di lavoro – anche se poi risultasse che il suo contenuto è inaccurato, incompleto, tendenzioso o menzognero28). Inoltre libri di narrativa e di poesia, testi teatrali e filosofici, film di fantascienza, dischi dei King Crimson e fumetti di Moebius non potrebbero forse provocare almeno una «crescita emotiva» (ma talvolta persino intellettuale) anche se non ha molto senso classificarli come veridici o meno? Infine il Bill of rights in realtà non prescrive affatto che le biblioteche forniscano direttamente alcun enlightenment ai propri utenti (come Froehlich presume, con un salto logico non argomentato), ma soltanto «libri e altre risorse», i quali a loro volta, semmai, solo se ben scelti e in concomitanza con numerosi altri fattori, potranno forse soddisfare, ottenere o provocare «l’interesse, l’informazione e l’istruzione» degli utenti.
Basandosi sulla premessa (erroneamente dimostrata con un paralogismo) delle istanze di verità già presenti nei codici deontologici bibliotecari e su quella dei concreti comportamenti dei bibliotecari (che includono già l’alfabetizzazione informativa degli utenti, la costruzione di collezioni attentamente bilanciate e la capacità di individuare le fonti informative più affidabili29), Froehlich conclude che i diritti aletici, pur costituendo un utile contributo alla valorizzazione del diritto alla verità degli utenti nel dibattito biblioteconomico, non rappresentano qualcosa che valga la pena incorporare negli attuali codici deontologici, perché non «aggiungono niente alle correnti attività dei bibliotecari al di là di quanto è già presente nella letteratura e nella loro agenda quotidiana»30 e perché «dal punto di vista pratico non sembrano suggerire notevoli ulteriori azioni effettive oltre a ciò che i bibliotecari per lo più stanno già facendo»31.
Riguardo ai diritti aletici, nel 2018 mi ero limitato a notare che essi non sono «inclusi in quasi nessuno dei codici deontologici emanati dalle associazioni professionali dei bibliotecari»32 e che comunque, anche volendo, il compito di non violarli in alcun modo (per non parlare, addirittura, di garantirli ai propri utenti) sarebbe stato per i bibliotecari tecnicamente improbo, da un lato, e foriero – dall’altro – di conflitti coi valori deontologici della libertà e della neutralità intellettuali. Oggi, approfondendone l’analisi alla luce sia della discussione ospitata da Libri che delle successive messe a punto33 della stessa D’Agostini, direi che essi possano essere interpretati in due modi: il senso ‘forte’, corrispondente alla verità intesa come veritas (il senso più comune, relativo al ‘contenuto’ delle tante singole proposizioni di cui continuamente affermiamo, neghiamo o indaghiamo la verità), e quello ‘debole’, corrispondente alla verità intesa come aletheia (il senso filosofico, relativo alla natura stessa di ciò che tutte tali affermazioni hanno in comune, sul quale solo molto più raramente riflettiamo)34. Oppure, da un altro punto di vista, il senso ‘forte’ è quello relativo ai criteri, o metodi (scientifici, pragmatici, retorici, autoritari ecc.), con cui si può cercare di stabilire la maggiore, minore, assoluta o probabile veridicità di una singola proposizione linguistica, mentre il senso ‘debole’ riguarda l’indagine sul significato stesso del concetto di verità, che può condurre a varie teorie sulla sua natura o definizione (corrispondenza con la realtà, coerenza interna, conformità a regole, frutto di una rivelazione, utilità pratica, semplificazione linguistica ecc.)35.
Se i ‘diritti aletici’ di D’Agostini venissero intesi in senso forte, allora non potrei che confermare le mie perplessità del 2018, aggiungendo che, oltretutto, sarebbe in ogni caso velleitario e megalomane, da parte dei bibliotecari, pensare di avere sia la forza che il diritto di assicurare a tutti i propri utenti di «essere informati correttamente e di non essere ingannati o fuorviati» (DA1) – intendendo ciò come la garanzia di accedere esclusivamente a informazioni e documenti completamente veridici – perché tale pretesa è chiaramente utopica persino se limitata alle informazioni e ai documenti reperibili nelle o attraverso le biblioteche, in assenza almeno di uno stretto coordinamento con altri soggetti (a partire da editori, gestori di social media e varie tipologie di istituzioni pubbliche) che, da una parte, non hanno finora palesato alcun interesse per i diritti aletici di nessuno ma che, dall’altra, sono fra i principali responsabili della maggior parte dei contenuti informativi accessibili nelle o attraverso le biblioteche stesse. E anche il «diritto di essere riconosciuti come fonti affidabili di verità» (DA3) appare piuttosto irrealistico e presuntuoso, se interpretato come la pretesa, da parte delle biblioteche, che i loro utenti debbano non solo ritenere completamente veridici tutti i documenti inclusi nelle loro collezioni (fra cui anche quelli più antichi36 e quelli a carattere non saggistico), ma anche considerare completamente esaustiva e indubitabilmente veritiera qualsiasi risposta fornita dal loro servizio di reference.
Parrebbe però che fosse proprio questa interpretazione ‘forte’ dei diritti aletici quella adottata da chi li ha introdotti nel dibattito biblioteconomico, come risulta palese già dalla loro sintesi applicata alle biblioteche, peraltro basata sulla loro prima formulazione37 pubblicata da D’Agostini, piuttosto diversa da quelle successive38 ma che era l’unica disponibile quando iniziò la discussione in AIB studi:
Una chiara scelta di campo consente e sollecita a garantire agli utenti della biblioteca:
Se il «diritto di essere informati correttamente e di non essere ingannati o fuorviati»40 diventa (o torna ad essere) «il diritto di essere informati in modo veridico» (DA1) e dal «diritto di ricevere un’educazione tale da metterci in grado di discriminare, per quanto è possibile, il vero dal falso»41 si passa al «diritto di essere nelle condizioni di giudicare […] la verità» (DA2), è chiaro che si sta seguendo un’interpretazione molto più ‘impegnativa’ ed ‘esigente’ rispetto a quella suggerita invece dalla successiva formulazione dei diritti proposta da D’Agostini, che, fra l’altro, menziona esplicitamente scuola, università, editoria e media vecchi e nuovi ma non le biblioteche, a meno che esse non siano implicitamente incluse fra le «istituzioni del sapere».
Risulterebbe invece, a mio parere, maggiormente aderente alle più mature riflessioni sul tema dell’autrice (che comunque, non a caso, li ha chiamati fin dal principio ‘diritti aletici’ e non ‘diritti alla verità’, ‘diritti epistemici’ o ‘diritti cognitivi’42), nonché più coerente rispetto alle altre sue opere43, una interpretazione ‘debole’ di tali diritti, che ponga l’accento non tanto sull’eventuale esistenza oggettiva di proposizioni veridiche in senso assoluto (in ogni epoca, in ogni contesto, da qualsiasi punto di vista e nonostante qualsiasi interpretazione) quanto piuttosto sul processo soggettivo di una incessante e mai conclusa ricerca conoscitiva razionale che si orienti verso la verità in modo indiretto, svelando e sgominando, uno dopo l’altro, gli involontari errori, le inevitabili approssimazioni e le deliberate menzogne che ne oscurano la luce, come ben spiega la stessa D’Agostini:
La maggior parte delle ‘verità’ (proposizioni presentate e asserite come vere) che circolano nei nostri discorsi sono mezze verità. […] A ben guardare, se dovessimo davvero soffermarci a riflettere, forse ammetteremmo che le informazioni e i dati sicuramente veri a nostra disposizione non sono molti: dunque una credenza anche piuttosto ferma, in una scala da zero a uno, potrebbe non superare valori di credibilità dell’area 0,7 o 0,8. […] Il primo bene che il concetto [della verità] può fornire alle credenze umane è che ci offre il modo di correggere i dissesti che provengono dal creduto vero, ossia dalle opinioni: le incomplete e incerte verità che pretendono di essere categoriche e assolute. Così si può dire che il concetto [della verità] è la più sicura risorsa che possediamo contro i danni da lui stesso prodotti44.
Si può dire che mentre [il verum] è il vero narrato e già consolidato in credenza, dunque il contenuto vero […], l’alethes, con l’alfa privativo, richiama l’atto del dis-velare, ed è dunque più adattabile alla prospettiva concettuale. […] A-lethes significa non-nascosto, e con ciò si sottolinea il fatto che il concetto [della verità] è espressione del buon rapporto fra linguaggio e mondo, ma contiene in sé l’idea che tale rapporto possa fallire. La necessità del dis-velamento sta precisamente nel fatto che la realtà può essere velata, nascosta, ignota. […] Il concetto di verità esiste perché esiste la possibilità del falso, per inganno o errore. Questo ci dice che dobbiamo prendere sul serio il negativo implicito nel concetto di aletheia, e incominciare a pensare che il dis-velamento sia eminentemento un gesto scettico45.
L’intuizione finale che guida il discorso è l’idea che noi tutti abbiamo il diritto/dovere di essere educati alla verità. Essere educati alla verità non significa ovviamente imparare a dire sempre e comunque il vero, o a chiederlo a ogni costo. Vuol dire conoscere l’ambiguo potere della verità, sapere quando e come dirla, come cercarla e farla intendere, come mettere in dubbio le proprie e altrui certezze46.
Su questa interpretazione ‘debole’ dei diritti aletici e sul conseguente uso ‘scettico’47 del concetto di verità parrebbero concordare anche Lor e i suoi coautori quando scrivono che
poiché varie istituzioni hanno rivendicato di essere portatrici della verità – verità determinata in termini di dogmi religiosi, politici e ideologici – le rivendicazioni di verità sono spesso guardate con sospetto. Ciò non è quello che si è inteso fare con l’analisi offerta in questo articolo. Una cultura aletica non stabilisce a quale verità si debba credere, ma instilla nei membri della società una chiara consapevolezza dell’uso della verità per fornirli degli strumenti per districare ciò che è vero da ciò che viene dogmaticamente dichiarato vero. Un approccio del genere non esclude lo scetticismo. Al contrario, la funzione di verità è indispensabile per inferire, dubitare e discutere. Stabilire procedure per giungere alla verità è vitale per il funzionamento delle democrazie48.
E persino Antoniacomi, che torna sull’argomento «in parte confermando e in parte rettificando tesi precedentemente sostenute»49 dopo aver potuto leggere anche la più matura espressione dei diritti aletici elaborata da D’Agostini50 – all’epoca appena pubblicata – ammette che
da un punto di vista filosofico, il concetto di verità è sempre stato, e rimane, insidioso. Lo è perché, nell’accezione comune, viene identificato tout court con un’idea di certezza assoluta e incontrovertibile, che invece appartiene a una sua interpretazione ingenua e manifestamente indifendibile; questa accezione, d’altra parte, non è solo banale ma pericolosa, poiché genera conseguenze molto impegnative: la certezza assoluta ha infatti la malaugurata tendenza a trasformarsi in dogma e il dogma ha una propria fastidiosa e inaccettabile unilateralità, incompatibile con un mondo che si vorrebbe aperto e plurale51.
L’interpretazione debole dei diritti aletici permette quindi di evitare la «dittatura della verità»52 tipica sia del dogmatismo teoretico che dell’autoritarismo politico, che pretenderebbero di imporre le loro verità precostituite e indiscutibili (del resto «Pravda» in russo significa proprio ‘verità’), laddove invece «la democrazia è il ‘governo attraverso la discussione’, e la discussione non è altro che un confronto di credenze, che possono essere ed essere ritenute vere, false, non vere»53, chiamando così implicitamente in gioco proprio le biblioteche, il cui ruolo nel complesso progetto sociale della ‘educazione alla verità’ non è tanto quello di custodire (esclusivamente) le verità stesse, quanto piuttosto quello di documentare, di organizzare, di proteggere da distruzioni, alterazioni, falsificazioni e censure e di rendere accessibili a chiunque tutte le credenze, lasciando ad altri soggetti sociali gli altrettanto importanti compiti – rispetto a tali credenze – di crearle, confrontarle, ibridarle, emendarle, farle lealmente combattere fra loro e decretarne le più o meno temporanee e unanimi vincitrici54.
L’interpretazione debole è anche quella che tiene maggiormente conto dell’avvertenza di D’Agostini che i «sei valori-diritti sono progressivamente correttivi, nel senso che la salvaguardia dell’uno serve a correggere o limitare la sproporzionata osservanza dei precedenti»55. Se, quindi, DA1 (il «diritto di essere informati correttamente e di non essere ingannati o fuorviati») potrebbe, isolatamente, anche essere interpretato come la garanzia che (almeno) biblioteche, scuole, università, parlamenti, tribunali e altre istituzioni pubbliche agiscano in modo che i cittadini accedano, loro tramite, esclusivamente a informazioni e documenti completamente e incontestabilmente veridici, contestualizzandolo rispetto all’insieme di tutti i diritti aletici56 risulta invece più plausibile intenderlo come l’esigenza – meno utopica – che tali enti non ingannino deliberatamente i cittadini stessi e li informino invece in modo equo, trasparente, completo, coerente, contestualizzato e verificabile (ossia, con una sola parola, corretto) nello svolgimento delle proprie rispettive funzioni. Cosa che, ad esempio, le biblioteche fanno ogni volta che allestiscono cataloghi che descrivano adeguatamente le proprie raccolte, ogni volta che costruiscono collezioni ben bilanciate e che rispondano alle esigenze informative dei propri utenti e ogni volta che forniscono un’assistenza competente e neutrale alle loro ricerche di informazioni e documenti57. E, a proposito delle collezioni bibliotecarie, è sempre lo sguardo d’insieme ai sei diritti aletici nel loro complesso che ci fa capire come faccia parte dell’educazione alla verità (intesa in senso debole) anche capire quando non ha senso esigere la veridicità (intesa in senso forte) da tutte le tipologie di documenti conservati dalle biblioteche.
Una volta che si sia optato per l’interpretazione debole dei diritti aletici, resta comunque il dubbio se possa risultare utile aggiungerli ai valori dell’etica professionale dei bibliotecari. A mio avviso sarebbe meglio evitarlo, perché essi possono rivelarsi, in tale contesto, da un lato pericolosi e dall’altro ridondanti. Pericolosi perché, in assenza di spiegazioni e contestualizzazioni difficili da inserire in testi sintetici e apodittici come i codici deontologici professionali58, sarebbe elevato il rischio che venissero interpretati in modo ‘forte’, come in effetti è già successo nei pochissimi casi in cui è stata tirata in ballo qualche forma di diritto alla verità di cui gli utenti delle biblioteche sarebbero titolari. Se il codice russo raccomanda che il bibliotecario «non proponga materiali inattendibili e falsi e sia consapevole del pericolo e del danno che tale materiale procura agli individui e alla società nel suo complesso»59 credo che faccia fa bene Lor (che pure considera tale intento «lodevole») a giudicarlo anche «potenzialmente problematico», domandandosi «chi decide quali sono i valori della ‘società’?»60. E se, per l’associazione catalana, i bibliotecari «non diffondono informazioni che sappiano essere false»61, ci si potrebbe chiedere non solo con quali risorse, competenze e autorità essi controllino la veridicità delle loro intere collezioni ma anche con quale cadenza l’operazione venga periodicamente ripetuta alla luce delle nuove conoscenze scientifiche e quale sorte sia riservata ai documenti che non superino tale vaglio, soprattutto se gestiti da biblioteche nazionali che dovrebbero garantirne la conservazione e l’accessibilità a lungo termine prescindendo da qualsiasi caratteristica del loro contenuto62. Ma anche se si riuscisse a esplicitare, nei codici deontologici, che i diritti aletici degli utenti che le biblioteche devono come minimo rispettare o addirittura cercare – limitandosi allo stretto ambito delle proprie funzioni – di garantire, vanno interpretati solo in senso debole, il loro inserimento nei codici stessi sarebbe comunque da evitare, in quanto ridondante. Il primo motivo di tale ridondanza lo ha già spiegato Froehlich alla fine del paragrafo di questo articolo dedicato alla rilevanza della verità per le biblioteche e l’ho ribadito anch’io alla fine di quello successivo. Se rispettare, garantire e promuovere i diritti aletici significa educare o aiutare i propri utenti a cercare, mettere alla prova e riconoscere la verità, selezionando le fonti informative più affidabili e diffidando da quelle meno autorevoli, contestualizzate e coerenti, allora ciò fa già parte sia dei servizi delle biblioteche (si pensi, in particolare, a quelli di reference e di alfabetizzazione informativa63) che dei loro codici deontologici (si veda, ad esempio, quello dell’Associazione italiana biblioteche, per il quale «i bibliotecari devono promuovere lo sviluppo, da parte degli utenti, di competenze critiche autonome relative alla ricerca, alla comprensione, alla selezione e alla valutazione delle fonti informative e documentarie»64). E se significa informare in modo corretto i propri utenti, allora sia le prassi che le norme bibliotecarie già includono la costruzione, la manutenzione e lo sviluppo di cataloghi, collezioni, segnaletica, siti web e altri strumenti per la ricerca e la fruizione di informazioni e documenti che siano il più possibile privi di lacune, errori, incoerenze, sbilanciamenti, censure e discriminazioni. Se poi, in tempi di pandemie, di fake news o di altre reali o presunte calamità naturali o culturali, si ritenesse che l’abituale equilibrio fra i vari valori che guidano l’etica professionale dei bibliotecari dovesse venire temporaneamente modificato per dare più peso, ad esempio, al dovere di qualsiasi organizzazione sia pubblica che privata di non mettere a repentaglio la salute dei propri utenti, a quello di qualsiasi datore di lavoro di non costringere i propri dipendenti a rischiare di ammalarsi pur di non perdere lo stipendio e a quello di ogni governo nazionale di evitare che si diffondano eccessivamente opinioni pericolose per la salute pubblica, allora c’è già in molti codici deontologici lo strumento adatto, ossia il richiamo al principio della responsabilità sociale. Tale principio impone ai bibliotecari, così come a pressoché ogni altra categoria di lavoratori, di non rispettare solo i valori più specificamente caratterizzanti la propria professione (come, per i bibliotecari, soprattutto quello della libertà di accesso all’informazione), ma anche i principali valori etici generali diffusi nella propria comunità di riferimento65. È sulla base di tale principio che, ad esempio, il codice deontologico irlandese «assicura alla più ampia società che [i bibliotecari] collocano la considerazione del bene comune al centro delle loro attività professionali»66 e che quello inglese prescrive di «tenere presente il bene pubblico, sia in generale che con riferimento a particolari gruppi vulnerabili»67. E anche laddove mancasse, nei vari codici deontologici, un esplicito riferimento alla responsabilità sociale, essa agirebbe comunque, perché ogni lavoratore, oltre a fare riferimento alle norme etiche della propria corporazione professionale, deve tenere conto anche di quelle dell’organizzazione per cui lavora (che per i bibliotecari è quasi sempre un ente pubblico) nonché di quelle applicabili a qualsiasi cittadino. Chiaramente la responsabilità sociale è un principio molto insidioso per ogni professione, perché un’eccessiva enfasi sui principi etici generali rischia di schiacciare qualsiasi principio professionale etico o tecnico specifico che eventualmente si opponesse – o venisse accusato di opporsi, come implicitamente suggeriva Lor a proposito del codice russo – al benessere della comunità, con evidenti rischi (ad esempio, nel nostro settore, per i diritti informazionali delle minoranze e dei singoli cittadini68). Ma se già la responsabilità sociale può, da una parte, servire per argomentare a favore di eventuali eccezioni o attenuazioni temporanee delle regolari norme e prassi delle biblioteche in caso di emergenze sanitarie o di altro tipo e, dall’altra, mettere a repentaglio la libertà intellettuale, la privacy e altri diritti informazionali dei loro utenti, che bisogno c’è di aggiungere ai codici deontologici un ulteriore principio come quello del rispetto dei diritti aletici, che può rivelarsi – nei confronti di quello della responsabilità sociale – pleonastico (ecco il secondo motivo di ridondanza) e, se inteso in senso forte, ancora più pericoloso?
Una migliore soluzione del complesso rapporto intercorrente fra biblioteche e verità è costituita, piuttosto che dalla proposta normativa dei diritti aletici, dalla teoria epistemologica del ‘pluralismo aletico’ – peraltro perfettamente compatibile con l’interpretazione debole di tali diritti – alla quale avevo solo accennato nel 201869 ma su cui vorrei aggiungere adesso qualche parola. Tale teoria sulla natura della verità costituisce una fra le principali posizioni intermedie oggi disponibili fra la classica dottrina della corrispondenza e le molto più recenti teorie ‘deflazioniste’, che cercano di ‘sgonfiare’ (in inglese to deflate) le problematicità del concetto di verità, argomentandone l’irrilevanza o la ridondanza. La teoria della corrispondenza70 (o ‘realista’) risale, come minimo, a Platone e Aristotele, e ha dominato il dibattito filosofico almeno fino alla fine del diciottesimo secolo. Una delle sue formulazioni più note è quella di San Tommaso, secondo cui «la verità è l’adeguazione dell’intelletto alla cosa», ossia, in termini più moderni, «una proposizione è vera se e solo se corrisponde a un fatto reale» e, quindi, l’asserzione «la neve è bianca» può essere considerata veridica solo se la neve è effettivamente bianca. Agli orecchi contemporanei ciò può suonare al tempo stesso banale (perché cos’altro mai potrebbe significare ‘essere veridico’?) e controverso (perché, dopo Locke, Hume e Kant, non ci appare ormai più per niente ovvio che i nostri sensi riescano a cogliere senza alcun filtro le caratteristiche oggettive delle cose), ma ci sono obiezioni71 ancora più radicali che mostrano come il concetto stesso di una qualsiasi forma di corrispondenza fra un evento o uno stato di cose della realtà e un’espressione linguistica non sia in realtà per nulla pacifico. Prima di tutto fatti e proposizioni sono entità radicalmente diverse fra loro, e quindi qualsiasi pretesa ‘corrispondenza’ o ‘adeguazione’ fra di esse rischia di rivelarsi semplicemente una tautologia, una convenzione linguistica o addirittura un’assurdità. Esistono, inoltre, teorie metafisiche e orientamenti filosofici che mettono in dubbio persino l’esistenza oggettiva di qualcosa come i singoli fatti, nettamente separabili dalla realtà complessiva (olismo72) o dalla loro descrizione linguistica (prospettiva comune a tutta la filosofia analitica73) o dalla nostra percezione della realtà stessa (fenomenismo74). Ci sono poi certi tipi di proposizioni (come, ad esempio, quelle riguardanti l’etica) per le quali non è affatto chiaro quali siano i fatti corrispondenti. Infine già gli scettici antichi sottolineavano il regresso che si verifica ogni volta che, per stabilire la veridicità di una qualsiasi proposizione, dovremo necessariamente effettuare osservazioni, misurazioni e ragionamenti, tutti espressi da altre proposizioni, la cui veridicità dovrà ulteriormente venir accertata tramite altre osservazioni, misurazioni e ragionamenti, e così via all’infinito.
Per cercare di superare tali obiezioni filosofi e logici hanno sviluppato, nel corso dei secoli, altre teorie (tecnicamente definite ‘antirealiste’ o ‘epistemiche’) sulla natura del concetto di verità e, quindi, nuovi significati da attribuire alla caratteristica, solo apparentemente banale, di ‘essere veridica’ che può essere attribuita a una proposizione. Fra di esse vanno ricordate almeno quelle del pragmatismo e del coerentismo, entrambe compiutamente formalizzate verso la fine del diciannovesimo secolo. Il pragmatismo75, che poi evolverà in una vera e propria corrente filosofica, nasce con la tesi di Peirce (1878) che sostenere la veridicità di una proposizione significa essere disposti ad agire di conseguenza, successivamente radicalizzata da William James (1907), per il quale «qualcosa è vero perché è utile, e non qualcosa è utile perché è vero» e persino «tutte le verità eterne [come quelle matematiche] sono costruite linguisticamente, per ragioni di utilità e opportunità pratica»76. Per il coerentismo77 è invece la coerenza rispetto a un più ampio insieme di proposizioni – e, al limite, all’intera conoscenza umana – l’unico (o comunque il principale) criterio realmente disponibile per poter stabilire la veridicità di una singola affermazione.
Il deflazionismo78, sviluppatosi nel corso di tutto il ventesimo secolo per cercare ulteriori soluzioni ai problemi logici a cui andavano incontro anche le posizioni antirealiste, consiste in una famiglia di teorie che hanno in comune il ritenere che la veridicità non sia una proprietà davvero sostanziale o essenziale né delle proposizioni né dei pensieri. Ad esempio per la ‘teoria della ridondanza’ abbozzata da Frege (1918) e perfezionata da Ramsey (1927) non c’è nessuna differenza fra dire «è vero che la neve è bianca» oppure, più semplicemente, «la neve è bianca», e il ricorso alla prima espressione è motivato esclusivamente dall’enfasi che le si vuole attribuire. Invece per la ‘teoria decitazionale’ di Quine (1970) e per il ‘minimalismo’ di Horwich (1990) il concetto di verità serve solo a semplificare il linguaggio, nel primo caso ‘togliendo le virgolette’ in proposizioni relative ad altre proposizioni che sono però logicamente equivalenti a più semplici e dirette proposizioni relative a fatti, e nel secondo riassumendo con espressioni come «tutto ciò che ti avevo detto stamani è ancora vero» la lunga ripetizione di tutte le proposizioni che avevo già proferito poche ore fa.
Benché il deflazionismo sia stato talvolta descritto come una teoria della ‘scomparsa’ o della ‘superfluità’79 della verità esso va comunque nettamente distinto dalla difesa della post-verità (che era stata un concetto centrale nella discussione italiana del 2017-2019, ma non in quella internazionale del 2020-2021), in quanto coerente e sofisticata argomentazione dell’inutilità del definire ‘vere’ le proposizioni linguistiche, ma certo non anche dell’irrilevanza dei fatti che le rendono tali o a cui, comunque, esse si riferiscono. I discorsi a favore della post-verità (una moda giornalistica e ‘socialmediatica’ esplosa nel 2016 e purtroppo non ancora completamente tramontata80) sono invece spesso solo concisi e ambigui slogan non argomentati, interpretabili, nel migliore dei casi, come allarmi sulla diffusione delle fake news (post-verità in senso debole) o, nel peggiore, come assurde pretese che non abbia più alcuna importanza se la neve effettivamente è – o appare – bianca o nera (post-verità in senso forte)81. Un conto è sostenere che «la neve è bianca» equivale a «è vero che la neve è bianca» e un altro affermare che non fa alcuna differenza se la neve sia bianca o nera, oppure che fareste bene a credermi quando dico che la neve è nera anche se per la comunità scientifica internazionale – e forse perfino per me, quando non devo imbonire nessuno – è bianca.
Il pluralismo aletico82 è una ulteriore «ipotesi molto plausibile e piuttosto attraente»83 emersa a partire dagli anni Novanta del ventesimo secolo per cercare di superare, o almeno di ridurre, le numerose obiezioni a cui tutte le precedenti teorie sulla natura della verità continuano ad essere soggette, anche nelle loro versioni più recenti e sofisticate. Ciò che accomuna tutte le varie versioni del pluralismo aletico, i cui principali esponenti sono l’inglese Crispin Wright e l’americano Michael Lynch, è la tesi che il concetto di verità vada interpretato in modi parzialmente diversi a seconda del contesto di applicazione. Le eventuali veridicità di proposizioni come «la neve è bianca», «2 + 2 = 4», «Don Abbondio si rifiutò di sposare Renzo e Lucia» e «la tortura è immorale», pur essendo accomunate da alcune caratteristiche, si diversificherebbero però per altre, che impedirebbero di analizzarle tutte nello stesso modo e che spiegherebbero le difficoltà precedentemente incontrate dalla filosofia nell’individuare un’unica definizione onnicomprensiva della verità.
Per il pluralismo aletico radicale di Wright84 la veridicità non è un’unica proprietà attribuibile alle proposizioni, perché l’espressione «è vero» ha significati diversi (e quindi corrisponde a proprietà diverse) in contesti diversi. Per evitare che tali significati divergano eccessivamente, allontanandosi troppo dall’intuizione del senso comune su cosa significhi ‘essere vero’, Wright individua alcuni punti fermi sul concetto di verità che permangono comunque in ognuna delle proprietà ad esso riferibili, fra cui l’equivalenza fra una proposizione e l’asserzione che tale proposizione è vera («la neve è bianca» equivale a «è vero che la neve è bianca») e la distinzione fra la verità di una proposizione e la sua giustificazione (potrebbe essere vero che la neve sia bianca anche se personalmente non dispongo né di esperienze né di ragionamenti che mi inducano a crederlo). Il più moderato ‘funzionalismo aletico’ di Lynch85 cerca di smorzare ulteriormente il rischio di frantumazione del concetto di verità in una miriade di significati completamente indipendenti fra loro precisando ulteriori ‘punti fermi’ (fra cui quello della normatività, per cui dovremmo credere solo a proposizioni che consideriamo vere) e tornando alla concezione tradizionale per cui la veridicità è un’unica proprietà, che però nei diversi contesti si manifesta diversamente, attraverso una pluralità di ulteriori proprietà.
Al di là delle sottili differenze tecniche fra concetti, significati, manifestazioni e proprietà di vari livelli, che non avrebbe senso approfondire in questa sede, ciò che accomuna le posizioni di Wright e di Lynch è che, come ben sintetizzato dal titolo di un libro di quest’ultimo (Truth as one and many, ossia La verità come una e molte), la verità – come del resto molti altri importanti concetti filosofici86 – si articola in un nucleo centrale di significato generale difficile o forse addirittura impossibile da definire87 e in una superficie esterna formata da una serie di significati più specifici, solo talvolta identificati con termini diversi, applicabili soltanto a determinati contesti e, entro tali limiti, più facilmente definibili.
Un’altra importante caratteristica di tutte le forme di pluralismo aletico è che esse consentono di recuperare molte definizioni classiche della verità (come, ad esempio, quelle del realismo, del pragmatismo e del coerentismo) che erano state convincentemente criticate nelle loro pretese di spiegare la veridicità di ogni tipologia di proposizione, ma che potrebbero altrettanto convincentemente risultare ancora spendibili se applicate solo alle proposizioni di un determinato ambito. Ad esempio la corrispondenza coi dati sperimentali potrebbe risultare un criterio di veridicità più adeguato per le proposizioni della fisica, mentre quelle della matematica potrebbero essere più plausibilmente verificate con criteri di coerenza e quelle della medicina con criteri pragmatici. Il pluralismo aletico, da questo punto di vista, potrebbe essere visto, più che come l’ennesima teoria che tenta di proporre l’ennesima soluzione a un problema che, se affrontato complessivamente, potrebbe rivelarsi insolubile, come una sorta di metateoria che scinde il problema in parti (che restano però connesse fra loro) e le affronta separatamente, con le armi accumulate nel corso dei secoli dalle precedenti teorie.
Il pluralismo aletico non va confuso col relativismo epistemico88, sebbene entrambe le teorie abbiano a che fare con una molteplicità di verità, perché il primo riguarda l’aletheia (e quindi il concetto di verità e come esso vada inteso nei vari ambiti disciplinari, professionali, linguistici e, più in generale, nelle varie sfere dell’attività umana) mentre il secondo riguarda la veritas (e quindi le singole proposizioni che in ciascuna di tali sfere vengono asserite e l’analisi delle circostanze che, di volta in volta, le rendono più o meno veridiche). Un conto è proporre che, in fisica, «essere vero» significhi «corrispondere ai dati sperimentali» mentre in medicina equivalga a «produrre le cure più efficaci», un altro notare che, sia in fisica che in medicina, la misurazione dei dati e la verifica dell’efficacia delle cure non è possibile se non basandosi su punti di riferimento e unità di misura relativi, perché nella scienza moderna, dopo Galilei, Einstein e Heisenberg, non ne esistono più di assoluti89. Ciò nonostante è indubbio che entrambe le teorie, ciascuna nel proprio ambito, moltiplicano le proposizioni che in un certo senso possono essere considerate veridiche, perché il pluralismo aletico spiega come asserzioni che sarebbero false, insensate o indecidibili se valutate in termini strettamente realistici (come, ad esempio «Don Abbondio si rifiutò di sposare Renzo e Lucia») possano diventare perfettamente comprensibili, significative e veridiche da un altro punto di vista, mentre il relativismo epistemico precisa che anche la proposizione «Don Abbondio si rifiutò di sposare Fermo e Lucia» potrebbe risultare veridica, a seconda di quale edizione dello stesso romanzo venga assunta come contesto.
Analogamente il deflazionismo, che propone di ridurre o azzerare la rilevanza filosofica del concetto di verità, relegandolo esclusivamente all’ambito linguistico, è cosa ben diversa dal nichilismo, che – se inteso in senso ampio – «indica in generale una dottrina filosofica o una concezione del mondo in cui tutto ciò che è (gli enti, le cose, il mondo e in particolare i valori e i principi) è negato e ridotto a nulla»90. Eppure, in un certo senso, entrambe le teorie potrebbero essere considerate visioni del mondo in cui non c’è posto per la verità. Allo stesso modo il realismo aletico, che individua nella corrispondenza fra fatti e proposizioni la natura della veridicità, non coincide necessariamente col dogmatismo, che «designa, comunemente, l’atteggiamento di chi afferma in modo assoluto tesi e posizioni, spesso invocando autorità esterne piuttosto che fornire giustificazioni»91, perché per verificare tale corrispondenza si possono prevedere modalità molteplici e aperte alla discussione e all’aggiornamento. Però, in un certo senso, entrambe le posizioni tendono a ridurre e a stabilizzare il numero delle proposizioni che vengono considerate veridiche, fino al caso estremo di una verità unica, onnicomprensiva e immodificabile. Il panorama della discussione filosofica contemporanea sui temi della natura e del criterio della verità è quindi estremamente variegato, spaziando dalla molteplicità proposta da relativismo e pluralismo fino alla negazione prospettata da deflazionismo e nichilismo, passando per lo ‘sfoltimento’ operato da realismo e dogmatismo.
Ma, tornando – per concludere – alle biblioteche, ciò che rende pertinente, nel contesto di questo articolo, il pluralismo aletico non è tanto che si tratti di una teoria «plausibile e attraente»92 in linea generale, quanto piuttosto che essa risulti particolarmente adatta per essere applicata in ambito bibliotecario, perché permette di tradurre in tale contesto l’eccessiva pretesa di una veridicità ‘classica’ o ‘realista’ attribuita a ciascun singolo documento incluso nelle raccolte e a ogni singola informazione fornita col servizio di reference con un più ampio e meno esigente ventaglio di proprietà positive comunque connesse con il valore dei servizi e delle raccolte bibliotecarie93. In tal modo quelle biblioteche che – diversamente, ad esempio, da quelle nazionali – non abbiano il diritto e il dovere di conservare ogni documento bibliografico che rispetti determinati requisiti formali, indipendentemente da qualsiasi caratteristica dei loro contenuti informativi, e quelle che – diversamente, ad esempio, da quelle di università, enti di ricerca e organi costituzionali – non debbano comunque procurarsi tutti i documenti (qualunque informazione essi contengano) che la loro utenza di riferimento ritiene indispensabili per lo svolgimento delle proprie funzioni istituzionali94, potrebbero accontentarsi (come in realtà già fanno da sempre) di selezionare documenti autentici, affidabili e attendibili, anche se non tutte le informazioni che veicolano sono vere in senso classico, in modo da costruire raccolte coerenti, ben bilanciate e ragionevolmente complete, sebbene inevitabilmente mai, nel loro complesso, completamente veridiche in senso stretto95. E tutte le biblioteche, di qualsiasi tipologia, potrebbero rinunciare (come, del resto, già avviene) all’utopica pretesa di fornire, attraverso i propri servizi informativi, risposte completamente veridiche in senso tradizionale, accontentandosi di garantire che esse siano sempre (e sarebbe già un risultato eccezionale) almeno accurate, corrette e tempestive, in modo da rendere credibili e autorevoli i servizi di reference che le erogano.
Il pluralismo aletico, ancor più dell’interpretazione debole dei diritti aletici, permette quindi di evitare sia la «dittatura della verità»96 che l’anarchia dell’assenza di verità, assegnando alle biblioteche l’importantissimo compito di selezionare, conservare, organizzare e rendere disponibili i documenti necessari per quel «confronto di credenze»97 che, in un’ottica aleticamente pluralista, potremmo adesso anche chiamare ‘confronto di verità’. Mentre per altri tipi di istituzioni o per una singola persona anche il dogmatismo (e, per quest’ultima, persino il nichilismo) possono, in determinate circostanze, costituire un’alternativa plausibile, per una biblioteca (e per chi ci lavora) dovrebbe essere abbastanza chiaro che sia molto meglio documentare e offrire ai propri utenti centomila diverse prospettive, opinioni, credenze, idee, teorie e verità piuttosto che nessuna o, ancora peggio, una sola.
Ringrazio Peter Lor per il suo interesse per la letteratura biblioteconomica non anglofona e Juliana Mazzocchi per la revisione. I bibliotecari, gli utenti e i cittadini di cui si parla in queste pagine sono ovviamente sia uomini che donne, nonostante il maschile grammaticale utilizzato per semplicità. Le traduzioni in italiano non diversamente attribuite sono mie.
Ultima consultazione siti web: 6 aprile 2022.