Anna Bilotta
La reputazione è una dimensione della vita sociale con cui tutti siamo chiamati a convivere. È a partire da questo presupposto che si snoda la riflessione de La biblioteca e la sua reputazione, ultimo libro di Maria Stella Rasetti edito da Editrice bibliografica. Costruita dai giudizi e dai pregiudizi che le persone si creano, a torto o a ragione, in termini generali la reputazione «può essere definita come il risultato, sempre mobile e mai garantito, della percezione e della valutazione prodotte dal contesto sociale di riferimento»1.
Il concetto di reputazione, che sia associato a un singolo individuo o a un’organizzazione, è oggetto di discipline anche molto diverse tra loro, dalla comunicazione al marketing, dal diritto all’economia, dalla gestione aziendale alla sociologia. Ed è proprio alla reputazione fuori dalla biblioteca che l’autrice dedica il primo capitolo del libro nel quale essa è analizzata insieme ad altri concetti ritenuti confinanti: innanzitutto l’identità e l’immagine, ma anche la fama, la nomea, il passaparola, l’onore, il brand, il sentiment, l’immaginario collettivo.
Si diceva, identità e immagine. L’identità è il nostro essere, la nostra storia da noi direttamente generata quale frutto di scelte (e di non scelte). L’immagine è il nostro apparire agli altri, un prodotto secondario dell’identità che si costruisce e si alimenta nelle relazioni sociali: è possibile occuparsene da soli o affidarsi a esperti di comunicazione ma in ogni caso è, almeno in parte, sotto il nostro controllo. La reputazione, invece, è un prodotto sociale esterno a noi, non ci appartiene e non possiamo governarla direttamente anche se può essere influenzata dagli sforzi che facciamo per essere accettati e apprezzati. Se identità e immagine non sono allineate ne risente anche la reputazione; trascurare le apparenze, infatti, può sminuire gli sforzi fatti per raggiungere i nostri obiettivi, causando un inevitabile spreco di risorse e incidendo in maniera negativa sui giudizi che gli altri matureranno nei nostri confronti e quindi sulla nostra reputazione. Naturalmente, identità, immagine e reputazione non sono date una volta per sempre ma evolvono nel tempo, adattandosi ai gusti e alle mode che cambiano. Se queste riflessioni si adattano bene sia ai singoli individui che alle organizzazioni, è in ambito aziendale che la reputazione è da lungo tempo studiata, analizzata, misurata. Per le imprese che operano nel mercato la mission e le attività svolte (l’identità) e la comunicazione istituzionale (l’immagine) partecipano attivamente alla creazione dei giudizi espressi dalle persone, giudizi che rappresentano una risorsa aziendale a tutti gli effetti:
Al pari del capitale economico-finanziario, degli strumenti tecnologici, delle risorse umane e delle scelte organizzative, la reputazione entra in gioco come un vero e proprio fattore produttivo, perché governa gli aspetti immateriali che attengono al sentimento di fiducia che si crea tra l’azienda e i suoi investitori, la credibilità nei confronti dell’opinione pubblica generale, l’attaccamento dei dipendenti al proprio lavoro, il senso di riconoscenza (anche nel senso letterale del riconoscersi) che una comunità locale può sviluppare verso quell’impresa che non si limita a dare lavoro alle persone, ma partecipa anche alla creazione di un sentimento identitario a livello locale o addirittura nazionale2.
Entra in gioco il concetto di stakeholder o portatore di interesse che comprende tutti i soggetti, individui o organizzazioni, attivamente coinvolti in un’iniziativa economica, il cui interesse è influenzato positivamente o negativamente dal risultato dell’esecuzione o dall’andamento dell’iniziativa e la cui azione o reazione a sua volta influenza le fasi o il completamento di un progetto o il destino di un’organizzazione3. Si tratta di un concetto nato in ambito economico ma che, come vedremo meglio più avanti, riguarda tutte le organizzazioni, sia quelle che operano nel mercato sia quelle che, come le biblioteche, operano fuori dal mercato. Per quanto, infatti, queste ultime siano sottoposte a meccanismi meno competitivi, anche per esse la reputazione è importante e hanno bisogno di essere apprezzate dai loro portatori di interesse. Nel caso specifico della biblioteca pubblica – per sua stessa ammissione Rasetti fa riferimento esclusivamente alle biblioteche di ente locale – questa è sottoposta al giudizio degli utenti che usufruiscono dei servizi, ma anche degli amministratori, di chi non vi è mai entrato, dei bibliotecari stessi, di tutti coloro i quali genereranno un personale verdetto, naturalmente temporaneo, parziale e modificabile, che contribuirà alla costruzione di reputazione.
Alla reputazione in biblioteca e alla relazione con identità e immagine è dedicato il secondo capitolo del libro.
Sull’identità della biblioteca pubblica contemporanea nel nostro paese si è a lungo scritto e riflettuto. Sull’onda dei numerosi cambiamenti sociali, tecnologici, culturali occorsi in particolare dall’inizio degli anni Duemila, si è sviluppato, tra gli studiosi e i professionisti delle biblioteche, un lungo dibattito in cui si sono confrontate (e a volte scontrate) posizioni anche molto diverse: dalla strenua difesa di una biblioteca ‘tradizionale’ che ha nella mediazione informativa e nella promozione della lettura le sue funzioni primarie a una biblioteca che si apre, invece, a bisogni ‘nuovi’ di tipo non solo strettamente informativo e conoscitivo puntando sulle nuove tecnologie, passando per i tentativi di trovare una possibile convergenza tra le funzioni di svago, studio e ricerca in un contesto sociale sempre più complesso4. Negli anni più recenti, in cui la biblioteca pubblica è stata investita, insieme agli altri servizi pubblici, dalla crisi economica ma anche da una crisi di senso e di legittimità (e perciò di identità), la riflessione si è concentrata sul suo ruolo culturale e sociale, in termini soprattutto di information literacy e lifelong learning. Oggi che internet ci permette di accedere in maniera apparentemente facile a una grande massa di informazioni, le biblioteche pubbliche possono trovare nell’alfabetizzazione e nell’apprendimento permanente un ampliamento del loro ruolo di mediazione, possono contribuire allo sviluppo personale, culturale e sociale, all’acquisizione di competenze critiche, di autonomia di pensiero e di consapevolezza nelle decisioni.
La dimensione strategica dell’educazione permanente è sottolineata anche dalla stessa Rasetti: «Il ruolo delle biblioteche come risorse per il miglioramento delle persone viene fortemente valorizzato attraverso la chiave dell’educazione per tutto l’arco della vita, non già nel senso degli apprendimenti tecnicali (pur preziosi), bensì in quello – appunto – della cittadinanza consapevole»5.
Sul secondo aspetto, quello dell’immagine della biblioteca, Rasetti sottolinea l’importanza del marketing e della comunicazione e di saper generare delle buone ‘prime impressioni’. Marketing e comunicazione non potrebbero esistere l’uno senz’altro ma non vanno confusi: se il primo analizza e definisce obiettivi e strategie, la seconda traduce tutto ciò in messaggi. Tradizionalmente, infatti, per marketing intendiamo l’insieme delle attività e dei processi per la creazione, la comunicazione, la distribuzione e lo scambio di offerte che hanno un valore per clienti, partner e per la società in generale. La disciplina non si occupa soltanto dello scambio di prodotti al fine di ottenere un profitto ma più in generale dello scambio di valore tra individui che in questo modo soddisfano i loro bisogni e desideri. Nel tempo c’è stato uno spostamento del focus dal prodotto al cliente e dal cliente a un essere umano critico e consapevole, dotato non solo di esigenze funzionali ma anche di ansie e di desideri latenti6. Le imprese, quindi, non possono limitarsi a vendere qualcosa ma devono preoccuparsi di conoscere e anticipare questi desideri per soddisfarli costruendo relazioni, ed è qui che si inseriscono il marketing della cultura applicato all’offerta di prodotti, servizi ed esperienze artistiche e culturali in contesti profit e non profit e, entrando ancora più nello specifico, le applicazioni in campo biblioteconomico: dai profili di comunità alle analisi dei bisogni, dalla segmentazione del bacino di utenza all’individuazione dei target di riferimento, dal monitoraggio dei livelli di uso e di soddisfazione alla creazione di un brand che renda la biblioteca immediatamente riconoscibile, tutte strategie ampiamente utilizzate per capire e soddisfare i bisogni degli utenti e per attirare l’attenzione di amministratori e finanziatori.
Nel nostro paese le riflessioni più recenti in merito si devono ad Anna Busa che ha individuato i due principali fronti su cui le biblioteche possono operare. Il più tradizionale è l’outbound marketing con il quale si comunica il proprio messaggio al maggior numero di persone proponendo prodotti e servizi a chi non li sta cercando. Le biblioteche vi sono particolarmente abituate: si pensi, per esempio, all’organizzazione di un incontro con un autore che prevede la preparazione di locandine da distribuire in biblioteca, nella speranza che qualcuno le legga e decida di partecipare. Il secondo, quello che si sta sviluppando più di recente, è il fronte dell’inbound marketing, nato in ambiente digitale, il cui obiettivo è creare le condizioni affinché l’utente potenziale sia attratto dalla proposta di servizi, mediante contenuti accattivanti e pertinenti e facendo in modo che sia lui stesso a cercare la biblioteca.
Questo secondo approccio si basa su un’attenta analisi degli utenti potenziali e dei loro bisogni e interessi per proporre negli spazi digitali della biblioteca (sito web, OPAC, social network) contenuti utili, di qualità, attrattivi e sempre aggiornati in cui le persone si imbattano mentre sono alla ricerca di una soluzione a un loro problema e da cui imparino a conoscere la biblioteca e tutti i suoi servizi (non solo digitali), ad esempio iscrivendosi alla newsletter, visitandola di persona, sottoscrivendo la tessera, richiedendo un primo libro in prestito7. I social network, in particolare, sono oggi più che mai strumenti essenziali per fare inbound marketing, attraverso, ad esempio, la generazione del traffico verso il sito web, la capacità di creare coinvolgimento proponendo una rinnovata narrazione della biblioteca, promuovendo le raccolte e le attività culturali. Essi sono anche fonte di nuove misure quali numero di like, follower, recensioni e commenti, dati funzionali alla produzione di nuova conoscenza in termini di feedback e percezioni degli utenti, complementari ai dati statistici e alle evidenze qualitative che ormai le biblioteche sono ampiamente abituate a raccogliere; i social non sono semplici artefatti tecnologici ma «nuovi luoghi di produzione culturale e di relazioni sociali»8. Per la biblioteca agire sui social può significare «creare calore attorno all’istituzione, renderla costantemente protagonista di un interesse collettivo, fondarne l’attaccamento non soltanto nei confronti dei servizi fruiti, ma sul consolidamento dei legami emotivamente più forti, quelli giocati sul coinvolgimento vivace delle persone»9. In sintesi, diventa rilevante, attraverso i social network, «la capacità relazionale di costruire un’identità e consolidare o migliorare la propria reputazione»10.
In generale, l’inbound marketing, che passi o meno dai social, altri non è che l’inizio di un percorso che ripensa il coinvolgimento dell’utente in chiave di marketing umanistico11. Purtroppo, però, le strategie di marketing e di comunicazione sono viste troppo spesso, e a torto, come pratiche aggiuntive rispetto alle pratiche di servizio o, peggio, come un lusso difficile da prendersi quando si è sommersi dalle incombenze quotidiane: «La dimensione della comunicazione non può essere aggiuntiva alla pratica quotidiana, perché è intrinseca a ogni azione, anche la più piccola e insignificante: ciò che facciamo e addirittura ciò che non facciamo racconta qualcosa di noi, in modo anche parzialmente indipendente dalla nostra consapevolezza»12.
Per quanto il formarsi di giudizi positivi o negativi resti nelle mani delle persone, l’identità e l’immagine lavorano in modo integrato per costruire la reputazione e una buona reputazione è anche il frutto di una buona comunicazione, e viceversa. Una prima impressione negativa può essere recuperata con fatica, mentre una prima impressione positiva rende più tolleranti le persone nei confronti di errori successivi. Per questo le biblioteche devono dedicare risorse e attenzioni alle prime impressioni che rappresentano un investimento sicuro, poco costoso e ad alto rendimento in termini reputazionali. L’obiettivo principale dell’ultima fatica di Rasetti è proprio quello di aiutare i bibliotecari a rileggere in chiave reputazionale principi che già normalmente dovrebbero ispirare la pratica quotidiana:
che il risultato di ogni comunicazione non è ciò che abbiamo detto, ma ciò che è stato percepito; che ogni valutazione negativa manifestata nei confronti della nostra biblioteca merita di essere presa in carico […]; che ogni problema manifestato da un utente, anche quando deriva da una sua difficoltà e non da un nostro errore, è un problema anche della biblioteca […].
Tutto concorre a questo scopo: la qualità grafica del cartello con l’orario di apertura al pubblico, attaccato fuori dalla porta d’ingresso; il benessere delle piante collocate nell’atrio; il sorriso del personale al bancone; i tempi di attesa tra una richiesta d’acquisto e la sua disponibilità per il prestito; i livelli di aggiornamento della raccolta; la continuità della presenza su Facebook; la qualità delle iniziative culturali. Contano anche l’assenza e il silenzio: una telefonata mai fatta, una mail rimasta senza risposta, la mancata presenza del direttore della biblioteca ad un importante evento culturale in città13.
Per sua stessa ammissione, il tema della reputazione ha attraversato come un filo rosso la vita professionale dell’autrice che già al convegno delle Stelline del 2006 definiva la reputazione come il
frastagliato insieme delle opinioni che i membri di una certa comunità hanno sviluppato, sia in relazione alle esperienze accumulate nell’uso personale del servizio, sia in assenza di un effettivo contatto.
Si tratta di una congerie di percezioni soggettive sedimentate nel tempo e contaminate da giudizi e pregiudizi di lungo corso, su cui la biblioteca riesce a incidere solo in parte attraverso le interfacce di servizio e le finestre di comunicazione aperte con i diversi stakeholders14.
Ancora una volta identità (interfacce di servizio) e immagine (finestre di comunicazione).
La reputazione della biblioteca risente di stereotipi e pregiudizi non sempre facili da combattere; in particolare, Rasetti ne evidenzia due, a suo avviso, più gravi di altri. Da una parte la cattiva e purtroppo diffusa idea che i bibliotecari, in quanto rappresentanti della pubblica amministrazione, siano tutti inefficienti e fannulloni (magari anche quando l’operatore di turno ha un contratto precario e privo di garanzie). La reputazione piuttosto bassa di cui gode la pubblica amministrazione nell’immaginario collettivo viene così ereditata dalla biblioteca per cui anche chi lavora bene viene visto come l’eccezione alla regola mentre manca una narrazione della normalità. Come sappiamo, con la pandemia il linciaggio mediatico nei confronti dei dipendenti pubblici si è particolarmente intensificato. Il secondo stereotipo da combattere è quello del bibliotecario erudito, custode di tesori bibliografici, un intellettuale conservatore che pone la tutela dei documenti all’apice delle priorità di servizio riservando uno spazio solo secondario alle esigenze degli utenti.
Oltre a essere guidata da stereotipi e pregiudizi, fondati o infondati che siano, naturalmente una bassa reputazione è fatta anche di sentito dire, ricordi di esperienze passate, critiche e conflitti che si possono generare tra i portatori di interesse (in primis gli utenti che usufruiscono dei servizi) e i bibliotecari. Ed è proprio nella risoluzione di queste situazioni potenzialmente negative che la biblioteca pubblica deve affermare con forza la sua identità e la sua missione: far sentire il suo ruolo educativo, fornire tutte le informazioni necessarie, vivere i conflitti con rispetto per le posizioni altrui ma con assertività, esercitare i valori dell’accoglienza e dell’ascolto e una comunicazione non ostile. Se anche la persona arrabbiata non cambierà idea la biblioteca l’avrà aiutata a compiere un piccolo passo verso una cittadinanza più consapevole:
Lungi da noi la rinuncia a quelle buone maniere a cui ci siamo aggrappati in tante occasioni, per non rispondere a tono alla provocazione estemporanea di un utente arrabbiato, che ha riversato su di noi, spesso incolpevoli, la collera cresciuta in anni di delusioni maturate altrove. Abbiamo imparato a non dimenticare che, quando siamo in servizio, non siamo più semplicemente noi stessi, ma rappresentiamo l’ente per cui lavoriamo, e perciò abbiamo la necessità di tenere comportamenti che non siano meramente dettati dalla nostra indole personale, ma che siano alimentati da quella specifica cultura relazionale che la biblioteca ci ha espressamente chiamato a interpretare15.
Il contesto bibliotecario deve essere un contesto ad alta qualità relazionale in cui le persone si sentano rispettate, ascoltate, sostenute, «in cui la conoscenza e il sapere possano abitare senza rimanere imprigionati nei lamenti, nelle male parole, nelle disconferme reciproche, nella disattenzione, nelle certezze di chi sa già tutto in partenza e ha sempre ragione»16.
Se le biblioteche non hanno un modello per la misurazione della reputazione, molto praticata, invece, è la strada della misurazione e della valutazione della soddisfazione degli utenti e dell’impatto sociale. Con le indagini di customer satisfaction, in particolare, Rasetti individua punti in comune ma anche sostanziali differenze: mentre con la misurazione della soddisfazione si intende acquisire valutazioni sull’esperienza vissuta e sull’uso effettivo dei servizi da parte degli utenti reali, le misurazioni della reputazione si estendono potenzialmente a tutti gli stakeholder in termini di valutazioni più generali, non sempre attinte da relazioni e contatti effettivi con la biblioteca. Nel primo caso, i giudizi delle persone servono a valutare i servizi offerti e svolgono un ruolo strumentale rispetto alle azioni da attuare per modificare le modalità di erogazione dei servizi che hanno livelli più bassi di adesione e gradimento; il fine sono la biblioteca e i suoi servizi e le valutazioni sono un mezzo per migliorare le prestazioni. Nel secondo caso, sono i giudizi delle persone a rappresentare il fine dell’indagine, indipendentemente da cosa la biblioteca offre, e gli eventuali cambiamenti nel modo di organizzare e rappresentare i servizi sono un mezzo per innalzare il livello non dei servizi ma dei giudizi.
Detto questo, a mio avviso una riflessione sulla misurazione della reputazione non può che inserirsi e trovare terreno fertile nella più generale cultura della valutazione, comparsa nella letteratura professionale italiana a partire dagli anni Novanta. A questo proposito Chiara Faggiolani e Anna Galluzzi hanno individuato tre fasi: la prima, caratterizzata da indagini volte a misurare dati di struttura e di attività mediante statistiche come sottoprodotto dell’applicazione del ciclo gestionale della biblioteca, e quindi come verifica dell’attività svolta per migliorarne efficienza ed efficacia; la seconda, che sempre attraverso dati quantitativi e indicatori sposta il focus sulle motivazioni e sull’uso della biblioteca per misurare la qualità e la soddisfazione dell’utenza; la terza fase, quella più recente, in cui le indagini si fanno sempre più miste, quantitative e qualitative, e hanno come obiettivo la valutazione dell’impatto della biblioteca sugli utenti e sulla società nel suo complesso17.
In ambito internazionale, fondamentali punti di riferimento sono i tre standard ISO pubblicati sotto l’etichetta Information and documentation: ISO 2789:2013 International library statistics, ISO 11620:2014 Library performance indicators, ISO 16439:2014 Methods and procedures for assessing the impact of libraries18. Il primo definisce, per l’appunto, le tipologie di dati statistici e le modalità di raccolta in biblioteca; lo scopo (di questo e degli altri standard) è assicurare la diffusione delle buone pratiche di raccolta in biblioteche di qualsiasi tipologia ai fini della gestione e della pianificazione strategica, l’uniformità e la continuità della raccolta e dell’uso dei dati tra paesi diversi anche nell’ottica del confronto. I dati raccolti possono essere incrociati per costruire indicatori di performance, indicatori a cui è dedicato il secondo standard che individua quattro aree della valutazione: risorse, accesso e infrastrutture; uso; efficienza; potenzialità e sviluppo. Infine, il terzo standard definisce le modalità di misurazione dell’impatto delle biblioteche, inteso come la differenza o il cambiamento in un individuo o in un gruppo derivante dal contatto con i servizi della biblioteca. Si tratta di cambiamenti nei singoli in termini, ad esempio, di miglioramento delle competenze, di successo nello studio e nella professione, ma anche di maggiore visibilità, prestigio e capacità di attrarre risorse economiche e umane per le istituzioni a cui le biblioteche appartengono, e più in generale, di impatto sociale cioè di accesso libero all’informazione, apprendimento permanente, inclusione e coesione sociale, benessere collettivo e sviluppo delle comunità, diversità culturale. Valutare l’impatto è importante, ancora una volta, per misurare la qualità di gestione, per il confronto in serie storica e con biblioteche simili, per pianificare strategie di intervento e supportare decisioni politiche, per promuovere il ruolo delle biblioteche per la vita culturale, sociale ed economica. Data l’oggettiva difficoltà di misurazione, lo standard propone di utilizzare un approccio misto combinando tre tipi di evidenze: l’evidenza dedotta per l’appunto con dati statistici, indicatori e con la misurazione dei livelli di soddisfazione degli utenti; l’evidenza sollecitata con questionari, interviste e focus group in grado di sollecitare opinioni e percezioni delle persone; l’evidenza osservata attraverso l’osservazione dei comportamenti degli utenti, diari e test delle competenze.
Misurazione e valutazione, è bene chiarirlo, non sono fini ma mezzi che la biblioteca, in particolare la biblioteca pubblica, può (mi sentirei di dire deve) adoperare per capire quanto vale e comunicarlo all’interno e all’esterno delle sue mura. Oggi più che mai, è giusto parlare di impatti al plurale, in relazione almeno a tre aree di particolare interesse che proverei a sintetizzare come segue: la biblioteca come luogo di cultura e supporto all’istruzione e alla formazione nell’arco di tutta la vita (l’impatto culturale e formativo); la biblioteca come luogo di incontro e socializzazione, occasione di relazione e incentivo alla partecipazione e all’inclusione (potremmo definirlo l’impatto sociale propriamente detto); la biblioteca come fornitrice di risorse in grado di far risparmiare tempo e denaro agli utenti, creatrice di un indotto ma anche attrattrice di flussi di mobilità e turistici, soprattutto nei centri più grandi (l’impatto economico). Si tratta di elementi misurabili certamente e soltanto attraverso la combinazione di evidenze quantitative e qualitative e non può trattarsi di attività sporadiche, ma la valutazione deve diventare parte integrante delle strategie della biblioteca, pianificata e progettata per tempo e con regolarità.
Tecniche e strumenti della valutazione della soddisfazione, delle performance e (soprattutto) dell’impatto e vantaggi dell’approccio misto possono essere senz’altro applicati anche alla misurazione della reputazione, ma una riflessione su questo andrebbe concepita, lo ribadisco, non come un qualcosa di altro ma come parte integrante delle strategie di misurazione e valutazione in generale.
Prima di entrare nel vivo della misurazione della reputazione, Rasetti individua nel terzo capitolo del libro quattro livelli in cui collocare le biblioteche di ente locale, questo per permettere la comparazione tra biblioteche simili; va premesso che l’appartenenza alle classi non è necessariamente legata alle dimensioni dell’edificio ma alla complessità organizzativa del servizio.
Al livello zero vi sono quelle situazioni in cui la biblioteca non c’è o non c’è mai stata e perciò di essa si parla senza conoscerla davvero. Si tratta di biblioteche mai istituite di cui i cittadini non hanno mai sofferto la mancanza né hanno reclamato l’apertura; di biblioteche ‘finte’, quali stanze contenenti libri aperte su richiesta da un impiegato comunale o due ore al mese da un volontario; ma anche di iniziative nate dal basso come libri salvati dal macero, libri per senzatetto, biblioteche di condominio, cassette di libri nei giardini e nelle piazze, libri nelle sale d’attesa di medici, tutte esperienze lodevoli ma per le quali sarebbe auspicabile usare altri sostantivi (come ‘libroscaffali’, ‘libroraccolte’, ‘punti di raccolta libri’).
A questo proposito si permetta una breve digressione. Tra il 2015 e il 2016 realizzavo una ricerca sul campo per fotografare lo stato dell’arte delle biblioteche di ente locale di una provincia del sud Italia, la provincia di Avellino, adottando metodologie e tecniche quantitative e qualitative (anche avvalendomi degli standard sopra citati). Una delle prime criticità riscontrate in quell’occasione consisteva nel forte scollamento tra il censimento iniziale che avevo condotto a partire dai dati dell’Anagrafe delle biblioteche italiane19 e la realtà dei fatti che a mano a mano ricostruivo attraverso visite in sede, telefonate, scambi di e-mail. Ecco che su ben 111 biblioteche pubbliche presenti sulla carta (quasi una per comune se pensiamo che i comuni della provincia sono 118) ne risultavano attive soltanto 37, cioè un terzo. In quell’occasione per me il modo più efficace e chiaro per distinguere le biblioteche fu, appunto, quello di individuare biblioteche ‘attive’ e biblioteche ‘inattive’: nella prima categoria andavo così a includere le biblioteche con personale dedicato e in grado di assicurare almeno i servizi di base quali il prestito locale, la consultazione in sede e il reference, in maniera continuativa e rispettando un orario di apertura; nella seconda categoria inserivo le biblioteche definitivamente dismesse, le biblioteche il cui patrimonio librario risultava accessibile mediante richiesta al comune e a cui si dedicavano gli impiegati comunali quando necessario, le biblioteche rimaste chiuse per anni, soggette a ristrutturazione e in attesa di inaugurazione ma non ancora inaugurate (al mese di giugno 2016), le biblioteche non gestite da personale dedicato ma da proloco o associazioni culturali locali non in grado di assicurare, nonostante la buona volontà, il servizio in maniera continuativa, le biblioteche trasferite in edifici scolastici, gestite dal personale docente e a servizio esclusivo degli studenti20.
Considerazioni simili le avevo ritrovate in una ricerca realizzata sempre nel 2016 da Cepell e ANCI che analizzava quaranta biblioteche pubbliche, variamente dislocate nel nostro paese, e da cui emergeva un’Italia delle biblioteche a due velocità: da una parte strutture innovative e accoglienti, dall’altra locali angusti e polverosi, orari inadeguati, strutture e tecnologie obsolete, personale invecchiato e raramente professionalizzato21. Quella ricerca associava questo grave sbilanciamento all’annosa questione tra nord e sud delle biblioteche e anche la mia esperienza si collocava, nei fatti, nel Mezzogiorno. Non c’è spazio per approfondire qui la questione22; va detto, però, che non tutto si può ridurre ai divari tra nord e sud del paese (in termini, ad esempio, di investimenti, politiche regionali, sensibilità e cultura della biblioteca) e la stessa Rasetti afferma che la distribuzione delle biblioteche nei diversi livelli da lei individuati non ripercorre necessariamente le distanze geografiche, tanto è vero che anche territori confinanti possono offrire livelli di servizio molto diversi. Quello che è certo è che ci troviamo di fronte a situazioni estremamente disomogenee che non ci permettono di attingere a un immaginario collettivo unitario, a narrazioni condivise dell’esperienza di biblioteca in Italia:
Il fatto è che le biblioteche sono oggetto di amore sperticato, quando ci sono e funzionano bene, ma nessuno ne sente realmente la mancanza quando non ci sono: […] il silenzio dei milioni di cittadini che non hanno accesso ad una biblioteca pubblica decente sembra affondare le radici non tanto nell’aver perso la speranza di veder riconosciuto un diritto sacrosanto, quanto nel non avere minimamente sviluppato la consapevolezza di essere titolari di tale diritto23.
Si tratta di un circolo vizioso: coinvolgere i cittadini è fondamentale per affrontare il rischio di perdita di legittimità, di basso posizionamento nelle priorità degli amministratori locali o di irrilevanza, così come è vero che laddove le amministrazioni non investono e i bibliotecari non coinvolgono i cittadini, questi rimangono fermi nella posizione di utenti passivi o, peggio, di non utenti24.
Chiudo così questa mia digressione con una riflessione: se dovessi riproporre la mia ricerca oggi, quelle biblioteche, purtroppo numerose, che definivo inattive le collocherei senz’altro al livello zero proposto da Rasetti, ma temo anche che, a distanza di qualche anno, troverei una situazione peggiorata, se consideriamo che molti dei bibliotecari conosciuti in quell’occasione, nel frattempo, sono andati in pensione e che poco o niente è stato fatto sul fronte dell’innovazione.
Più difficile sarebbe, invece, provare a collocare le ‘mie’ biblioteche attive negli altri tre livelli individuati da Rasetti. Probabilmente molte finirebbero nella prima categoria, cioè quella delle biblioteche mono-posto o con un’articolazione organizzativa minima, con livelli di servizio contenuti e un limitato sviluppo delle raccolte; l’autrice non a caso tra gli esempi annovera piccole biblioteche di quartiere o di piccoli comuni. Alle biblioteche del livello uno sono associate le parole ‘legittimazione’ e ‘riconoscimento’, esse, infatti, si guadagnano giorno per giorno il diritto di essere finanziate con soldi pubblici. Hanno orari di apertura chiari (non importa quanto limitati) che vengono rispettati, i materiali si ritrovano con facilità sugli scaffali, i tempi di attesa per il prestito sono accettabili, la collezione è contenuta e magari non aggiornata come si vorrebbe ma il prestito interbibliotecario aiuta a risolvere il problema almeno in parte, il personale è disponibile e gentile, gli spazi sono ridotti ma piacevoli e ospitano attività a costo zero in grado di accrescere l’attaccamento delle persone al luogo (incontri delle signore che fanno l’uncinetto, assistenza ai bambini per i compiti, letture ad alta voce). Si tratta, però, di biblioteche non garantite, a cui basta poco per chiudere perché, per esempio, possono essere gestite solo da personale volontario e non professionale.
Al livello due Rasetti colloca le biblioteche con servizi più articolati, collocate in edifici grandi o medio-grandi, con uno staff in grado di coprire esigenze più ampie e differenziate grazie a raccolte di cospicue entità, a strumenti tecnologici di buon livello e a una disponibilità economica proporzionata al respiro con cui i servizi sono stati progettati. Le parole chiave sono ‘credibilità’ e ‘fiducia’: la biblioteca si è guadagnata non solo il diritto di esistere ma anche quello di essere apprezzata sia da chi la usa sia da chi ne ha soltanto sentito parlare. Gli elementi del livello uno sono consolidati e non c’è rischio che la biblioteca possa chiudere per l’assenza improvvisa di un operatore, la raccolta viene aggiornata con frequenza, il prestito interbibliotecario moltiplica le occasioni di lettura, i bibliotecari hanno competenze strutturate e si percepisce l’esistenza di una regia, di uno stile di servizio progettato e in grado di tradurre sul piano relazionale e comunicativo l’identità della biblioteca, i cittadini sono protagonisti attivi, amministratori, potenziali finanziatori e sponsor sanno che il denaro sarà investito bene. Non si tratta di una biblioteca perfetta ma capace, anche quando subisce contrazioni di risorse economiche e umane, di inventarsi nuove strategie e di attenuare gli effetti di ciò che non funziona.
Al terzo e ultimo livello Rasetti colloca le biblioteche che non si limitano a offrire servizi di alta qualità ma che hanno uno speciale rapporto con l’innovazione e la creatività e hanno maturato nuove forme di relazione con la comunità di riferimento. A queste biblioteche associamo le parole ‘innovazione’ e ‘convocazione’: hanno una solida organizzazione, un’identità curata, non sono esenti da conflitti interni e da tagli ai bilanci ma si differenziano dal livello due per un rapporto più evoluto e complesso con le persone, che non sono soltanto destinatarie di servizi ma possono sperimentare una relazione attiva e cooperativa con la biblioteca che li ‘convoca’ cioè li invita al dialogo e all’azione ai fini della co-creazione di opportunità. Si tratta di una biblioteca sperimentale, di una biblioteca che apprende facendo.
Dal punto di vista metodologico e operativo il cuore del libro di Rasetti è rappresentato dal quarto capitolo, nel quale vengono analizzati i principali modelli di misurazione della reputazione in ambito aziendale, poi adattati alle biblioteche pubbliche. La letteratura economica propone generalmente tecniche di ricerca quantitativa con l’utilizzo di questionari composti da una batteria di asserzioni, rispetto alle quali il soggetto intervistato è chiamato a esprimere la propria adesione secondo una scala di Likert, da un livello minimo di totale disaccordo a un livello massimo di completo accordo25. La funzione di questi modelli è comparativa, l’obiettivo, infatti, non è tanto monitorare giudizi e valutazioni sulle singole aziende quanto metterle in competizione.
Il sistema più noto a livello aziendale è il Reputation Quotient o RQ, sviluppato nel 1999 dall’istituto di ricerca americano oggi noto come The Harris Poll. Nel modello la reputazione ha tre caratteristiche: si evolve nel tempo e quindi richiede la programmazione di diverse rilevazioni; è pluridimensionale cioè è l’insieme delle attività e delle relazioni messe in campo per esporre l’azienda al giudizio della comunità di riferimento; ha a che fare con persone in carne e ossa che manifestano il loro giudizio a partire da dati oggettivi e informazioni affidabili ma anche da antichi pregiudizi, sentito dire, pettegolezzi, esperienze obsolete. Questo modello individua sei pilastri a cui si richiama la batteria di asserzioni: fascino e appeal emotivo; prodotti e servizi; performance reddituale e finanziaria; vision e leadership; ambiente di lavoro; responsabilità sociale.
Per quanto ai bibliotecari non importi molto che la propria istituzione si collochi davanti o dietro alle biblioteche vicine e per loro conterebbe di più avere informazioni aggiornate sui giudizi degli stakeholder, Rasetti prova ad adattare i sei pilastri del modello RQ alla biblioteca pubblica. L’obiettivo dell’autrice non è offrire risposte certe ma porre domande in grado di sollecitare altri studiosi a mettere in pratica ricerche di questo tipo. Fascino e appeal emotivo riguardano quanta affezione la biblioteca è in grado di suscitare su chi la frequenta o la conosce non tanto in termini di performance di servizio quanto di affetto, fiducia e considerazione. I prodotti e i servizi sono le opportunità e i servizi offerti che diventano oggetto di giudizio da parte dei diversi stakeholder. La performance, che diventa organizzativa, riguarda la capacità di spendere bene il denaro assegnato, impiegare appieno le risorse a disposizione, attirare partnership, collaborazioni esterne, sponsorizzazioni attraverso una progettualità convincente. Vision e leadership hanno a che fare con il giudizio rispetto alla capacità della biblioteca di guardare avanti e di giocare in anticipo sulle innovazioni. L’ambiente di lavoro è il clima che si respira in biblioteca e riguarda l’esistenza di una buona organizzazione. Infine, i rapporti con la comunità coincidono con la responsabilità sociale, intesa come response-ability cioè capacità di offrire risposte adeguate ai bisogni e alle necessità delle comunità, in termini di partecipazione attiva dei cittadini e sostenibilità.
Rasetti propone tre questionari per il livello uno, due e tre precedentemente individuati, ciascuno costituito da 20 asserzioni con una scala di Likert a 5 modalità, per cui per ogni questionario raccolto il punteggio andrà da un minimo di 20 a un massimo di 100 punti (con la sufficienza fissata a 60 punti). Oltre a una misurazione che si basi sui punteggi complessivamente ottenuti, il modello prevede anche la possibilità di introdurre differenziazioni nel peso attribuito ai singoli pilastri e/o alle singole categorie di stakeholder.
A questo proposito vengono individuate quattro categorie di portatori di interesse: utenti reali e potenziali; decisori politici e finanziatori esterni pubblici e privati; bibliotecari, collaboratori, fornitori di beni e servizi; altri soggetti operanti nella comunità di riferimento quali altre biblioteche, musei, scuole, università, associazioni culturali, opinion leader locali, scrittori, assistenti sociali. Governare le relazioni con gli stakeholder è una responsabilità primaria della biblioteca che dovrà mettere a punto strategie di comunicazione adeguate per raccontarsi in modi diversi, perché è chiaro che non tutte le tipologie di portatori di interesse impattano allo stesso modo sulla vita e sulla reputazione. Come osservavano già alla fine degli anni Novanta Giovanni Di Domenico e Michele Rosco, tra i primi ad applicare la teoria dei portatori di interesse alla biblioteca in un pioneristico volume sulla comunicazione e il marketing,
Ognuno di essi esprime bisogni, aspettative, giudizi nei confronti della biblioteca, della sua immagine, della sua attività. Di più: gli stakeholders possono influenzare fortemente la vita della biblioteca e orientarne gli esiti organizzativi. La biblioteca deve essere allora capace di mettere a punto strategie della comunicazione adeguate e specifiche nei confronti di ciascun segmento di pubblico, integrandole però in una prospettiva globale, unitaria.
Le comunicazioni orientate verso l’esterno punteranno da un lato a rendere stabile, riconoscibile, apprezzata l’identità della biblioteca e dall’altro a promuovere i suoi servizi e a facilitarne l’uso. Le comunicazioni a carattere prevalentemente interno mireranno in particolare a raccogliere e a organizzare il consenso intorno al programma e agli obiettivi della biblioteca26.
Nel complesso la proposta di Rasetti sembra convincente; a lei il merito di essersi cimentata con un tema su cui pure si è scritto ma su cui nessuno prima d’ora in Italia aveva provato a costruire un modello di misurazione. Tra i punti di forza del modello, a mio avviso, rientra senz’altro la classificazione delle biblioteche di ente locale in quattro livelli perché questa supera le classiche etichette che si è soliti utilizzare quali, ad esempio, il numero di abitanti del comune in cui ha sede la biblioteca (mediante il quale distinguiamo centri piccoli, medio-piccoli, medi, medio-grandi, grandi) o le dimensioni dell’edificio che accoglie la biblioteca. Si tratta, quindi, di una classificazione non quantitativa ma qualitativa che non ragiona in termini di grandezze fisiche ma di capacità organizzative, strategiche, progettuali e di un’offerta di servizi che riflette queste capacità. Un altro elemento che mi fa apprezzare la proposta è la facilità del metodo impiegato; i questionari presentati, infatti, sono snelli, chiari, dai risultati facili da leggere, interpretare e restituire (ad esempio, sotto forma di grafici a torta e di istogrammi) e sono strumenti con cui le biblioteche hanno già una certa familiarità, per cui basterebbe affiancare la somministrazione a quelli tradizionalmente utilizzati per misurare la soddisfazione degli utenti, le performance e l’impatto per raccogliere nuovi e utili elementi su cui riflettere. Credo che anche le biblioteche meno esperte potrebbero facilmente fare propri questi strumenti e adattarli al proprio contesto. Quello che forse manca, sempre nell’ottica di un’integrazione tra valutazione della reputazione e valutazione della biblioteca in generale, è una declinazione anche qualitativa del modello, che si avvalga dei metodi e delle tecniche ampiamente collaudati nell’ambito della valutazione di impatto. In realtà, come abbiamo visto, per l’autrice il libro non è un punto di arrivo ma di partenza per sollecitare riflessioni e applicazioni da parte di altri studiosi. Ecco che chi vorrà cimentarsi con la misurazione della reputazione dovrà arricchire la ‘cassetta degli attrezzi’, affiancando ai questionari proposti anche interviste, focus group, osservazioni, da realizzare non soltanto con gli utenti reali ma anche con le altre tipologie di stakeholder. Si tratta di aggiungere alla raccolta di numeri e misure, quella di storie e narrazioni: «La biblioteca intesa come comunità è un agente di produzione narrativa e abbiamo bisogno di strumenti per catturare queste narrazioni e farle significare»27.
Che le parole sono importanti, anche ai fini della valutazione, ce lo dice l’IFLA che, proprio a partire dalle riflessioni e dalle considerazioni di bibliotecari in tutto il mondo sollecitate tramite questionari, ha lanciato nel 2017 il progetto IFLA Global Vision per provare a rispondere a domande macroscopiche sul ruolo presente e futuro delle biblioteche. Frutto del progetto è un elenco di dieci punti chiave e dieci opportunità per le biblioteche che sono chiamate a collegare in maniera efficace azioni globali e locali per affrontare le sfide e contribuire alla costruzione di società istruite, informate e partecipative28. Non a caso, al punto 3 e al punto 6 della lista delle opportunità si fa esplicito riferimento al valore e all’impatto, in termini di costruzione e progettazione: «Dobbiamo capire meglio i bisogni e disegnare servizi per l’impatto. Allargare la portata delle biblioteche contribuirà a creare collegamenti con partner locali, incorporare settori nuovi o sottoserviti delle nostre comunità, avere un impatto misurabile sulla vita delle persone», e in termini di misurazione e comunicazione: «Dobbiamo assicurarci che si comprenda il nostro valore e impatto. Argomentare la capacità delle biblioteche di offrire valore, rafforzerà il riconoscimento ed il supporto da parte di chi prende decisioni».
Nell’ultimo capitolo del libro Rasetti tira le somme della sua riflessione e, forte anche della lunga esperienza sul campo come direttrice della Biblioteca San Giorgio di Pistoia (biblioteca che è ormai diventata un punto di riferimento nel panorama nazionale e che certamente potremmo collocare al livello più alto per performance e reputazione), individua quelli che a suo avviso sono i quattro ingredienti principali per trasformare quanto detto finora in azione e costruire una nuova narrazione della biblioteca pubblica: riconoscere la centralità del pubblico lottando contro gli stereotipi consolidati sulla pubblica amministrazione, facendo bene il proprio lavoro e facendolo sapere; abbandonare il concetto di cliente in favore di quello di cittadino come protagonista attivo nel controllo e nel giudizio di come i servizi pubblici vengono gestiti e realizzati; sostenere la cittadinanza consapevole ovvero cittadini dotati di competenze e saperi utili per la quotidianità, il lavoro, la vita sociale, anche in ottica digitale; coltivare la prossimità e promuovere il benessere equo e sostenibile.
Una combinazione di ingredienti che, in un certo senso, ci riporta a quell’identità plurale della biblioteca pubblica contemporanea di cui Di Domenico individuava gli elementi fondanti, proprio a ideale conclusione del dibattito a cui si accennava nelle prime pagine: la promozione dei servizi bibliotecari per la competenza informativa, l’apprendimento permanente, l’educazione al pensiero critico e lo sviluppo della cittadinanza digitale, la risposta alla crisi e il rapporto con il welfare, le biblioteche come laboratori sociali in risposta ai nuovi bisogni, il coinvolgimento attivo di cittadini, gruppi sociali e associazioni nella progettazione di spazi e servizi e nella realizzazione di iniziative, attività ed eventi con le biblioteche e nelle biblioteche29.
L’auspicio, per Rasetti, è che questa narrazione rinnovata possa diventare normalità, quotidianità per tutte le biblioteche e non un lusso per poche.
A mio avviso una nuova narrazione è possibile ed è quella che vede nelle biblioteche pubbliche delle infrastrutture della società: per dirla con il sociologo americano Erin Klinenberg, «palaces for the people», cioè ‘palazzi’, ‘costruzioni’ per le persone, spazi condivisi (come scuole, parchi, associazioni civiche, chiese) in cui le persone si ritrovano, stringono legami e connessioni cruciali per la comunità intera. Le infrastrutture sociali aiutano a risolvere alcune delle sfide più urgenti della contemporaneità, come l’isolamento, la criminalità, le dipendenze, la polarizzazione politica; in esse si sviluppa coesione sociale che non è il frutto soltanto di un impegno di principio nei confronti di valori astratti e credenze condivise ma nasce dalla partecipazione a progetti condivisi: «Le persone stringono legami in posti che hanno infrastrutture sociali sane non perché si siano prefissate di costruire comunità, ma perché quando le persone sono coinvolte in un’interazione duratura e ricorrente, in particolare mentre fanno cose che piacciono, le relazioni crescono inevitabilmente»30.
Le biblioteche sono risorse della comunità, incubatrici di idee e presidi della partecipazione dei cittadini31, luoghi terzi, a voler richiamare un’espressione ormai abusata ma per alcuni aspetti ancora efficace. Elaborato negli anni Ottanta dal sociologo americano Ray Oldenburg, il concetto di luogo terzo (dopo la casa e il lavoro, rispettivamente luogo primo e secondo) è un concetto inclusivo e neutro, non definito in base alla funzione che svolge ma necessario alla coesione sociale e alla creazione di conoscenza. Deve essere un luogo gratuito o poco costoso, facile da raggiungere e con orari di apertura ampi, comodo e accogliente, in cui non si accede per un particolare titolo e in cui viene favorita la conversazione. In sintesi, si tratta di luoghi caratterizzati da libertà di espressione, interazioni spontanee e partecipazione dei cittadini32. La biblioteca pubblica, sia nella sua dimensione fisica che in quella digitale, offre opportunità di conoscenza e di partecipazione, punta sulla prossimità, la coesione, l’inclusione, replicando alcune delle caratteristiche dei luoghi terzi33.
Costruire una nuova narrazione vuol dire non soltanto sentirsi parte delle comunità ma essere riconosciute come tali dimostrando e comunicando in maniera efficace il proprio valore e il proprio impatto sulla vita delle persone; ancora una volta si tratta di allineare identità, immagine e reputazione.
Nel 2015, nel definire i punti principali di un’agenda politica per le biblioteche italiane, Stefano Parise individuava nella reputazione il presupposto indispensabile per l’attribuzione di valore da parte delle comunità e la definiva in questi termini:
la risultante di fattori quali l’affidabilità, la continuità – di presenza, di servizio, di prestazioni – e la corrispondenza ai bisogni individuali, ed esprime il gradiente della considerazione di cui gode la biblioteca all’interno di un certo contesto sociale, sentita come misura della sua qualità.
La reputazione è un moltiplicatore che consente anche a chi non conosce direttamente il servizio di apprezzarne le qualità e di sviluppare un sentimento di orgoglio, di soddisfazione […]. Essa è il fattore che più di ogni altro può favorire l’inclusione della biblioteca nel cantiere della costruzione dell’identità locale.
La questione non è oziosa e forse può essere chiarita con un’altra domanda, ancora più semplice: perché una comunità dovrebbe investire tempo e denaro in attività non percepite come socialmente rilevanti?
Ecco lo snodo decisivo per la costruzione della nostra agenda: costruire la reputazione delle biblioteche pubbliche come elemento trainante di una diversa percezione sociale, la quale a sua volta può fungere da volano per una maggiore attenzione da parte dei decisori politici34.
Si tratta di riflessioni di grande attualità. Oggi coltivare la reputazione è un impegno diventato più che mai urgente per le biblioteche, anche a causa della pandemia che ha travolto molte delle certezze su cui esse avevano consolidato la propria posizione e costruito successi, prima fra tutte la centralità degli spazi fisici in cui hanno articolato la loro offerta di servizi e attività per favorire l’apprendimento, la conoscenza, le relazioni, la partecipazione delle persone.
In un’altra recente occasione ho provato a individuare le priorità della biblioteca pubblica contemporanea: la funzione che resta indispensabile (e in queste pagine l’ho ribadito) è la mediazione informativa, una sorta di ‘meta-finalità’ intorno alla quale declinare tutti i servizi di biblioteca, vecchi o nuovi, più tradizionali o più innovativi, fruiti in ambiente fisico o digitale; sul piano dell’identità, invece, la parola chiave è prossimità, nell’accezione più classica di vicinanza alle persone (spaziale, culturale, sociale, emotiva) ma anche di affinità e somiglianza, una biblioteca che nella e con la comunità si riflette e al tempo stesso si plasma. Come sottolineavo allora, non si tratta certo di una novità: mediazione e prossimità, infatti, accompagnano le biblioteche pubbliche praticamente da sempre: grandi o piccole, sono per natura luoghi e mezzi di conoscenza vicini e in ascolto dei cittadini e questo ruolo, che è specifico e non appartiene (almeno non nello stesso modo) ad altri luoghi della cultura e della socialità, va riscoperto per assicurare alle biblioteche un futuro di legittimazione e riconoscibilità35.
Ecco che misurare e valutare le proprie performance, il valore, l’impatto, quello che i cittadini pensano della biblioteca, e quindi anche la reputazione, diventa un asset strategico per assicurarsi questo futuro, asset che ha al centro le persone, i loro bisogni, le loro esigenze, anche le loro critiche e i loro pregiudizi.
Ultima consultazione siti web: 10 marzo 2022.