a cura di Desirée de Stefano e Federica Olivotto
Fernando Venturini è stato consigliere parlamentare presso la Biblioteca della Camera dei deputati "Nilde Iotti" e mantiene a tutt’oggi un rapporto di consulenza e collaborazione con la stessa. La sua carriera di bibliotecario parlamentare è stata lunga e ricca di esperienze, così come la sua attività per l’Associazione italiana biblioteche, nell’ambito della quale ha sempre seguito il settore della documentazione di fonte pubblica.
Ciò per dire che nessuno più e meglio di lui avrebbe potuto affrontare l’impresa di scrivere una guida all’informazione parlamentare, come recita il complemento del titolo di questa nuova pubblicazione a sua firma di Editrice bibliografica.
Il volume si presenta con un taglio didattico-divulgativo che lo rende adatto non solo a un pubblico di bibliotecari, cui il catalogo dell’editore è primariamente rivolto, ma anche a cittadini, studenti, curiosi che vogliano comprendere e approfondire l’affascinante e complesso sistema della misconosciuta informazione parlamentare. Se già il mondo delle leggi che regolano il nostro vivere quotidiano appare a molti come qualcosa di tortuoso e difficilmente comprensibile, se non nella versione ipersemplificata e spesso imprecisa che ci viene proposta dai mezzi di comunicazione di massa, la documentazione che il Parlamento produce nell’ambito delle sue attività e competenze – e che sta prima, a latere o dopo l’atto normativo vero e proprio (come giustamente Venturini non manca di sottolineare a più riprese) – è qualcosa che i più non considerano rilevante per le proprie vite, fatta eccezione per studiosi e addetti ai lavori.
Ebbene, obiettivo dell’autore sembra essere da un lato quello di dimostrare che comprendere il Parlamento attraverso la documentazione da esso prodotta significhi acquisire uno sguardo più articolato e complesso sulla nostra società e i meccanismi che la regolano, dall’altro quello di stimolare la stessa aula parlamentare a coltivare non solo la sua tutto sommato naturale vocazione alla sedimentazione dei documenti, ma anche la spinta a renderli accessibili e comprensibili. Questo approccio rivela qualcosa sia del libro e dei suoi contenuti, sia del punto di vista di Venturini rispetto al Parlamento, dal momento che, senza dirlo del tutto esplicitamente, sembra sostenere una linea di apertura e comunicazione, che passa necessariamente anche attraverso un maggiore coordinamento tra le due Camere e una riflessione scevra da condizionamenti su tutto quello che può essere migliorato, anche superando alcune scelte e strade imboccate nel passato, ma non più condivisibili o adeguate. D’altra parte, è solo promuovendo una reale conoscenza dell’attività e del funzionamento del Parlamento che è possibile non solo superare gli stereotipi che lo riguardano ma anche comprenderne i limiti e i fattori di crisi, mettendo le basi per disegnare il futuro della democrazia parlamentare italiana, che – come sempre e ovunque – non è statica, bensì evolve nel tempo, come in vari momenti l’autore ci aiuta a focalizzare.
Il volume si articola in dodici capitoli, organizzati in maniera molto lineare: dopo un’introduzione in cui si fornisce il perimetro nel quale si muove il libro e qualche traccia da seguire per accostarsi all’argomento, i seguenti sono dedicati rispettivamente al Parlamento e al concetto di pubblicità che ne è alle base, ai filoni della documentazione e delle fonti per il suo studio e infine ai parlamentari. Tra il sesto e il decimo si passano in rassegna le funzioni di tale istituzione democratica, da quella più conosciuta ma non necessariamente principale (almeno per come sta evolvendo nella prassi il nostro sistema costituzionale), ossia il fare le leggi, alla funzione di dialogo e controllo dell’azione del Governo, all’acquisizione di informazioni attraverso documenti, inchieste, indagini, audizioni, alla ricaduta dell’attività dell’Unione europea su quella del Parlamento nazionale, infine alla funzione di comunicazione. Gli ultimi due capitoli (undicesimo e dodicesimo) sono dedicati a un riepilogo degli indici e delle banche dati parlamentari e all’uso che dell’informazione parlamentare si può fare all’interno delle biblioteche. A questo proposito l’autore ricorda fin da subito l’importanza della scelta dei due rami del Parlamento di aprire le rispettive istituzioni bibliotecarie al pubblico (nel 1988 quella della Camera dei deputati, nel 2003 quella del Senato della Repubblica) e soprattutto la nascita nel 2007 del Polo bibliotecario parlamentare, che rappresenta a oggi il più significativo esempio non solo di cooperazione ma di vera e propria integrazione dei servizi all’interno delle due Camere. Sono state proprio la loro apertura e ancora di più la nascita del Polo a mettere in comunicazione le due biblioteche con le altre sul territorio nazionale, non solo quelle specializzate ma anche quelle pubbliche, come testimoniato anche dalle più di 15 edizioni di “Il Parlamento in biblioteca”, il corso organizzato in collaborazione con l’Associazione italiana biblioteche per approfondire la conoscenza della documentazione parlamentare.
Al termine della lettura la sensazione più forte e immediata per il lettore meno addentro all'argomento è quella di una sovrabbondanza di documentazione e di strumenti di ricerca, che è al contempo motivo di vanto per l’istituzione, ma anche fattore di difficoltà. Da un lato, il Parlamento è tra le poche istituzioni pubbliche che archivia e rende disponibili pubblicamente quasi tutti i documenti che produce (e in buona parte quelli che riceve). Lo faceva già quando questi erano interamente cartacei e il compito della conservazione e della messa a disposizione era prevalentemente demandato alle biblioteche (e in parte agli archivi), e lo fa ancor più ora che gran parte di essi nasce in digitale, ovvero va progressivamente incontro a un processo di digitalizzazione. Dall’altro lato, ciò significa che la mole di documentazione è immane e gli strumenti di ricerca sono spesso il frutto di procedure e prassi di lavoro interne, e dunque si sovrappongono rendendo ridondanti alcuni contenuti e aggiungendo complessità a complessità. Da questo punto di vista, il bicameralismo, che avrebbe potuto essere un fattore di semplificazione attraverso una divisione dei compiti tra le due Camere, in realtà ha prodotto ulteriori disallineamenti, cosicché progetti similari sono nati parallelamente e spesso in maniera non coordinata.
La crescita esponenziale della documentazione parlamentare e il ritmo sempre più frenetico dell’attività politica e delle Camere fanno sì che questa venga utilizzata soprattutto da ‘addetti ai lavori’ (giornalisti, studiosi, storici, lobbisti ecc.), che pure in molti casi hanno difficoltà essi stessi a districarsi nei suoi meandri. I parlamentari e i comuni cittadini, che dovrebbero esserne i principali destinatari, la utilizzano pochissimo direttamente, affidandosi sia gli uni che gli altri alla mediazione di altri soggetti, come del resto accade in molte altre democrazie occidentali.
Certamente il libro di Venturini può sensibilizzare i bibliotecari sul ruolo importante che potrebbero svolgere da questo punto di vista (anche supportati dal personale delle due biblioteche parlamentari), ma anche aiutare i lettori tutti a capire che il Parlamento non può essere ridotto alla polemica politica del giorno e che molte delle critiche che gli si rivolgono o delle derive che lo caratterizzano sono il risultato di una scarsa conoscenza delle sue caratteristiche, che spinge anche la politica a forzarne il funzionamento oppure ad attribuirgli convenientemente le responsabilità di questioni che invece risiedono altrove. Il paradosso – non solo italiano – fa del Parlamento un capro espiatorio di fronte al rifiuto e alla difficoltà di ‘governare’ un mondo sempre più complesso e sfuggente, in cui i Parlamenti perdono centralità a vantaggio di attori molto meno riconoscibili e che spesso non sono nemmeno democraticamente eletti.
Anna Galluzzi
Biblioteca del Senato "Giovanni Spadolini"
Renate L. Chancellor con questo intenso e agile volume si è posta l’obiettivo di esaminare criticamente e approfonditamente la carriera professionale del bibliotecario, docente universitario e attivista afroamericano per i diritti umani Elonnie Junius Josey (1924-2009). Bastano poche righe per comprendere che l’obiettivo è stato raggiunto e superato. La lettura della vita e dell’esperienza professionale di E. J. Josey permette infatti non solo di osservare da vicino gli Stati Uniti durante una delle pagine più drammatiche della sua storia, quella delle tensioni razziali e del movimento per i diritti civili, ma anche di comprendere come questi temi siano stati affrontati nell'ambito bibliotecario. Josey ha infatti il merito di aver portato la questione razziale e l’attivismo all’interno dell’American Library Association (ALA) − di cui fu anche il secondo presidente di colore negli anni 1984-1985. Egli ha inoltre contribuito a fondare, verso la fine degli anni Sessanta, un’organizzazione attiva ancora oggi, il Black Caucus of the American Library Association (BCALA), finalizzata alla promozione dello sviluppo di biblioteche e di servizi di informazione per gli afroamericani e per le persone di origine africana. Per ricostruire la complessa e articolata attività di Josey, l’autrice si è avvalsa di fonti primarie e secondarie tra cui interviste, fotografie, corrispondenze personali e professionali, articoli, diari di viaggio, differenti tipologie di documenti che si sono rivelate fondamentali per comprendere quanto grande sia stato l’impatto delle sue idee su tutti coloro che lo hanno conosciuto.
Il volume è articolato in sei capitoli. Il primo − Journey toward leadership − spiega il perché, secondo l’autrice, Josey è stato un transformational leader capace di motivare e motivare bibliotecari, studenti e persone incontrate sul suo cammino a intraprendere percorsi comuni a favore del bene collettivo. Chancellor chiarisce quali sono le quattro qualità che devono caratterizzare un leader ‘trasformativo’, e che Josey in effetti possedeva: la capacità di diventare un modello di riferimento (idealized influence); saper promuovere lo spirito di squadra dando un significato profondo agli obiettivi che ci si pone (inspirational motivation); essere in grado di utilizzare un approccio creativo e innovativo per incitare le persone al cambiamento (intellectual stimulation); l’attitudine a porsi come mentore e a infondere coraggio (individualized consideration). I capitoli centrali del libro narrano la giovinezza e il contesto storico-culturale in cui crebbe Josey, le sue prime esperienze lavorative come bibliotecario, il suo contributo al movimento dei diritti civili all’interno e all’esterno dell’ALA oltre che a livello nazionale e internazionale, e infine la sua esperienza come professore di Library and information science, soprattutto alla University of Pittsburgh. Il sesto e ultimo capitolo discute infine dell’eredità che questo protagonista della biblioteconomia statunitense ha lasciato. Sono qui raccolte le testimonianze dirette di coloro che vi sono entrati in contatto, le quali permettono di comprendere la forte influenza che ebbe nel mondo bibliotecario e non solo. Viene quindi ulteriormente chiarito il perché l’autrice ha individuato nel concetto di transformational leader la definizione più appropriata per E. J. Josey.
Il volume risulta significativo e di interesse non solo perché permette di approfondire una pagina di storia degli Stati Uniti e di storia delle biblioteche, ma soprattutto in quanto consente di comprendere quanto il ruolo di biblioteche e bibliotecari e il valore dell’accesso alla cultura e all’informazione siano elementi essenziali per l’emancipazione degli individui, per la salvaguardia della dignità delle persone, per la qualità della vita e il benessere di tutti e di ciascuno.
Maddalena Battaggia
Sapienza Università di Roma
Perché gli archivi? Questa è la domanda – ma la si potrebbe declinare in molti modi – che sembra animare il pensiero e costituire il filo conduttore delle riflessioni racchiuse nell’ultimo libro di Federico Valacchi edito da Editrice bibliografica.
Come un moderno Virgilio, l’autore guida il lettore lungo il corso della storia degli archivi. Lo spunto per le sue considerazioni è dato dall’inquietudine per il tempo attuale e la realtà che ci circonda, ma l’attenzione si rivolge innanzitutto al passato; la ricerca delle tradizioni della disciplina porta Valacchi a riflettere sulle incertezze del presente che diventano ansia per il futuro. La prima parte dell’opera è, infatti, una ricognizione di ciò che è stata l’archivistica nel corso della storia: sono descritti gli archivi la cui fisionomia ha caratterizzato un’epoca o che è stata determinata dalla sua cultura, in una spirale temporale in cui è difficile discernere con chiarezza e separare con sicurezza le cause dagli effetti. È così che gli archivi vengono utilizzati a scopi politici dalle autorità degli stati nazionali, con finalità culturali a partire dalla Rivoluzione francese e con intenti innovatori nel periodo Napoleonico, addirittura supportando l’ideale romantico dell’Ottocento attraverso la ricostruzione delle ‘patrie memorie’ e contribuendo alla nascita e allo sviluppo dello Stato unitario. Valacchi torna a riflettere più volte sullo scontro – quasi una guerra immanente – fra ordine e disordine, fra il principio alla base dell’archivio e la condizione naturale a cui la massa di documentazione, come ogni altra cosa, tende in assenza di interventi esterni. In questa dinamica entropica inarrestabile il presente, figlio della rivoluzione digitale e tecnologica, vede perdere la propria fisionomia, divenendo altro rispetto al passato fino a fondersi in un tutt’uno indeterminato con il futuro. È in questa nuova dimensione, in cui l’archivio incontra l’universo digitale fino a esservi risucchiato dentro, che Valacchi scorge la minaccia incombente sul destino e sulla stessa ragion d’essere della metodologia archivistica, ossia che questa possa essere sostituita dalla tecnologia, che l’ordinamento preventivo dell’archivio digitale possa render vano ogni sforzo ordinatore successivo alla creazione dell’archivio stesso, che le regole inseguano da lontano la realtà documentaria senza mai raggiungerla, se non quando questa è ormai mutata. L’analisi prosegue poi mettendo a fuoco i rischi rappresentati dal cieco fideismo nei confronti degli strumenti offerti dal solo sviluppo tecnologico. Nella seconda parte dell’opera, infatti, il discorso si sposta ancor più sul piano etico della riflessione: in questa prospettiva l’archivista ha il diritto e il dovere di riaffermare la necessità ineludibile del proprio ruolo e della propria funzione.
La riflessione di Valacchi sembra trasformarsi in una lotta di resistenza alle incertezze del presente, ai pericoli derivanti dalla fine dei principî e delle regole del mondo antico senza averli sostituiti con alternative adeguate, come quando sottolinea: «Siamo alla ricerca di soluzioni che sappiano far fronte a una realtà documentaria sotto tutti i punti di vista moltiplicata, diversificata e, per così dire, decisamente irrequieta» (p. 104). Egli osserva con preoccupato realismo i suoi contemporanei e il mondo che li circonda e, soprattutto, il futuro che li attende, analizzandone le involuzioni e i limiti; tra questi l’affermazione dell’opinione sulla conoscenza, figlia dell’incapacità dell’uomo contemporaneo di andare oltre l’hic et nunc, oltre il momento presente (molto efficace il termine ‘presentismo’). La speranza è rappresentata da una rivoluzione etica e politica, in una visione ideale, e forse utopistica, in cui l’archivistica dovrà affiancare la sociologia, la politica e le altre scienze per riaffermare il primato e l’importanza della memoria e del dato storico sull’opinione. Siamo nella terza parte, in cui trova compimento il ragionamento secondo il quale l’archivistica deve diventare ‘militante’, ossia destinata a superare la dimensione culturale, connaturata alla tradizione ‘passatista’, per abbracciare in pieno quella civile e politica, e affiancare alla dimensione tecnica quella pubblica per rispondere all’estrema chiamata in difesa dei contenuti etici e civili degli archivi. Da queste pagine sembrano emergere al contempo la preoccupazione e l’ansia figlie dei tempi, che segnano la fine di un’epoca e l’inizio di una nuova, con il crollo dei vecchi principî e delle vecchie certezze e il profilarsi di nuovi dubbi, mettendo a fuoco le problematiche che la disciplina e la metodologia non hanno ancora del tutto risolto. In questa prospettiva il pensiero proposto dal volume è ambizioso: delineando una parabola che attraversa la realtà culturale, civile e politica degli archivi, ha il merito di descrivere con chiarezza lo scenario che ci circonda; non indica tanto soluzioni quanto ciò a cui tendere, avvertendo la necessità di risvegliare la dimensione militante degli archivisti a difesa delle certezze della memoria e della ‘verità’ contro le onde agitate dell’oceano digitale di questo nuovo tempo.
Francesco Greco
Università degli studi di Roma “Tor Vergata”
Da tempo biblioteche e biblioteconomia hanno aderito ai principi e agli obiettivi dello sviluppo sostenibile delineati nell’Agenda 2030, ma oggi questi obiettivi sono ancor più cruciali: nell’'anno zero' delle biblioteche (recentemente evocato nel Convegno delle Stelline del 10 e 11 marzo 2022) è imprescindibile collocare la ripresa post-pandemica e la progettazione del futuro delle biblioteche nella prospettiva dello sviluppo sostenibile. In questo scenario questo volume per i tipi di Ledizioni e curato da Giovanni Di Domenico rappresenta uno strumento di orientamento per le biblioteche contemporanee e una guida per una profonda riflessione sul loro futuro.
Uno strumento di orientamento, perché i contributi raccolti presentano soluzioni, riflessioni ed esempi efficacemente calati nel contesto attuale: ogni saggio fa infatti riferimento alle sfide legate alla pandemia, delineando strategie di resilienza e ripartenza.
Prima ancora, però, il volume è una guida alla riflessione sull’identità delle biblioteche e sul senso profondo del loro coinvolgimento in relazione ai 17 Sustainable Development Goals (SDGs). Siamo capaci di intendere lo sviluppo sostenibile come una scelta strategica che consenta alle biblioteche di capire e affrontare le sfide della contemporaneità? La sostenibilità sta cambiando la biblioteconomia? Queste alcune delle domande che guidano il lettore.
Le evoluzioni del rapporto tra biblioteche e sviluppo sostenibile sono al centro del contributo di Rosa Parlavecchia, che delinea gli scenari che si aprono con il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e Next generation EU (NGEU). Il ruolo dell’Unione europea è centrale nel contributo di Giuseppe Vitiello, che si sofferma sulle politiche di sostenibilità delle biblioteche europee e sull’impatto che le politiche comunitarie generano sulle attività degli Stati membri in materia di biblioteche.
Chiara Faggiolani approfondisce alcuni temi emersi dall’indagine “La biblioteca per te”, che ha dimostrato come i tempi siano maturi perché le biblioteche pianifichino le attività e il loro impatto in chiave di sviluppo sostenibile. Su questo ultimo aspetto interviene anche Maria Senatore Polisetti, interrogandosi sulla sostenibilità dei progetti di digitalizzazione e delle digital library ed evidenziando tra l’altro la necessità di valutare l’effetto dei contenuti digitalizzati. Alla valutazione della sostenibilità delle biblioteche e del loro contributo al perseguimento dei 17 obiettivi è dedicato il saggio di Anna Bilotta, che offre una panoramica dei modelli di valutazione e dei loro limiti.
La teoria economica dei beni comuni fornisce una nuova lente di lettura per la riflessione sulla sostenibilità nei contributi di Margarita Pérez Pulido e di Paola Castellucci, che mettono in relazione, rispettivamente, la responsabilità sociale con lo sviluppo sostenibile e l’open access con la teoria dei common: conoscenza, informazione e biblioteche sono beni comuni e l’open access, di cui va implementata la sostenibilità economica, può favorire l’impatto della ricerca sulla società.
Nel volume trovano spazio anche i contributi dedicati all’organizzazione e alla gestione bibliotecaria. Mentre Sara Dinotola propone un percorso gestionale che va dalla pianificazione strategica partecipata alla comunicazione sostenibile, passando per le certificazioni di sostenibilità, Simona Inserra approfondisce le fasi gestionali della conservazione, tema che va affrontato insieme a decisori e comunità. Una panoramica e un prontuario per le attività di educazione alla sostenibilità svolte dalle biblioteche delle università sono poi offerti nel contributo di Maria Rosaria Califano. Infine, Concetta Damiani si concentra sugli archivi, di cui analizza sostenibilità e il loro contributo sotto questo aspetto dal punto di vista politico, giuridico, tecnologico, culturale.
>Il paradigma della biblioteca sostenibile propone un ‘salto di qualità’ nell’approccio della biblioteconomia e delle biblioteche allo sviluppo sostenibile. Tale approccio dovrà passare dall’adesione ai principi dell’Agenda 2030 a un vero e proprio investimento strategico, che pervada tutti gli aspetti della biblioteconomia e della pratica bibliotecaria esplorati nei diversi contributi: la riflessione teorica, le attività e la gestione delle biblioteche, la professione bibliotecaria. La proposta che si fa insomma alle biblioteche è di non limitarsi ad aderire allo sviluppo sostenibile, ma di farlo proprio, di ‘assimilarlo nel proprio DNA’. Potremmo così passare dall’avere biblioteche che contribuiscono – in vario modo e con diverse attività – ai 17 obiettivi all’avere biblioteche che puntino a determinare impatto e cambiamenti durevoli in termini di sostenibilità sociale, ambientale ed economica, che in tal senso assicurino un impegno a lungo termine, che si fondino sulla partecipazione delle comunità e sulla cooperazione, che costruiscano reti di relazioni per portare avanti e diffondere l’impegno in questo ambito, che affermino il ruolo insostituibile che la cultura ha nello sviluppo sostenibile.
È davvero necessario questo rinnovamento identitario delle biblioteche? I risultati del Rapporto Bes 2021 di Istat (che testimoniano un nettissimo calo, soprattutto tra i più giovani, della quota degli utenti) spingono a rispondere in modo affermativo: le biblioteche hanno bisogno di riposizionarsi, rinnovando e dando un nuovo senso al loro ruolo nelle comunità e nella società. La proposta di integrare la sostenibilità nella propria identità va in questo senso e soddisfa l’esigenza di comprendere e rispondere meglio alle sfide della contemporaneità.
La lettura di questo volume rappresenta dunque lo stimolo e la guida necessari per avviare – a livello di comunità bibliotecaria – una riflessione teorica sul futuro del suo rapporto con la sostenibilità e soprattutto – a livello di singole biblioteche – per iniziare a lavorare a un’integrazione della sostenibilità nella loro identità, partendo dalla pianificazione strategica partecipata e dalla progettazione del loro impatto.
Agnese Bertazzoli
Sapienza Università di Roma
Il volume, che raccoglie contributi scritti tra il 2015 e il 2019, si inserisce pienamente nel dibattito sul ruolo dell’umanista nel mondo culturale contemporaneo. Nella prima parte, composta da tre articoli disponibili anche nella rivista on-line Laboratorio dell’ISPF dell’Istituto per la storia del pensiero filosofico e scientifico moderno del CNR, l’autore, esperto di storia della cultura e della filosofia, delinea cronologicamente e concettualmente il settore dell’»informatica umanistica’ (digital humanities).
Nel primo contributo, Il futuro degli studi umanistici al tempo dei big data, attraverso un’indagine critica sull’impatto delle tecnologie digitali nel campo delle discipline umanistiche, si sottolinea la necessità della ridefinizione della figura dell’umanista alla luce del suo rapporto con quella dell’informatico. In Google books e le scienze (post)umane si ripercorre sinteticamente l’evoluzione del rapporto tra le scienze umane e l’informatica, criticando l’uso poco trasparente dell’enorme mole di dati immagazzinati e sottoposti a procedure algoritmiche da parte dei colossi dei big data. In particolare, nell’ambito delle digital humanities, dal progetto-pilota dell’Index Thomisticus del padre gesuita Roberto Busa si passa poi ad analizzare il ruolo di Google nel processo di digitalizzazione e diffusione dei beni culturali. Infine in Note su internet e democrazia Mazzola ripercorre la storia di internet, dal progetto statunitense degli anni Sessanta volto a creare una rete militare dedicata allo scambio di informazioni, fino al sopravvento dei service provider privati, sottolineando come ‘la rete’, con gli strumenti di profilazione personalizzata, sia un potente strumento di potere in grado di condizionare le idee dei cittadini.
Nella seconda parte del volume vengono descritti alcuni progetti di digitalizzazione curati dall’autore e sono anticipate tematiche di estrema attualità, anche a causa dell’accelerazione che il periodo pandemico ha dato all’utilizzo del digitale per la fruizione e la conservazione dei beni culturali. Nel primo capitolo La collana Vico su ‘CD-ROM’ sono presentati i risultati del passaggio su supporto digitale delle opere di Giambattista Vico, curato dalla Biblioteca del Centro di studi vichiani, di cui lo studioso è stato responsabile. Nel successivo, Biblioteca napoletana digitale (secc. XVII- XVIII), si espone il progetto della biblioteca dell’Istituto per la storia del pensiero filosofico e scientifico moderno del CNR (ISPF-CNR) per la realizzazione di un deposito istituzionale raccolga, indicizzi e conservi i testi presenti in rete editi a Napoli nei secoli XVII e XVIII, in cui i libri digitalizzati da Google sono scaricabili in versione completa mentre i titoli sono suddivisi per sezioni tematiche per agevolarne la consultazione. Infine, nel capitolo I ‘geroglifici’ del mondo delle nazioni di Giambattista Vico è presentata, insieme a una bibliografia essenziale e immagini esplicative, l’installazione multimediale realizzata dall’autore ed esposta a Napoli nel 2018 in occasione del Maggio dei monumenti, che illustra i geroglifici contenuti nella Dipintura a corredo delle edizioni del 1730 e del 1744 della Scienza nuova di Giambattista Vico. Con lungimiranza sono sottolineate le opportunità che il digitale può offrire per attrarre nuovi pubblici e promuovere differenti modalità di fruizione; si evidenzia la necessità di un’adeguata pianificazione di progetti di digitalizzazione affidati a professionisti a vantaggio altresì della conservazione del materiale antico. Tutti temi di vivo interesse, dal momento che il Ministero della cultura ha recentemente costituito l’Osservatorio innovazione digitale nei beni e attività culturali e creato l’Istituto centrale per la digitalizzazione del patrimonio culturale - Digital library per coordinare i progetti di digitalizzazione del patrimonio culturale sul territorio nazionale, i quali verranno finanziati anche dai fondi del 2022 del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) del Ministero dello sviluppo economico.
Clara Rolandi
Università degli studi di Pavia
L’alfabeto greco, racconta Erodoto, sarebbe stato chiamato dai Greci stessi ‘fenicio’: «i Fenici giunti con Cadmo [...] introdussero presso i Greci molte nozioni e anche l’alfabeto, che prima i Greci, a quanto mi sembra, non possedevano [...]. Col passare del tempo, i Cadmei mutarono insieme alla pronuncia anche la sequenza delle lettere. A quel tempo, abitavano la maggior parte di quelle terre Greci di stirpe ionica; essi, avendo ricevuto le lettere dell’alfabeto grazie all’insegnamento dei Fenici, le usavano avendovi apportato qualche lieve modifica e, usandole le chiamarono «fenicie», come del resto era giusto, dal momento che erano stati i Fenici a introdurle in Grecia» (p. 23, citato da Erodoto V, 58, 1-2). Già la prima testimonianza storiografica sulla scrittura greca ne sottolinea una caratteristica fondamentale: i percorsi paralleli che scrittura e cultura seguono, nella storia greca e mediterranea, e non solo.
Della scrittura greca dalle lettere cadmee alla caduta di Bisanzio, e del suo sviluppo parallelamente alle vicende politiche e culturali greche e bizantine, tratta il nuovo manuale Paleografia greca, edito da Carocci a opera di Daniele Bianconi, Edoardo Crisci e Paola Degni.
La stessa casa editrice aveva già pubblicato La scrittura greca dall’antichità all’epoca della stampa a cura di Crisci e Degni (Carocci, 2011), che trattava lo stesso argomento; Paleografia greca è però più di una riedizione del precedente volume, che risulta rinnovata sia nei contenuti che nella presentazione e struttura. Con questo volume gli autori offrono, in primo luogo a un pubblico di studenti universitari, ma non esclusivamente, un manuale di taglio maggiormente didattico rispetto al precedente.
Apre il libro un’introduzione sintetica, che presenta al lettore un quadro della paleografia come disciplina, la terminologia tecnica di base e, a conclusione, una breve storia degli studi.
Il percorso della scrittura greca dalle origini fino alla fine del periodo bizantino si sviluppa in successione cronologica nei quattro capitoli che costituiscono il corpo del manuale: all’interno di ciascuno, dopo un sintetico quadro storico, vengono presentati i caratteri e le linee evolutive delle scritture documentarie e librarie, mentre al termine si trovano i rimandi bibliografici, a partire dalle riproduzioni a stampa dei documenti citati.
Il primo capitolo richiama le origini della scrittura greca, le cui più remote attestazioni sono documenti epigrafici, per poi affrontare la trattazione delle prime testimonianze su materiale librario. Se infatti il più antico rotolo papiraceo è di epoca classica, risalgono solo all’età ellenistica i reperti che permettono di valutare le tipologie grafiche su papiro, nonché la diversificazione della scrittura sia nello spazio, dopo il grande ampliamento dell’area di diffusione della scrittura greca, sia nei vari filoni di scritture librarie e documentarie. L’Egitto tolemaico, per l’abbondanza di documentazione e per la complessa struttura amministrativa ereditata dal regno ellenistico, fornisce una mole considerevole di informazioni sulle scritture documentarie, come l’ampio corpus di testi del cosiddetto archivio di Zenone. Il capitolo si chiude con l’analisi delle scritture dei libri e dei documenti in greco di età romana (fino al II sec. d.C.), che non presenta cesure dal punto di vista paleografico ma un ampliamento della documentazione (al di fuori dell’Egitto, per esempio, Qumrân, Dura Europos, Ercolano).
Il capitolo successivo affronta l’evoluzione della scrittura greca a partire dal periodo di rinnovamento dell’Impero romano nella tarda antichità. Si tratta di un periodo dai contorni sfumati, che si può far partire con l’affermazione del cristianesimo, la creazione del nuovo centro imperiale di Costantinopoli nel III-IV secolo e, percorrendo le vicende dell’Impero romano d’Oriente si chiude con la rinascita politica e culturale del IX secolo. Dal punto di vista scrittorio, si ripercorrono gli esiti delle scritture documentarie nei vari ambiti d’uso, la fusione dell’identità greca con quella romana trova compimento nella cosiddetta koiné grafica greco-romana, ossia la convergenza delle due tradizioni scrittorie, lo sviluppo di un sistema grafico quadrilineare. In filoni informali e formali è divisa anche la trattazione delle scritture librarie.
Il terzo capitolo copre i secoli centrali del Medioevo bizantino (IX-XII secolo). Contemporaneamente alla rinascita culturale che si associa alla dinastia macedone si diffonde l’adozione della minuscola in ambito librario, con un lungo processo di traslitterazione e la rifunzionalizzazione delle maiuscole come scritture distintive. Gran parte del capitolo è dedicato all’analisi approfondita dei tratteggi dei filoni di scrittura minuscola, seguendone l’evoluzione nel periodo mediobizantino. Si nota l’attenzione a quelli delle aree periferiche dell’Impero e l’evoluzione della scrittura di cancelleria. Interessa sia le scritture librarie che documentarie il ‘cambio grafico’ dei secoli XI-XII sec, avvenuto «nell’ambito delle scritture informali e [...] da mettere in relazione, oltre che con il mutato equilibrio tra centro e periferia, anche con le trasformazioni intervenute nella struttura e nell’organizzazione della cancelleria imperiale [...]» (p. 123).
L’ultimo capitolo del volume affronta la fase conclusiva dell’Impero bizantino, dalla prima conquista di Costantinopoli alla riconquista greca di Bisanzio e la dinastia dei Paleologi fino alla definitiva conquista ottomana del 1453. Se nel periodo della frankokratia (1204-1261) non si assiste a particolari innovazioni paleografiche e si avverte un calo nella produzione libraria, la restaurazione paleologa conosce un recupero di tradizioni scrittorie dei secoli X-XI. Altra caratteristica del periodo è l’emergere di stili individuali (fondatori di distinte tradizioni saranno le scritture di Planude e di Triclinio). A chiusura del capitolo viene dato un breve quadro degli esiti scrittori greci nella prima età moderna, accennando sia la continuità dei filoni di scrittura greca sotto il dominio ottomano che le tradizioni scrittorie portate in Occidente dagli esuli, e il successivo passaggio della scrittura greca alla stampa.
Chiudono il volume le appendici su abbreviazioni e cronologia, nonché consistenti apparati bibliografici e iconografici. In particolare notevoli per il numero e la qualità delle immagini sono le tavole fuori testo, che offrono un’ampia casistica delle scritture greche. Mentre le illustrazioni interne al testo selezionano le caratteristiche principali delle varie tipologie, mostrando forme di lettere o legature, le tavole illustrano le scritture tramite esempi reali, seguendo fedelmente il percorso cronologico e tipologico delineato dal testo.
Il manuale nel suo complesso fornisce una trattazione completa, seppur sintetica, della materia e per gli studi universitari costituisce indubitabilmente un utile primo approccio alla paleografia greca. Nella sua concisione è poi particolarmente utile come riferimento per chi si avvicini allo studio delle scritture greche da ambiti affini, come quelli storici.
Anche se va sottolineata l’ovvia necessità di studi ulteriori per chi intende affrontare il libro greco manoscritto, dal punto di vista di un ‘non specialista’ il manuale offre quelle basi della paleografia greca che possono risultare utili in biblioteche anche al di fuori dello specifico studio dei codici greci. In tre parole: graecum est, legitur.
Marco Sferruzza
Roma
Il volume di Albertina Vittoria vuole tracciare una panoramica chiara e puntuale della nascita e dell’evoluzione delle riviste culturali nell’Italia del XX secolo. L’obiettivo è pienamente raggiunto dall’autrice che, con uno stile analitico, dovizia di particolari e grazie all’ausilio di un’accurata e rigorosa indagine storica, riesce a far cogliere la complessità di un fenomeno, quello dei pamphlet e delle riviste culturali e politiche, che si è sviluppato tramite un lungo percorso durato più di un secolo e, come evidenziato, non sempre lineare.
Tra i testi che hanno difeso e incoraggiato la diffusione delle idee e lo scambio di opinioni va senz’altro menzionato La coltura italiana (Lumachi, 1906), volume pubblicato dai giovani intellettuali Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini.br />Impossibile non ricordare il ruolo centrale dei partiti politici nella formazione di una nuova cultura: il nazionalismo è certamente uno dei principali movimenti che ha caratterizzato la politica dei primi anni del Novecento e tra le riviste che vi fanno riferimento deve essere ricordata il Regno, di cui uno dei più celebri collaboratori è stato Giuseppe Antonio Borghese. Sul fronte socialista, invece, le pubblicazioni di articoli e la diffusione di riviste furono articolate, anche in relazione all'attenzione dedicata ai bisogni della popolazione e al riconoscimento dei diritti.
Il secondo capitolo analizza gli anni del primo dopoguerra, tratteggiando il ruolo degli intellettuali durante il fascismo. La principale novità riguarda l’istituzionalizzazione della categoria degli intellettuali, con relativo riconoscimento giuridico, una strategia volta a far sì che rimanessero legati al regime. Nella seconda parte del capitolo emerge l’intensa attività di opposizione portata avanti da molti intellettuali, circoli e istituti culturali diffusi nel paese: tra questi l’Istituto per l’Europa orientale (IPEO), ufficialmente assoggettato al regime, che diede rifugio al partigiano Felice Platone.br />In seguito alla caduta del fascismo si assiste a una vera e propria rinascita socioculturale. Ad animare gli uomini di cultura è ora il bisogno di ‘recuperare il tempo perduto’ e in questa prospettiva si colloca la rivista Società, la quale sottolinea l’impegno concreto e non puramente astratto degli intellettuali, considerati il ‘sale della società’. In questo scenario un ruolo fondamentale è rivestito dal Partito comunista italiano, notoriamente al centro del panorama politico e che, attraverso importanti riviste, si è spesso reso protagonista di attività culturali focali per la crescita intellettuale del nostro paese, come la pubblicazione degli scritti di Antonio Gramsci. Ma non solo il PCI, anche il Partito socialista italiano assunse una funzione primaria nella riorganizzazione del sapere. Tra le iniziative politiche intraprese dal PSI figura l’organizzazione di incontri come quello di Bologna del 1954, incentrato proprio sul tema della libertà della cultura. In linea con questa tendenza politica, sociale e intellettuale anche la Democrazia cristiana, grande partito dell’Italia repubblicana e postbellica, si impegnò sul piano intellettuale rafforzando quella connessione con la politica che risulterà ancora più centrale negli anni successivi.br />Il capitolo quarto si focalizza sul periodo che ha inizio dagli anni Sessanta. Una delle principali conseguenze del boom economico di quegli anni in ambito culturale è, come sottolinea Vittoria, la ‘politicizzazione dei temi di studio’: in un contesto di crescita ed espansione culturale ed editoriale è inevitabile un tentativo di istituzionalizzazione della gestione di tutto ciò che concerne la cultura. La stessa fondazione del Ministero per i beni e le attività culturali si può considerare tappa conclusiva di un lungo percorso nel quale anche riviste, quotidiani, istituti culturali del Novecento hanno giocato un ruolo fondamentale. Il pregio di questo volume risiede nel saper raccontare con lucidità e completezza le sfide degli intellettuali in questo contesto culturale.
Ludovica Micalizzi
Università degli studi di Catania
Se molte ricerche nascono per caso – un incontro fortuito, una curiosità, una certa dose di serendipità – soltanto di rado chi ne legge gli esiti è messo a parte dei percorsi che hanno portato uno studioso ad avventurarsi su una certa strada. La generosità di Paolo Traniello consente una di queste eccezioni: in più occasioni pubbliche infatti (presentazioni in biblioteca; un’intervista: <https://www.letture.org/le-opere-e-i-libri-foscolo-leopardi-manzoni-alle-soglie-dell-editoria-moderna-paolo-traniello>) l’autore ha raccontato di come, ormai una quindicina di anni fa, si sia imbattuto in una lettera di Ugo Foscolo il quale, esule in Inghilterra, lamentava: «qui non hanno pubbliche biblioteche». Un’affermazione che oggi può suonare paradossale per la patria della public library (della cui genesi proprio a Traniello si deve la più brillante ricostruzione) ma non del tutto sorprendente, dato il contesto d’inizio Ottocento. Tuttavia a pronunciarla era un personaggio chiave per comprendere i delicati passaggi dalla cultura letteraria settecentesca a quella successiva, dall’artigianato librario all’industria editoriale. Da qui dunque Traniello intraprendeva un approfondimento delle pratiche di lettura e di circolazione del libro agli esordi del XIX secolo, in un percorso che lo ha spinto ad arricchire la sua già folta bibliografia con diversi contributi su questi temi, proposti in conferenze o in pagine di riviste.br />Che c’è di nuovo, dunque, in Le opere e i libri? Molto, e non solo per la forma organica del volume, che per sua natura organizza con più ampio respiro una materia complessa, e che meglio si presta a legare studi e documenti: questi risultano qui particolarmente intrecciati perché il ricco apparato di testimonianze d’epoca (prevalentemente epistolari) non sono relegate a un’appendice ma articolate in distinte sezioni, ciascuna conclusiva di uno dei tre capitoli centrali del volume. L’apporto specifico per la ‘storia delle idee e della cultura’ – per dirla col complemento del titolo della collana in cui il libro si inserisce – sta nel modo semplice ma non scontato di porre in relazione la storia dell’editoria con le riflessioni della biblioteconomia e segnatamente della teoria catalografica, cui si deve l’elaborazione e la diffusione internazionale dei modelli concettuali volti a individuare gli elementi costitutivi di una pubblicazione per poterla meglio descrivere.br />Il riferimento, chiarito sin dalla Premessa e più esplicitamente dettagliato nel capitolo conclusivo (Alle soglie dell’editoria moderna), è allo schema concettuale IFLA FRBR, il cui set di ‘requisiti funzionali’ elaborato nel corso degli anni Novanta, sia pure pensato con finalità di tipo teorico-pratico, «introduce delle distinzioni fondamentali utilizzabili per una più precisa considerazione dell’universo librario in generale, ma anche […] del suo formarsi e divenire storico» (p. IX). Per quanto intuitivi possano sembrare i concetti di ‘opera’, ‘espressione’, ‘manifestazione’ e ‘item’ (Traniello preferisce ‘esemplare’, rilevando lo slittamento di significato del termine nel passaggio dall’originale latino alla lingua inglese), la modellizzazione di FRBR ne ha imposto un ripensamento che rimane sostanzialmente valido anche alla luce delle elaborazioni successive (le stesse entità sono infatti riprese, sia pure riformulate e ricontestualizzate, anche in IFLA LRM). In particolare, nella progressiva materializzazione del ‘libro’ a partire dal suo stato ideale, Traniello si concentra sulla terza fase, quella dell’embodiment nella manifestazione, che se risulta meno significativa nella storia dei cataloghi di biblioteca, in cui l’organizzazione delle informazioni relative all’editore è apparsa sacrificata rispetto agli accessi per autore e titolo, trova invece nelle vicende editoriali la sua concretizzazione storica. Sarebbe impossibile, infatti, leggere le opere di un autore se non fossero veicolate dal loro ʽprendere corpo’ in parole scritte su un supporto in grado di farle circolare; eppure è al livello ʽopera’ che per lo più si è attestata la narrazione delle vicende letterarie.br />Si può parlare, dunque, di storia della letteratura sub specie di storia dell’editoria? Il pensiero, non enunciato in questi termini, ma logica conseguenza di tali premesse, non è del tutto nuovo in Traniello, che ne aveva sparso alcuni semi anche nelle precedenti riflessioni sulla proprietà intellettuale. Qui, però, ciò che segue al breve testo introduttivo è qualcosa di più di un’esemplificazione delle possibili declinazioni dei mestieri del libro nell’Ottocento letterario, ancorché condotta attraverso personaggi particolarmente illustri e rappresentativi; la trattazione successiva è essa stessa la manifestazione (si perdoni il bisticcio con la terminologia FRBR) di come si possa condurre una storia letteraria attraverso la lente del rapporto tra l’autore e i propri testi, non tanto da un punto di vista artistico-estetico quanto sotto il profilo della loro produzione e circolazione.
La scelta dei tre scrittori su cui si concentrano gli altrettanti capitoli centrali – Ugo Foscolo, Giacomo Leopardi, Alessandro Manzoni – diventa pertanto emblematica. Foscolo individua il momento di passaggio da un tempo in cui potevano essere considerati inscindibili i ruoli di autore ed editore (quest’ultimo inteso anche nel senso della curatela filologica) verso la scoperta della pratica impossibilità di vivere d’arte senza accettare qualche compromesso da tipografi sempre più inclini a dirigere la propria impresa in senso moderno. Leopardi spinge avanti la consapevolezza delle questioni che si ponevano al mondo editoriale dell’epoca, collaborando coi propri editori in modo strategico pur nel riconoscimento di una reciproca alterità. Manzoni si fa portatore di una battaglia (pro domo sua e non soltanto ideale) per tutelare l’autore dell’opera rispetto a terzi: battaglia riuscita quanto all’affermazione del diritto d’autore, ma nella quale Traniello, rilevando l’attenzione prevalentemente giuridica che la controversia ha riscosso finora, legge piuttosto un’occasione mancata sul fronte dell’acquisizione di coscienza di un ruolo autoriale distinto da quello editoriale.br />Per ognuno di loro il rapporto con l’editoria è fatto di occasioni e di incidenti, punteggiato di riflessioni e incomprensioni. La consapevolezza del proprio compito intellettuale agisce in ciascuno in modi diversi, improntando le relazioni – talvolta conflittuali – con tipografi-editori anch’essi impegnati nell’affermazione di un’attività insieme culturale e imprenditoriale: qui spiccano Nicolò Bettoni, Antonio Fortunato Stella, Saverio Starita, Felice Le Monnier. Questi ultimi a loro volta si trovano a fronteggiare un mondo che, sebbene in ritardo rispetto all’Europa, inizia a girare più velocemente: cambiano le tecnologie e i centri propulsivi dei processi di modernizzazione, si affermano nuovi diritti, si allenta la censura, aumenta l’alfabetizzazione e con essa, gradualmente, il pubblico di lettori, il mercato editoriale e la sua progettualità.br />È appunto sulla soglia della nascita dell’editoria moderna – anzi, un passo prima di valicarla – che si ferma il volume, conducendo le premesse a un doppio approdo. Da un lato una sintesi conclusiva esplicita: i tre maggiori letterati italiani del primo Ottocento hanno contribuito, più o meno consapevolmente, agli sviluppi successivi dell’industria editoriale. Dall’altro, non dichiarata, una verifica di fattibilità: l’insufficienza delle singole discipline a esaurire fenomeni di natura complessa – tanto più nel settore della produzione e circolazione del libro, che per sua natura prende in esame esperienze di tipo disomogeneo (tecnologiche, commerciali, industriali, ma anche letterarie e comunicative) – può auspicabilmente condurre all’integrazione di approcci diversi, che aprano – come in questo caso – nuove strade di analisi e spazi di riflessione.
Chiara De Vecchis
Biblioteca del Senato "Giovanni Spadolini"
L’idea dell’opera 8 secondi della giornalista Lisa Iotti ha origine da una puntata del programma Presadiretta, andata in onda nell’ottobre del 2018. Il titolo trae invece spunto dall'articolo di una ricerca della Tate Gallery di Londra sul tempo di permanenza media davanti alle opere d’arte nei musei: 8 secondi appunto, un tempo esiguo che non permette nessun coinvolgimento o riflessione estetici, solo uno ‘sguardo distratto’ di cui poco rimane. Questi istanti esemplificano in modo efficace la misura della nostra attenzione e ciò che ci sta accadendo nell’era dell’iperconnessione.br />Con uno stile da inchiesta, alternando interviste con scienziati e ricercatori ad aneddoti di vita personali, ironici ma anche tragici se si pensa alle loro reali conseguenze, il saggio conduce il lettore in questo ‘viaggio nell’era della distrazione’ in cui siamo tutti coinvolti.br />Il volume, come sottolineato nella parte introduttiva (Post-covid), è stato scritto prima della pandemia da Covid-19 e anzi proprio a causa di questa, la sua pubblicazione, come molte a livello globale, aveva subito una sospensione ‘forzata’; ciò aveva inizialmente rassicurato l’autrice, che si trovava ad analizzare e riflettere sugli effetti dell’utilizzo di supporti digitali proprio nel momento in cui stavano svolgendo un ruolo fondamentale. Nonostante il terribile disastro sanitario, infatti, «il coronavirus è stato un enorme esperimento sociale, che ha messo sotto gli occhi di tutti gli effetti sulle nostre vite delle nuove tecnologie» (p. 13). L’opera, data alle stampe subito dopo il periodo di lockdown, permette una maggiore consapevolezza dell’altra faccia della rivoluzione digitale, facendoci scoprire cosa accade nella nostra mente e nel nostro corpo quando, ad esempio, riceviamo un messaggio sullo smartphone o passiamo da un link a un altro, navigando nel web.br />A supporto della riflessione vengono riportati incontri, esiti di esperimenti e test condotti in diverse università, soprattutto negli Stati uniti d’America e in alcuni paesi del nord Europa, in particolare all’interno di dipartimenti di neuroscienze e di psichiatria, oltre che conversazioni con i cosiddetti ‘pentiti della tecnologia’, ovvero coloro che hanno lavorato per grandi aziende come Google e Facebook e ora mettono in guardia sulle conseguenze più nefaste della connessione continua, arrivando addirittura a vietare ai figli l’utilizzo di dispositivi tecnologici.br />Il ‘viaggio’ si compone di sette capitoli inerenti ai diversi aspetti dell’iperconnessione.br />Nel primo si affronta la tematica innanzitutto dal punto di vista sociale, ovvero l’incapacità di resistere al richiamo di una «notifica», anche in presenza di altre persone. Se fino a qualche tempo fa guardare il cellulare durante una conversazione sarebbe stato quasi disdicevole, ormai rappresenta la norma ed è socialmente accettato.
Nel secondo capitolo si prova a quantificare (letteralmente) la nostra attenzione: per quanto tempo si è in grado di concentrarsi senza distrazioni? Gli studi riportati sono interessanti e disarmanti allo stesso tempo. Nessuna illusione di essere multitasking: lavorando e ‘messaggiando’ con lo smartphone si perde solo la concentrazione e ritrovarla costa comunque tempo e comporta realisticamente un accumulo di stress.
Il capitolo seguente affronta gli effetti sul piano fisico. L’utilizzo costante dei dispositivi digitali, soprattutto il telefono, è responsabile di una vera e propria mutazione della postura e di altre conseguenze sui nostri arti.
Successivamente si evidenzia come il cervello con il supporto degli strumenti digitali stia perdendo alcune competenze (p. 121) e come ciò abbia un impatto sulle capacità di «registrare, conservare e assimilare informazioni» (p. 134) e sui processi della memoria. D’altronde è possibile obiettare che «se posso sapere tutto in tempo reale non devo più ricordare nulla» (p. 28).
Una parte della trattazione è dedicata anche alla dipendenza dai ‘mi piace’, ovvero al circolo della dopamina che i social hanno il potere di sprigionare nel momento in cui si seleziona la funzione del ‘like’ per esprimere il proprio gradimento.br />Il sesto capitolo si interroga sugli esiti dell’iperconnessione sulle pratiche di lettura e sulle capacità, soprattutto degli studenti, di analizzare e scrivere testi. Grazie all’aiuto delle neuroscienze, effettuando l’esperimento in prima persona, Iotti svela la nostra condizione intellettiva mentre leggiamo una pagina web o seguiamo un link: di fatto siamo alla stregua di una pallina da flipper in balia delle numerose distrazioni che attirano i nostri occhi. Tutt’altro invece accade durante la lettura di un libro, che è profonda, e permette di sviluppare le nostre reti neuronali.br />Questa è la parte più interessante dal punto di vista della professione bibliotecaria. Si evidenzia l’importanza della lettura per la mente, per il cervello. Infatti il libro ha una potenzialità di ‘contenimento’, si dirà in conclusione al capitolo: «lasciarlo sul comodino come una sorta di ‘antidoto’ è un modo per allenare il […] cervello alla complessità, all’ordine e alla profondità delle cose» (p. 230).br />>L’ultimo capitolo tratta infine dei tentativi più o meno riusciti di disconnessione, soprattutto da parte dei ‘pentiti delle tecnologie’ che propongono ai propri figli un’educazione lontana da smartphone e tablet, oppure degli esperimenti di eremitaggio quasi per ‘disintossicarsi’.br />Sono gli interrogativi l’aspetto più interessante del volume, le riflessioni generate dalla lettura dell’analisi dei nostri comportamenti, della dimensione sociale e della nuova vita insieme a quelle che sono diventate ormai le nostre ‘appendici digitali’. Le biblioteche e le sale di lettura potrebbero rappresentare laboratori di ricerca utili per analizzare il tasso di distrazione di utenti, studiosi, ricercatori (naturalmente previo consenso) ma anche degli stessi bibliotecari durante le diverse attività lavorative. I libri forse ci salveranno o comunque possono in parte aiutarci a non trasformarci totalmente in ‘palline da flipper’ e le biblioteche pertanto confermano ancora una volta la propria importanza, il ruolo di presidio sociale e culturale ancor più necessario e cruciale in questa era dell’iperconnessione.
Desirée de Stefano
Biblioteca nazionale centrale di Roma
L’uscita di questo libro sembra confermare la rinnovata attenzione verso l’indicizzazione per soggetto in Italia dove, negli ultimi anni, abbiamo assistito sia a nuove politiche dell’ICCU, che si sono concretizzate nell’implementazione dei soggetti nell’Indice SBN e nella progettazione delle linee guida che usciranno a breve, sia alla pubblicazione di diverse opere sul tema, fra cui la seconda edizione della fondamentale normativa in materia realizzata dalla Biblioteca nazionale centrale di Firenze: Nuovo soggettario: guida al sistema italiano di indicizzazione per soggetto (AIB; BNCF, 2021).
L’autore, noto per aver redatto come coordinatore del Gruppo di ricerca sull’indicizzazione per soggetto (GRIS) dell’Associazione italiana biblioteche la Guida all’indicizzazione per soggetto (AIB, 1996; 2001), da anni, in qualità di esperto, collabora con la Nazionale di Firenze al ‘lavoro comune’ per la cura e l’aggiornamento degli strumenti italiani di indicizzazione. Fra i suoi maestri vi fu Luigi Crocetti, di cui Cheti tratteggia qui un profilo intellettuale intriso di affetto ed emozione, privilegiando gli aspetti legati ai temi a lui più cari.
Il titolo ricalca quello del romanzo di José Saramago, Ano da morte de Ricardo Reis (Caminho, 1984): l’autore non ne fa un mistero, anzi evidenzia nel testo quali sono i passaggi ispirati all’opera portoghese. Il complemento del titolo invece è sorprendente per l’accostamento fra i termini ‘racconto’ e ‘biblioteconomia’, che incuriosisce in quanto inedito e fa intuire che si tratta di un libro particolare, in cui i generi sono mescolati. Lo stesso autore ci avverte che non è stato possibile ‘separare il grano dal loglio’, che quindi troveremo insieme riflessioni professionali e la soggettività dei sentimenti. Del resto l’opera è nata proprio per la necessità di sentire nuovamente vicino il maestro poco dopo la sua morte, nel 2007, l’anno in cui uscì anche il ‘libro rosso’, ossia il Nuovo soggettario (Editrice bibliografica, 2007). Il racconto risale a quella stagione ed è stato poi rivisto nel 2020, ci avverte Mauro Guerrini nella sua premessa lucida, scientifica, che inquadra il libro con precisione ed esattezza, ossia con le caratteristiche che devono regolare il lavoro di biblioteca, come si dice nel testo. Nella prefazione di Franco Neri il coinvolgimento emotivo è evidente e, nel ricordare il comune vissuto, si sottolinea l’importanza del dialogo fra allievo e maestro quale libero strumento di negoziazione per arrivare a significati condivisi e quindi alla costruzione di comunità come quella dei bibliotecari che, agli inizi degli anni Ottanta, gettò le basi della cooperazione, costruì reti e disseminò conoscenze con esperienze di formazione in varie località toscane, come riportato anche in appendice.
I protagonisti del racconto sono Giovanni C., alter ego dell’autore, e Luigi, che compare all’allievo in più occasioni mentre questi deve preparare un ricordo in memoria del maestro; i loro incontri avvengono nella natura della campagna toscana, descritta generosamente, come per predisporre il lettore a seguire meglio i colloqui fra i due. Alla sorpresa di Giovanni C. nel vedere il maestro, questi risponde di essere stato richiamato dall’intensità dei suoi pensieri e di voler conoscere i suoi progressi. I due dialogano, il maestro sollecita risposte all’allievo: un insegnamento che ricorda quello socratico, dove è importante l’ascolto, la cura dell’altro, l’invito a trovare una propria strada, anche attraverso provocazioni. Il racconto non può essere interrotto da precisazioni bio-bibliografiche così, alla fine di ogni ‘quinta teatrale’ – come potremmo definire ogni capitolo – alcune note in forma discorsiva forniscono le coordinate necessarie per comprenderne pienamente i contenuti.
Nel percorso che consente di disegnare la tradizione italiana della soggettazione, emerge il ruolo fondamentale di altri maestri, in primis quello di Emanuele Casamassima, fino ad arrivare all’eredità di quella che Francesco Barberi chiamava «la covata inglese del super-bibliotecario indiano Ranganathan» (p. 72).
L’opera si presta a essere letta a più livelli. In primo luogo se ne apprezzerà la narrazione immaginifica, capace al contempo di restituire aspetti fondanti della biblioteconomia intrecciati al tema della relazione allievo-maestro, oltre che a quello della condivisione del lavoro; chi si occupa di soggettazione e classificazione troverà disseminati concetti fondamentali e argomentazioni su cui riflettere. A un altro livello di lettura si potrà godere dei tanti echi letterari, filosofici, linguistici, artistici, persino maggiori di quelli segnalati nelle note dall’autore il quale, per dar voce al maestro, ha assorbito talmente tanto la sua lezione da lasciarci suggestioni che potevano essere quelle di Crocetti stesso, come i dialoghi che richiamano opere di Leopardi, o la comparsa ricorrente di un ragazzo dai riccioli biondi che induce a immaginare figure iconiche come quelle del Beato Angelico o il giovane di Morte a Venezia, come altre visioni.br />Si potrebbe dire ancora tanto ma questo spazio contenuto ha il vantaggio di lasciare al lettore il piacere di scoprire il resto.
Maria Chiara Iorio
Biblioteca nazionale centrale di Firenze
AIB studi, vol. 62 n. 2 (maggio/agosto 2022), p. xx-xx. DOI 10.2426/aibstudi-13758
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