Grande è la disinformazione sotto il cielo: la situazione non è eccellente, ma tutto sommato potrebbe andare peggio

Federico Meschini

Quale racconto per la disinformazione

In un tweet dell’agosto 2022 viene mostrato un breve video in cui Barack Obama, il 44. presidente degli Stati Uniti d’America, illustra come utilizzare la disinformazione per destabilizzare il governo di un paese1. Le frasi pronunciate lasciano poco spazio all’immaginazione; utilizzando efficaci metafore, Obama afferma come sia sufficiente inondare la piazza pubblica di una nazione con sufficiente acqua fognaria, diffondere sporcizia e impiantare teorie del complotto così da confondere i cittadini: una volta fatta scendere la loro fiducia nei confronti di leader, media e istituzioni politiche, il gioco è fatto. Com’è prevedibile questo tweet è caratterizzato da una certa viralità, con circa diecimila condivisioni e quattordicimila like, e ha generato a sua volta risposte, commenti e contenuti vari su Twitter e altri social network, la maggior parte dei quali critici nei confronti del già presidente, del suo partito e delle istituzioni degli Stati Uniti.
L’autore assicura come si tratti di un video reale e non manipolato: questa affermazione è sì vera ma incompleta. Viene accuratamente tralasciato il fatto che si tratti di una porzione di solo qualche decina di secondi di un discorso lungo circa un’ora, in cui vengono sottolineati proprio i rischi della disinformazione: le parole di Obama non fanno altro che descrivere il modus operandi dei fautori di questo approccio. È un chiaro esempio di ciò che Claire Wardle, nel parlare di information disorder, considererebbe come false context: «content that is genuine but has been reframed in dangerous ways»2.
La fonte primaria del video su Twitter, il discorso originale da cui è tratto, è dell’aprile dello stesso anno, in quanto Barack Obama aveva tenuto una relazione d’apertura a Stanford dal titolo estremamente significativo: Disinformation is a threat to our democracy3, il cui punto centrale riguarda il ruolo delle piattaforme digitali nella diffusione di disinformazione, insieme alle conseguenze negative che ne derivano. Questo allarme è stato lanciato più volte dal già presidente degli Stati Uniti d’America4, e il fatto che un avvertimento sia stato fatto passare per il pericolo stesso indica quanto quest’ultimo sia reale e possa avvenire con estrema facilità.
Quello di Obama non è certo un appello isolato: in maniera sempre più frequente e incisiva vengono pubblicate critiche che confermano questa visione sugli ambienti informativi digitali e in particolare i social media, sul fatto che incoraggino la disinformazione congiuntamente a pratiche e atteggiamenti deleteri che arrivano, tramite l’effetto rete, a mettere in discussione le stesse fondamenta della democrazia5. Inoltre, secondo un folto gruppo di ricercatori, per evitare conseguenze esiziali, i comportamenti collettivi sulle reti telematiche dovrebbero essere studiati, analizzati e, laddove possibile, indirizzati, utilizzando un approccio transdisciplinare, come già avviene per quei fenomeni gestiti dalle ‘discipline di crisi’, tra cui l’estinzione delle specie o i cambiamenti climatici6.
Tali critiche non sono né improvvise né improvvisate, e si sono di fatto articolate lungo tutti gli anni Dieci, in un arco narrativo che ha visto i social network passare da strumenti prima a favore e successivamente a detrimento della democrazia7. Inutile a dire come la pandemia di Covid-19 abbia amplificato queste criticità, dopo un periodo iniziale in cui sembravano essere passate in secondo piano, dato il ruolo fondamentale dei social nel limitare il distanziamento sociale alla sola dimensione fisica. Risulta evidente la non banalità e linearità di tale questione, e, al tempo stesso la sua fondamentale importanza, data la pervasività di questi ambienti, il cui ruolo difficilmente verrà ridimensionato nel tempo, a fronte di una sempre maggiore diversificazione di funzionalità e contenuti.
Le critiche rivolte ai social network sono innegabili anche da parte di un osservatore occasionale e molte sono più che condivisibili. Naturalmente, trattandosi di fenomeni sociali, non mancano analisi e interpretazioni che giungono a conclusioni diverse: la maggiore capacità dei medium tradizionali, in primis la televisione, d’influenzare l’opinione pubblica8 o declinazioni positive dell’utilizzo di questi strumenti, anche laddove sembrano meno probabili, come nel caso di TikTok9. Difatti, anche nella largamente diffusa, e in molti casi giustificata, visione degli apocalittici vanno sottolineati dei punti che necessitano di riflessioni ulteriori, come ad esempio le bolle informative. I meccanismi di filtraggio dei social, per quanto tecnologicamente sempre più raffinati, si basano su procedimenti probabilistici. Data la mole d’informazioni presente e, nonostante i numerosi fattori presi in considerazione, sui social network è inevitabile entrare in contatto con opinioni diverse dalle nostre, in maniera decisamente superiore a quanto può accadere nella dimensione analogica. La questione non è quindi la mancanza di idee divergenti, che è effettivamente un problema10, bensì la nostra reazione alla loro presenza.
Tutti questi aspetti vanno presi in considerazione, per evitare il più possibile ciò che il collettivo di scrittori Wu Ming – singolarmente anch’essi autori di una forte e ragionata critica ai social11 – ha definito come ‘narrazione tossica’, in cui qualcosa viene raccontato sempre dalla stessa angolazione e sottolineando i medesimi aspetti, tralasciandone altri12.

Su un punto anche i più apocalittici sembrano essere d’accordo. Le principali criticità riscontrate, tra cui la diffusione di disinformazione, la polarizzazione, o la tendenza all’autoriferimento e al narcisismo, non sono certo un tratto esclusivo di questi ambienti informativi. La loro origine, e diffusione su larga scala, si può far risalire a decenni prima, e legata ad altri strumenti tecnologici, in primis il già citato medium televisivo, e determinate strategie comunicative, soprattutto per quello che riguarda la classe politica13. I social avrebbero perciò un ruolo di amplificazione: se in questo frangente questo non è certo un fattore positivo – ma in altri contesti e con altre modalità potrebbe esserlo e di fatto come abbiamo visto lo è –, dà indubbiamente maggiore visibilità al fenomeno; inoltre, la tanto criticata dimensione algoritmico-computazionale da un lato seleziona i contenuti disponibili, dando così vita alle (discusse) bolle informative, ma dall’altro permette misurazioni e analisi altrimenti non possibili.
Più che cercare un rapporto lineare di causa-effetto, andrebbe utilizzata maggiormente una visione sistemica, con effetti di interdipendenza reciproca tra i vari elementi del sistema sociomediatico, andando così a identificare quei nodi nevralgici sia dentro sia fuori la rete in cui è possibile intervenire per mettere in moto dei meccanismi virtuosi, e limitare quelli viziosi. Parimenti, in questo approccio andrebbe data maggiore rilevanza a fenomeni come la crisi economica di fine anni Duemila, le crescenti diseguaglianze economiche e determinati atteggiamenti in politica. Prendiamo il caso delle elezioni presidenziali degli USA nel 2016, generalmente considerate, insieme alla Brexit, l’evento maggiormente rappresentativo dell’influenza negativa delle fake news e della disinformazione online: non a caso fu proprio nel 2016 che l’Oxford Dictionary dichiarò post-truth la parola dell’anno. In un’accurata e ben documentata analisi, Charlie Beckett, docente di giornalismo alla London School of Economics, sostiene che il ruolo di Facebook, Twitter e degli altri social sia stato secondario nella vittoria di Trump; in relazione sia alla maggiore influenza dei media tradizionali, sia, soprattutto, all’efficacia del suo messaggio politico rispetto a quello di Hillary Clinton14. A conferma delle argomentazioni di Beckett – e andando anche ad affrontare indirettamente l’affaire Cambridge Analytica –, Rayid Ghani, chief data scientist nella campagna per la rielezione di Obama, aveva già affermato a suo tempo il ruolo funzionale dell’analisi e dell’utilizzo dei dati, necessario ma sicuramente da solo non sufficiente per ottenere un vantaggio competitivo, in relazione al racconto proposto15.

Il medioevo non è più quello di una volta

Un punto fermo dei ragionamenti qui proposti è che lo scenario attuale non sia certo comparso all’improvviso, bensì il risultato di un percorso cui hanno contribuito diversi fattori, combinatisi tra loro in maniera né lineare né deterministica, come sovente avviene nei processi socioculturali. Diventa perciò necessario adottare una prospettiva diacronica e identificare questi elementi, insieme ai tratti di continuità e discontinuità, tipici di tutte le fasi evolutive. Altresì vanno individuati un punto di partenza e una metodologia che siano al tempo stesso non banali e funzionali al discorso che si vuole sviluppare. Per entrambi i casi è stata effettuata una scelta in continuità con le riflessioni già presentate in questa sede sulla disinformazione16, ossia il principio «only connect!», reso celebre da E. M. Forster, e il tema del racconto. Certo, può apparire alquanto scontato, vanno perciò aggiunte motivazioni ulteriori. Riguardo l’«only connect!», una figura autorevole come Michael Gorman lo ha messo al centro stesso delle attività delle biblioteche, sottolineandone l’importanza proprio in quei momenti di cambiamento, che sembrano stravolgere assetti ed equilibri raggiunti a fatica17. Relativamente al racconto, ne basterà ricordare l’importanza all’interno della filosofia postmoderna, in cui il passaggio all’informazione digitale è una tematica fondamentale18.
Data l’enfasi iniziale sugli aspetti negativi dell’attuale ecosistema informativo, si seguirà questa stessa declinazione per l’«only connect!»: oltre ai rischi dell’apofenia sottolineati da Umberto Eco e già citati in precedenza19, una sua esplicita controparte oscura è l’incipit del celebre racconto di H. P. Lovecraft The call of Cthulhu pubblicato per la prima volta nel 1928 (corsivo mio):

The most merciful thing in the world, I think, is the inability of the human mind to correlate all its contents. [...] but some day the piecing together of dissociated knowledge will open up such terrifying vistas of reality [...] that we shall either go mad from the revelation or flee from the light into the peace and safety of a new dark age»20.

Il cosmicismo dello scrittore di Providence sembra anticipare, in particolare con il riferimento a una nuova età oscura, gli strali di chi critica fortemente gli atteggiamenti detrimenti presenti sui social. Uno su tutti, il noto giornalista Enrico Mentana, che ormai già qualche anno fa sulla sua pagina Facebook ha utilizzato proprio l’espressione ‘Medioevo 2.0’ per criticare i fautori del pensiero antiscientifico e complottista21.
Naturalmente Mentana non è il solo ad avere impiegato questa definizione, che per un determinato periodo ricorreva con una certa frequenza22. Il coinvolgimento provocato dall’esternazione del noto giornalista – quasi cinquantacinquemila reazioni, novemila condivisioni e quattromila commenti, molti dei quali oppositivi nel puro stile agonistico della comunicazione sui social – mostrano come fosse stato toccato un nervo scoperto. L’intento metaforico risulta evidente, l’età di mezzo viene utilizzata con una funzione connotatrice di oscurantismo e irrazionalità. Salta però subito all’occhio il cortocircuito presente nell’aver utilizzato lo strumento che al tempo stesso viene criticato, seppure con quel frequente rapporto meronimico esistente tra Facebook e il world wide web23. Inoltre, da tempo il Medioevo viene considerato come portatore di quei germi da cui è poi scaturito il Rinascimento24, e va ricordato come la sua connotazione negativa sia stata diffusa dagli illuministi come critica strumentale ai romantici25.

Si può effettivamente parlare di Medioevo 2.0? Oppure l’utilizzo di questo termine è – come avviene per le critiche ai social network – sia una strategia retorica sia una semplificazione eccessiva, se non una distorsione che rischia di non cogliere il cuore della questione e soprattutto costituisce una sorta di autoassoluzione, storicizzando la situazione attuale e collegandola a un passato immutabile?26 Come ricorda Marco Polo al Gran Khan nell’explicit de Le città invisibili, ci sono due modi per non soffrire nell’inferno dei viventi, il primo è accettarlo, diventandone parte così da arrivare a non vederlo più, mentre il secondo «esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio»27. L’uso dell’etichetta ‘Medioevo 2.0’ sembra ricadere proprio nella prima delle due modalità. Per rientrare nella seconda, un possibile punto di partenza può essere provare a capire come mai le visioni di cui ammonisce Lovecraft siano talmente terrificanti da condurci in una nuova età oscura. L’eccessiva e troppo frequente semplificazione delle argomentazioni e polarizzazione dei toni sembrano essere una reazione a ciò che il web, e la sua evoluzione, fa di tutto per non nascondere: l’ormai imponderabile complessità della nostra società e, soprattutto, causa scatenante, la consapevolezza di questa complessità.

Topos sempre più frequente a mano a mano che ci si avvicina all’epoca contemporanea, la rappresentazione della complessità è il tema portante di diverse opere letterarie, tra cui quelle descritte da Franco Moretti come «opere mondo»28. L’ultima, tra quelle compiute, delle lezioni americane di Italo Calvino29 è incentrata sulla molteplicità, sul romanzo come grande rete, rappresentazione al tempo stesso enciclopedica e aperta del mondo, sulla polifonia e l’intreccio dei linguaggi, non solo a livello di registro stilistico, ma anche, e soprattutto, come superamento delle due culture. Usando le parole di André Weil, da questo costante movimento di avvicinamento tra arte e scienza scaturiscono sempre maggiori e frequenti vaghe analogie, oscuri riflessi e furtive carezze, ma sempre con la costante presenza di discrepanze inesplicabili30; e ancora, Calvino cita Robert Musil, secondo cui «La conoscenza […] è coscienza dell’inconciliabilità di due polarità contrapposte»31: le due culture si intrecciano continuamente senza unirsi, e da ciò scaturisce quella sempre maggiore dinamicità sottostante le attuali narrazioni.
La possibilità di una struttura cosmogonica e conoscitiva ordinata e lineare, così come descritta nella Commedia32, è scomparsa da tempo. Nel contesto della classicità è l’etimologia stessa della parola mondo a veicolare l’idea di ordine e bellezza, kòsmos. Progressivamente l’assetto epistemologico diviene sempre più complesso e stratificato, e di conseguenza quest’ordine si fa sempre più fragile. Non a caso è Amleto, simbolo delle problematiche e delle contraddizioni dell’uomo moderno e ormai in piena epoca gutenberghiana, a esclamare come «Time is out of joint»33, ed è indicativo come la sensazione di rottura della progressione lineare per eccellenza, quella temporale, si basi su di una metafora spaziale. Più dalla modernità ci si avvicina alla contemporaneità più aumenta questa sensazione di crescente complessità e molteplicità, descritta efficacemente – tramite una giustapposizione anaforica di valori contrari – nell’incipit di A tale of two cities di Charles Dickens, romanzo storico avente come sfondo la Rivoluzione francese ma basato altresì sui cambiamenti introdotti dalla rivoluzione industriale, resa possibile dalla maggiore produzione e circolazione di informazioni34. Infine, ai giorni nostri, secondo Eco, è possibile parlare con un tassista di Edmund Husserl ma al tempo stesso c’è una crescente diffusione delle manifestazioni di imbecillità e soprattutto, a causa del livello di complessità raggiunto e delle innumerevoli specializzazioni verticali del sapere, una linea di demarcazione né netta né statica tra intelligenza e stupidità35.

Siamo tutti postmoderni

In quest’ottica, la conoscenza come continuo crescendo di diversità molteplici, fino ad arrivare alla ‘vertigine dell’estremo’ è quello che caratterizza le opere del postmodernismo. Questo movimento culturale trasversale è stato già utilizzato come strumento per analizzare l’attuale condizione, adottando però un approccio filosofico36, mentre in questa sede il focus, come scritto in precedenza, è sull’aspetto letterario, che, va ricordato, si è diffuso ben prima. Infatti, già John Barth, in un saggio degli anni Sessanta, definisce l’intenzione fondamentale della letteratura postmodernista come ‘metanarrativa’: l’oggetto della narrazione diventa la narrazione stessa e i modi in cui essa si attua37. Questo implica una riflessione più profonda e strutturata, sui modi e sulle forme del romanzo, rispetto alle categorie e ai modelli precedenti. L’atto dello scrivere diviene maggiormente distaccato e, soprattutto, disincantato, conscio sia dei limiti della realtà narrativa sia delle potenzialità insite in questa nuova consapevolezza. Tecniche come il pastiche, l’uso delle citazioni e la manipolazione delle fonti ben si prestano a questo tipo di riflessione, raggiungendo nuovi livelli, quantitativamente e qualitativamente, di sperimentazione e utilizzo. Tra i princìpi sottostanti i cambiamenti alla base di questa corrente letteraria si trova, guarda caso, l’enorme quantità di informazione disponibile, sia prodotta ex-novo sia conservata, insieme alla (relativa) facilità d’accesso. Questa è la stessa condizione denunciata da Vannevar Bush nelle prime righe di As we may think più di vent’anni prima del saggio di Barth38, ed entrambe sono ormai di numerosi ordini di magnitudine inferiori rispetto alla situazione attuale.
Questo scenario di sovraccarico informativo provoca in particolare due effetti sulla letteratura, su livelli diversi. A un livello sincronico ed eterogeneo, la letteratura contemporanea perde i suoi confini ben definiti, attingendo e fondendosi con gli altri campi dello scibile, la scienza in primo luogo. Le scoperte e i modelli scientifici diventano fonte d’ispirazione per i postmodernisti, sia a livello tematico sia stilistico. Emblematico, ma non certo unico, è il rapporto tra le opere di Thomas Pynchon – uno dei principali scrittori nordamericani contemporanei –, la seconda legge della termodinamica e il principio dell’entropia, sia a livello fisico sia successivamente informativo, su cui torneremo in seguito. Per quanto riguarda il livello diacronico, omogeneo, gli scrittori postmodernisti sono eredi consapevoli di un canone letterario che ha raggiunto ormai dimensioni enciclopediche e ingombranti, e sono in possesso degli strumenti critici necessari per analizzarlo dettagliatamente e comprenderlo a fondo.
Mutatis mutandis, questi due aspetti possono essere applicati alla situazione attuale su una scala più ampia. Per ciò che riguarda il livello sincronico va effettuato uno spostamento dal piano del contenuto a quello dell’espressione, in quanto i modelli logico-matematici sono alla base delle piattaforme digitali di comunicazione e di scrittura. Il livello diacronico ci ricorda quanto più sia necessario possedere un’adeguata consapevolezza e i relativi strumenti critici tanto più il quantitativo d’informazione accessibile sia consistente.
Rispetto al modernismo, la generazione letteraria precedente, il postmodernismo è caratterizzato dalla mutazione della dominante: il passaggio da una condizione epistemologica a una condizione ontologica39. Per epistemologico s’intende l’interpretazione del mondo circostante e il riconoscimento del proprio ruolo in esso, una modalità conoscitiva della realtà. Al contrario, una condizione ontologica mette in discussione il concetto stesso di realtà e d’identità, interrogandosi sulla legittimità di questo mondo e della singola identità rispetto ad altri mondi e altre identità, sulle sovrapposizioni che ne derivano e, di conseguenza, sullo status ontologico del mondo narrativo. Naturalmente una categorizzazione di questo genere non va intesa in maniera statica e assoluta, bensì fluida e dinamica. Un’incertezza epistemologica può condurre a un’instabilità ontologica. Inoltre, partendo da un punto di vista epistemologico si può sconfinare facilmente nel dominio ontologico e viceversa. È una linea d’ombra quella che separa la ricerca della conoscenza da quella relativa ai modi dell’essere e il rapporto non è lineare e unidirezionale, ma reversibile e bi-direzionale40. Questo stesso rapporto può essere riportato all’informazione digitale, le cui potenzialità epistemologiche al tempo stesso influenzano e dipendono dalla condizione ontologica dello strumento utilizzato; questo legame, troppo spesso trascurato nel parlare di cultura digitale, andrà ripreso e approfondito, in quanto di fondamentale importanza.
La narrativa postmodernista è di fatto un’esperienza estetica aggrovigliata, stratificata e disorientante che si basa su di un particolare assetto informativo e, grazie alla mediazione di una voce autoriale, distintiva e caratteristica per quanto confusiva possa essere, ha come scopo il trasmettere una certa consapevolezza della complessità. Senza il fondamentale ruolo di mediazione dell’opera letteraria o più in generale artistica, il punto di vista per forza di cose deve cambiare e questa consapevolezza deve essere il punto di partenza e non di arrivo.
Esponenti rappresentativi della letteratura postmodernista sono autori come Don De Lillo, Kurt Vonnegut o il già citato Pynchon; quest’ultimo in particolare prosegue la tradizione di James Joyce nel narrare «the proliferation of things» del mondo moderno, in particolare a livello tecnologico41. Joyce si dilungava nel descrivere i procedimenti fisici, chimici e tecnici grazie ai quali, partendo dall’energia solare immagazzinata per millenni nei fossili e passando per il sistema idrico di Dublino, Leopold Bloom potesse farsi la barba con l’acqua calda, con lo scopo di mostrare come le forme letterarie del suo periodo fossero insufficienti nel descrivere il flusso della vita. Pynchon oltre a estendere questo concetto dalla letteratura agli altri sistemi, dalla scienza alla politica, dalla cultura pop alla storia, compie un passaggio ulteriore, da una dimensione fisica a una intangibile42. Se in una fase iniziale questo scrittore utilizza il tema dell’entropia in relazione al dominio della fisica e nello specifico della termodinamica, dove viene impiegata per descrivere il grado di disordine in un sistema, successivamente si passa all’entropia informativa. Definita così da Claude Shannon nel suo studio sulla teoria dell’informazione43, in questo ambito si riferisce alla potenzialità di trasmissione dei dati e al concetto di scelta, in quanto il potenziale informativo si attua solo quando viene effettuata una selezione tra un determinato insieme di simboli, eliminando tutte le altre combinazioni ottenibili. L’entropia informativa è perciò legata alle possibilità espressive, al concetto di incertezza e probabilità e alle alternative possibili all’informazione corretta, che vanno quindi a incrementare il rumore potenziale: quanto maggiore il numero di scelte la cui probabilità è indifferenziata, tanto maggiore l’entropia44.
Questo passaggio avviene in The crying of lot 4945, romanzo breve incentrato su quello stesso tema del complotto da cui eravamo partiti. Significativamente, questo complotto è strettamente legato all’esistenza di un sistema di comunicazione postale clandestino alternativo a quello ufficiale, che consiste nella spina dorsale di un’organizzazione segreta la cui esistenza, messa costantemente in dubbio, è l’ombra costante che si dispiega lungo tutto il racconto, e viene lasciata irrisolta nel finale. L’informazione decisiva non viene comunicata, la scelta possibile non viene attuata ed è il lettore a dover decidere se effettuarla o meno, basandosi su quello che ha letto.
Il sistema di comunicazione descritto da Pynchon rispecchia la situazione di subalternità e l’aura di segretezza delle reti telematiche fino alla diffusione su larga scala del web. Grazie agli strumenti all’epoca disponibili, come i newsgroup, in quella fase di internet i sostenitori delle teorie alternative hanno avuto uno spazio in cui incontrarsi e interagire, andando così a ridefinire, come nell’opera di Pynchon, la natura stessa della cultura del complotto46. Questo dimostra come le possibilità comunicative e i disordini informativi siano per forza di cose legati tra di loro: quanto maggiori le prime tanto presenti i secondi: quanto maggiori le prime tanto presenti i secondi.
Il ridurre tutto al bianco e al nero, a una scelta binaria di base, e il demandare il non ulteriormente riducibile – quello che non si comprende e su cui non si ha nessun controllo – a una salvifica e liberatoria dimensione oscura, governata da forze indifferenti al destino del singolo, declinazione plutocratica dei grandi antichi immaginati da Lovecraft, è una reazione umana, troppo umana, alla vertigine della complessità e a dinamiche più attinenti alla teoria del caos che a quella del complotto.

Conclusioni: tra combinazioni e iterazioni

Ricongiungendoci idealmente all’inizio di questo articolo, l’esortazione di Forster da un lato e l’avvertimento di Lovecraft dall’altro sono i due estremi di cui dobbiamo essere ben consapevoli e in cui ci troviamo continuamente a rimbalzare in questo complesso ecosistema informativo. A ben vedere sono gli stessi estremi di chi dice che internet ci rende di volta in volta più stupidi o più intelligenti47. Naturalmente, internet di per sé non ha da sola questo potere. Il voler addossare questa responsabilità esclusivamente a ciò che di fatto è un’infrastruttura tecnologica è come voler dire che carta, torchio e inchiostro ci rendano automaticamente più o meno sapienti: viene totalmente trascurato come tutto questo vada considerato in relazione ai modelli socioculturali che vengono costruiti e si evolvono a partire da una particolare tecnologia e le caratteristiche che quest’ultima porta con sé: nel caso del computer la possibilità di rappresentare, elaborare, trasmettere e conservare informazione in base a procedimenti logico-matematici.
Questa tendenza di additare esclusivamente lo strumento suona un po’ come un ulteriore appello all’autoassoluzione, similarmente alla definizione della situazione attuale di ‘Medioevo 2.0’. Certo, si potrebbe tranquillamente dire che continuare a incolpare le reti telematiche vuol dire ignorare come la carta stampata, considerata ora come un locus amoenus, abbia subito in passato critiche altrettanto feroci: addirittura, nei suoi primi anni di vita è stata definita ‘meretrice’, un appellativo che fa passare come semplici consigli gli ammonimenti con cui Thamos apostrofò Theuth trovandosi di fronte alle lettere dell’alfabeto48. È però necessario compiere un passaggio ulteriore, e considerare il combinato disposto dato dalla base tecnologica e dalle pratiche culturali.
Lo spunto ideale viene da Il pendolo di Foucault, non a caso lo stesso romanzo utilizzato in precedenza per riflettere sui disordini informativi49. Oltre ad aver largamente anticipato queste criticità50, una presenza fondamentale nel romanzo è proprio quella del personal computer, considerato non un mero strumento bensì una componente essenziale per lo svolgimento della trama, tanto da avere un nome, Abulafia, ed essere perciò equiparato a un personaggio. Sono le possibilità offerte da questa macchina a permettere ai tre protagonisti di creare il Piano, una sorta di über teoria del complotto che racchiude tutte le altre e scritta «secondo i principi di una specie di enciclopedia impazzita» in base a regole con cui «si può connettere tutto con tutto, e sconvolgere il rapporto logico tra causa e effetto o tra passato e presente»51. L’immagine che viene data del computer come «medium che permette quindi di creare un’enciclopedia nella quale ogni elemento può associarsi a ogni altro elemento»52 non può non ricordare Wikipedia ad esempio, o prima ancora, le promesse dei sistemi ipertestuali «di creare nuovi nessi fra i significati, nessi interminabili»53. Questa declinazione negativa di quelle che sono le capacità del calcolatore elettronico – in cui ritroviamo di nuovo la controparte oscura dell’«only connect!» – sembra ricordare la stessa dualità esistente tra euristiche e bias cognitivi o, per rimanere in tema combinatorio, tra le possibilità di rappresentazione dell’informazione digitale e la complessità computazionale. L’abbandono della logica, del senso comune, delle «regole della combinatoria del sapere inerenti alle Enciclopedie»54, dello spirito critico che, tramite gli intellettuali è l’autocoscienza di una cultura, è quello che conduce a questo stato. Nell’informazione digitale, aumentando le possibilità comunicative, aumenta inequivocabilmente l’entropia informativa. Di conseguenza, una tendenza fisiologica è di scambiare il rumore con il messaggio, volerlo interpretare e dargli un significato a tutti i costi, finendo con l’utilizzare procedimenti idiosincratici e irrazionali.
Ciò si può e si deve contrastare con approcci adeguati. Ricollegandosi alla parte iniziale di questo articolo, nella pars construens del suo discorso Obama dà un’indicazione specifica. Cercando di unire il mondo delle istituzioni che rappresenta e quello dell’innovazione tecnologica che ha di fronte, parla della Costituzione degli Stati Uniti come di un software: se i princìpi cui si ispira sono immutabili, nel corso degli anni sono stati applicati diversi emendamenti – paragonati agli aggiornamenti di un programma – con il fine di migliorarla e renderla congruente con le necessità di una società in evoluzione. E chiunque si occupi di sviluppo software sa che le metodologie più recenti prevedono un continuo processo di revisione e iterazione dei programmi. Risalendo a una delle prime riflessioni sull’utilizzo del computer come strumento di comunicazione, possiamo trovare degli elementi da riprendere o modificare per cercare di tendere maggiormente verso una declinazione positiva degli ambienti digitali. Nel 1968 Joseph Licklider e Robert Taylor – due tra le figure fondamentali per lo sviluppo di internet – pubblicarono un saggio incentrato sulla rivoluzione che avrebbero portato il calcolatore e le reti telematiche nell’interazione tra le persone55. Lo scenario proposto è naturalmente ottimistico e incentrato sugli enormi vantaggi che ne sarebbero derivati, mentre le principali criticità sottolineate sono di tipo tecnologico riguardanti la democratizzazione dell’accesso56, al giorno d’oggi ormai largamente superate e che ne hanno svelate altre, non legate alla dimensione tecnica. C’è però un motivo più che valido per l’ottimismo dei due autori, ed è proprio uno di quei princìpi che andrebbero costantemente ricordati. Secondo Licklider e Taylor, lo scarto qualitativo della comunicazione basata sul computer è la possibilità di creare dei modelli condivisi a partire dai modelli mentali delle singole persone, andando oltre la funzionalità di calcolo e arrivando al livello di macchina simbolica57. Va da sé come ciò si adatti particolarmente bene a quegli scenari in cui è la componente informativa a essere predominante, si parte da una base comune o perlomeno c'è la volontà di trovarne una e in cui vanno prese delle decisioni. Ciò è affatto distante dalle pratiche sui social, di àmbito generalista e legate principalmente a fattori emotivi58. Certo, in entrambi i casi si ha a che fare con contenuti e dati disordinati, i quali (corsivo mio) «are strongly influenced by insight, subjective feelings, and educated guesses. Thus, each individual’s data are reflected in his mental model»59. Inoltre viene sottolineato che «The meeting of many interacting minds is a more complicated process [...] The interplay may produce, not just a solution to a problem, but a new set of rules for solving problems»60. Se non è possibile risolvere direttamente un problema tramite un modello formale condiviso, allora è necessario cambiare atteggiamento, passare dal prodotto al processo; nel caso della comunicazione sui social network questo si può tradurre in una maggiore consapevolezza dei modelli mentali – o, se si preferisce, dei racconti – di volta in volta utilizzati.
In conclusione, il discorso sulla condivisione e sulla consapevolezza dei modelli può essere messo in relazione – «only connect!» – con un passaggio di questo stesso articolo che, apparentemente secondario, risulta essere ora centrale. Nel descrivere le potenzialità del nuovo ambiente informativo vengono utilizzati dei termini di paragone ben precisi (corsivo mio):

we will be able to interact with the richness of living information — not merely in the passive way that we have become accustomed to using books and libraries, but as active participants in an ongoing process61.

Viene volutamene sottolineata la dimensione statica e passiva di libri e biblioteche, facendo così maggiormente risaltare la dinamicità della comunicazione digitale. In effetti, le riflessioni sulla testualità elettronica hanno spesso sottolineato la presenza rilevante in quest’ultima della componente performativa; i vantaggi sono innegabili, ma è al tempo stesso necessario controbilanciare con una maggiore consapevolezza della parte strutturale, per evitare che, focalizzandosi esclusivamente sulla performatività, la predominanza del pensiero veloce diventi un qualcosa di dannoso, andando per esempio ad alimentare la disinformazione.
Da un punto di vista retorico è del tutto comprensibile l’utilizzo fatto dagli autori di libri e biblioteche. La loro presunta passività però scompare se si realizza che ogni atto informativo non possa mai essere del tutto passivo, anche nel caso della fruizione, in quanto va a modificare gli assetti conoscitivi di un individuo. E ancora, libri e biblioteche sono tradizionalmente legati al pensiero lento, alla componente razionale, a ciò che ci permette di valutare quali sono i collegamenti plausibili e quali quelli spuri e, in questo modo avere contezza proprio dei modelli utilizzati. Se in precedenza le enciclopedie erano state citate come esempio virtuoso, le biblioteche condividono con queste ultime gli stessi princìpi di universalità, accesso e organizzazione della conoscenza. Anzi si può supporre che le une siano il corrispettivo delle altre passando dall’oggetto all’ambiente e viceversa. Di conseguenza, dimostrato come all’aumento delle possibilità informative la disinformazione sia inevitabile, uno dei principali antidoti è ricordare continuamente, in maniera iterativa, quello che i padri fondatori di internet hanno scritto e al tempo stesso emendarlo, in particolare recuperando e adattando la lezione, l’esperienza e le caratteristiche di libri e biblioteche e dei modelli che portano con sé.

Articolo proposto il 10 ottobre 2022 e accettato il 6 novembre 2022.


Note

Ultima consultazione siti web: 30 settembre 2022.

1 AG (@Yolo304741), «Twitter», 14 agosto 2022, <https://twitter.com/Yolo304741/status/1558888961925324802>.
2 Claire Wardle, Understanding information disorder, «First draft», 22 settembre 2020, <https://firstdraftnews.org/long-form-article/understanding-information-disorder/>.
3 Barack Obama, Disinformation is a threat to our democracy: tech platforms need to recognize that their decisions have an impact on every aspect of society, «Medium», 22 aprile 2022, <https://barackobama.medium.com/my-remarks-on-disinformation-at-stanford-7d7af7ba28af>.
4 Vedi: Jeffrey Goldberg, Why Obama fears for our democracy, «The Atlantic», 16 novembre 2020, <https://www.theatlantic.com/ideas/archive/2020/11/why-obama-fears-for-our-democracy/617087/>; Jacob Stern, Obama: I underestimated the threat of disinformation, «The Atlantic», 7 aprile 2022, <https://www.theatlantic.com/ideas/archive/2022/04/barack-obama-interview-disinformation-ukraine/629496/>.
5 In particolare, la nota rivista The Atlantic è molto sensibile a questo tema, vedi: Jonathan Haidt, Why the past 10 years of American life have been uniquely stupid: it’s not just a phase, illustrations by Nicolás Ortega, «The Atlantic», 11 aprile 2022, <https://www.theatlantic.com/magazine/archive/2022/05/social-media-democracy-trust-babel/629369/>; Jonathan Haidt; Tobias Rose-Stockwell, The dark psychology of social networks: why it feels like everything is going haywire, «The Atlantic», dicembre 2019, <https://www.theatlantic.com/magazine/archive/2019/12/social-media-democracy/600763/>; Anne Applebaum; Peter Pomerantsev, How to put out democracy’s dumpster fire: our democratic habits have been killed off by an internet kleptocracy that profits from disinformation, polarization, and rage: here’s how to fix that, «The Atlantic», aprile 2021, <https://www.theatlantic.com/magazine/archive/2021/04/the-internet-doesnt-have-to-be-awful/618079/>. Ciò diventa ancora più rilevante considerando che questa rivista è stata la sede originaria di pubblicazione dell’articolo As we may think di Vannevar Bush, sui vantaggi dell’organizzazione ipertestuale delle informazioni (luglio 1945, <https://www.theatlantic.com/magazine/archive/1945/07/as-we-may-think/303881/>).
6 Joseph B. Bak-Coleman [et al.], Stewardship of global collective behavior, «Proceedings of the National Academy of Sciences», 118 (2021), n. 27, DOI: 10.1073/pnas.2025764118.
7 Dylan Matthews, The internet was supposed to save democracy. I asked 4 tech optimists what went wrong: after Cambridge Analytica, social networks look less like a savior than a menace, «Vox», 8 giugno 2018, <https://www.vox.com/policy-and-politics/2018/6/8/17202918/internet-democracy-facebook-cambridge-analytica-alec-ross-clay-shirky-jeff-jarvis>.
8 Daniel Muise [et al.], Quantifying partisan news diets in web and TV audiences, «Science advances», 8 (2022), n. 28, DOI: 10.1126/sciadv.abn0083.
9 Daniel Le Compte; Daniel Klug, “It’s viral!”: a study of the behaviors, practices, and motivations of TikTok users and social activism. In: CSCW ‘21: Companion publication of the 2021 Conference on Computer Supported Cooperative Work and Social Computing (evento virtuale, 23-27 ottobre 2021). New York: ACM, 2021, p. 108-111, DOI: 10.1145/3462204.3481741.
10 Dovremmo essere meno d’accordo con noi stessi: diversi studi sull’intelligenza collettiva dicono che le decisioni migliori derivano dalla considerazione di opinioni eterogenee, «il Post», 1 maggio 2021, <https://www.ilpost.it/2021/05/01/intelligenza-collettiva-saggezza-folle/>.
11 Wu Ming, L’amore è fortissimo, il corpo no: 2009-2019, dieci anni di esplorazioni tra Giap e Twitter /1a puntata (di 2), «Giap», 9 dicembre 2019, <https://www.wumingfoundation.com/giap/2019/12/lamore-e-fortissimo-il-corpo-no-1-twitter-addio/>; Wu Ming, L’amore è fortissimo, il corpo no: 2009-2019, dieci anni di esplorazioni tra Giap e Twitter /2a puntata (di 2), «Giap», 19 dicembre 2019, < https://www.wumingfoundation.com/giap/2019/12/lamore-e-fortissimo-il-corpo-no-2-dieci-anni-di-twitter/>.
12 Cfr. Wu Ming 1, La Q di Qomplotto: QAnon e dintorni: come le fantasie di complotto difendono il sistema. Roma: Alegre, 2021, p. 253-254.
13 Vedi in particolare: Christopher Lash, The culture of narcissism: American life in an age of diminishing expectations. New York: Norton, 1978; Neil Postman, Amusing ourselves to death: public discourse in the age of show business. London: Methuen, 1985.
14 Charlie Beckett, What does the Trump triumph mean for journalism, politics and social media?, «Polis», 13 novembre 2016, <https://blogs.lse.ac.uk/polis/2016/11/13/what-does-the-trump-triumph-mean-for-journalism-politics-and-social-media/>. Un parallelismo interessante che risalta dall’analisi di Beckett è tra la diffusione delle reti telematiche e la globalizzazione, da cui hanno tratto beneficio determinate fasce sociali mentre altre ne sono state penalizzate.
15 Gregory Piatetsky, Interview with Rayid Ghani, chief scientist Obama 2012 campaign, «KDnuggets», 19 novembre 2013, <https://www.kdnuggets.com/2013/01/kdnuggets-exclusive-interview-rayid-ghani-chief-scientist-obama-2012-campaign.html>.
16 Federico Meschini, Fake news e post-verità: disordini informativi e narrativi tra Gutenberg e Google, «AIB studi», 59 (2019), n. 3, p. 393-411, DOI: 10.2426/aibstudi-12018.
17 «That is really what librarianship is about, effecting a connection», vedi Michael Gorman, The impact of technology on the organization of libraries, with an introduction by Ron Surridge. London: CLSI, 1985, p. 2.
18 Cfr. Jean-François Lyotard, La condition postmoderne: rapport sur le savoir. Paris: Les Éditions de Minuit, 1979, p. 11-12. Oltre alla centralità delle metanarrazioni nel pensiero di Lyotard – e ricordando altresì che anche la loro critica è a sua volta una metanarrazione –, per una maggiore focalizzazione sul racconto vedi Paul Ricœur, Temps et récit. Paris: Éditions du Seuil, 1983-1985.
19 Cfr. F. Meschini, Fake news e post-verità cit., p. 394.
20 Howard Phillips Lovecraft, The call of Cthulhu, «Weird tales», 11 (1928), n. 2, p. 159-178, <http://archive.org/details/CallOfCthulhu_201804/>.
21 «Quello che vedo qui sul web, giorno dopo giorno, tra negazionisti della shoah, razzisti, antivaccinisti, negatori dello sbarco sulla Luna, e via cospirando, è il formarsi sempre meno indistinto di una corrente che posso nominare in un solo modo: Medio Evo 2.0», Enrico Mentana, «Facebook», 21 luglio 2017, <http://www.facebook.com/enricomentanaLa7/posts/10154935039457545>.
22 In inglese l’espressione Dark Ages 2.0 viene utilizzata per descrivere l’eccessiva influenza della componente emotiva e irrazionale nell’opinione pubblica, mentre Digital Dark Age corrisponde a un rischio maggiormente legato al piano dell’espressione che del contenuto, ossia l’obsolescenza dei dati e dei supporti informatici cui si contrappone la conservazione digitale.
23 Lo stesso rapporto esistente a sua volta tra il web e l’ipertesto, vedi in particolare Paola Castellucci, Dall’ipertesto al web: storia culturale dell’informatica. Bari, Roma: Laterza, 2009.
24 Jacques Le Goff, Il tempo continuo della storia, traduzione di David Scaffei. Bari, Roma: Laterza, 2014.
25 Franco Cardini, Mi scusi, dov’è il Medioevo?, «Avvenire», 24 gennaio 2012, <http://www.avvenire.it/agora/pagine/medioevo>.
26 «Definire ‘medievali’ fatti e atteggiamenti che in realtà sono drammaticamente attuali significa negare che certi problemi siano intrinseci alla contemporaneità ed esorcizzarli come semplici residui ereditati da un passato oscuro», vedi Paolo Grillo, Il Medioevo e l’autoassoluzione della contemporaneità, «La nostra città futura», 12 aprile 2019, <http://fondazionefeltrinelli.it/il-medioevo-e-lautoassoluzione-della-contemporaneita/>.
27 Italo Calvino, Le città invisibili, presentazione dell’autore. Milano: Mondadori, 1993, p. 164.
28 Franco Moretti, Opere mondo: saggio sulla forma epica dal Faust a Cent’anni di solitudine. Bari, Roma: Laterza, 2014.
29 Italo Calvino, Lezioni americane: sei proposte per il prossimo millennio. Milano: Mondadori, 1993.
30 Cfr. André Weil, De la métaphysique aux mathématiques. In: Id., Œuvres scientifiques = Collected papers. New York: Springer, 1980, vol. 2, p. 408-412: p. 408.
31 I. Calvino, Lezioni americane cit., p. 120.
32 Ivi, p. 20.
33 «The time is out of joint. O cursèd spite / That ever I was born to set it right!», vedi William Shakespeare, The tragedy of Hamlet, prince of Denmark, atto 1 scena 5, <http://www.folgerdigitaltexts.org/?chapter=5&play=Ham&loc=line-1.5.204>. L’impossibilità di ristabilire un ordine è resa emblematica dal finale, in cui avviene una sostituzione totale dello status quo ante, la cui unica funzione è di sopravvivere come racconto.
34 «It was the best of times, it was the worst of times, it was the age of wisdom, it was the age of foolishness, it was the epoch of belief, it was the epoch of incredulity, it was the season of Light, it was the season of Darkness, it was the spring of hope, it was the winter of despair», vedi Charles Dickens, A tale of two cities ; Great Expectations. Boston: Lee and Shepard; New York: Charles T. Dillingham, 1877, p. 1, <https://books.google.it/books?id=iEdCAQAAMAAJ>.
35 Cfr. Jean-Claude Carrière; Umberto Eco, Non sperate di liberarvi dei libri, a cura di Jean-Philippe de Tonnac, traduzione di Anna Maria Lorusso. Milano: Bompiani, 2009, p. 175-176.
36 Vedi: David Weinberger, La stanza intelligente: la conoscenza come proprietà della rete. Torino: Codice, 2012, p. 120-124; Maurizio Ferraris, Postverità e altri enigmi. Bologna: Il mulino, 2017.
37 John Barth, The literature of exhaustion, «The Atlantic», agosto 1967, <https://www.theatlantic.com/magazine/archive/1967/08/the-literature-of-exhaustion/659344/>.
38 V. Bush, As we may think cit.
39 «Postmodernist fiction differs from modernist fiction just as a poetics dominated by ontological issues differs from one dominated by epistemological issues», vedi Brian McHale, Postmodernist fiction. London, New York: Methuen, 1987, p. xii.
40 Ivi, p. 11.
41 Vedi David Cowart, Thomas Pynchon: the art of allusion. Carbondale (IL): Southern Illinois University Press, 1980, p. 1. Questa proliferazione sembra al tempo stesso anticipare ed essere ridefinita dall’internet delle cose, in cui le connessioni da concettuali e diacroniche diventano reali e sincroniche, attuando così uno scenario informativo – sia personale sia collettivo – subliminale ai livelli di attenzione e interazione umana, ma dagli effetti tangibili.
42 La scena descritta da Joyce si dispiega lungo l’asse diacronico ed è basata su dei processi fisici. Uno scenario equivalente, ma sincronico e fortemente intangibile, legato alla dimensione digitale, potrebbe essere l’utilizzo di uno dei tanti servizi di messaggistica istantanea. Un qualsiasi messaggio viene inviato tramite un programma basato su di un particolare modello computazionale – Whatsapp ad esempio è scritto in Erlang, un linguaggio di programmazione funzionale e perciò derivante dal lambda calcolo – e grazie alle grammatiche formali viene progressivamente tradotto per avvicinarsi il più possibile al linguaggio macchina, una lunga catena di 0 e 1 rappresentata nei circuiti elettronici da degli impulsi elettrici. Successivamente questa stessa catena di 0 e 1 verrà trasmessa in base a dei protocolli condivisi per mezzo di un’infrastruttura tecnologica, grazie anche all’utilizzo di specifici algoritmi in grado di ottimizzare il percorso da compiere, come quello di Dijkstra per il calcolo della distanza minima tra due punti in un grafo. Una volta che il messaggio sarà arrivato al destinatario avverrà il processo inverso e la catena di 0 e 1 verrà di nuovo trasformata nella sequenza originaria di caratteri alfanumerici. Inutile dire come la complessità sottostante questo processo sia resa invisibile grazie ai meccanismi di astrazione e quindi del tutto ignorata dalla quasi totalità degli utenti.
43 Claude Elwood Shannon, A mathematical theory of communication, «Bell System technical journal», 27 (1948), n. 3, p. 379-423, DOI: 10.1002/j.1538-7305.1948.tb00917.x.
44 Nella teoria dell’informazione l’entropia è rappresentata dal valore negativo della sommatoria delle probabilità di ogni singolo evento possibile in una determinata circostanza – ossia uno specifico messaggio in relazione a tutti i potenziali messaggi che possono essere veicolati – per il logaritmo in base b sempre della probabilità dell’evento, dove b è il numero di simboli utilizzati per la codifica del messaggio, ad esempio 2 per il codice binario. La formula utilizzata è la seguente: ni=1P(xi)logbP(xi). È facile verificare come questo valore sarà quanto maggiore tanto più le probabilità dei singoli eventi saranno vicine tra di loro.
45 Thomas Pynchon, The crying of lot 49. Philadelphia: J. B. Lippincott, 1965.
46 Per avere un’idea delle dimensioni di questo fenomeno basta utilizzare la stringa ‘conspiracy’ sul servizio di ricerca reso disponibile da Giganews, <https://www.giganews.com/newsgroup_search.html>, e vedere il numero di risultati disponibili. Inoltre, come riporta l’enciclopedia Conspiracy theories in American history, «The Internet and the conspiracy theories are a match made in heaven. [...] Conspiracy theorists now discovered that the Net was a perfect vehicle to transport and spread their thoughts. [...] Conspiracy newsgroups are some of the most highly visited forums on the Net», vedi David P. Weimann, Internet. In: Conspiracy theories in American history: an encyclopedia, edited by Peter Knight. Santa Barbara (CA): ABC-CLIO, 2003, p. 347-349.
47 Riccardo Ridi, Apocalittici e integrati del web: internet ci rende stupidi o intelligenti?, «AIB studi», 53 (2013), n. 1, p. 135-142, DOI: 10.2426/aibstudi-8783. Similmente Luciano Floridi si chiede se «Queste tecnologie ci renderanno più potenti e abili o, al contrario, ci costringeranno entro spazi fisici e concettuali più limitati», vedi Luciano Floridi, La quarta rivoluzione: come l’infosfera sta trasformando il mondo. Milano: Raffaello Cortina, 2017, p. X.
48 Stampa meretrix: scritti quattrocenteschi contro la stampa, a cura di Franco Piperno, con la collaborazione di Gianluca Vandone. Venezia: Marsilio, 2011.
49 F. Meschini, Fake news e post-verità cit.
50 Leonardo Tondelli, Il fascismo troverà rifugio nella classe media, ci disse Eco trent’anni fa, «The vision», 4 settembre 2018, <http://thevision.com/attualita/fascismo-pendolo-foucault/>.
51 Vedi Susanne Kleinert, L’intellettuale e il computer: il gioco combinatorio e la riflessione sulla figura dell’intellettuale nel Pendolo di Foucault di Umberto Eco, «Cahiers d’études italiennes», 11 (2010), p. 91-101, DOI: 10.4000/cei.109, p. 95.
52 Ibidem.
53 Ibidem.
54 Ivi, p. 97.
55 Joseph Carl Robnett Licklider; Robert William Taylor, The computer as a communication device, «Science and technology», 76 (1968), p. 21-41.
56 «For the society, the impact will be good or bad, depending mainly on the question: Will “to be on line” be a privilege or a right?», Ivi, p. 40.
57 «How can we be sure that we are modeling cooperatively, that we are communicating, unless we can compare models?», Ivi, p. 22.
58 Sebbene gli autori nello scrivere «the people with whom one interacts most strongly will be selected more by commonality of interests and goals than by accidents of proximity» – Ivi, p. 40 – anticipino, senza saperlo, la formazione di gruppi e sottogruppi polarizzati e polarizzanti negli ambienti digitali.
59 Ivi, p. 23.
60 Ivi, p. 24.
61 Ivi, p. 21.