Roberta Cesana
Every character in every tale is displaced, a mis-shelved book, a mistranslated text.
We are, like the characters we read, restless bodies obsessed with
our misapprehensions and mistaken identities, elliptical and misaligned,
spinning on axes of our own grinding. We lurk in our murk, we are miasma.
Shubigi Rao
La 59. edizione dell’Esposizione internazionale d’arte La Biennale di Venezia è già di per sé eccezionale perché riprende dopo una pausa di due anni e giunge in un momento senza precedenti, dopo che il Covid-19 ha ridisegnato il modo in cui comunichiamo gli uni con gli altri, sfidandoci a ripensare il contesto in cui viviamo e sfidando l’arte a svolgere un ruolo sempre più importante nell’interpretare i cambiamenti e favorire le connessioni tra linguaggi diversi.
Si tratta di un’edizione eccezionale anche perché per la prima volta la curatrice è un’italiana, Cecilia Alemanni, e per la prima volta la mostra espone una schiacciante predominanza di opere di autrici, quasi duecento, contro poco più di venti opere di autori. Anche il titolo di questa 59. edizione, The milk of dreams, è un omaggio al femminile, al racconto eponimo di Leonora Carrington.
Così come tutto al femminile è anche il padiglione di Singapore1, affidato alle cure di Ute Meta Bauer2 e rappresentato dall’epica esposizione dell’artista Shubigi Rao, Pulp III: an intimate inventory of the banished book, una triplice installazione multidisciplinare che comprende un libro, un film e un labirinto di carta e che traccia i fili interconnessi della nostra umanità condivisa attraverso l’esplorazione della storia della distruzione dei libri e del suo impatto sul futuro della conoscenza, presentando il libro come un simbolo duraturo e come un veicolo di idee, capace di mettere in contatto persone di paesi e culture diverse, e capace soprattutto, come vedremo in questo contesto, di ricordarci la nostra comune umanità e di unirci di fronte alle avversità. La visione di lungo periodo sottesa al progetto deriva dal fatto che Pulp III è, in realtà, solo il prodotto più recente di un’impresa decennale di Shubigi Rao, la quale, dal 2014 a oggi, ha visitato collezioni pubbliche e private, biblioteche e archivi in tutto il mondo, raccogliendo storie e narrazioni per il suo progetto a lungo termine, intitolato, nel complesso, Pulp: a short biography of the banished book. È un progetto che colpisce per originalità, sotto diversi aspetti, non solo estetici e visivi, ma anche storici e culturali, come cercheremo di spiegare in queste pagine illustrandone i presupposti, le modalità, le realizzazioni ed entrando poi, più nello specifico, nel contenuto dei tre volumi che sono stati finora pubblicati per le cure di Shubigi Rao3. Il suo lavoro critico, ampio e analitico, evocativo e poetico, segue le traiettorie dei libri e delle biblioteche, dalla loro creazione alla loro distruzione, approfondendo le dicotomie della conservazione e della cancellazione, esplorando le prospettive stratificate di inclusione ed esclusione, le molteplici nature filosofiche del testo, della bibliografia, dell’archivio, esaminando le collisioni tra l’impulso umano violento che porta alla distruzione e quello opposto che porta alla conservazione, alla sopravvivenza, alla resistenza.
Shubigi Rao (Mumbai, 1975) è un’artista e scrittrice di origine indiana, basata a Singapore, nota per i suoi progetti multidisciplinari a lungo termine e per le installazioni che spesso utilizzano libri, archivi, disegni, incisioni, video. Tra i suoi campi di interesse spiccano proprio la storia e l’attualità di archivi e biblioteche, indagate preferibilmente attraverso le lenti del rapporto tra verità e bugia, letteratura e violenza, ecologia e storia naturale. Nell’introduzione a Pulp I, lei stessa ci fornisce importanti dettagli biografici che fanno luce sugli elementi con cui ha convissuto fin dall’infanzia e che non a caso sono diventati i punti focali della sua pratica artistica, in primo luogo i libri e in seconda istanza la natura4. Sull’influenza di questi due elementi ancestrali, Shubigi Rao è tornata esplicitamente anche nel 2018, in un’intervista rilasciata ad ATP Diary – in occasione della conferenza The banished book and the library tenutasi presso la sede romana della NABA (Nuova accademia di Belle arti) – nel corso della quale ha descritto e sintetizzato il suo percorso formativo intorno ai due elementi sopracitati. Primo, la biblioteca: «penso che la mia formazione principale derivi dalla biblioteca della mia infanzia. I miei genitori erano soliti salvare i libri che la gente voleva buttare o distruggere e lentamente hanno costruito una biblioteca davvero affascinante. Conteneva una vasta gamma di testi diversi su qualsiasi argomento e io sono cresciuta in mezzo a questo sapere»5. Si presenta già qui il tema della distruzione dei libri, ma vi torneremo anche più oltre, sempre in relazione alla biblioteca avita di Rao, che a sua volta è stata saccheggiata e distrutta, ponendo l’artista, in tempi ancora non sospetti, nel corso della sua infanzia, di fronte al tema che si volgerà poi a indagare, con tanta passione, in età adulta: «Con il tempo mi sono resa conto sempre più di quanto sia stata grande quella perdita per me, poiché quel luogo mi ha permesso di crescere e ancora oggi mi sento connessa all’intera umanità grazie ai libri che ho letto. Potevo sentire la voce delle altre persone»6. Quanto alla natura, sempre nelle parole di Rao, è stato il fatto di crescere nella giungla l’altro avvenimento, del tutto straordinario, che l’ha formata, un ricordo indelebile che, insieme a quello dei libri, associa alla sua espressione artistica odierna: «I miei genitori hanno lasciato la città e siamo cresciuti selvaggi in una foresta. Abbiamo imparato a difenderci ascoltando ciò che succedeva intorno a noi e rispettando gli animali. Questo tipo di educazione è difficile da quantificare, ma mi ha influenzata come artista perché ho capito quanto poco ascoltiamo il mondo. È come se ora, con il progetto di Pulp, volessi ascoltare qualcosa per dieci anni»7. A questi due elementi, peraltro già fortissimi e molto caratterizzanti, ne possiamo, credo, aggiungere un terzo, che è Singapore, la città dove Rao ha studiato, dove vive e opera, nella quale ha radicato la sua ricerca artistica, dove ha frequentato le biblioteche pubbliche che hanno alimentato il suo amore per la conoscenza, le lingue, i libri e la storia, gettando le basi che hanno ispirato il suo lavoro di oggi. Da giovane si è iscritta al Lasalle College of the Arts di Singapore, dove ha conseguito il bachelor e il master of Fine arts. Dal 2014 ha iniziato a visitare collezioni pubbliche e private, biblioteche e archivi in tutto il mondo, per il suo progetto decennale che già a partire dal 2013 è stato sostenuto dal National Arts Council di Singapore che le ha assegnato un Creation Grant a supporto della ricerca iniziale e dello sviluppo delle prime fasi del progetto, fino alla pubblicazione di Pulp I, nel 2016. Successivamente, Rao ha partecipato a un programma di residenza d’artista presso la Künstlerhaus Bethanien di Berlino, per ampliare ulteriormente la ricerca e le connessioni internazionali necessarie allo sviluppo del progetto. Nel corso degli anni, il progetto di Rao ha ottenuto diversi riconoscimenti e premi nei campi dell’arte visiva e della letteratura, a Singapore e all’estero, tra cui il premio AIGA (New York) per i migliori libri del 2016 (Pulp I) e del 2018 (Pulp II), il D&AD Pencil per il design (2016, 2018) e il Singapore Literature Prize per la saggistica nel 2020 (Pulp II). La prima mostra del progetto, Written in the margins, ha vinto anche l’APB Signature Prize Jurors’ Choice Award nel 2018.
Su questo titolo, Written in the margins, conviene soffermarsi, come Rao stessa ha fatto nell’intervista che abbiamo già citato, nel corso della quale ha illustrato la sua scelta lessicale e l’attenzione che ha voluto puntare sui margini, con riferimento, prima di tutto, alla storia del libro e della scrittura, in particolare al lavoro degli amanuensi, che potevano trovare uno spazio di relativa libertà dal metodico lavoro di copiatura proprio nei margini, nella porzione di pagina considerata profana8. Il secondo aspetto riguarda invece i margini nei quali sono state, non solo metaforicamente, relegate le scritture femminili e delle persone di colore, tagliate fuori dalla storia in generale e più in particolare dalla storia delle biblioteche, luoghi dove «dovremmo vedere la ricchezza degli scritti dell’umanità, ma in realtà vediamo solo la ricchezza degli scritti maschili» come ricorda Rao, riecheggiando questioni e problematiche di lunga data e universalmente note (si pensi anche solo al celeberrimo Oxbridge evocato da Virginia Woolf).
Il suo gesto artistico però è inedito e si esprime, come vedremo, in tutti e tre i volumi di Pulp, attraverso la scrittura a mano e l’inchiostro rosso che, di volta in volta, occupano i margini delle pagine a stampa: «Le note che ho scritto ai margini del mio libro si riferiscono a coloro che non esistono nelle biblioteche, le cui storie sono svanite, che non sono mai esistite, che sono assenti. Questi appunti a margine per me rappresentano un promemoria: lo scrittore non è un’autorità e quindi si può mettere in discussione ciò che si legge in un libro»9. A mio parere questa posizione di Rao convince ancora di più se si pensa come lei per prima abbia a lungo operato sotto falso nome, firmandosi con lo pseudonimo ‘S. Raoul’10, da lei stessa definito «un ex scienziato, teorico, archeologo e capro espiatorio», da lei stessa inventato come risposta ai regimi di potere che cancellano le donne dal discorso storico. Mascherata da accademico maschio, la Rao ha scritto una serie di libri alternativi di storia dell’arte che consistono perlopiù, ma non solo, in bibliografie, elenchi e voci di catalogo. Per esempio, The art of the United Kingdom: the burden of British art (2006), contiene un elenco di tutti gli oggetti della collezione del British Museum che non sono britannici. Questa e altre opere ‘di S. Raoul’ sono elencate in un volume in cui Shubigi Rao ripercorre The life and time of S. Raoul11, dimostrando notevole abilità nel gestire non solo le immagini ma anche i testi, nell’ambito di un grande gesto performativo che per un decennio l’ha vista impegnata in una critica, al tempo stesso ironica e sfacciata, allo status quo dal quale si voleva affrancare:
Lui è stato il mio pass d’accesso a tutto. Nella vita ho trovato molta difficoltà a essere presa sul serio come donna e come ragazza. Senza di lui nessuno mi avrebbe ascoltata. Solo nel ruolo di protetta di questo brillante uomo, che naturalmente non esiste, la gente è disposta a condividere informazioni, a darmi accesso a biblioteche o a materiale scientifico speciale. Ci sono state volte in cui mi sono presentata come autrice secondaria poiché Raoul era considerato quello principale. Il progetto decennale di S. Raoul è stato utile perché mi ha permesso di fare ciò che mi piaceva. Ho creato una biografia falsa e ho scritto falsi libri d’arte sotto il suo nome. Sono stata anche accusata di plagiarlo, perché non riuscivano a credere che fossi io l’autrice di quel lavoro12.
Ute Meta Bauer, la curatrice del padiglione di Singapore alla Biennale di Venezia, ha interpretato la sua performance e le sue opere sotto pseudonimo come «la prova di una pratica che ha cercato attivamente strategie concettuali interstiziali per dire la verità su ciò che l’opinione pubblica oscura»13.
Rao ha partecipato anche alla decima Asia-Pacific Triennial (2021), a March Meets (2019), alla 4. Kochi-Muziris Biennale (2018), alla 10. Taipei Biennial (2016), alla 3. Pune Biennale (2017) e alla 2. Singapore Biennale (2008). Attualmente è la curatrice della Biennale di Kochi-Muziris del 2022.
Le sue opere d’arte, i suoi testi, i suoi film e le sue fotografie guardano ai punti di svolta, sia storici che contemporanei, come a momenti prospettici per esaminare le crisi e gli spostamenti, le distruzioni e le sparizioni, di persone, lingue, culture, corpi. Le opere di Rao riescono a rappresentare e a indagare in modo critico, poetico, e spesso ironico, i diversi sistemi di conoscenza che strutturano il nostro mondo e le nostre modalità di convivenza.
La mostra Pulp III: a short biography of the banished book è dunque il terzo capitolo e il punto intermedio del progetto decennale di Shubigi Rao sulla storia della distruzione dei libri e delle biblioteche, sul suo impatto sull’umanità e sulle culture della conoscenza. Commissionata dal National Arts Council di Singapore, quest’ultima edizione presentata al Padiglione di Singapore per la Biennale arte 2022 prende la forma di un libro, Pulp III: an intimate inventory of the banished book, volume III of V, di un film, Talking leaves, e di un labirinto di carta. Riunendo la ricerca, il film e la scrittura di Rao, la mostra esplora la precarietà e la persistenza delle lingue in via di estinzione, il futuro delle biblioteche pubbliche e private, le complesse questioni legate alla repressione e all’emarginazione delle culture e delle scritture, e il cosmopolitismo delle comunità di stampatori che sono fiorite o tramontate in centri storici della stampa, come Venezia e Singapore.
Progettato dall’architetto Laura Miotto, lo spazio del padiglione si sviluppa come un labirinto di carta, assumendo l’architettura di un libro. Mentre ci aggiriamo attraverso una struttura di carta sospesa, i nostri occhi seguono una linea di testo che ci porta a una pila di libri creati da cinquemila copie di Pulp vol. III: si tratta della prima tiratura, qui presentata come un monumento al libro, come «un mattone fondamentale del lungo e variopinto rapporto tra l’umanità e la parola scritta»14. Nel corso della Biennale, questo monumento si esaurirà gradualmente man mano che i visitatori porteranno via le copie di Pulp vol. III. L’idea è quella che ogni libro possa potenzialmente far germogliare tante biblioteche domestiche, superando anche le distanze geografiche e culturali. Quello di Rao è un gesto concettuale teso a rendere l’evidenza di come i libri siano oggetti che viaggiano e avviano connessioni autentiche tra persone di tutto il mondo, ribadendo, in questo contesto, anche l’importanza della Biennale come evento realmente internazionale e come catalizzatore capace di disegnare nuove mappe di connessione.
Commissionato per il padiglione, il film Talking leaves funge da controparte del libro. Affianca materiali di repertorio alle riprese originali, che sono tutte recenti, girate soprattutto a Venezia e a Singapore, e intrecciano interviste, conversazioni, riflessioni poetiche, dando vita a un linguaggio filmico movimentato e allusivo, molto immaginifico, poco didattico. Talking leaves è una summa dei viaggi di Rao attraverso i luoghi di conflitto, le biblioteche, le case, gli archivi, nonché una testimonianza dei suoi incontri con le donne e gli uomini che quotidianamente si spendono per difendere i libri e le culture ai margini. Il film documenta tutte queste storie, tra verità e superstizioni, narrazioni contestate e segreti, si snoda attraverso molteplici trame, che di volta in volta si affiancano o si sovrappongono, si sommano o si contraddicono, intrecciando immagini, testi e suoni, stratificati gli uni sugli altri, fusi nella coesistenza di prospettive diverse e di molteplici trame che hanno però tutte in comune il fatto di essere storie vitali che sono sopravvissute nonostante i tentativi di cancellarle. Il film di Rao va interpretato come un documento più che come un documentario, e va fruito nella prospettiva di un’abbondanza di racconti, allegorie e significati. Le biblioteche spingono contro i confini dell’immagine, accumulandosi attraverso i fotogrammi. Il film è un’estensione dei libri.
Uno striscione all’ingresso del padiglione presenta un dettaglio di Confetti: ashes at a fascist parade (2013), un dipinto di Rao che raffigura i resti dei roghi di libri avvenuti nel 1933 da parte del regime nazista, sotto forma di coriandoli, ricordando l’orrore che celebrava la distruzione dei libri come la vittoria di un’unica ideologia sulla pluralità del libero pensiero. È un ricordo toccante dell’uso dei mezzi di comunicazione di massa nella propaganda nazista che ha rafforzato il regime e ha permesso l’Olocausto.
This book, and the larger project that it is part of,
is a continuation of an artistic detour I took as an undergraduate,
when I started making more books than artworks.
Or so I was told, for I still can’t separate the two.
Shubigi Rao
Il primo libro funge da vasta introduzione ai numerosi problemi che il progetto tenta di affrontare e si apre, non a caso, con un toccante ricordo della biblioteca avita (alla quale abbiamo già fatto riferimento in apertura), rievocata nella sua conformazione iniziale e nelle vicende delle sue successive spoliazioni:
Sono cresciuta come molti bambini autonomi ma isolati, al sicuro nella ricca ed eclettica biblioteca dei miei genitori. Come altri bambini di questo tipo, mi sentivo sola ma non sapevo di esserlo, e quindi ero felice. Poi, quando avevo dieci anni, credo, siamo stati derubati. La nostra biblioteca fu devastata, vandalizzata, libri come una prima edizione del Decameron strappati dalla copertina per essere venduti come rottami. Nel corso degli anni, i miei genitori avrebbero ricostruito faticosamente la loro biblioteca, mentre noi continuavamo a perdere libri a causa di furti, termiti, allagamenti e traslochi (ricordo un camion pieno di libri che partiva dal Darjeeling e non raggiungeva mai la nostra nuova casa a Delhi). Man mano che crescevo, assistevo impotente al disfacimento della biblioteca dei miei genitori, che si è consumato con la stessa velocità del loro matrimonio, fino alla loro definitiva separazione quando ero adolescente. Mio padre ha conservato la maggior parte della collezione e quando è morto nel 2013, lontano da noi nell’Himalaya orientale, tutto è svanito di nuovo15.
Segue la riflessione che ho messo in esergo a questo paragrafo, una vera e propria dichiarazione d’intenti che, altrettanto efficacemente del ricordo autobiografico della biblioteca, serve, come tutto il primo volume di Pulp, a inquadrare lo spirito e gli obiettivi dell’intero progetto decennale e insieme a illuminare l’indissolubile penetrazione tra ricerca artistica e ricerca bibliografica che sta alla base del lavoro di Rao16. Poco dopo, sempre nell’introduzione al primo volume, compare per la prima volta la parola ‘pulp’ (in quattro ricorrenze: ‘pulped books’, ‘to pulp books’, ‘the pulping of booksì’, ‘books for pulping’) associata a quella che l’artista definisce «la quasi costante messa in scena dell’orrore, della tragedia, della morte e della devastazione», contro la quale sente l’imperativo di agire, di fare, attraverso questo progetto che nasce dalla, pur amara, consapevolezza che tutti i libri sono predestinati alla cenere:
If our history is anything to go by, all books are predestined ashes, whether flying like confetti at a fascist parade, or pulped, dissolved, rendered into nothing more than fragments, scraps of phrases in the living memory of its aging readers17.
Ridurre i libri in poltiglia (‘To pulp books’) significa allora ridurre il contagio delle idee ritenute pericolose (come ben sa chi studia la storia dei libri proibiti), significa trasformare le sensibilità e le conoscenze in qualcosa di insipido, immangiabile, sterile (queste sono alcune delle immagini suggerite da Rao nel libro). ‘Pulp’ è dunque la negazione dell’essenza stessa del libro, del valore simbolico del libro, come baluardo dell’umanità, delle idee e della conoscenza, come presidio contro la tirannia dell’ignoranza, dell’autoritarismo e dell’univocità della narrazione. Nessuna biblioteca può avere un solo libro, eppure nel corso della storia regimi e istituzioni, teistici e totalitari, hanno cercato di ottenere proprio questo, l’antitesi della Biblioteca di Babele, una biblioteca con un solo libro. Distruggere un libro, ridurlo in poltiglia, significa anche (e di questo Rao è profondamente consapevole) denigrare i debiti storici impliciti in ogni libro come oggetto, impliciti nella lunga e tumultuosa storia della stampa, che Rao, giustamente, vede come una storia di resistenza tecnologica e creativa contro l’inabissamento, il rogo, la messa al bando, la censura e l’estinzione, ora di singoli libri, ora di intere biblioteche. Distruggere un libro significa cancellare lo sforzo della mente che ha pensato e articolato le parole che lo compongono, il lavoro collettivo delle persone che le hanno disposte sulla pagina, le hanno composte, corrette, stampate e prodotte. Non a caso, Rao richiama, a un certo punto, le impressioni che ebbe su di lei la lettura di Una solitudine troppo rumorosa di Hrabal, fatta da adolescente: il protagonista del romanzo, impiegato per impilare parallelepipedi di libri da mandare al macero, ne salva quotidianamente almeno uno, che vale la pena di leggere, che non può essere abbandonato, divenendo così lui stesso una rappresentazione (quasi fisica) dei libri che dovrebbe distruggere e che invece salva. Ogni libro salvato dal protagonista del romanzo di Hrabal è insieme un simbolo e un atto di resistenza, e questo è ciò che interessa a Shubigi Rao per il progetto del quale nel primo dei cinque volumi, diviso in cinque sezioni, prova a gettare le basi e a disegnare le coordinate, pur senza mai eccedere in categorizzazioni rigide, per le quali l’artista dichiara di avere un’innata avversione, convinta che stabilire la differenza sia spesso il primo passo verso la segregazione e l’oppressione. Da qui, la scelta di non affrontare in maniera univoca, o statica, il significato stesso di biblioteca nell’ambito del progetto. C’è un capitolo, in questo primo volume, intitolato Every language is a library, nel corso del quale Rao si intrattiene sulla questione, facendo però prevalere una definizione larga di biblioteca, interpretata prevalentemente come deposito culturale:
A rich archaeological site is a library, as is the mind of my ninety-eight-year-old maternal grandmother who has seen the wars of the last century, the independence and bloody partition of the Indian subcontinent, and holds in the aged strata of her memory the accumulated life of a voracious reader, poet and writer, gardener, ikebana master, and humanist18.
Che cos’è dunque una biblioteca? Che cos’è un archivio? Una collezione, sia essa pubblica o privata? Cosa comporta l’accesso e come, e perché, condividiamo le memorie? Gli archivi culturali includono il linguaggio come deposito di conoscenze e di diverse strutture di apprendimento, di modi di pensare, di guardare, di contesti, di costumi etici e culturali. I reperti storici, i documenti, i film, l’arte, la fotografia, tutti i prodotti letterari sono depositi di sforzi umani, di conoscenza, di impegno, a cui tutti noi collettivamente dovremmo essere in grado di accedere. Il cervello stesso, nell’interpretazione di Rao, è una biblioteca. Ogni biblioteca è una rete in continua espansione, in continua evoluzione e mutazione, è un libro che può essere letto, il cui significato e le cui implicazioni possono essere intraviste, analizzate, reinterpretate e quindi vivere nelle menti degli altri. La perdita di ciascuno di questi depositi è una tragedia, è una diminuzione della nostra specie, che Rao prova qui a indagare per frammenti, non solo perché il progetto era ancora agli inizi nel 2016, ma anche per la natura del campo di studio, vasto e interdisciplinare, nonché per la tipologia delle fonti utilizzate (giornali, reportage, aneddoti, fonti orali, ma anche false credenze, fondamenti imperiali o coloniali che qui vengono riletti e riordinati in contesti critici postcoloniali e postmoderni), per la natura, a volte casuale, degli incontri e delle interviste. Sul fronte professionale, da notare il riconoscimento che Rao tributa a quello che definisce «lo straordinario e inclusivo sostegno dei membri della sezione Libri rari e manoscritti dell’IFLA, che hanno favorito la mia progressione non gerarchica attraverso istituzioni, archivi e depositi, permettendomi di partecipare a riunioni e seminari a porte chiuse, e dandomi accesso a scaffali chiusi e aree off-limit»19. Sicuramente quello che contraddistingue questo primo volume, ma più in generale tutto il lavoro di Rao – così come anche, in parte l’abbiamo visto, la sua biografia – è il rifiuto della narrazione univoca e la scelta di abbracciare sempre la molteplicità dei punti di vista, alla ricerca dei numerosi punti di contatto ma anche delle inevitabili divergenze, con l’obiettivo – forse? ultimo? – di costruire una genealogia, che è anche autobiografica, ma che è più vasta di quella genetica; che tende, idealmente, a essere una genealogia letteraria universale.
Pulp I è un poderoso volume impreziosito da 94 immagini a colori, suddiviso in tre parti (Prologue, Five approaches, Postscript), la seconda delle quali è il cuore del progetto ed è articolata in cinque capitoli. Il primo, Every cabinet is a library, è dedicato alle collezioni di storia naturale, Wunderkammer e gabinetti delle curiosità, con approfondite riflessioni sulla loro ontologia, a partire dall’Arca di Noè fino all’Artis Library di Amsterdam alla quale Rao dedica numerose pagine, anche fotografiche. Fa parte delle Special collections dell’Università di Amsterdam e comprende 20.000 libri, 3.000 manoscritti e 80.000 stampe, tutti debitamente elencati in un bel catalogo conservato nella sua rilegatura originale ottocentesca. Rao racconta di averlo letto per ore, apprezzandone l’ordinamento logico e intuitivo, la possibilità di sfogliare le pagine invece di cercare per parole chiave, un’esperienza incomparabilmente più piacevole di quella offerta da qualsiasi possibile algoritmo: «Bookstore or library browsing is a pleasure because it is capricious and dangerous – there are parts of oneself dormant that wake hungry and ravening when we bump into the unexpected book»20. Every language is a library, il secondo capitolo, si ispira alle complesse questioni, non solo terminologiche, sollevate dalla Biblioteca di Babele e le affronta soprattutto dal punto di vista della traduzione, citando ora Borges ora Kircher, ora Barthes ora Eco, tutti autori che sono stati – ciascuno a suo modo – abbagliati dal simbolismo della torre e dai suoi significati, dalle sue implicazioni letterarie e divine. Il terzo capitolo, Documentary fiction, ci trasporta nella storia delle biblioteche perdute, fittizie, favolose e futili, offrendoci anche una riflessione attualissima:
Fittizio non significa non funzionale: la biblioteca ideale è viva, universale, contiene più lingue, il vero e il falso, spesso non verificabile, tutte le fonti elencate, anche i vicoli ciechi, tra fair e common use, accademico e non, nega e allo stesso tempo accoglie. Wikipedia è fittizia, funzionale e utile. È la prima voce di una pagina di ricerca su Google. Ci invita a entrare nel blu dei link e dei riferimenti incrociati. Cosa c’è di più facile? Eppure, man mano che l’alfabetizzazione di massa diventa la norma piuttosto che l’eccezione, man mano che parliamo di accesso online come diritto umano, sappiamo meno e siamo meno propensi a cercare ciò che non sappiamo. Creiamo camere dell’eco, ermetiche stanze del benessere, e raramente ci avventuriamo oltre il nostro soffice cuscinetto di rumore bianco. Gli algoritmi ci aiutano a restringere i nostri feed di notizie; abbiamo bisogno di leggere solo fino a un certo punto e non oltre. Fittizio, funzionale, inutile21.
Rock paper fire, il quarto capitolo, dedicato alle biblioteche perse, scomparse, distrutte, bruciate, si chiude con Flood and fire: a limited list of the lost che inizia con la Biblioteca di Ebla e termina, trenta pagine dopo, ricordando gli ottomila manoscritti rari e insostituibili bruciati nel febbraio del 2022 dai miliziani dell’ISIS che hanno bombardato la Biblioteca di Mosul. Ricordando anche come Aleppo, Nimrud, Tripoli, Hatra, Mosul, Ninive – le antiche città babilonesi, mesopotamiche e assire, luoghi di nascita dell’alfabetizzazione e della civiltà, sopravvissute attraverso millenni, innumerevoli guerre e crociate – siano cadute tutte in meno di un anno. Un viatico e una speranza vengono proposti alla fine del libro, nel capitolo che si intitola Resistance and symbol, che si apre richiamando l’operato degli stampatori del secolo d’oro olandese (in particolare le vicende della censura del Tractatus theologico-politicus di Spinoza) e si chiude con i samizdat del XX secolo e un affondo su Joseph Brodsky. Le immagini che accompagnano queste pagine sono l’insegna della Tempest anarchy library di Berlino, la copertina e il frontespizio di un’edizione tedesca clandestina dei Versetti satanici di Salman Rushdie, e due pagine dattiloscritte della Khronika arkhipelaga gulaga, samizdat sovietico del 1974.
To assume that book history
is only the province of the book historian,
and of greatest interest to only bibliophiles,
is an impoverished and untruthful way to operate.
Shubigi Rao
All’inizio del secondo volume, Rao dichiara che il primo libro – lo abbiamo già definito come un’introduzione generale al progetto – voleva anche essere una dimostrazione che argomenti complessi e campi disciplinari che si intrecciano in qualsiasi discorso su libri, archivi, cultura, persone, guerra, memoria e linguaggio, potevano essere alla portata dei non specialisti e che la sua ambizione, non egoistica, consisteva anche nel desiderio di essere intimamente coinvolta in un campo che fosse al di fuori della propria specializzazione e che la impegnasse in un esame critico e creativo per un lungo periodo di tempo. Ne conseguiva un obiettivo secondario che però, in un certo senso, ha preso poi il sopravvento, come possiamo apprezzare in questo secondo volume che lo rappresenta compiutamente. Si tratta del racconto delle storie che Rao aveva sentito, scoperto, incontrato durante i viaggi e le riprese: «nel raccontare queste testimonianze aneddotiche, per così dire, ho percepito il potere della cultura e della storia come elementi di connessione, che attraversano le differenze culturali, geografiche e persino linguistiche»22.
Il secondo libro è diviso in tre parti: vi è – o meglio vi era – una sorta di bibliografia dei vari testi e libri che sono stati importanti nel corso della ricerca di Rao. Questa bibliografia, però, non è pubblicata nel volume a stampa, ma è stata disponibile solo online, e solo per un breve periodo di due anni, perché l’artista ha ritenuto che darla alle stampe avrebbe significato dichiararla completa, cosa che invece non avrebbe mai potuto essere. Conscia dei suoi limiti, e del fatto che la bibliografia, intesa come elenco, non avrebbe mai potuto essere esaustiva, l’artista ha scelto di non limitarsi a includere nel secondo volume un elenco bibliografico, bensì di organizzare l’intero secondo volume come una sorta di bibliografia primaria, della quale vengono comunque riconosciuti i limiti, relativi, in prima istanza, proprio al regionalismo delle storie qui riportate, che rappresenta però, al tempo stesso, un punto di convergenza del progetto, dove si scontrano la distruzione culturale, la guerra, la politica linguistica e l’attuale neoliberismo. La seconda parte, centrale e portante, del volume, è dunque una raccolta di tutte le storie di quelle persone che Rao ha filmato e registrato fino ad ora e che hanno vissuto atti di distruzione e censura. Si tratta di un materiale molto importante per l’artista, perché costituito da testimonianze senza filtri e senza restrizioni di formato, che per questo costituiscono la sua bibliografia ‘viva’ e sono la sua fonte primaria di ricerca. Nella terza parte del volume, che è esclusivamente illustrata, dunque senza testo, l’artista ha invece cercato di creare un lessico di simboli e una sorta di indice visivo delle connessioni e dei fallimenti nella trasmissione della lingua, partendo dal presupposto che il linguaggio è estremamente imperfetto, che costituisce una forma di comunicazione non sempre efficace, e che spetta proprio all’arte il compito di provare a colmare questa lacuna.
Il secondo volume è quindi una bibliografia visiva di fonti primarie, basata su testimonianze orali, iconografiche e a stampa, oltre che sul film come documento23. La bibliografia visiva è un modo per riconoscere, insieme al primato del testo, anche l’importanza delle storie orali, che non solo sono fonti primarie, ma a volte sono tutto ciò che sopravvive quando i registri, i manoscritti, i libri e le biblioteche vengono distrutti. In quest’ottica, l’artista si spende per trovare un equilibrio tra le testimonianze delle persone, esperienze vissute e descritte a un altro essere umano, e le risorse testuali sull’argomento, nella totale consapevolezza del fatto che
la storia orale è fluida, dipende da tante cose, dalla memoria e dai suoi fallimenti, dall’avanzare degli anni, dagli stati d’animo, dalle posizioni ideologiche mutevoli e dalle nuove realtà geopolitiche, dall’umanissima difensiva o astuzia che noi e gli altri impieghiamo (spesso inconsciamente) quando parliamo con un’altra persona, e in questo caso, spesso con un estraneo. Anche la consapevolezza della telecamera, l’implicazione di un pubblico invisibile, è de-personalizzante. Tuttavia, confido che lo spettatore/lettore apprezzi questi aspetti della documentazione non come difetti del metodo, ma piuttosto come sottoprodotti naturali di qualsiasi narrazione, che non sminuiscono in alcun modo l’importanza o il potere della storia che si sta svolgendo24.
E anche di quest’ultimo punto, il fatto cioè di trovarsi a registrare avvenimenti che si stanno ancora svolgendo, Rao è pienamente consapevole, così come è consapevole dei problemi di un lavoro a lungo termine come questo, tanto da derivarne l’assunzione della necessaria incompletezza di cui dicevamo prima, suffragata dall’aver sperimentato in prima persona il sorgere di infinite domande e problemi proprio a seguito di quanto sentiva e leggeva. Per questo motivo, la terza sezione del libro si affida ai disegni per riempire i vuoti, senza sussumere o cooptare le diverse storie in raggruppamenti tematici che sarebbero, probabilmente, risultati artificiali. Il disegno sottolinea anche la fragilità della parola, le lacune e le mancanze del linguaggio umano, dell’articolazione, della trasmissione e della comprensione, contiene indicazioni sull’illegittimità, o almeno sull’irresoluto e il non verificato: in contrapposizione alla finitezza di un elenco bibliografico, i disegni sono bozze, proposte parziali, e per questo sono sembrati all’artista il mezzo migliore per esprimere la sua ricerca come work in progress.
Ma bisogna dire che Pulp vol. II è, forse prima di tutto, un condensato del lavoro di Rao nei Balcani, che viene qui contestualizzato all’interno di un esame del trauma, della fragilità dell’archivio e della potenza degli atti di sopravvivenza e di resistenza. In gran parte è infatti incentrato sulla distruzione delle biblioteche pubbliche nei Balcani, in Croazia e in Bosnia negli anni Novanta, e in particolare sulla distruzione della Biblioteca nazionale e universitaria della Bosnia-Erzegovina, a Sarajevo, da parte delle forze serbe nel 1992, indagando poi anche sulla odierna appropriazione neoliberale della biblioteca ricostruita. I protagonisti di queste vicende sono Elvir Turcilo, il pompiere che ha passato tre giorni e tre notti a domare le fiamme della biblioteca di Vijecnica; Aida Buturovic, la giovane bibliotecaria che ha perso la vita nel tentativo di salvare i libri dal rogo della medesima biblioteca (la storia è raccontata dalla sorella); Ahmed Zildzic, professore di Cultura islamica all’Università di Sarajevo; Ivan Lovrenovic, scrittore bosniaco; Tomislav Medak, ricercatore croato; Kristina Strkalij Despot, vice direttrice dell’Institute of Croatian Language and Linguistics di Zagabria. Nel libro sono poi riportati passaggi di molte altre interviste che si vedono nel film, qui illustrate dai relativi fotogrammi. Oltre alle storie di protagonisti e spettatori della storia della resistenza culturale nei Balcani, leggiamo nel libro anche le parole (ma di fatto ci sembra di ascoltare le voci) di Steven van Impe, curatore della Hendrik Conscience Library di Anversa; Marieke van Delft, curatrice della sezione di incunabolistica presso la Koninklije Bibliotheek di Amsterdam; Syeda Saiyidain Hameed, attivista per i diritti umani; Sarover Zaidi, filosofa e antropologa sociale; Muhammad Said, matematico che colleziona antichi libri scritti in Urdu. Tutte queste storie, ha scritto Shubigi Rao
rendono visibili le forme sfumate di resistenza e di azione, e le vite vissute circondati da libri, respirando la stessa aria appesantita dal peso di una conoscenza non letta ma inestimabile, rischiando tutto per salvare testi che non sono loro, e che potrebbero non essere mai letti, ma che sono anche più che semplici rappresentazioni simboliche delle loro civiltà e di qualche amorfa nozione idealistica di umanità. Queste storie incarnano la più forte convinzione di valore al di là del ristretto tribalismo e della meschinità pecuniaria. Sono anche uno sguardo alla pervasività della convinzione che gli oggetti culturali siano indispensabili. Ogni storia parla di milioni di persone non ascoltate e non registrate25.
Il terzo libro di questa serie di cinque volumi rappresenta il punto centrale del progetto prima del suo deragliamento di due anni a causa della pandemia globale. Tutti e tre i volumi mostrano una propria linea temporale evolutiva, oltre a riflettere i cambiamenti globali nel discorso sulla produzione e l’accesso alla conoscenza, le posizioni ideologiche e le strategie di resistenza. I contenuti di questo terzo libro riflettono in parte anche la necessità di iniettare urgenza nel compiacimento del pacifismo e della neutralità come unici strumenti a nostra disposizione: «È necessaria un’espansività critica nel ripensare la natura del libro, della biblioteca e dell’impulso umano alla violenza. Non essendoci risposte facili per quest’ultimo aspetto, le ragioni per cui ci abbandoniamo ancora così facilmente alla distruzione rimangono una questione irrisolta, esplorata solo in parte in questa sede e in attesa di una risoluzione, o almeno di una posizione definitiva, nel volume finale» scrive Shubigi Rao nell’introduzione26. Per ora, le sue uniche certezze vanno in tre direzioni. La prima riguarda il fatto che le biblioteche continuano a occupare terreni ideologici molto diversi tra loro e che il nostro compito consiste nell’interrogarli incessantemente, mentre difendiamo le posizioni che le biblioteche stesse sono riuscite, di volta in volta, a conquistare. In secondo luogo, Rao si confronta ora con la messa in discussione del pacifismo che aveva sostenuto nel primo volume, e che nel secondo è stato messo in crisi proprio nel corso delle sue conversazioni con bibliotecari, bibliotecarie, studiose e studiosi bosniaci; a partire dai quei colloqui, l’artista ha iniziato a rintracciare numerosi segnali di disillusione, ma allo stesso tempo si è scoperta (o meglio, si è confermata) riluttante a rinunciare ai principi della nonviolenza come strategia efficace di conservazione dei libri e delle biblioteche, e non è un caso se ha scelto di dedicare un intero capitolo di questo volume, il sesto, intitolato The pacifist resistance, proprio a un esempio di successo del pacifismo e dell’obiezione di coscienza, vale a dire la Casa per la nonviolenza di Verona, sede nazionale degli archivi dell’associazione Movimento nonviolento, fondato da Aldo Capitini nel 1962 e visitato da Rao nel settembre del 202127. In terzo luogo, dopo essersi confrontata con i grandi temi delle fake news e della cancel culture, Rao arriva a focalizzare il grande sforzo – da lei definito proprio come «una battaglia costante»28 – che è necessario mettere in campo per resistere all’amnesia selettiva e riuscire a distinguere lucidamente tra gli aspetti fraudolenti delle narrazioni in conflitto e il revisionismo storico. Più in particolare, l’artista mette in guardia dal pericolo di ignorare le preoccupazioni e le voci indigene, un errore che potrebbe inficiare anche la lotta contro le crescenti disuguaglianze, mentre è proprio qui, su questo campo, che i sistemi codificati di conoscenza – come l’università, la biblioteca, e le idee di una stampa libera – possono iniziare a contrastare efficacemente le esclusioni storiche.
Per tutti questi motivi, le storie presentate nel terzo volume si concentrano su alcune nozioni chiave: la precarietà delle lingue in pericolo, il cosmopolitismo storico di comunità di stampatori locali (in particolare, Venezia e Singapore), le biblioteche alternative e il potere della resistenza, sia da parte di azioni individuali che di comunità. Per ogni capitolo/sezione del terzo volume, vengono messe in dialogo due voci, a volte in accordo, ma altrettanto spesso in contraddizione. Nel primo capitolo troviamo da una parte Federico Bucci, titolare della Libreria antiquaria Segni nel tempo di Venezia e dall’altra Silvana Tamiozzo Goldmann, Neda Furlan, Bianca Tarozzi e Anna Toscano, tutte intervistate dalla Rao nelle loro case veneziane (eloquenti immagini delle loro biblioteche domestiche arricchiscono queste pagine). Nella seconda sezione dialogano la scrittrice Melissa De Silva, basata a Singapore, e Stefanie Pillai, professoressa di linguistica all’Università Malaya di Kuala Lumpur. Il terzo capitolo ospita le voci di Giancarlo Bortoli, presidente, e di Sergio Bonato, vicepresidente dell’Istituto di cultura Cimbra di Roana. Il quarto mette in relazione le riflessioni di Faris Joraimi, saggista e ricercatore malese, e di Wei Jin Darryl Lim, storico del libro e della stampa originario di Singapore, ma residente a Londra. Nel quinto capitolo si confrontano le esperienze di Dana Haddad e Muhanmad Qaiconie, che con altri tre soci hanno fondato nel 2017 Bayanatna, la prima biblioteca pubblica di Berlino che offre solo libri arabi, e quella di Minas Lourian, Direttrice del Centro studi e documentazione della cultura armena di Venezia. Nella sesta sezione parlano Stefania Bertelli dell’Iveser (Istituto veneziano per la storia della resistenza e della società contemporanea) di Venezia e Massimo ‘Mao’ Valpiana, presidente del Movimento nonviolento di Verona (del cui archivio abbiamo detto più sopra). Infine, nel settimo capitolo, leggiamo la testimonianza anonima di un rappresentante dall’Hannae Workers History Archive di Seoul e di Lee Jin-Young, fondatore della biblioteca digitale Labor Books e attivista per i diritti dei lavoratori.
Con l’occasione dell’esposizione alla Biennale, Rao ha colto l’opportunità, come si evince dalle testimonianze fin qui elencate, di guardare a due regioni, Singapore e Venezia, che sono state importanti centri di stampa e comunità commerciali e tipografiche fiorenti. Consapevole del fatto che su di esse è già stato scritto molto (opportunamente Mario Infelise compare nel film proiettato a Venezia), l’artista ha scelto di collocare entrambe le città-stato in ambiti geografici più ampi e, come è suo metodo, di individuare le voci al di fuori di ciò che è più conosciuto. Come lei stessa fa intendere tra le righe del terzo volume, questo segna l’inizio di un nuovo percorso di ricerca, e quindi i capitoli qui presenti sono, probabilmente, prime indicazioni di ciò che apparirà nelle future puntate di questo progetto, per questo non dobbiamo leggerli come definitivi, ma provare sin d’ora a immaginare i loro successivi sviluppi.
Chiude il volume una bibliografia (Bibliography: being an initial list for Pulp 2014-2021) che conta ben 713 titoli, offerti come necessario, seppur provvisorio, bilancio che si fa in una fase intermedia del progetto, come è questa. L’artista la presenta non solo, ma anche, come un’elencazione dell’orrore, della crudeltà e della malvagità, della perdita e della distruzione nel corso della storia umana, e quindi come un tentativo di analizzare le tragiche assurdità della nostra specie miope:
È invariabilmente incompleto, come la maggior parte degli elenchi di questo tipo, ma serve a dimostrare due idee. La prima è che si tratta di un esercizio di orrore gestito, derivante dall’impossibilità di tracciare una mappa completa delle atrocità umane. Un’impossibilità che forse è gestibile solo quando ci si concentra su un singolo argomento, come l’incendio delle biblioteche, per esempio. La distruzione dei libri può essere vista come un orrore simbolico, anche se non meno orribile solo perché simbolico. In secondo luogo, questo esercizio (come questo libro e i suoi predecessori, e i film del progetto) cerca di rendere gestibile l’inimmaginabile, pur mantenendo la natura non quantificabile e incommensurabile della perdita29.
In anni recenti, avevamo potuto apprezzare il potere del libro come oggetto declinato in un gesto artistico e performativo già nelle famose installazioni di Alicia Martìn, artista spagnola che con gesto eclatante ha creato piramidi di libri che escono dalle finestre dei palazzi e si rovesciano al suolo. Si pensi alla serie esposta a Madrid nel 2012, costituita da tre sculture, formate da oltre cinquemila libri ciascuna, a formare cascate che sgorgano da importanti edifici storici, come la Casa de América; o quella, simile, allestita a Mons, in Belgio, nel 2015. Il suo intento è quello di esprimere la forza della cultura contenuta in un oggetto che è solo apparentemente inanimato e che invece lei tratta come elemento vivo e plastico, trasformandolo in forme dinamiche e dirompenti che sfidano le leggi della fisica. Il suo gesto artistico è tutto teso a liberare la cultura racchiusa nei libri, che vengono lasciati appositamente aperti, per essere in grado di disseminare la conoscenza contenuta nelle loro pagine30.
Ma il riferimento più prossimo è sicuramente quello alla Library of exile di Edmund de Waal, altro capolavoro esposto a Venezia nel 2019, dove faceva la sua prima tappa alla Biennale, ospitata nelle stanze dell’Ateneo Veneto, per poi passare al Japanisches Palais di Dresda e infine al British Museum, dove è rimasta allestita dal 12 marzo 2020 al 12 gennaio 2021. Ora tutti i libri saranno donati alla biblioteca dell’Università di Mosul con la mediazione di Book Aid International, mentre la struttura dipinta in porcellana della biblioteca troverà ospitalità permanente presso il Warburg Institute di Londra. Si tratta di un’installazione concepita come luogo di dialogo e di contemplazione, dove i visitatori sono incoraggiati a sedersi e a leggere una collezione di oltre duemila libri di quasi millecinquecento scrittori di ottantotto paesi che hanno vissuto l’esilio in tutto il mondo. Quasi tutti i libri, scritti in decine di lingue, sono traduzioni che esplorano l’idea della lingua come migrazione. Le pareti della biblioteca sono dipinte con porcellana liquida su lastre d’oro e sono iscritte con i nomi delle biblioteche perdute del mondo, dall’antica Biblioteca di Alessandria alla Biblioteca universitaria di Mosul in Iraq. È una storia che parte da Ovidio e Tacito, passando per Dante, Voltaire e Victor Hugo, giungendo fino ad Ai Qing in Cina, Czeslaw Milosz in Polonia, Elvira Dones in Albania, Hannah Al-Shaykh in Libano, Samar Yazbek in Siria31. Tra gli altri scrittori c’è anche Elizabeth de Waal, la nonna di Edmund, di cui lui ci ha già magnificamente narrato in Un’eredità di avorio e ambra32. A ulteriore dimostrazione, come abbiamo visto nel lavoro di Shubigi Rao, che la storia delle biblioteche è anche una storia di famiglia.
Ultima consultazione siti web: 18 agosto 2022.
Le traduzioni in italiano dei brani tratti dagli scritti di Shubigi Rao sono a cura dell'autrice dell'articolo.