Recensioni

a cura di Desirée de Stefano e Federica Olivotto

Culture e funzione sociale della biblioteca: memoria, organizzazione, futuro: studi in onore di Giovanni Di Domenico, redazione a cura di Anna Bilotta. Roma: Associazione italiana biblioteche, 2022. (Bibliotecari: professione storia cultura). ISBN 9788878123533 (cartaceo); 9788878123564 (e-book: PDF).

Con questo ricchissimo volume pubblicato all’interno della collana Bibliotecari: professione storia cultura l’Associazione italiana biblioteche rende onore e festeggia la lunga carriera di Giovanni Di Domenico e gli sviluppi di una fertile attività di ricerca. Particolarmente significativo è stato il suo contributo – insieme a quello di Giovanni Solimine – allo sviluppo della biblioteconomia gestionale in Italia, paradigma che vede l’incontro e il confronto della biblioteconomia con le discipline organizzative e le scienze sociali. A tal proposito non si può fare a meno di ricordare l’importanza di progetti di ricerca da lui coordinati dedicati alla valutazione d'impatto delle biblioteche pubbliche (2011-2012) e accademiche (2012-2014) e pubblicazioni come Comunicazione e marketing della biblioteca (insieme a Michele Rosco, Editrice bibliografica, 1998), Percorsi della qualità in biblioteca (Vecchiarelli, 2002), Biblioteconomia e culture organizzative (Editrice bibliografica, 2009); le più recenti «Organismo vivente»: la biblioteca nell’opera di Ettore Fabietti (AIB, 2018) e Il paradigma della biblioteca sostenibile (Ledizioni, 2021). È inoltre degno di nota il ruolo da lui rivestito proprio per AIB studi.
Il volume raccoglie trentanove contributi divisi in quattro sezioni che rimandano ai molteplici ambiti di studio di Di Domenico. Uno dei grandi valori della miscellanea è rappresentata dall’articolata riflessione sulle dimensioni della ‘memoria’, dell’'organizzazione’ e del ‘futuro’, insieme alle loro reciproche relazioni.
La dimensione della memoria non si realizza solo con i contributi di stampo bibliografico e storico dedicati a fondi, collezioni e biblioteche private (come quelli di Marcello Andria, Eleonora Avallone, Valentina Sestini, Rosa Parlavecchia), alla stampa nel Mezzogiorno (quelli di Paola Zito e Maria Consiglia Napoli) e allo stesso Di Domenico bibliografo (presentato da Piero Innocenti), ma è connessa a quelli che affrontano il tema della valorizzazione del patrimonio nel presente e nel futuro da parte della biblioteca intesa come organizzazione. Si pensi ad esempio a come le tre dimensioni si sintetizzino nell’ampio tema del digitale. Oltre a nuovi progetti di digitalizzazione – si veda Liberābit, del Centro bibliotecario di ateneo dell’Università degli studi di Salerno (nell’intervento di Maria Rosaria Califano) – nel volume si approfondisce il tema del digitale e della digitalizzazione mettendone in evidenza la complessità. Ciò grazie al contributo di Maria Guercio dedicato alla governance e alla policy di biblioteche e archivi digitali per la ricerca, a quello di Maria Senatore Polisetti che affronta questioni etiche e relative alla missione delle biblioteche evidenziando i ‘lati oscuri’ della digitalizzazione, a quello di Andrea Capaccioni che riflette sulle digital humanities e il ruolo delle biblioteche nell’attuale fase di trasformazione digitale (considerando anche il contesto del PNRR), e quello di Gianfranco Crupi dedicato al tema del riuso delle risorse digitali e in particolare sulla risemantizzazione delle risorse in nuovi contesti culturali e comunicativi. 
Anche Paola Castellucci affronta il rapporto tra digital e humanities grazie a un originale esperimento narrativo: una sorta di viaggio nel tempo che ci fa coesistere con un Licklinder impegnato nella presentazione di un progetto di ricerca per finanziare un potenziamento di internet nel 2022.
La biblioteca come organizzazione richiede, inevitabilmente, una riflessione sul ruolo, sulla funzione sociale e sul riconoscimento della professione del bibliotecario, nel presente e per il futuro. Il tema è approfondito da Raffaele De Magistris e da Rosa Maiello, la quale affronta la questione dell’identità delle biblioteche e dei bibliotecari nelle università, il cui riconoscimento non sembra tener conto della centralità e complessità del loro ruolo. Il bibliotecario ha inoltre un ruolo cruciale nella comunicazione della biblioteca – la sua funzione sociale e il suo impatto – tema caro a Di Domenico e più volte ripreso in vari contributi.
Dato il ruolo di Di Domenico nell’evoluzione della biblioteconomia, nel volume si riflette sugli aspetti metodologici ripercorrendone gli sviluppi degli ultimi decenni attraverso i paradigmi gestionale e sociale – i quali non escludono il tradizionale approccio documentale – evidenziando anche la necessità di ulteriori prospettive ad essi connesse. A tal proposito Anna Galluzzi propone un bilancio di quanto avvenuto negli ultimi trent’anni concentrandosi sulla biblioteconomia gestionale e le esigenze di nuovi approcci alla valutazione delle biblioteche, tra cui la biblioteconomia sociale. Maurizio Vivarelli tratta invece della biblioteconomia interpretativa, definendola un ‘tessuto connettivo’ tra i vari approcci, utile per uno sguardo allargato sulla realtà.
Allargare lo sguardo significa anche confrontarsi con quanto accade fuori dal nostro Paese in una prospettiva comparata. In particolare Margarita Péerez Pulido approfondisce l’approccio gestionale in Spagna, mentre Mauro Guerrini la figura di Peter Lor e la international and comparative librarianship
Sara Dinotola presenta invece le soluzioni proposte da alcune biblioteche europee per valorizzare le collezioni antiche e moderne, anche grazie a tecnologie digitali immersive.
Il volume ospita inoltre riflessioni sul ruolo delle biblioteche in relazione a trattati e documenti programmatici internazionali. Fiammetta Sabba propone la visione di una biblioteca motore del cultural public engagement, in base ai principi della Convenzione di Faro che considera la conoscenza del valore del patrimonio culturale come un diritto dell’essere umano e sostiene processi partecipativi per la trasmissione del patrimonio. Riprendendo il tema della sostenibilità, centrale nella recente riflessione di Di Domenico, Bilotta indica ciò che la biblioteca può fare per gli obiettivi dell’Agenda ONU 2030 e come questa stia stimolando il mondo delle biblioteche ad ampliarebeness i propri confini disciplinari e di ricerca.
Lo sviluppo sostenibile si connette anche alla visione di una biblioteca protagonista del sistema del benessere proposta da Chiara Faggiolani, un ruolo che vede l’integrazione della sfera culturale nell’ambito del welfare, con particolare attenzione ai giovani, ovvero il pubblico che negli ultimi anni vi si è maggiormente allontanato. Il welfare culturale e la valorizzazione del patrimonio librario si realizzano anche attraverso strategie di fundrasing, tema già trattato da Di Domenico nella cornice gestionale e ripreso nel volume da Simona Inserra: la visione di biblioteche e dei loro patrimonio come beni comuni la porta a riflettere anche su progetti di crowdfunding culturale per avviare «processi di circolazione virtuosa della conoscenza» (p. 452).
Riprendendo le fila di quanto fin qui si è cercato di sintetizzare, le tre dimensioni trovano un punto d’incontro anche nella figura di Ettore Fabietti, recentemente approfondita da Di Domenico: nel volume se ne ripercorre la complessità – si pensi al contributo di Roberta Cesana dedicato al Fabietti ‘intellettuale editore’ – e la si pone al centro della riflessione sul rapporto tra biblioteca popolare e pubblica, proposta da Massimo Belotti. 
In chiusura del volume, infine, Solimine riprende il lavoro di Di Domenico per sostenere l’importanza del rapporto tra biblioteche, contesto urbano e comunità di riferimento – già fondamentale nella biblioteconomia di Fabietti – per la progettazione di biblioteche che siano «creatrici di comunità», vicine ai cittadini (non solo fisicamente ma anche a livello relazionale), «coerenti con le sfide della contemporaneità» (p. 517).

Fabio Mercanti
Sapienza Università di Roma, Biblab

Carlo Battisti [et al.], Biblioteca, introduzione di Francesco Guglieri. Roma: Treccani, 2022. 189 p. (Voci; 27) ISBN 9788812009381.

La collana Voci di Treccani nasce dalla volontà dell’istituto di offrire il proprio patrimonio culturale in formati più agili e di facile consultazione, che possano stimolare il dibattito culturale contemporaneo. Tra questi volumi, quello intitolato Biblioteca riprende la voce omonima pubblicata nell’Enciclopedia italiana del 1930 e curata da importanti studiosi che hanno considerato strategico il ruolo della biblioteca: Carlo Battisti (1882-1977), bibliotecario ma anche glottologo e linguista; Daniele Donghi (1861-1938), ingegnere, funzionario pubblico e intellettuale; Salomone Morpurgo (1860-1942), filologo, insegnante e bibliotecario, che diresse per molti anni la Biblioteca nazionale centrale di Firenze, oltre ad aver fondato e diretto importanti riviste letterarie; Giorgio Pasquali (1885-1952), tra i più importanti filologi del Novecento; Olga Pinto (1903-1970), la quale occupò per oltre trent’anni ruoli di grande rilevanza nelle biblioteche statali italiane, in particolare presso la Biblioteca nazionale centrale di Roma; Francesco Alberto Salvagnini (1867-1947), nominato nel 1926 primo Direttore generale delle accademie e biblioteche.
In un’epoca in cui la realtà bibliotecaria sembra essere messa a repentaglio dalla rivoluzione digitale, riprendere e approfondire la prospettiva storica, attraverso le parole di alcuni dei suoi più competenti rappresentanti, si tramuta in una necessità. Il passato si raccorda al presente e il lettore può portare avanti una riflessione personale sui continui mutamenti ancora in atto in biblioteca.
L’Introduzione di Francesco Guglieri si apre con una frase emblematica: «Il futuro l’ho incontrato in biblioteca» (p. 9); qui l’autore ripercorre i suoi primi passi alla scoperta di internet, una rivoluzione che ha permesso di «visitare una biblioteca da dietro lo schermo del pc» (p. 11). Internet, fin dall’inizio, ha dato accesso a informazioni che qualcuno, da qualche parte, ha organizzato e reso disponibili: in pratica, una biblioteca a portata di clic. Il concetto di biblioteca come raccolta di informazione organizzata e ricercabile è oggi sotteso quasi a ogni gesto quotidiano. Ciò che è cambiato rispetto alle prime ricerche in rete è la loro frequenza: abbiamo a disposizione continuamente una biblioteca senza confini predefiniti. L’autore si interroga inoltre su quale possa essere il ruolo delle biblioteche nell’età dell’information overload, ovvero su come reagiscono le biblioteche all’esplosione dei contenuti grazie al digitale. Quale equilibrio è possibile tra presenza fisica e virtuale delle risorse? Sono questi gli interrogativi ai quali sono chiamati a rispondere oggi i professionisti in ambito biblioteconomico; essi rappresentano l’evoluzione dei quesiti ai quali hanno dato una risposta concreta gli importanti studiosi i cui brani sono riportati nel volume.
In apertura viene offerta una definizione sintetica del termine ‘biblioteca’: raccolta libraria, ordinata e custodita, con opportuni cataloghi, a determinati scopi di cultura. Il primo capitolo, il più lungo e denso di nozioni e dati, è dedicato alla storia delle biblioteche, luoghi nei quali è sempre stato conservato gelosamente il patrimonio culturale. Il lettore viene preso per mano e condotto in un viaggio nel tempo e nello spazio, dalle biblioteche dell’antico Oriente, come quella del re assiro Assurbanipal (668-626 a.C.) scoperta a Ninive verso la metà del secolo scorso, alle biblioteche greche pre-ellenistiche; dalla famosa biblioteca di Alessandria a quella, seppur minore, di Pergamo; da quelle di Roma e del mondo romano alle prime biblioteche cristiane; dalle medievali, legate soprattutto agli ordini monastici, alle rinascimentali fino a quelle dell’età moderna, nelle quali il libro assume un valore diverso e in cui i codici classici si moltiplicano grazie all’affermazione della stampa a caratteri mobili. In tutta l’Europa occidentale, nel periodo che va dal Concilio di Trento all’Illuminismo, si diffondono lentamente i germi dei nuovi sistemi di classificazione dei libri, rinvenibili, per esempio, nei cataloghi della Laurenziana di Angelo Maria Bandini e della Casanatense di Giovanni Battista Audiffredi. Il volume guarda anche alle spettacolari biblioteche di Parigi e Londra e si sofferma sulla figura di Antonio Panizzi, fondamentale per il British Museum e per la storia della biblioteconomia. Il testo si muove tra coordinate spazio-temporali amplissime e riesce così a dare conto di come popoli diversi abbiano preservato e tramandato lo scibile umano nel corso dei secoli. 
Il secondo capitolo si occupa dell’ordinamento delle biblioteche. Durante il XIX secolo le principali biblioteche pubbliche raggiungono consistenze mai viste, ne nascono di nuove e vengono riviste sedi e distribuzioni dei servizi. Il testo ricostruisce sinteticamente anche i diversi criteri di ordinamento delle raccolte attraverso le tre tipologie tradizionali di cataloghi: il topografico, l’alfabetico e il sistematico. Si accenna, infine, alla figura del bibliotecario, al quale occorre «non solo buona memoria versatile, non meccanica, non di soli frontispizi; ma larga cultura, conoscenza delle principali lingue, spirito alacremente osservatore; e molto gli giova anche l’esperienza diretta in qualsiasi campo particolare d’indagini, soprattutto storiche» (p. 145-146); egli deve essere insieme «ragionevole conservatore e cauto rinnovatore» (p. 147). 
Il terzo capitolo affronta il tema delle biblioteche nell’amministrazione italiana, riportando alla memoria le prime leggi sulle biblioteche governative, regi decreti e procedimenti legislativi di carattere più generale dei quali le biblioteche pubbliche governative si sono molto avvantaggiate. 
Il quarto e ultimo capitolo si occupa dell’architettura delle biblioteche, della distribuzione interna degli spazi, di illuminazione e dell'estetica degli edifici. 
La bibliografia, posta alla fine di ogni partizione, propone possibili linee di approfondimento ai concetti e temi trattati.
La biblioteca condensa in sé molteplici anime: quella bibliografica, poiché la bibliografia è il terreno precipuo su cui poggiano l’organizzazione della biblioteca, delle sue collezioni e il suo rapporto con gli utenti, e quella istituzionale e storico-sociale, ossia di struttura che opera nella società, capace di svolgere funzioni pubbliche. Il piccolo volume affronta aspetti diversificati della biblioteca, ne ricostruisce la storia, l’ordinamento e l’architettura, delineando un quadro composito dei meravigliosi ‘templi’ che hanno offerto e offrono accesso al sapere umano. Essa rappresenta da sempre un luogo di conservazione del patrimonio librario e un luogo d’incontro con persone e idee del passato e contemporanee; apre le porte della conoscenza, suscitando al contempo curiosità e senso di pace. In un’era di progressiva digitalizzazione è cambiato il nostro rapporto con il libro e con tutte le altre tipologie di risorsa; soprattutto, siamo passati dall’idea di possesso a quella di accesso, in un flusso ininterrotto di informazioni nel quale siamo perennemente immersi. Come riportato nell’abstract del volume, «assediati quotidianamente da un’informazione assordante, invadente, affrettata, solo in un luogo possiamo davvero isolarci e godere del sapere universale in tranquillità e silenzio: in biblioteca».

Denise Biagiotti
Università degli studi di Firenze

La Commissione nazionale Indici e cataloghi delle biblioteche italiane (2009-2020), [a cura di Angela Adriana Cavarra]. Roma: Istituto poligrafico e zecca dello Stato, 2022. 117 p.: ill. (Indici e cataloghi / Ministero della cultura; quaderno fuori serie). ISBN 9788824012447.

Questo quaderno della collana Indici e cataloghi curata dal Ministero della cultura, voluto con energia e determinazione dalla presidente della Commissione nazionale “Indici e cataloghi delle biblioteche italiane” Angela Adriana Cavarra, non solo delinea l’attività da essa svolta in dodici anni di attività, ma annuncia i suoi possibili lavori futuri. Non si limita infatti a descrivere le vicende che hanno dato vita, a partire dal 2009, alle ventidue pubblicazioni inerenti ai cataloghi di manoscritti e stampati di fondi speciali o relativi a scelte tematiche degli stessi, ma suggerisce anche nuove possibilità di norme e regole di catalogazione tanto per i manoscritti in scrittura latina quanto per quelli in greca. 
Innanzitutto la curatrice del volume accenna nel suo saggio a una storia della Commissione che, dopo l’avvio nel 1885, si era fermata quindici anni dopo per poi ridestarsi con una nuova serie nel 1934, quando l’allora ministro dell’Educazione nazionale Francesco Ercole, chiamò intorno a sé personaggi di prim’ordine che posero le basi della rinverdita Commissione e stabilirono gli aspetti amministrativi e gestionali, nonché fissarono le nuove norme metodologiche per la catalogazione. Da esse presero forma, come è noto, le Regole per la descrizione dei manoscritti e per la compilazione dell’indice generale degli incunaboli pubblicate nel 1941, dalle quali discendono, dopo la necessaria Guida esplicativa, le Norme per la descrizione uniforme dei manoscritti in alfabeto latino, edite nel 2000. Ma Cavarra non si ferma qui: infatti pubblica in calce al volume le nuove Norme redazionali della collana “Indici e cataloghi”, una serie di prescrizioni redazionali volute dalla Commissione da lei presieduta, e precisa inoltre che gli esigui fondi messi a disposizione sono stati destinati, e lo saranno anche in futuro, soprattutto alla catalogazione cartacea, senza cedere quindi alle lusinghe di una catalogazione in rete, più economica e semplificata e per certi versi attraente, ma che si può considerare un’istantanea del processo di studio (senza voler togliere nulla al database Manus Online avviato nel 2009). Il cartaceo dunque, secondo l’autrice, è uno: «strumento insostituibile e irrinunciabile nella ricerca scientifica» e garantisce «nel tempo la memoria dei percorsi intellettuali e metodologici seguiti da studiosi e compilatori» (p. 10); tutto ciò con la consapevolezza che il riversamento di fonti non controllate e disorganizzate può recare più danni che vantaggi alle ricerche storiografiche.
Non stiamo qui a elencare i cataloghi che hanno visto la luce in questi anni, basti ricordare i quattro tematici, contenenti codici con testi di autori classici latini di quattro biblioteche storiche (la Casanatense, la Vallicelliana e la Nazionale di Roma, e la Palatina di Parma), che grazie a nuove chiavi di accesso ai fondi manoscritti inducono a nuove e inedite riflessioni. Ad essi si possono aggiungere i cataloghi dei manoscritti latini del fondo della Biblioteca Estense, conservato nell’Universitaria di Modena, e quello straordinario di manoscritti miniati della Nazionale di Napoli. Non si vogliono dimenticare i percorsi di censimento e catalogazione delle biblioteche Piana di Cesena, Riccardiana di Firenze, Casanatense e Vallicelliana di Roma; e neanche i lavori inerenti a quel catalogo che contiene i sorprendenti incunaboli della Panizzi di Reggio Emilia; o tralasciare i fondi speciali, come quello preziosissimo dei codici ashburnhamiani della Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze, cui sono stati dedicati finora due volumi (un altro è in programma), e quello dei Fondi minori dislocati nella Nazionale e nell’Angelica di Roma. Almeno una menzione spetta anche al Fondo cinese della Casanatense, con il quale prosegue lo studio di alfabeti non latini, già avviato con i manoscritti armeni delle biblioteche italiane. E a proposito di alfabeti diversi dalla latina vanno anche ricordati i due volumi di Indici e cataloghi riservati ai manoscritti greci della Nazionale di Roma e di Napoli, che sommano peraltro una serie di proposte affatto inedite e avanzano nuove indagini metodologiche.
A questo punto, proprio ripensando agli alfabeti non latini, ci si vuole riallacciare all’anno 1934. Forse per ragioni ideologiche, durante il periodo fascista, non si presero in esame codici stesi in lingue diverse dalla latina. Perché se è vero che all’inizio del secolo scorso Emidio Martini redasse pionieristicamente il Catalogo di manoscritti greci esistenti nelle biblioteche italiane, che successivamente si fece rientrare con una anastatica nella collana di Indici e cataloghi (Martini stese due volumi, il primo con i codici rinvenuti in varie biblioteche italiane e il secondo con quelli conservati esclusivamente nella Vallicelliana, che certamente custodisce un fondo tra i più estesi in Italia e attualmente è in una nuova fase di studio), è anche vero che l’impresa della catalogazione e del censimento dei manoscritti greci fu abbandonata e non presa in considerazione negli anni Trenta, per essere riavviata solo negli anni Sessanta del secolo scorso. Solo in quel decennio si ebbe una importante apertura ai cataloghi di manoscritti in altri alfabeti e un’attenzione particolare per quello greco. Prova ne è l’avvio della catalogazione dei codici marciani greci. Infatti, come suggerisce il secondo contributo del volume, scritto da Giuseppe De Gregorio, La Commissione nazionale “Indici e cataloghi delle biblioteche italiane” e la catalogazione dei manoscritti greci in Italia, che ripercorre «le fasi salienti della catalogazione dei codici greci in Italia, gettando uno sguardo [...] alle iniziative avviate dall’epoca postunitaria fino al secondo dopoguerra così come esse si intrecciano con i lavori della Commissione» (p. 27), oggi si avverte l’esigenza di definire nuovi modelli normativi di descrizione per tali documenti; perché sono ormai percepite dagli studiosi «l’inadeguatezza per il manoscritto greco dello schema di “Indici e cataloghi” (p. 34) e la necessità di ridefinire per esso lo schema codicologico. Alla luce della filologia classica e bizantina «con l’attenzione verso l’euristica dei manoscritti e l’identificazione dei testi» (p. 33), sul modello dei cataloghi greci in lingua tedesca, si intendono accendere nuovi percorsi di riflessione. E non solo. Con un’attenzione alla descrizione esterna del manoscritto, con la ricerca delle filigrane dei codici su carta italiana, «nonché [con] le raccolte di marche allestite in collegamento con studi sui copisti greci, specie del XV e XVI secolo» (p. 36), si possono fare sorprendenti e inaspettate scoperte.
A proposito dei copisti, il terzo contributo del volume, di Marco Palma e intitolato La definizione della scrittura nei cataloghi di manoscritti latini, censisce una quantità di appellativi-aggettivi legati alla scrittura desunta dai volumi di Indici e cataloghi pubblicati tra il 2014 e il 2021. Esso raccoglie alfabeticamente ben 74 definizioni di scrittura – elenco peraltro non esaustivo – che vanno dalla ‘bastarda’ all'‘umanistica rotunda’, passando via via per la ‘carolina libraria’, la ‘corsiva italica’, la ‘gotica corsiva’, la littera textualis con allungamenti cancellereschi, la ‘minuscola beneventana’ e la ‘semigotica corsiva’. Una ricchezza di attributi che destano sicuramente curiosità – e qualche volta tra i non paleografi anche ilarità – ma che giustamente, sottolinea l’autore, vanificano ogni possibilità di schedatura uniforme. Al punto che si è deciso in alcuni casi di non segnalare più la definizione di scrittura dei codici presi in esame perché è impossibile farla rientrare in una griglia terminologica condivisa, ovvero in una nomenclatura paleografica univoca. Perché se da una parte si potrebbe evidenziare il principale modello grafico di riferimento dello scriba, dall’altra le contaminazioni e le ibridazioni delle scritture sono così numerose da incorrere nel rischio di non essere compresi.
Il testo è nella parte conclusiva arricchito dalle schede degli altri volumi della collana, redatte da bibliotecari e studiosi che nella maggior parte dei casi hanno partecipato alla loro stesura e corredate preziose riproduzioni di carte miniate o comunque rappresentative dei codici della raccolta. 
In conclusione, quella che doveva essere una brochure, definita anche più generosamente plaquette nel contributo di De Gregorio, si è rivelata invece una densa storia dei lavori svolti negli anni presi in considerazione. Storia che dovrà far parte in futuro di quella più ampia della Commissione nazionale che prima o poi dovrà essere scritta per una maggiore conoscenza delle vicende bibliografiche, ovvero del censimento e della schedatura dell’estesissimo patrimonio librario delle biblioteche italiane.

Giuseppe Finocchiaro
già Biblioteca Vallicelliana

Dimensioni archivistiche: una piramide rovesciata, a cura di Lorenzo Pezzica e Federico Valacchi. Milano: Editrice bibliografica, 2021. 203 p. (Inarchivio; 5). ISBN 9788893573153 (cartaceo); 9788893573900 (e-book: EPUB).

La piramide, che fin dai tempi antichi evoca solidità ed elevazione, ben si presta a rappresentare metaforicamente l’archivistica, disciplina che si fonda su una base di teorie e competenze sedimentate e rielaborate nella continua tensione verso nobili fini, quali la salvaguardia di memorie e la certezza del diritto. Va da sé che le attività connesse alla gestione documentaria richiedono il sostegno di politiche attente e consapevoli, affinché al vertice della piramide vi siano archivi in grado di aprirsi alla collettività, che documentino senza censure, distorsioni e colpevoli oblii e partecipino alla costruzione di una società autenticamente democratica. Urge ripensare alla centralità degli archivi, al loro carattere polifunzionale, e ‘rovesciare la piramide’ – come chiariscono i curatori Lorenzo Pezzica e Federico Valacchi – ovvero ammettere che «possono esistere altri punti di vista, altre inquadrature per fotografare gli archivi, risultato del marcato processo evolutivo della società di cui essi sono espressione» (p. 7). 
È il saggio di apertura (Rovesciare la piramide, a firma di Pezzica) a delineare l’itinerario di questo volume collettaneo dalla dichiarata vocazione sinfonica. Occorre innanzitutto sgombrare il campo dai luoghi comuni, con l’accortezza di non originarne di nuovi: dalla concezione stereotipata di archivio arcano e polveroso a quella – altrettanto fuorviante – di ‘bene assoluto’ e slegato dai bisogni reali della collettività il passo è breve, soprattutto se si cede a malintese idee di promozione culturale e di rivoluzione digitale. 
La prima tappa della miscellanea ci riporta dunque ai capisaldi della disciplina, a quei nomina nuda sui quali si sofferma Concetta Damiani (Nomina nuda tenemus: riformulare il senso archivistico). ‘Comunicazione’, ‘condivisione’, ‘interscambio’ sono fra i lemmi oggi più usati e abusati, ma declinarli in ambito archivistico richiede cautela. Ci si chiede perché comunicare gli archivi e anche cosa comunicare degli archivi, e da qui prende le mosse Annalisa Rossi, collegando metaforicamente le sfide della transizione digitale al tormento provato da Ulisse a Ogigia: come l’eroe omerico vinse la tentazione di fermarsi e riprese la via del mare, così anche la comunità archivistica ha saputo accogliere l’innovazione tecnologica (La palla di vetro: immaginare la tutela e la comunicazione archivistica diffusa). Non occorre una sfera di cristallo per intuire le future direzioni della disciplina, quanto invece, osserva Rossi, un maturo e consapevole «dominio dei mezzi di comunicazione e delle ragioni per le quali utilizzarli» (p. 54).
Mostrarsi, ‘diventare visibili’, sono fra i problemi più attuali che affannano gli archivi, così intrisi di vita eppure così spesso percepiti come aridi e distanti. Il saggio di Gabriele Locatelli (Diventare visibili: quattro tempi per una maieutica archivistica) si concentra sulle diverse sfumature della mediazione archivistica e sul suo ruolo nel garantire la salvaguardia, l’accessibilità e la promozione dei patrimoni documentari. Nello scenario dominato dalle nuove tecnologie, gli inventari e le attività legate alla loro realizzazione non solo si confermano ‘la più alta espressione del lavoro archivistico’, secondo l’ormai classica definizione, ma moltiplicano il proprio impatto grazie alle relazioni che il web rende possibili. Ed ecco allora che la professione archivistica, oggetto del saggio di Sara Vian (Il lavoro dell’anima: vie di catarsi nella professione archivistica italiana), è coinvolta al pari dei fondamenti teorici nel rovesciamento della piramide, per poter rispondere alle sfide e alle opportunità che si schiudono all’orizzonte. Un orizzonte che ha da tempo superato i consueti ambiti storico-culturali e accademici per aprirsi più convintamente al contesto economico-produttivo: ne è prova la crescente attenzione per lo storytelling aziendale, il brand heritage e le politiche di marketing documentario. Soffermandosi su questi temi Daniela Brignone evidenzia il mutamento dell’approccio agli archivi d’impresa (Dal documento all’uso integrato: politiche di marketing documentario): paradossalmente, in una società sbilanciata sul presente e sul mito del tempo attuale, sono proprio le aziende e i prodotti con una storia alle spalle a rivelarsi più attraenti sul mercato. Occorre perciò «superare i tradizionali steccati disciplinari e anche culturali» (p. 101), senza tuttavia ignorare alcune criticità legate all’uso promozionale degli archivi: da un lato esso rischia di produrre narrazioni eccessivamente retoriche, dall’altro si concentra sulla documentazione storica tendendo a trascurare altri segmenti, in particolare l’archivio di deposito, dove giace materiale non più utile a fini pratici ma non (ancora) impreziosito dalla 'patina del tempo'. Inoltre, trattandosi di fondi privati, persiste il problema della loro salvaguardia quando siano trascurati da proprietari e titolari. Nondimeno, va accolta con favore l’apertura di nuovi spazi per gli archivisti, una categoria di professionisti dal profilo sempre più multidisciplinare. 
Questa attitudine, da sempre latente, si è imposta dagli ultimi decenni del Novecento, da quando l’informatica è diventata forza innovativa in ambito archivistico, come espresso anche dal titolo del saggio di Ilaria Barbanti (Il motore di un’evoluzione possibile: l’informatica spinge gli archivi). La riflessione si sposta così sul portato degli standard archivistici e informatici, dei quali l’autrice richiama la genesi e le caratteristiche, e sul loro miglior impiego nei contesti della digitalizzazione, dell’open source e della gestione di archivi ibridi. Vengono inoltre analizzati i principali software di descrizione e le loro potenzialità per l’implementazione di sistemi informativi e portali web: il panorama che si apre allo sguardo è stimolante e necessita di adeguate competenze per essere compreso in tutto il suo potenziale, ma presenta d’altra parte anche lati oscuri che vanno considerati con lucidità. È il saggio di Gioria Di Marcantonio (Le ‘semplificazioni tecnologiche’: il rischio di processi immaturi) a delineare le criticità, con particolare riferimento alla dematerializzazione. Invocata da più parti come soluzione a ogni male della burocrazia italiana, essa rischia invece – se realizzata senza cura degli aspetti archivistici – di causare problemi che si traducono nell’esatto opposto dell’inclusione e della cittadinanza attiva verso le quali idealmente si tende. 
Ci troviamo in un’epoca di transizione in una realtà mutevole proprio come l’acqua, che richiede di aggiornare strategie e strumenti di lavoro: Paola Ciandrini descrive la cassetta degli attrezzi dei professionisti di domani, archivisti ‘liquidi’, chiamati ad armonizzare tradizione e innovazione, a trattare tanto i fondi storici quanto quelli in nuce (Questa è l’acqua: strumenti di lavoro per archivisti liquidi: testa in archivio, mani sulla tastiera). Proprio come l’acqua, anche gli archivi dovrebbero essere trasparenti ma la realtà, almeno in Italia, è ben diversa, come denuncia il saggio di Alessandro Alfier (L’archivistica e l’attualità del presente: riflessioni sugli archivi negati dalla via italiana alla trasparenza). L’affermarsi, a partire dall’ultimo decennio del Novecento, del principio di accesso agli atti della pubblica amministrazione prometteva di condurre a una nuova stagione, ma così non è stato poiché in Italia ha continuato a prevalere la visione degli archivi come beni culturali legati alla ricerca storica. Con il concorso di altri fattori che l’autore enumera, «una reale separatezza della funzione archivistica dalla funzione amministrativa sembra in fondo essere ancora oggi la cifra che marca negativamente i rapporti tra gestione documentale in senso proprio e vita degli apparati pubblici» (p. 164). 
Federico Valacchi firma il saggio conclusivo (La memoria dell’acqua), dove le molteplici questioni affrontate convergono nell’urgenza di affermare che nel mondo contemporaneo, dove le macchine sono ormai protagoniste della creazione e sedimentazione documentaria, c’è più che mai «bisogno di archivisti. Non di demiurghi invasati ma di professionisti competenti, di attenti artigiani dei dati e delle loro molteplici fenomenologie e relazioni» (p. 182). Un’archivistica attiva, suggerisce Valacchi, potrebbe iniziare proprio da qui. Archivistica attiva è anche il nome scelto per il gruppo Facebook nato nel 2017: fra gli oltre 3.600 iscritti (a febbraio 2022) si contano non solo professionisti provenienti da diverse galassie del ‘docuverso’ ma anche un buon numero di utenti non specialisti che si affacciano con curiosità ai temi sollevati, comprendendone l’attualità e l’importanza. 
Riflettere sull’autentica mission degli archivi, interpretarne la valenza politica, comprenderne il ruolo non solo nel tramandare memorie ma anche nella costruzione di una società inclusiva e democratica sono alcune delle numerose istanze condensate nelle pagine di questo volume e dibattute quotidianamente anche attraverso i social. «Non sono obiettivi impossibili da perseguire, ma bisogna agire, per scrivere nell’acqua un futuro che si ricordi di noi» (p. 186).
La piramide, che fin dai tempi antichi evoca solidità ed elevazione, ben si presta a rappresentare metaforicamente l’archivistica, disciplina che si fonda su una base di teorie e competenze sedimentate e rielaborate nella continua tensione verso nobili fini, quali la salvaguardia di memorie e la certezza del diritto. Va da sé che le attività connesse alla gestione documentaria richiedono il sostegno di politiche attente e consapevoli, affinché al vertice della piramide vi siano archivi in grado di aprirsi alla collettività, che documentino senza censure, distorsioni e colpevoli oblii e partecipino alla costruzione di una società autenticamente democratica. Urge ripensare alla centralità degli archivi, al loro carattere polifunzionale, e ‘rovesciare la piramide’ – come chiariscono i curatori Lorenzo Pezzica e Federico Valacchi – ovvero ammettere che «possono esistere altri punti di vista, altre inquadrature per fotografare gli archivi, risultato del marcato processo evolutivo della società di cui essi sono espressione» (p. 7). 
È il saggio di apertura (Rovesciare la piramide, a firma di Pezzica) a delineare l’itinerario di questo volume collettaneo dalla dichiarata vocazione sinfonica. Occorre innanzitutto sgombrare il campo dai luoghi comuni, con l’accortezza di non originarne di nuovi: dalla concezione stereotipata di archivio arcano e polveroso a quella – altrettanto fuorviante – di ‘bene assoluto’ e slegato dai bisogni reali della collettività il passo è breve, soprattutto se si cede a malintese idee di promozione culturale e di rivoluzione digitale. 
La prima tappa della miscellanea ci riporta dunque ai capisaldi della disciplina, a quei nomina nuda sui quali si sofferma Concetta Damiani (Nomina nuda tenemus: riformulare il senso archivistico). ‘Comunicazione’, ‘condivisione’, ‘interscambio’ sono fra i lemmi oggi più usati e abusati, ma declinarli in ambito archivistico richiede cautela. Ci si chiede perché comunicare gli archivi e anche cosa comunicare degli archivi, e da qui prende le mosse Annalisa Rossi, collegando metaforicamente le sfide della transizione digitale al tormento provato da Ulisse a Ogigia: come l’eroe omerico vinse la tentazione di fermarsi e riprese la via del mare, così anche la comunità archivistica ha saputo accogliere l’innovazione tecnologica (La palla di vetro: immaginare la tutela e la comunicazione archivistica diffusa). Non occorre una sfera di cristallo per intuire le future direzioni della disciplina, quanto invece, osserva Rossi, un maturo e consapevole «dominio dei mezzi di comunicazione e delle ragioni per le quali utilizzarli» (p. 54).
Mostrarsi, ‘diventare visibili’, sono fra i problemi più attuali che affannano gli archivi, così intrisi di vita eppure così spesso percepiti come aridi e distanti. Il saggio di Gabriele Locatelli (Diventare visibili: quattro tempi per una maieutica archivistica) si concentra sulle diverse sfumature della mediazione archivistica e sul suo ruolo nel garantire la salvaguardia, l’accessibilità e la promozione dei patrimoni documentari. Nello scenario dominato dalle nuove tecnologie, gli inventari e le attività legate alla loro realizzazione non solo si confermano ‘la più alta espressione del lavoro archivistico’, secondo l’ormai classica definizione, ma moltiplicano il proprio impatto grazie alle relazioni che il web rende possibili. Ed ecco allora che la professione archivistica, oggetto del saggio di Sara Vian (Il lavoro dell’anima: vie di catarsi nella professione archivistica italiana), è coinvolta al pari dei fondamenti teorici nel rovesciamento della piramide, per poter rispondere alle sfide e alle opportunità che si schiudono all’orizzonte. Un orizzonte che ha da tempo superato i consueti ambiti storico-culturali e accademici per aprirsi più convintamente al contesto economico-produttivo: ne è prova la crescente attenzione per lo storytelling aziendale, il brand heritage e le politiche di marketing documentario. Soffermandosi su questi temi Daniela Brignone evidenzia il mutamento dell’approccio agli archivi d’impresa (Dal documento all’uso integrato: politiche di marketing documentario): paradossalmente, in una società sbilanciata sul presente e sul mito del tempo attuale, sono proprio le aziende e i prodotti con una storia alle spalle a rivelarsi più attraenti sul mercato. Occorre perciò «superare i tradizionali steccati disciplinari e anche culturali» (p. 101), senza tuttavia ignorare alcune criticità legate all’uso promozionale degli archivi: da un lato esso rischia di produrre narrazioni eccessivamente retoriche, dall’altro si concentra sulla documentazione storica tendendo a trascurare altri segmenti, in particolare l’archivio di deposito, dove giace materiale non più utile a fini pratici ma non (ancora) impreziosito dalla 'patina del tempo'. Inoltre, trattandosi di fondi privati, persiste il problema della loro salvaguardia quando siano trascurati da proprietari e titolari. Nondimeno, va accolta con favore l’apertura di nuovi spazi per gli archivisti, una categoria di professionisti dal profilo sempre più multidisciplinare. 
Questa attitudine, da sempre latente, si è imposta dagli ultimi decenni del Novecento, da quando l’informatica è diventata forza innovativa in ambito archivistico, come espresso anche dal titolo del saggio di Ilaria Barbanti (Il motore di un’evoluzione possibile: l’informatica spinge gli archivi). La riflessione si sposta così sul portato degli standard archivistici e informatici, dei quali l’autrice richiama la genesi e le caratteristiche, e sul loro miglior impiego nei contesti della digitalizzazione, dell’open source e della gestione di archivi ibridi. Vengono inoltre analizzati i principali software di descrizione e le loro potenzialità per l’implementazione di sistemi informativi e portali web: il panorama che si apre allo sguardo è stimolante e necessita di adeguate competenze per essere compreso in tutto il suo potenziale, ma presenta d’altra parte anche lati oscuri che vanno considerati con lucidità. È il saggio di Gioria Di Marcantonio (Le ‘semplificazioni tecnologiche’: il rischio di processi immaturi) a delineare le criticità, con particolare riferimento alla dematerializzazione. Invocata da più parti come soluzione a ogni male della burocrazia italiana, essa rischia invece – se realizzata senza cura degli aspetti archivistici – di causare problemi che si traducono nell’esatto opposto dell’inclusione e della cittadinanza attiva verso le quali idealmente si tende. 
Ci troviamo in un’epoca di transizione in una realtà mutevole proprio come l’acqua, che richiede di aggiornare strategie e strumenti di lavoro: Paola Ciandrini descrive la cassetta degli attrezzi dei professionisti di domani, archivisti ‘liquidi’, chiamati ad armonizzare tradizione e innovazione, a trattare tanto i fondi storici quanto quelli in nuce (Questa è l’acqua: strumenti di lavoro per archivisti liquidi: testa in archivio, mani sulla tastiera). Proprio come l’acqua, anche gli archivi dovrebbero essere trasparenti ma la realtà, almeno in Italia, è ben diversa, come denuncia il saggio di Alessandro Alfier (L’archivistica e l’attualità del presente: riflessioni sugli archivi negati dalla via italiana alla trasparenza). L’affermarsi, a partire dall’ultimo decennio del Novecento, del principio di accesso agli atti della pubblica amministrazione prometteva di condurre a una nuova stagione, ma così non è stato poiché in Italia ha continuato a prevalere la visione degli archivi come beni culturali legati alla ricerca storica. Con il concorso di altri fattori che l’autore enumera, «una reale separatezza della funzione archivistica dalla funzione amministrativa sembra in fondo essere ancora oggi la cifra che marca negativamente i rapporti tra gestione documentale in senso proprio e vita degli apparati pubblici» (p. 164). 
Federico Valacchi firma il saggio conclusivo (La memoria dell’acqua), dove le molteplici questioni affrontate convergono nell’urgenza di affermare che nel mondo contemporaneo, dove le macchine sono ormai protagoniste della creazione e sedimentazione documentaria, c’è più che mai «bisogno di archivisti. Non di demiurghi invasati ma di professionisti competenti, di attenti artigiani dei dati e delle loro molteplici fenomenologie e relazioni» (p. 182). Un’archivistica attiva, suggerisce Valacchi, potrebbe iniziare proprio da qui, e Archivistica attiva è anche il nome scelto per il gruppo Facebook nato nel 2017. Fra gli oltre 3.600 iscritti (a febbraio 2022) si contano non solo professionisti provenienti da diverse galassie del ‘docuverso’ ma anche un buon numero di utenti non specialisti che si affacciano con curiosità ai temi sollevati, comprendendone l’attualità e l’importanza. 
Riflettere sull’autentica mission degli archivi, interpretarne la valenza politica, comprenderne il ruolo non solo nel tramandare memorie ma anche nella costruzione di una società inclusiva e democratica sono alcune delle numerose istanze condensate nelle pagine di questo volume e dibattute quotidianamente anche attraverso i social. «Non sono obiettivi impossibili da perseguire, ma bisogna agire, per scrivere nell’acqua un futuro che si ricordi di noi» (p. 186).

Chiara Reatti
Alma mater studiorum Università di Bologna, Centro di ricerca in bibliografia (CERB)

Roberto Raieli, Web-scale discovery services: principles, applications, discovery tools and development hypotheses translated by Elena Corradini. Cambridge (MA): Chandos, 2022. xii, 215 p.: ill. (Chandos information professional series). ISBN 9780323902984 (cartaceo); 9780323902991 (e-book: EPUB, PDF).

Si è ormai affermata una lingua fatta di sigle più che di parole. Frutto dell’anglodominio linguistico certamente, ma anche espressione tipica dell’informatica e, di conseguenza, nostra seconda lingua. Parlar per sigle velocizza la comunicazione e rafforza un patto tra iniziati ma proprio per questo richiede consapevolezza e memoria, altrimenti si rischia di ripetere formule standardizzate, dimenticando le parole dietro le lettere e i valori dietro le parole. La sigla offre una promessa di affidabilità tecnologica ma rischia di mettere in ombra tradizioni. Nel caso specifico, quella presa in esame da Raieli è WSDS, ovvero web-scale discovery service, e si riferisce a nuove tipologie di servizio bibliotecario finalizzate alla scoperta (di informazione, di documenti, di risorse, di libri) nel contesto scalare del web. Indica un nuovo compito assunto dal bibliotecario: accompagnare l’utente anche fuori dello spazio protetto e coerente di una biblioteca. È importante quindi che il bibliotecario ne apprenda il significato e riconosca l’esplorazione del web come suo contesto di lavoro. Ma è altrettanto importante che rimanga fedele ai principi che sempre hanno contraddistinto l’etica del servizio bibliotecario, in modo tale che nuove sigle e antichi valori si possano integrare. 
Con i discovery tool – creati da bibliotecari, e dunque con piena consapevolezza – vengono offerti possibili percorsi di ricerca non solo all’interno del posseduto della specifica biblioteca (OPAC) e non solo in riferimento ad altre biblioteche (metaOPAC) ma, avventurandosi nello spazio sconfinato del web. Un esempio è quello offerto da Alphabetica (così recente che il libro di Raieli non ha potuto darne testimonianza). Se, ad esempio, un utente cerca informazioni su Italo Calvino, non verrà indirizzato solo al posseduto della biblioteca, e nemmeno al contesto più ampio di SBN o perfino di WorldCat, ma alla rete: si tratterà forse di siti che si riferiscono a luoghi cari a Calvino, da Sanremo a Cuba, da Parigi a New York, ma che niente hanno a che fare all’origine con lui e semmai sono intesi come suggerimenti turistici; ma Calvino ha vissuto nel mondo e il mondo l’ha ispirato, e del mondo parla nei suoi libri e quel mondo interiore cerchiamo nello spazio esterno. Si produce così un effetto di reale (come avrebbe detto Roland Barthes) davvero postmoderno: l’utente esce da un luogo protetto e veleggia tra quel che la rete è riuscita a dragare. Tra cultura alta e bassa, tra quotidiano e canone, mantenendo la barra dritta o lasciandosi sedurre da digressioni. Il lettore di Calvino utilizzando gli OPAC diventa utente, e ora tramite i discovery tool afferma il suo diritto all’identità di ricercatore (anche se non fa ricerca per professione, come ipotizzava John Battelle in The Search, New York, 2005 analizzando l’effetto di Google su un’utenza non specialistica), e magari concluderà il cerchio tornando a leggere. Oppure si perderà in una foresta di rimandi e link; o ancora, sarà solo stato piacevolmente intrattenuto. Perché i discovery tool sono anche strumenti di ‘infotainment’.
Il rischio di perdersi non è da sottovalutare. Per questo – come sosteneva Suzanne Briet quando alla Bibliothèque nationale de France sentì la necessità di inaugurare il servizio di orientamento – ancor più necessario è il ruolo di intermediazione culturale e civile del bibliotecario. Lo sottolinea bene Raieli nel capitolo finale, efficacemente intitolato Conclusions: since we have Google and Sci-Hub, what need is there for libraries?: il cambiamento tecnologico deve cioè essere guidato dalla cultura della biblioteca e dall’etica del servizio. In questa ultima parte l’autore afferma infatti la validità di una tradizione e lancia in definitiva una perorazione a mantenere vivi i ‘nostri valori’. In un altro punto retoricamente forte del libro (la conclusione del primo capitolo, Introduction: scope, tools actors, and values of knowledge discovery) così collega la professione (la collana di Chandos, ricordiamolo, è denominata Information professional series) all’identità e al ruolo culturale e civile: «Regarding the role of the library in the world of information, however, it is essential to understand that information itself is not the main value on which the library is founded, but the library virtues are founded on much more complex purposes than the simple preservation and dissemination of the library information as suggested by ITC. Communication technology are only a tool to operate in the field of cultural progress, mediating objects of knowledge, but also fully playing the role of cultural institution that works to promote education, learning, social cohesion, access to knowledge, democracy, and other high human aspirations» (p. 17-18).
Capitoli ‘pratici’ si armonizzano con profonde riflessioni teoriche perché, in definitiva, in una professione culturale e dal forte senso politico come quella del bibliotecario, non è opportuno distinguere il fare dal sapere, il fare dal saper fare.

Paola Castellucci
Sapienza Università di Roma

Le biblioteche nel sistema del benessere: uno sguardo nuovo, a cura di Chiara Faggiolani. Milano: Editrice bibliografica, 2022. 295 p. (Geografie culturali). ISBN 9788893574358 (cartaceo); 9788893575058 (e-book: EPUB).

Il volume curato da Chiara Faggiolani si candida a diventare un riferimento importante per chi vuole interrogarsi sul ruolo e sulle traiettorie di sviluppo delle biblioteche nel complesso contesto presente.
Come già annuncia il titolo, si tratta di un esercizio plurale e interdisciplinare di sguardi sollecitati a fornire una chiave di interpretazione sul fenomeno ‘biblioteca’ a partire da un patrimonio di dati e di evidenze empiriche straordinariamente ricco. Il volume presenta infatti il ragionamento di venti autori che in undici contributi mettono al centro la biblioteca affrontandola con approcci e sensibilità molto diverse: dalla biblioteconomia alla statistica, dalla geografia alla sociologia, dagli studi computazionali al management. L’intenzione della curatrice è, infatti, quella di stimolare ‘attraversamenti’ e ‘sconfinamenti’ disciplinari e metodologici che permettano di riportare dentro l’alveo centrale il senso delle esplorazioni. Ne è emersa una lettura prismatica che consente di scomporre il nucleo iniziale delle evidenze empiriche in prospettive di analisi che, pur prendendo le mosse da territori e angolazioni differenti, sembrano convergere tutte attorno al cuore di un ragionamento che invita a riflettere sul senso delle biblioteche nel contesto dalla pandemia. Un senso che è positivamente associato all’idea che la biblioteca possa e debba giocare un ruolo di primo piano nell’ambito del sistema del benessere, a patto che si faccia tesoro degli elementi di criticità strutturale e di alcuni preoccupanti campanelli di allarme che il libro e le ricerche evidenziano in modo plastico. 
L’altro aspetto importante del volume riguarda il suo inserirsi in un momento caratterizzato da una eccezionale disponibilità di dati, resa probabilmente possibile dalla risposta allo ‘tsunami pandemico’ e pensata per fornire una comprensione ‘ampia’ delle biblioteche e allineata alle tante trasformazioni socioculturali che stanno caratterizzando i primi decenni del nuovo millennio. I dati ai quali si fa riferimento sono in particolare quelli del censimento delle biblioteche realizzato dall’Istat per quanto riguarda l’offerta a livello nazionale, della sezione dedicata alle biblioteche all’interno di Aspetti della vita quotidiana dell’Istat relativamente alla domanda e ai modelli di fruizione, dell’indagine La biblioteca per te, promossa da Rete delle Reti in collaborazione con l’AIB e con la direzione scientifica di Biblab – Laboratorio di biblioteconomia sociale e ricerca applicata alle biblioteche di Sapienza Università di Roma, che può essere considerata la più vasta indagine mai realizzata in Italia sul ruolo della biblioteca pubblica nella vita delle persone che la frequentano (67.250 persone, di cui il 95% utilizzatori). 
Pur nella diversità dei temi e delle trattazioni si possono rinvenire alcuni interessanti ‘fili rossi’. Le riflessioni presenti concorrono a mettere a fuoco l’immagine della biblioteca quale infrastruttura culturale che maggiormente è stata attraversata e sollecitata dai cambiamenti socio-tecnici degli ultimi decenni e che più di altri si è messa in gioco per contribuire ad affrontare le sfide sociali con le quali individui e collettività sono chiamati a confrontarsi. Gli autori ci dicono che dentro questo cambiamento il piano della sfida richiede di riflettere sulla capacità della biblioteca di essere nuovamente e ancora più convintamente ‘luogo’, inteso come presidio, spazio di attivazione, punto di studio, ricerca, informazione e formazione. Non è pertanto un caso che nella sentiment analysis realizzata sui dati della ricerca La biblioteca per te (nel contributo di Domenica Fioredistella Iezzi) la parola ‘luogo’ sia nettamente quella più segnalata (mentre seconda e più staccata è la parola ‘libro’), che le biblioteche siano soprattutto ‘luoghi di comunità’ agli occhi di chi le frequenta e le conosce (Paola Dubini e Alberto Monti) e che gli studi territorialisti (Sandra Leonardi e Riccardo Morri) suggeriscono l’importanza di progettare un ‘luogo’ al posto di uno ‘spazio’ e segnalano ulteriormente il tema della sperequazione dell’offerta a livello nazionale, ricordando come non avere accesso ai servizi bibliotecari può voler dire creare ulteriore disuguaglianza soprattutto nelle aree marginali e interne. A tale proposito, nell’approfondito profilo delle biblioteche realizzato da Fabrizio Maria Arosio e Alessandra Federici, tra le pieghe dei tantissimi dati della ricerca Istat, non può passare inosservato il fatto che 2.869 comuni italiani siano privi di una biblioteca e che la maggior parte di essi si trovi nel Mezzogiorno e nel nord ovest del nostro paese. Circa 7,5 milioni di abitanti, ovvero il 12,6% della popolazione italiana, di fatto sono esclusi dalle opportunità che questi luoghi riservano. Giovanni Solimine, nell’analisi delle forme della lettura, evidenzia come la pandemia abbia reso ancora più acuto il rapporto con le disuguaglianze: chi già leggeva ha letto di più e si sono allontanate invece molte persone dal prestito (in particolare ragazzi e pubblici più occasionali). Sperequazioni, queste, che assumono una connotazione ancora più preoccupante se si considera la relazione ormai riconosciuta e strettissima tra partecipazione culturale attiva, benessere e qualità della vita, che rappresenta uno dei presupposti centrali del volume (approfondito nel capitolo su biblioteche e welfare di Annalisa Cicerchia, Catterina Seia a Vittoria Azzarita e in quello sulla valutazione del benessere di Margaret Antonicelli e Filomena Maggino). 
In conclusione, appare condivisibile la scelta di rimarcare la necessità di adottare un approccio sistemico in cui la biblioteca, per intervenire positivamente nella costruzione e redistribuzione di benessere, deve operare all’intersezione di diversi e più ampi sistemi: della cultura, della salute, dell’educazione e formazione, dell’innovazione sociale; un ingranaggio cardine del sistema della città. Ne derivano implicazioni rilevanti per il mondo delle policy, per gli investimenti che dovranno accompagnare la stagione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e dei fondi strutturali, per i processi di definizione strategica e per le risorse e le competenze che dovranno e potranno essere messe in campo. Forse questa è materia per un ulteriore e nuovo sforzo corale di riflessione. 

Alessandro Bollo
Officina della scrittura, Torino

Dizionario dei tipografi e degli editori italiani. Il Cinquecento, diretto da Marco Menato, Ennio Sandal, Giuseppina Zappella. Vol. II: G, a cura di Marco Menato. Trieste: Drogheria 28, 2020. 215 p. ISBN 9788896925416. 

In un paese dove talvolta imprese che intendevano creare importanti strumenti bibliografici non sono state portate a compimento, è doveroso salutare con compiacimento la ripresa, dopo oltre venti anni, del Dizionario dei tipografi e degli editori italiani. Il Cinquecento, con questo secondo volume dedicato alla lettera G della serie ordinata alfabeticamente. È stato senz’altro il prodotto di un atto di coraggio dei direttori dell’opera Marco Menato, Ennio Sandal e Giuseppina Zappella, in particolare del primo cui si deve la curatela del volume, ma anche e soprattutto del nuovo editore Simone Volpato che, come afferma lo stesso Menato nella breve Premessa, «con un pizzico di incoscienza si è offerto di continuare l’opera» (p. 5), subentrando a Editrice bibliografica, che aveva pubblicato il primo nel 1997. La veste del secondo volume, che esce sotto l’insegna della Libreria antiquaria Drogheria 28, è profondamente diversa da quella del primo (relativo alle lettere A-F), più sobria nella sua semplicità, cosa che lo rende anche più maneggevole. Le oltre duecento pagine, contengono circa centosessanta voci, che si devono a una cinquantina di autrici e autori, tra i quali si trovano non solo figure di spicco della letteratura bibliografica italiana di ambito accademico – quali Rosa Marisa Borraccini, Andrea Capaccioni, Anna Giulia Cavagna, Federica Formiga, Giorgio Montecchi, Valentina Sestini e Vincenzo Trombetta – ma anche noti professionisti delle biblioteche come Walter Capezzali, Carla Casetti Brach, Paola Del Bianco, Andrea De Pasquale, Claudia Giuliani, Anna Manfron, Piero Scapecchi, Daniela Simonini, Paolo Temeroli, per citare solo i più noti. Purtroppo alcuni dei collaboratori, come Delio Bufalini, Saverio Franchi e Filippo Maria Giochi, ci hanno nel frattempo lasciati. 
Ci sono nel volume schede riguardanti figure centrali del panorama librario dell’Italia del Cinquecento. Basti pensare a un Gabriele Giolito de’ Ferrari, la cui voce, curata da Ilaria Andreoli, occupa una quindicina di pagine o come il complesso delle voci relative alla famiglia Giunta, oltre venticinque pagine che si devono alle penne di Piero Scapecchi, Franco Pignotti e Marco Menato. Ma repertori di questo genere – si sa – valgono tanto più quanto dedicano spazio ai cosiddetti ‘minori’, quei personaggi cioè sui quali non è facile reperire letteratura, documenti o comunque informazioni. Menato, sempre nella Premessa, ci avverte infatti che – rispetto al primo volume – «le schede sono più ricche di dati e, in alcuni casi, dove si è potuto fare riferimento a notazioni archivistiche esaminate di prima mano, si presentano come piccoli saggi» e che «in questo volume sono stati inseriti con maggiore liberalità […] nomi di editori/librai occasionalmente attivi, basta che fossero citati nell’area tipografico-editoriale delle pubblicazioni (scelta del resto già di Edit16) o noti solo per il tramite della documentazione archivistica» (p. 5). Non sorprende quindi ritrovare una breve voce (dovuta a Menato) relativa ai frati gesuati di Venezia, in quanto commissionari a un tipografo non identificato dei Sermoni volgari sopra le solennitade di tutto lanno di San Bernardo da Chiaravalle, stampato sulla Laguna nel 1528. Viene così corretta una piccola lacuna di Edit16 (ma non di Ester Pastorello).
Dal momento che il curatore, anche in vista di una futura edizione elettronica, sollecita suggerimenti e segnalazioni di possibili correzioni e visto che una recensione dovrebbe anche un po’ cercare il classico ‘pelo nell’uovo’, si segnala che sarebbe utile aggiungere nell’indice delle voci le pagine relative, per evitare di dover fare la ricerca sfogliando il volume.
L’auspicio è che questo importante lavoro prosegua le sue pubblicazioni, andando ad aggiungersi ad altri strumenti, quali il Dizionario biografico degli italiani e il Dizionario degli editori tipografi, librai itineranti in Italia tra Quattrocento e Seicento, e che in futuro si trovino le risorse per estendere l’iniziativa ad altri secoli, almeno fino al XVIII, non necessariamente in forma cartacea, soprattutto per rendere facilmente reperibili i dati relativi a quei ‘minori’ cui si faceva riferimento. La promessa degli autori è di produrre ora volumi dedicati ad una sola lettera o al massimo a piccoli gruppi, così come annunciato per il prossimo, relativo alle lettere H-L.

Lorenzo Baldacchini
già Alma mater studiorum Università di Bologna

Enrico Pio Ardolino, «Il giardino più delizioso»: la donazione del cardinale Giovanni Maria Gabrielli e la biblioteca settecentesca del monastero di San Sebastiano alle Catacombe di Roma, con una presentazione di Rosa Marisa Borraccini. Roma: CNR Istituto di scienze del patrimonio culturale, 2020. 233 p.: ill. (Storia delle biblioteche e biblioteche nella storia; 3). ISBN 9788880803744.

Nel proprio testamento redatto nel 1709, il cardinale Giovanni Maria Gabrielli (Città di Castello 1654 - Caprarola 1711) ordinò che il suo corpo venisse seppellito nella chiesa romana di San Bernardo alle Terme, le viscere in Santa Pudenziana e il cuore a San Sebastiano alle Catacombe. Analogamente, aveva scelto di destinare ai tre monasteri citati e a quello perugino di San Giovanni Battista anche i libri della propria biblioteca personale. Il documento, conservato presso la Biblioteca Augusta di Perugia, è uno dei punti di accesso per la dettagliata ricerca dedicata da Enrico Pio Ardolino alla ricostruzione del patrimonio librario del monastero di San Sebastiano alle Catacombe, fuori delle mura di Roma.
Di origine medievale, dal 1614 il monastero, annesso alla basilica, fu affidato al recente ordine dei foglianti, scaturito da un progetto di rinnovamento dei cistercensi in senso rigorista alla fine del XVI secolo in Francia, presto appoggiato dalla Chiesa romana e dal sostegno politico in alcune aree, che nella Penisola portò al suo consolidamento quasi esclusivamente in Piemonte, Liguria, Toscana e Lazio. Rispetto alle biblioteche in dotazione agli altri due monasteri romani (San Bernardo alle Terme e Santa Pudenziana), la raccolta libraria di San Sebastiano fu per un secolo esigua e – come emerge dagli inventari del 1620 e del 1623 – dotata di volumi strettamente orientati alle pratiche di vita dei monaci, alla preghiera e all’ascesi, e dove «il valore attribuito allo studio e alla lettura non di rado risultava subalterno rispetto ad altre attività» (p. 41). Il momento di svolta per l’incremento numerico e tematico-disciplinare della raccolta avvenne agli inizi del Settecento, quando Clemente XI finanziò una trasformazione dell’insediamento monastico, sia in senso architettonico sia devozionale, coordinata dal cardinale Giovanni Maria Gabrielli, «erede spirituale del ‘papa mancato’ Giovanni Bona» (p. 10).
L’interesse nei confronti del personaggio nell’orizzonte della cultura religiosa romana a cavaliere tra fine Seicento e inizio Settecento emerge non soltanto dal fatto che la raccolta riflette i suoi interessi personali e risulta essere funzionale all’attività di docente, teologo, studioso e censore della Congregazione dell’Indice, ma anche dal ruolo che egli ebbe nella storia dell’istituzione monastica.
La sua coscienza progettuale nei confronti della biblioteca fogliante si riflette nelle indicazioni fornite nel testamento: oltre a concedere la possibilità di trasferire a un’altra delle biblioteche destinatarie del lascito un volume se ivi già presente (in controtendenza con il costume di conservazione integrale delle grandi collezioni private), egli fornì anche precise raccomandazioni per regolare la fruizione dei libri ed evitarne ulteriori dispersioni e smarrimenti. La dotazione libraria prevista da Gabrielli nel 1707 a favore della biblioteca fogliante di San Sebastiano si configura per molti motivi quasi come la creazione di una ‘nuova’ biblioteca (compatta per cronologia delle edizioni e sotto il profilo disciplinare), dal momento che, a fronte delle poche decine di volumi presenti a fine Seicento, una descrizione risalente al 1725 ne annoverava 655, dei quali quasi 500 donati dal teologo originario di Città di Castello (l’inventario risalente al 1707 è trascritto alle p. 73-150).
Le vicende successive della biblioteca, dai prelievi di età napoleonica all’insediamento dei francescani in sostituzione dei foglianti, alla soppressione unitaria, sono indagate da Ardolino al fine di individuare i volumi superstiti, parte dei quali oggi conservati presso la Biblioteca nazionale centrale di Roma (88 unità rintracciate, riportate alle p. 151-173), utilizzando anche le tracce di provenienza, possesso e lettura.
La «copiosa scelta di libri» oggetto della dotazione voluta da Gabrielli faceva parte di una cosciente operazione di rinnovamento culturale e spirituale, volta a rendere «le librerie ne monasteri de regolari il giardino più delizioso de medemi» (p. 197).

Marco Fratini
Biblioteca valdese, Torre Pellice

Mauro Guerrini, Metadatazione: la catalogazione in era digitale; prefazione di Diego Maltese; introduzione di Paola Castellucci e Gino Roncaglia. Milano: Editrice bibliografica, 2022. 348 p. (Biblioteconomia e scienza dell'informazione; 43). ISBN 9788893575195.

L’imponente volume di Mauro Guerrini, a cui hanno contribuito significativamente alcune fra le più importanti figure professionali e accademiche del mondo delle istituzioni culturali italiane, vuole sicuramente rappresentare una pietra miliare della riflessione che sta vedendo la ‘catalogazione’, nel nostro secolo, diventare ‘metadatazione’. Questo passaggio rappresenta un profondo cambiamento non solo terminologico ma concettuale e disciplinare. Il pubblico a cui si rivolge il volume è vasto e variegato, a partire da coloro che attivamente si occupano di catalogazione o metadatazione, a chi si avvicina per la prima volta a questa affascinante e complessa disciplina.
Le due parti principali del volume sono costituite rispettivamente da quattro saggi che affrontano alcuni fra i principali aspetti della ‘questione metadatazione’ e dalle risposte date da ventisei fra bibliotecari, docenti universitari ed esperti a dieci domande formulate da Mauro Guerrini su temi a questa legati. Completano il volume una prefazione, due premesse, un utile elenco di acronimi e sigle, e una bibliografia ragionata. 
I quattro saggi introduttivi aiutano il lettore a entrare nel tema, a partire da Metadazione: la catalogazione nell’era digitale di Mauro Guerrini; l’argomento viene poi dipanato da Carlo Bianchini con Breve storia dei metadati, da Denise Biagiotti con Metadati: etimologia e primi usi, per finire con Laura Manzoni che affronta la questione del ruolo degli editori nella metadatazione (Per una filiera coordinata della metadatazione: gli editori).
Le risposte alle domande di Guerrini consentono di avere più visioni e punti di vista, data la complessità e le possibili sfaccettature che si possono considerare quando si parla di un’attività che non smette di essere centrale nella realtà delle biblioteche (e non solo) e che vede un momento di evoluzione particolarmente significativo in un contesto sempre più globalizzato, dove le tecnologie legate alla rete e al web semantico hanno radicalmente modificato le tipologie documentali disponibili, e le modalità con cui queste vengono descritte e indicizzate. Le domande spaziano da questioni quali il passaggio dalla catalogazione alla metadatazione e ai vantaggi di quest’ultima per rispondere alle domande degli utenti, al giudizio sulla ‘nuova terminologia’ che si sta affermando negli standard internazionali, alle sfide poste dalla rete e dal web semantico in particolare, alle necessità formative per coloro che si occuperanno di metadatazione, fino ai progetti in corso in Italia e nel mondo volti a sviluppare una tecnologia più funzionale per descrivere le risorse e per consentire agli utenti di ‘identificare’, ‘selezionare’ e ‘ottenere’ le informazioni che desiderano.
Già da questa sintesi estrema è facile comprendere quante e quali possano essere le implicazioni di questo passaggio, quando e dove esso è avvenuto o sta avvenendo, e quali potrebbero essere le necessità per le istituzioni culturali che volessero sfruttare al meglio le opportunità offerte dalla tecnologia. Non va dimenticato – ma questo sicuramente non lo ha fatto Guerrini – che la questione dei metadati e della loro applicazione non è limitata a questo ambito specifico, ma abbraccia numerose tipologie di metadati, tutti funzionali a una migliore gestione, descrizione e conservazione delle risorse digitali in primis, ma anche analogiche. Il volume si pone quindi come tassello di un complesso mosaico che dovrebbe stimolare i professionisti ad affrontare con maggior consapevolezza il lavoro di descrizione e facilitare l’avvicinamento a questi temi di coloro che si approcciano ad essi per la prima volta.

Lucia Sardo
Alma mater studiorum Università di Bologna, Campus di Ravenna

AIB studi, vol. 62 n. 3 (settembre/dicembre 2022). DOI 10.2426/aibstudi-13810. ISSN: 2280-9112, E-ISSN: 2239-6152 - Copyright (c) 2022 Gli autori