Recensioni

a cura di Desirée de Stefano e Federica Olivotto

Sara Dinotola, Le collezioni nell’ecosistema del libro e della lettura: nuovi modelli di valutazione, organizzazione e comunicazione. Milano: Editrice bibliografica, 2023. 275 p.: ill. ISBN 9788893575287 (cartaceo); 9788893575614 (e-book: EPUB).

Sara Dinotola, attualmente ricercatrice presso l’Università di Torino, vanta una lunga esperienza da bibliotecaria e da studiosa sui temi dello sviluppo, della gestione e della valutazione delle collezioni di biblioteca. A testimoniare la lunga frequentazione dell’autrice con le collezioni, da intendersi come elementi strategici e identitari delle biblioteche, bastino due precedenti pubblicazioni, L’approval plan per lo sviluppo delle collezioni e Lo sviluppo delle collezioni nelle biblioteche pubbliche.
Il volume si inserisce senz’altro in questo filone di riflessione ma, al tempo stesso, propone una linea di ricerca innovativa «che si focalizza sulla valorizzazione delle collezioni e delle esperienze di lettura nella biblioteca pubblica sulla base di un approccio meno autoreferenziale, in grado di consentire un dialogo proficuo con l’intera filiera del libro e con altri domini disciplinari» (p. 235). Come sottolinea Chiara Faggiolani nella Prefazione, la proposta di Dinotola valorizza «il dialogo delle biblioteche con gli altri soggetti della filiera del libro, la lettura come fenomeno sociale che deve necessariamente essere esaminato con maggiore attenzione dai bibliotecari al fine di facilitare concretamente la connessione tra documenti e persone» (p. 15).
Il libro si articola in tre capitoli, nel primo dei quali (Le collezioni nei canoni disciplinari della biblioteconomia) si propone una riflessione sulle evoluzioni teorico-metodologiche della biblioteconomia secondo l’ormai classica schematizzazione che la distingue in documentale, gestionale, digitale e sociale, nella consapevolezza però della complessità di questo processo che ha da sempre un andamento non lineare. L’autrice in particolare analizza il ruolo che è stato attribuito nelle varie fasi alle collezioni: dalla centralità del loro sviluppo alla gestione consapevole e alla cultura del servizio, dai modelli gestionali relativi alle collezioni fisiche alle peculiarità di trattamento delle risorse digitali, con un graduale spostamento dell’attenzione nel tempo verso le esigenze e i bisogni espressi dagli utenti. 
Il secondo capitolo (Le biblioteche, la lettura e il mercato editoriale: un rapporto da valorizzare) rappresenta il cuore del volume. In queste pagine si analizzano (a partire da dati statistici) tre elementi: lettura, mercato editoriale e collezioni delle biblioteche, proponendo un modello metodologico «in grado sia di rinnovare la cultura valutativa propria della biblioteconomia gestionale, sia di potenziare il rapporto tra le biblioteche e gli altri attori della filiera del libro» (p. 53). Se la biblioteca è un’istituzione inserita all’interno di sistemi complessi come il mondo dell’editoria e della lettura e il tessuto culturale e sociale delle città, un approccio metodologico per la valutazione delle collezioni dovrebbe permettere da una parte di interpretare in maniera meno autoreferenziale i dati sull’offerta e l’uso delle collezioni, dall’altra di instaurare un dialogo con altri soggetti. 
Nel modello proposto da Dinotola si individuano due livelli: il primo è rappresentato dalla comparazione (sia quantitativa che qualitativa) tra le collezioni di più biblioteche e/o sistemi bibliotecari e tra i livelli d’uso; il secondo prevede un’analisi dettagliata dell’offerta editoriale e il confronto tra questa e quella bibliotecaria, non per le intere collezioni ma per singoli segmenti, aree disciplinari o argomenti specifici (ancora una volta sia in termini quantitativi che qualitativi). L’obiettivo dell’approccio proposto è comprendere quanto editori, argomenti e tipologie documentarie siano rappresentati nelle biblioteche, quanto queste ultime siano attente nel garantire la bibliodiversità e se le preferenze di coloro che acquistano i libri siano analoghe o differenti da quelle degli utenti delle biblioteche. Di questo modello, che combina necessariamente metodi quantitativi e qualitativi della ricerca sociale (e prevede quindi la raccolta di dati statistici, ma anche la somministrazione di interviste e focus group) l’autrice non nasconde le criticità dovute, ad esempio, all’eterogeneità tra classificazioni bibliografiche e quelle editoriali e alla difficoltà nel reperimento dei dati, laddove è fondamentale la collaborazione attiva dei bibliotecari e dei soggetti della filiera editoriale. Per illustrare le potenzialità e i vantaggi del modello, Dinotola riporta i risultati relativi a due studi sperimentali da lei realizzati, nella convinzione che analisi integrate tra dati di provenienza diversa possano aiutare concretamente le biblioteche a sviluppare collezioni con minori livelli di sovrapposizione all’interno dei sistemi e a garantire una più ampia copertura editoriale per rispondere ai bisogni variegati delle comunità di riferimento. La migliore comprensione delle abitudini di lettura, acquisto e prestito di libri all’interno di un ecosistema culturale sempre più multimediale e complesso potrà fungere «da stimolo per un dialogo più proficuo tra i vari attori della filiera e per la ricerca di linguaggi, attività di ricerca e di promozione condivise» (p. 129).
Il terzo e ultimo capitolo (Modelli concettuali, organizzativi e comunicativi delle collezioni: casi di studio europei e linee di tendenza internazionali) propone una ricca e commentata panoramica di diverse esperienze che hanno avuto grande risonanza e sono note per il loro carattere innovativo. Dinotola individua alcune biblioteche pubbliche contemporanee (tra le altre Idea Store di Londra, Oodi di Helsinki, Dokk1 di Aarhus, Stadtbibliothek Stuttgart, Bibliothèque de Dunkerque Centre, Biblioteques de Barcelona) di cui analizza le strategie di organizzazione, valorizzazione e comunicazione delle collezioni fisiche e digitali, con particolare attenzione alle soluzioni adottate per facilitare le scelte di lettura (anche sfruttando le potenzialità offerte dalle tecnologie digitali, dai social network e dall’intelligenza artificiale). Anche in questo caso si avvale della comparazione tra dati e informazioni reperiti tramite siti istituzionali e ulteriori elementi ricavati mediante questionari e interviste ai bibliotecari, per cogliere tendenze e far emergere somiglianze e differenze tra le biblioteche coinvolte. Chiudono il volume le Riflessioni conclusive e prospettive e una ricca Bibliografia
Dinotola ci offre in sostanza un modello per un approccio meta e transdisciplinare alle collezioni, attraverso il quale le biblioteche possano aprirsi verso l’esterno e uscire dall’autoreferenzialità. Per sua stessa ammissione, il volume non vuole rappresentare un punto di arrivo ma di partenza per ulteriori studi e riflessioni, nonché un contributo alla riaffermazione della centralità delle collezioni per le biblioteche e per la biblioteconomia. L’approccio proposto è complesso e articolato e non privo di qualche difficoltà, legata soprattutto alla raccolta e alla comparabilità dei dati, ma è senz’altro condivisibile la riflessione dell’autrice quando afferma che queste stesse criticità «non vanno intese come ostacoli tali da indurre ad abbandonare l’approccio più sfaccettato alla valutazione delle collezioni, bensì come stimoli per le biblioteche e gli altri soggetti della filiera del libro a lavorare insieme per appianarle e superarle» (p. 123). Si tratta di un'ottica sicuramente innovativa sia in termini metodologici sia di risultati attesi, che potrebbe senz’altro esprimersi al meglio delle sue potenzialità attraverso il ricorso a metodi e strumenti in grado di analizzare una grande mole di dati di diversa tipologia e provenienza (come, ad esempio, gli strumenti della network analysis a cui pure si accenna). L’auspicio è che il modello proposto da Dinotola, la cui esperienza di lavoro e di ricerca ne garantisce la maturità e la concreta applicabilità, possa davvero stimolare nuove ricerche ed essere concretamente replicato nelle nostre biblioteche.

Anna Bilotta
Università degli studi di Salerno

Giorgio Montecchi; Fabio Venuda, Nuovo manuale di biblioteconomia. Milano: Editrice bibliografica, 2022. 499 p. (Biblioteconomia e scienza dell'informazione; 44). ISBN 9788893573979 (cartaceo); 9788893575379 (e-book: EPUB). 

A quasi trent'anni di distanza dalla prima edizione del suo 'predecessore' (Manuale di biblioteconomia(/em), Editrice bibliografica, 2013), che della disciplina può essere considerato quasi un ‘manifesto’, è giunto finalmente alle stampe il Nuovo manuale di biblioteconomia, cui si augura la stessa fortunata sorte, confermando il suo posto di diritto nella ‘cassetta degli attrezzi’ di ogni professionista del settore. Si riferisce, infatti, al 'bibliotecario che sarà', qualsiasi sia la sua destinazione professionale finale, l'incardinamento istituzionale nel variegato ventaglio che caratterizza le biblioteche italiane e qualunque sia la 'missione' cui si dedicherà tra i diversi servizi che una singola biblioteca può offrire.
Sebbene mantenga la stessa ossatura salda ed esaustiva fondata sulla multidisciplinarità, che ha caratterizzato tutte le precedenti edizioni, e per quanto possa di conseguenza sembrare molto simile a quella del 2013, quest’ultima aggiunge un 'perché' alle ragioni che rendono essenziale e necessaria la biblioteca nel mondo: il suo essere per genesi luogo di inclusione universale in qualsiasi contesto la si inserisca.
Il volume si apre con una parte introduttiva (Dal libro alla biblioteca) che fa riferimento all'essenza etimologica dell'istituzione bibliotecaria: il libro e la sua storia. Segue un secondo capitolo (La biblioteca pubblica) che pone come punto di partenza la sua base fondativa e della sua missione, il suo essere cioè 'pubblica' nel senso più estensivo del termine.
I capitoli successivi ripercorrono in modo chiaro e sintetico le vicende e le motivazioni di base che hanno portato il sistema bibliotecario italiano alla sua conformazione attuale dal punto di vista istituzionale (La biblioteca come istituzione dello Stato), territoriale (La biblioteca come istituzione della comunità) e organizzativo (La biblioteca come istituzione della comunicazione e della memoria), anche attraverso un'esaustiva, chiara e aggiornata esplicazione del quadro normativo di riferimento nella legislazione italiana.
Seguono due capitoli centrali e fondamentali, che rendono merito alla lezione di S. R. Ranganathan e alle sue ‘cinque leggi’, descrivendo la biblioteca come un complesso insieme di servizi (La biblioteca come struttura organizzata) e spiegando come questi ultimi vedano la loro concretizzazione attraverso quelle che possono definirsi le pratiche quotidiane del mestiere bibliotecario (Organizzazione della biblioteca e crescita delle raccolte).
I cinque capitoli seguenti definiscono gli strumenti di lavoro nel trattamento delle risorse: le procedure, le linee guida, i modelli, i requisiti, gli standard, le norme alla base della catalogazione (La catalogazione: descrizione bibliografica e La catalogazione: gli accessi formali e semantici); il trattamento delle risorse seriali (La gestione dei periodici), e di quelle digitali (Le risorse elettroniche); l'UNIMARC (I formati di scambio dei dati bibliografici: l’UNIMARC); il capitolo successivo (Collocazione, gestione delle raccolte e prestito) chiarisce poi lo scopo degli strumenti precedentemente trattati: la messa a disposizione per il pubblico.
Infine, si prende in esame la biblioteca in quanto inserita in una rete di scambio e collaborazione: sia dal punto di vista comunicativo, attraverso le relazioni intessute con l'utenza grazie al sistema integrato di prestito (Il servizio di reference), sia in quanto nodo cruciale in quella rete strategica di collaborazione e coordinazione costituita dalle diverse istituzioni a livello nazionale e internazionale, che vede nella catalogazione partecipata e derivata la sua più concreta realizzazione (Informatizzazione della biblioteca e sua evoluzione).
In appendice, a complemento della trattazione, vengono forniti alcuni apparati costituiti da letture scelte, da una selezione delle più importanti norme del settore e dagli strumenti di lavoro sempre validi nello svolgimento della professione. Tra questi ultimi si aggiunge in questa nuova edizione un'importante risorsa: l’universal design, un modello per la costruzione reale di quella che deve essere di fatto, e non di sola parola, la biblioteca inclusiva, di tutti e per tutti.

Ambra Serranti
Alviano (TR)

Il valore sociale della cultura, a cura di Roberta Paltrinieri. Milano: Angeli, 2022. 158 p. (Consumo, comunicazione, innovazione; 45) ISBN 9788835136507.

Il libro curato da Roberta Paltrinieri si inserisce in un filone di studi che interpreta la partecipazione culturale come una dimensione fondamentale per la misurazione del benessere individuale e sociale, con particolare attenzione al ruolo che la cultura può svolgere nei processi di generazione della felicità intersoggettiva, soprattutto alla luce dell’attuale contesto post-pandemico, di cui appare urgente una riconsiderazione relativamente ai modi del vivere associato. Come dichiarato nel titolo, infatti, la cultura possiede un valore intrinseco di natura sociale rispetto a importanti ambiti della qualità della vita di una comunità, quali il contrasto alle diseguaglianze, l’inclusione, i processi di immaginazione collettiva e di costruzione di un sistema comune di principi. Tale convinzione rappresenta il filo conduttore della riflessione corale condotta dagli autori dei saggi nel volume, ognuno dei quali approfondisce pratiche, politiche e modelli innovativi per implementare processi e strategie di progettazione culturale. 
Il contributo che la cultura può offrire nelle politiche di welfare, e dunque in un modello integrato di promozione del benessere e della salute, trova conferma, come ricorda Fulco nella sua argomentazione, nel ruolo riconosciuto alla partecipazione culturale all’interno dell’indagine sul Benessere equo e sostenibile (BES) dell’Istat. I risultati del rapporto annuale permettono sia di monitorare la qualità della vita dei cittadini che di intervenire sulle criticità emerse attraverso politiche culturali mirate, per le quali sarebbe tuttavia necessario, secondo Capasso, superare una visione verticale e assistenziale a favore di un’interpretazione transculturale del benessere stesso. In questo senso, un welfare ‘decolonizzato’ può rinforzare il capitale sociale di una comunità riconoscendo il potenziale immaginativo e creativo delle persone. L’attualità di tale approccio e l’urgenza di adottarlo si evincono anche dal saggio di Spillare che, richiamando il paradigma dello sviluppo sostenibile, non solo sottolinea il contributo che la cultura può fornire per il raggiungimento di molti degli obiettivi dell’Agenda 2030 dell’ONU, ma riconosce tra questa e la sostenibilità un inscindibile rapporto di riflessività reciproca. Per tradurre questo ruolo in politiche consolidate appare però opportuno prevedere un sistema di misurazione che Savoia ricostruisce attraverso la disamina degli indicatori e delle pratiche di valutazione utili per conoscere e comunicare l’impatto sociale della cultura, superando così un approccio monetario e puramente economico.
Un'altra questione centrale del libro riguarda i processi di innovazione sociale che le pratiche culturali possono innescare, di cui trattano in modo complementare i contributi di Moralli e Allegrini. Per le due autrici la cultura può essere infatti uno strumento privilegiato per rispondere a problemi sociali non soddisfatti o emergenti. Parlando di pratiche culturali, tuttavia, è importante ragionare non in termini di consumo, bensì di partecipazione esperienziale che possa trasformarsi in uno stimolo per l’agency delle persone, mobilitandole e includendole nei processi decisionali. Sarebbe così possibile elaborare risposte alternative grazie a politiche culturali co-progettate, in funzione di bisogni direttamente percepiti dagli individui. 
Un aspetto meritevole del volume è la presenza di numerosi esempi relativi a progetti realizzati in Italia secondo l’innovativo approccio proposto dagli autori. In particolare sono due i saggi che si soffermano su modelli di promozione sociale basati sulla cultura e le arti creative: il primo di Alonzo, che tratta dei micro-festival come motore di rilancio territoriale per i piccoli contesti urbani; il secondo di Riccioni, che si concentra sulle pratiche teatrali come mezzo di costruzione e recupero dei significati collettivi. 
L’intento di delineare le potenzialità in termini di impatto sociale dell’ecosistema culturale, dichiarato da Paltrinieri nel saggio introduttivo, sembra essere stato efficacemente raggiunto. Dalla lettura del libro, infatti, emerge un nuovo paradigma grazie al quale sarebbe possibile orientare l’azione dei luoghi e delle pratiche culturali verso l’innovazione. Seguendo questa interpretazione, l’approccio proposto dagli autori non solo si pone in aperta continuità con la riflessione della biblioteconomia sociale, ma offre anche validi strumenti, al contempo teorici e metodologici, per ampliare la prospettiva di ricerca sulle biblioteche, immaginandole come componenti relazionali di un ecosistema culturale capace di incidere sul benessere individuale e sociale.

Camilla Quaglieri
Biblioteca del Conservatorio "Guido Cantelli" di Novara 

Laura Manzoni, Identificatori. Roma: Associazione italiana biblioteche, 2022. 50 p. (ET: Enciclopedia tascabile; 47). ISBN 9788878123472 (cartaceo); 9788878123496 (e-book: PDF).

Gli identificatori sono stringhe di caratteri alfanumerici assegnate a risorse ed entità per consentirne un’individuazione univoca e permanente. Nati in ambito editoriale, ancora cartaceo, con l’ISBN, essi sono diventati con gli anni sempre più diffusi, espandendosi ben presto ad altri ambiti. Con l’avvento del digitale hanno poi assunto un’importanza vieppiù cruciale nel controllo bibliografico, portando al cambiamento paradigmatico da un’identificazione di stringhe verbali, basata sull’interpretazione umana e legata all’ambiguità del linguaggio naturale e alle singole lingue, a quella alfanumerica, fatta per essere interpretata dalle macchine e quindi interoperabile e univoca, senza più margini di ambiguità perché non più semantica. Infine, oggi gli identificatori assumono un’importanza chiave, rappresentando uno dei pilastri su cui il web semantico si fonda. 
Laura Manzoni, già autrice di Le risorse cartografiche (Editrice bibliografica, 2022), nonché di vari articoli sulla catalogazione e il deposito legale delle risorse cartografiche, su RDA, sulla catalogazione in era digitale, sui metadati degli editori e l’etica bibliotecaria, e attualmente professore a contratto presso l’Università degli studi di Firenze, ci guida con competenza attraverso il tema di questa breve pubblicazione che arricchisce la collana Enciclopedia tascabile dell’AIB di una nuova voce. 
Il libro si apre con una riflessione lessicale sulla differenza tra identificatori e identificativi, per poi ripercorrerne brevemente la storia dall’universo cartaceo al web semantico: si va dall’introduzione dei primi esempi nati in ambito editoriale negli anni Settanta, a ISADN – progetto presto abbandonato – e poi fino a ISRC, ISMN, ISWC e ISTC. Più recentemente, nel mondo digitale, nascono DOI, NBN, ARK, URI e infine ISNI e ORCID. L’autrice osserva come negli ultimi anni si sia assistito a una loro moltiplicazione, dovuta all’importanza crescente dell’attività di identificazione per il web semantico, e come ciò abbia portato anche a una proliferazione incontrollata. Il libro prosegue esaminando il ruolo fondamentale svolto dagli identificatori nell’authority control e nel controllo bibliografico universale. Il mondo delle biblioteche ha sempre avuto un’attenzione particolare per l’attività di identificazione e dunque l’utilizzo di tali stringhe univoche. La loro diffusione nell’authority control, in particolare, ha portato al superamento del concetto di intestazione uniforme a favore di una maggiore parità tra le diverse lingue e forme del nome di un’entità, collegate direttamente all’identificatore. 
Segue una sintetica trattazione dei principi alla base della costruzione e diffusione degli identificatori: unicità (ciascuno deve riferirsi a una sola risorsa), permanenza (garantisce stabilità nel tempo ed è assicurata quando l’identificatore si basa su governance condivisa e trasparente), azionabilità (possibilità di essere rinviati alla risorsa stessa o ai suoi metadati), persistenza e interoperabilità, nonché la necessità di fornire informazioni sulla provenienza, autorevolezza e certificazione dei diritti d’uso. Si prosegue con una categorizzazione delle varie tipologie sulla base di vari criteri, tanto gestionali quanto bibliografici, quanto ancora relativi agli autori degli identificatori e al dominio censito: si va così da quelli globali supportati da standard ISO, come nel caso di ISNI, o globali de facto come ARK, a quelli interni alle singole biblioteche; un altro criterio è quello del dominio censito: per prodotti editoriali, contenuti intellettuali, risorse digitali o identità. Ovviamente, nota Manzoni, a un medesimo oggetto possono essere associati più identificatori che si riferiscono ad aspetti diversi o vengono assegnati con differenti finalità, soprattutto nel mondo digitale. 
I paragrafi seguenti del libro sono dedicati a una disamina approfondita dei vari identificatori, da quelli legati al mondo editoriale (le ‘manifestazioni’ di FRBR), a quelli legati ai contenuti intellettuali (‘opere’ ed ‘espressioni’ di FRBR), da quelli specifici di oggetti digitali (particolarmente dettagliata è la trattazione degli URI, elementi fondanti dei linked data basati su RDF), a quelli che definiscono specifiche identità, concludendo con Wikidata ID. 
Il volume si chiude con una discussione sull’impiego degli identificatori in ambito eminentemente catalografico: l’uso di ISBN e ISSN venne previsto fin dagli anni Settanta con la famiglia degli standard ISBD; tale uso ebbe una svolta con i modelli della famiglia FRBR che iniziarono a parlare esplicitamente di identificatori invece di ‘numeri standard’: con FRAD in particolare questi non erano più attributo (come in FRBR e poi RDA) ma entità a sé stante; recentemente, questa interpretazione è stata confermata da IFLA LRM che considera l’identificatore come un nomen.
Il volume è corredato da note e bibliografia.

Giuliano Genetasio
Biblioteca nazionale centrale di Roma 

Fabio Mercanti, Prestito digitale. Roma: Associazione italiana biblioteche, 2022. 113 p. (ET: Enciclopedia Tascabile; 48). ISBN 9788878123519 (cartaceo); 9788878123540 (e-book: PDF).

Interrogarsi sulle caratteristiche essenziali del prestito digitale significa indagare una complessità che stimola domande più che offrire risposte. È quanto fa l’autore nelle pagine di questo volume inserito nella collana Enciclopedia tascabile dell’AIB. Fin dalle prime battute Mercanti propone di trattare il prestito digitale come una locuzione il cui significato non è desumibile dalle parole che lo compongono. Esso infatti deve essere concepito e gestito non come la semplice trasposizione di un vecchio servizio (il prestito ‘analogico’) in un nuovo mezzo (il digitale), quanto piuttosto come un qualcosa in continua evoluzione che necessita di un rinnovato approccio biblioteconomico. 
L’intera argomentazione del volume si sviluppa attraverso un movimento dal particolare al generale. Le caratteristiche essenziali del prestito digitale sono infatti indagate, in un primo momento, analizzandone le diverse definizioni formulate nel corso del tempo e le parole chiave presenti in ognuna di esse; si passa poi a prendere in esame i singoli elementi tecnici e giuridici che lo caratterizzano (e-book, dispositivi, piattaforme, licenze, ecc.). Proprio questa modalità interrogativa permette di mettere a fuoco come il prestito digitale non si esaurisca nella somma degli elementi che lo compongono, poiché, come evidenzia l’autore, è prima di tutto un servizio, e in quanto tale non può essere definito a partire dai singoli elementi che lo compongono senza tenere conto della visione proiettata sull’utenza e delle effettive pratiche e scelte messe in campo per concretizzare tale visione. 
Partendo da tale assunto il prestito digitale è un’attività esercitata in uno specifico ambiente. L’autore decide consapevolmente di prendere in esame il solo ambito bibliotecario, distinguendolo così da altre tipologie di servizi che, pur utilizzando medesimi mezzi digitali, hanno poco a che vedere con quella realtà. Proprio perché così contestualizzato, è inevitabile il confronto con un’altra tipologia affine: il prestito analogico. Sebbene anch’esso possa beneficiare dell’utilizzo di strumenti digitali, l’autore è molto chiaro nel sottolineare come la vera differenza tra i due si fondi sulla loro natura giuridica: se il prestito analogico si basa sulla proprietà effettiva di un bene da parte della biblioteca, quello digitale invece sulla fornitura di contenuti accessibili tramite licenza. Di conseguenza i principi giuridici applicabili al primo non si adattano al secondo, se non con il rischio di introdurre nella seconda tipologia artifici che non le sono propri. Purtroppo, in mancanza di un quadro normativo appropriato, il rischio di appiattire il prestito digitale sull’analogico è concreto, soprattutto da parte degli editori, introducendo storture che influenzano negativamente la qualità del servizio. 
Sempre a partire dalla premessa iniziale, il prestito digitale si caratterizza come un’attività svolta da una determinata professione a beneficio di un’utenza. L’autore lancia interessanti spunti per indagini future nella convinzione che sia necessario studiare la percezione che bibliotecari e utenti hanno di questo servizio. Bisogna soprattutto domandarsi in che modo cambia il ‘vissuto professionale’ dei bibliotecari rispetto a un’attività che muta la conformazione delle collezioni della biblioteca e dunque ridefinisce il senso della stessa istituzione bibliotecaria. 
Come afferma in chiusura Mercanti, non si può dare per scontato che il prestito digitale di domani avrà le medesime caratteristiche di oggi, pertanto sarebbe deleterio irrigidirlo in un modello e privarlo della flessibilità necessaria alla sua evoluzione. L’augurio è che i professionisti del settore si impegnino attivamente in una formazione e in una ricerca continue con l’obiettivo di indagarne non solo gli aspetti tecnici, ma soprattutto le diverse pratiche, percezioni e visioni messe in campo. 

Anna Cividini
Roma 

Lorenzo Baldacchini, Il mio lungo viaggio tra libro antico e biblioteche. Manziana: Vecchiarelli, 2021. 511 p. (Dal codice al libro; 39). ISBN 9788882474577.

È un viaggio lungo più di quarant’anni quello raccontato in questo volume; un itinerario di studio (e di vita) che viene ripercorso grazie a trentuno contributi elaborati da Lorenzo Baldacchini tra il 1976 e il 2020, e qui riproposti insieme per rendergli omaggio in occasione del suo settantacinquesimo compleanno. L’autore, già docente all’Alma mater studiorum Università di Bologna, nel corso della sua decennale carriera ha diretto la Biblioteca Malatestiana di Cesena – cui sono legati, non a caso, diversi saggi contenuti nella raccolta – e l’Istituzione Biblioteche del Comune di Roma. Ha inoltre tenuto corsi dedicati alle discipline biblioteconomiche e bibliografiche presso vari atenei italiani ed esteri, contribuendo a formare con i suoi testi – d’obbligo la menzione di Il libro antico (La nuova Italia scientifica, 1982; Carocci, 2001, 2019) e Lineamenti di bibliologia (La nuova Italia scientifica, 1992) – le nuove generazioni di bibliotecari e studiosi del libro antico a «un lavoro suscettibile di quotidiana operosità, reclamante una pazienza ed una bravura di tipo artigianale» (p. 387).
La ricca compagine dei saggi riuniti nel volume – introdotta dalla Nota dell’editore di Varo Augusto Vecchiarelli e seguita, dopo gli indici di corredo, da una Nota a margine: perché questo libro a firma di Anna Manfron – muove dagli albori della stampa tipografica, tocca molti dei numerosi filoni di ricerca che interessano il poliedrico mondo del libro a stampa (la 'galassia Gutenberg'), per proiettarsi infine sul ruolo che le biblioteche potranno ricoprire in avvenire. Il libro antico, le biblioteche, la bibliografia sono indagati di volta in volta secondo una prospettiva di ampio respiro o con la lente d’ingrandimento propria del trattamento delle ‘microstorie’. Le tematiche care all’autore, e da lui affrontate con lucidità e chiarezza di metodo, percorrono come un fiume sotterraneo tutto il volume, conducendo il lettore da un saggio all’altro, da una vicenda editoriale all’altra, da un luogo della memoria all’altro. Storiche biblioteche e piccole collezioni private, celebri editori e poco noti cantastorie, l’officina tipografica e i palazzi della conoscenza: questo e altro il lettore può attendersi di trovare nella raccolta degli scritti di Baldacchini. Tra i temi maggiormente rappresentati si annoverano il rapporto tra la tradizione manoscritta e quella a stampa, tra l’editoria dei testi in volgare e quella dei testi in latino, con un’attenzione particolare all’editoria popolare e alla commistione fra oralità e stampa. Diversi i contributi dedicati al microcosmo dell’officina tipografica, tanto per il suo essere luogo di produzione dell’oggetto-libro, quanto spazio di incontro tra letterati e stampatori. E ancora scritti di ordine metodologico e saggi dedicati alla circolazione dei libri e alla divulgazione delle idee, alla bibliologia e alla bibliografia, alle collezioni librarie personali e alle biblioteche pubbliche.
È un libro prezioso quello edito da Vecchiarelli nella collana Dal codice al libro diretta da Alessia A. Glielmi, poiché esso riunisce e consegna ai lettori una produzione ricca e variegata che, come la carriera dell’autore, si è mossa tra rigorosa riflessione disciplinare e appassionato lavoro sul campo, tra cattedra e pluteo, scrivendo importanti pagine per la storia del libro e delle biblioteche. Non è difatti un volume che desidera celebrare un percorso concluso, seppur assai ricco, ma che vuole accrescere piuttosto l’aspettativa per gli studi futuri che la curiosità intellettuale propria di Baldacchini saprà portare avanti, perché – per dirla con le parole dell’editore – «da Lorenzo ci aspettiamo ancora altro, e molto» (p. 10).

Lucrezia Signorello
Biblioteca Malatestiana di Cesena

Lucio Del Corso, Il libro nel mondo antico: archeologia e storia (secoli VII a.C.-IV d.C.). Roma: Carocci, 2022. 322 p.: ill. (Frecce; 341). ISBN 9788829013319.

Lo studio del libro nel mondo antico si trova, forse più di altri argomenti, nell’intersezione di varie discipline: dalla filologia all’archeologia, fino alle scienze del libro vere e proprie. Un suo primo approccio scientifico nasce tra Settecento e Ottocento, contemporaneamente a varie branche dell’Altertumswissenschaft, anche grazie all’impulso delle scoperte archeologiche, la cui più celebre è quella del XVIII secolo dei rotoli di Ercolano. Il volume di Lucio Del Corso presenta la storia di questi studi attraverso un esempio particolare: la Charta Borgiana, reperto ottenuto dal futuro cardinale Stefano Borgia, ora nel Museo archeologico nazionale di Napoli, la cui prima edizione a opera del danese Niels Schow mostra già l’interesse tanto per il testo che per le caratteristiche materiali del papiro.
L’argomento del volume – come suggerito dal complemento del titolo e indicato dall’autore nella Premessa è il libro nell’antichità classica, ossia greca e poi romana, il che fissa netti termini temporali e spaziali: sono appena accennate testimonianze di libri e scritture dell’Egitto e del Vicino Oriente antichi. Per lo stesso motivo, gran parte della trattazione affronta la forma principale del libro antico, ossia il rotolo papiraceo.
Dopo il primo capitolo (La Charta Borgiana e la riscoperta dei libri dei greci e dei romani), il secondo (Materiali e supporti: dalle tavolette alla pergamena) approfondisce le varie forme che poteva assumere il libro nel mondo classico. Viene mostrata, incrociando le testimonianze letterarie con i reperti archeologici, la grande varietà di materiali e supporti scrittori, dalle tavolette agli ostraka e quelli metallici, fino all’uso antico della pergamena. 
I capitoli terzo (Il papiro e la manifattura del rotolo) e quarto (Dal rotolo “commerciale” al rotolo “librario”) seguono i processi di realizzazione del libro antico nella sua forma principale, il volumen. Particolarmente interessante è la trattazione separata delle attività di produzione e commercio del papiro in quanto materiale, che – come la carta oggi – non era destinato solamente per usi scrittori. La successiva vita del papiro come materiale impiegato per i libri attraversava gli ulteriori processi di disposizione e copia del testo, aggiunta di elementi di protezione, cura e conservazione.
Dalle testimonianze e dai reperti è più difficile dare un quadro dei formati del libro antico, argomento del quinto capitolo (Formati e standard editoriali del rotolo di papiro).
Il capitolo successivo (Paratesto e organizzazione testuale nei rotoli letterari) considera la struttura ‘interna’ dei volumina. Si tratta in particolare delle forme di cura editoriale di cui si può tratteggiare un’evoluzione dal papiro greco fino all’età imperiale, sia nella disposizione del testo che nella definizione di un sistema di elementi paratestuali come la punteggiatura o i titoli.
Il settimo capitolo (Libri eruditi, libri illustrati, libri informali) amplia la trattazione presentando alcune tipologie librarie particolari. Se gli esempi precedenti erano relativi a rotoli letterari – di formati diversi, con un apparato paratestuale più o meno ricco – l’autore qui dà uno scorcio di quanta varietà nel contenuto e nella struttura potevano presentare i libri antichi. L’ampia casistica, testimoniata da un pur sconfortante numero di reperti, permette di apprezzare meglio anche la celebre querelle sull’autenticità del Papiro di Artemidoro.
Il capitolo conclusivo (Dal rotolo al codice) si raccorda idealmente al secondo: il passaggio dal rotolo al codice, che trasforma radicalmente il mondo del libro tra III e IV sec. d.C., risulta dall’emersione di una tipologia già esistente all'epoca del volumen.
Chiudono il volume, oltre alle Note e alla Bibliografia, un Indice dei nomi e un Indice delle testimonianze scritte, quest’ultimo ordinato per materiali scrittori. Sono numerose le immagini, principalmente, ma non esclusivamente, contenenti riproduzioni di testimonianze scritte.
L’autore illustra con completezza e dettaglio forme e peculiarità del libro papiraceo nel mondo classico; formati e materiali vicini, come le tavolette e i codici di età antica, sono invece discussi più sinteticamente. Non potrebbe dirsi, tuttavia, un manuale di papirologia: i papiri sono considerati in quanto ‘incarnazione’ principale del libro nell’antichità. Si apprezza, inoltre, lo stile vivace e scorrevole, che rende questo saggio una lettura avvincente.

Marco Sferruzza
Roma

Pasquale Giaquinto, La biblioteca ermetica di Nino Rota: il Fondo Myriam dell'Università degli studi Roma Tre: alias Raccolta Verginelli-Rota di testi ermetici moderni (sec. XIX-XX). Manfredonia: Pacilli, 2021. 132 p.: ill. (Hermetica historia; 1). ISBN 9788893761215.

Pasquale Giaquinto ha il merito di aver illuminato un capitolo in ombra del celebre compositore Nino Rota (1911-1979), riguardante l'amicizia con Vinci Verginelli (1903-1927), docente e uomo di cultura, entrambi adepti dell'ermetismo di Giuliano Kremmerz, al secolo Ciro Formisano (1861-1930). Il saggio non solo dà preziose informazioni bibliografiche sul fondo Myriam ma sottolinea l'importanza delle correnti ermetiche nella Roma della prima metà del Novecento, soprattutto in relazione alla musica.
La biblioteca ermetica di Rota è costituita dal Fondo Myriam che raccoglie 2.500 volumi che hanno per argomento religione, scienze occulte, esoterismo, la maggior parte dei quali editi nel XX secolo. Nel 2004 la raccolta Verginelli-Rota di moderni testi ermetici è stata donata dal Circolo virgiliano romano alla Biblioteca "Giorgio Petrocchi" della Facoltà di lettere e filosofia dell'Università degli studi di Roma Tre, le cui voci bibliografiche sono consultabili mediante il portale Roma Tre Discovery del medesimo ateneo. La maggior parte degli autori del fondo sono i rappresentanti più significativi della cultura ermetica novecentesca quali Fulcanelli, Annie Besant, René Guénon, ecc. La sua complicata genealogia è connessa al costituirsi a Napoli della Fratellanza terapeutica-magica di Myriam nel 1896 a opera di Giuliano Kremmerz, le cui accademie si diffondono anche a Roma, Bari, Taranto, La Spezia: si tratta di un filone esoterico che si ispira alle antiche fratellanze siriaco-egizie e ai loro culti misterici con finalità terapeutiche che nascono nella Napoli massonica settecentesca, di cui la Cappella Sansevero è uno straordinario riferimento.
La biblioteca si trovava originariamente nell'appartamento di Verginelli in Lungotevere Ripa a Roma, dove questi si trasferisce nel 1969 su invito di Nino Rota dalla precedente abitazione di via del Colosseo, sua dimora dal 1938, anno del suo arrivo nella capitale per insegnare latino e italiano al Liceo Virgilio. Verginelli, adepto kremmerziano fin dal 1921, conosce Rota nel 1939, il quale fin dall'adolescenza raccoglie materiale librario nell'appartamento romano di via delle Coppelle insieme alla madre Ernesta Rinaldi, anch'essa appassionata di buddhismo e chiromanzia. L'organigramma kremmerziano vede la nascita della Accademia Vergiliana il 3 maggio 1911 a Roma in via del Mostraro 19, presso il giornale Argos, e dal luglio 1912 in via Quattro fontane 159, palazzo di proprietà del celebre architetto Gaetano Koch, progettista di un gran numero di palazzi di rappresentanza nella Roma umbertina. Tutta la musica di Rota risente della componente terapeutica, che si avvale anche degli antichi insegnamenti pitagorici per dare forma al caos della psiche umana e tentare di guarire l'umanità. La sua musa attinge alla propria interiorità: egli ritiene che le sette note afferiscono agli archetipi rappresentati dal Dodekatheon, ossia dalle dodici divinità dell’Olimpo greco, tra le quali Apollo, dio anche della luce e della musica. Infatti il percorso kremmerziano è un itinerario verso la luce e l’assoluto, una tensione abbinata all’amore del prossimo tanto da far dire al maestro: «Quando sono al pianoforte, quando cerco una musica, può essere che tendenzialmente sia felice; ma, come uomo, come si fa a essere felici in mezzo alla infelicità degli altri? È un dissidio che rimane sempre. Se potessi fare in modo che tutti quelli che mi stanno attorno potessero avere un momento di serenità, farei tutto il possibile. È questo mio sentimento, in fondo, che anima la mia musica» (p. 118).
Alla morte del compositore, Verginelli redige la Bibliotheca hermetica: catalogo alquanto ragionato della raccolta Verginelli-Rota di antichi testi ermetici (secoli XV-XVIII), comprendente i testi più antichi a stampa e manoscritti del fondo, di contenuto alchemico ed ermetico, che dona nel 1984 all'Accademia nazionale dei Lincei. Giaquinto auspica giustamente la possibilità di effettuare un puntuale confronto fra le composizioni di Nino Rota, comprese quelle concernenti il cinema, al fine di rintracciare, partiture alla mano, le connessioni fra la sapienza kremmerziana espressa dal fondo e la musica.
Ricordiamo che il catalogo del fondo antico dei Lincei viene pubblicato dall'editore Nardini nel 1986, mentre i testi del XIX e XX secolo, come abbiamo visto, sono confluiti all’ateneo romano: ancora una volta dobbiamo prendere atto, dall'esame dell'autore, dell'importanza della cultura esoterica che attraversa tutto il Novecento, facendo dell''astrazione' la componente fondamentale dell'arte contemporanea, in particolare della musica, prima arte del 'secolo breve' e tragico.

Roberto Quarta
Biblioteca nazionale centrale di Roma

Francesca Romana Grasso, Biblioteche 0/18 e pratiche di cittadinanza: il terzo educatore in luoghi terzi, con Daniele Brigadoi Cologna, Marco Muscogiuri, Roberta Opassi e Gabriella Marinaccio. [Parma]: Junior, 2023. 134 p.: ill. (Luoghi comuni). ISBN: 9788884349521.

Francesca Romana Grasso, pedagogista e studiosa di letteratura per l’infanzia, torna, dopo il suo saggio Primi libri per leggere il mondo (Editrice bibliografica, 2020 e 2022), a parlare dell’esperienza della lettura e dei libri per bambini e ragazzi. Se nel primo lavoro aveva raccontato il ‘cosa’ (i libri), in questa circostanza fa una panoramica sul ‘dove’, concentrandosi sulle biblioteche per ragazzi in Italia e nel mondo, sulle visioni sociali e politiche che ne hanno permesso la realizzazione e su come vengano fruite dal pubblico. Il volume – che si compone di interventi di professionisti in ambiti diversi, al fine di restituire un quadro dei servizi pensati per l’infanzia – introduce una riflessione su come animare la comunità educante a partire da biblioteche, servizi educativi, scuole, servizi sociali, enti e terzo settore. 
Il primo intervento, di Daniele Brigadoi Cologna, mette a fuoco quali intersezioni di concetti e immaginari contraddistinguono luoghi fisici come le biblioteche e non solo. Marco Muscogiuri presenta poi una panoramica delle principali concezioni di biblioteca, a partire da identità e mission, con particolare attenzione progettualità per bambini e ragazzi nella fascia di età tra i 0 e i 18 anni. Roberta Opassi spiega invece l’evoluzione della cornice istituzionale delle biblioteche sempre in relazione alla stessa fascia di età e mette in luce il rapporto di ‘osmosi’ che la biblioteca crea, o dovrebbe creare, con tutte le altre componenti sociali. Gabriella Marinaccio, infine, racconta la storia del Sistema bibliotecario integrato di Milano in relazione agli obiettivi dell’Agenda ONU 2030.
Si tratta di un volume agile, ricco di fotografie e molto curato, primo titolo della collana Luoghi comuni, che si rivolge ai servizi bibliotecari, educativi, sociali e sanitari «raccogliendo visioni, pratiche e domande sulla produzione e circolazione dei saperi» (p. 1). 
Spiace fortemente rilevare che non sia possibile portare ad esempio come progetto innovativo alcuna realtà bibliotecaria presente a sud della città di Milano, e constatare dunque il divario nella cura degli spazi e nell’offerta dei servizi fra le realtà dell’estremo nord e quelle del centro e meridione del Paese.
Il volume, oltre a rappresentare un’utile opera di raccolta dei principali progetti e documenti relativi al mondo delle biblioteche per ragazzi, esplora un concetto meno noto: la teoria del ‘terzo luogo’. Prendendo le mosse dal lavoro del sociologo americano Ray Oldenburg che ha introdotto il concetto di ‘third place’ per definire gli spazi altri rispetto al posto in cui si abita (primo luogo) e quello in cui si lavora (secondo luogo), l’autrice offre uno sguardo sulle biblioteche come ‘luoghi terzi’ e come ‘terzo educatore’. Questi spazi sono essenziali per lo sviluppo dell’essere umano perché contribuiscono a creare un senso di appartenenza alla comunità, permettono lo sviluppo della democrazia e annullano gli squilibri che possono esistere negli altri due luoghi: il terzo luogo incarna la libertà e la condivisione. 
L’approccio di Francesca Romana Grasso è un esempio di una nuova cultura dell’infanzia che si sta lentamente ma tenacemente diffondendo, i cui antesignani possiamo rintracciare in Maria Montessori, Gianni Rodari, Mario Lodi, tanto per citare i più noti: una cultura che non si stanca di ricercare l’attenzione, l’autenticità e l’eccellenza per i bambini, di immaginare un mondo in cui siano inclusi a pieno titolo, in cui abbiano spazi, tempi e pratiche dedicati. Un mondo migliore per i bambini e per gli adulti che lo attraversano.

Alessandra De Luca
Istituzione Sistema biblioteche e centri culturali di Roma Capitale 

Romano Vecchiet, La biblioteca di tutti: saggi sparsi sulla storia di un servizio pubblico in Friuli, presentazione di Giovanni Solimine. 430 p.: ill. (Libri e biblioteche; 46) Udine: Forum, 2022. ISBN: 9788832832655.

Il vasto e articolato lavoro di Romano Vecchiet è dedicato, come enunciato chiaramente nel complemento del titolo, alla storia delle biblioteche come servizio pubblico in Friuli. Il tema rientra pienamente nella competenza biblioteconomica dell’autore, che è stato dal 1991 al 2020 valente e apprezzato direttore di uno dei più importanti istituti bibliotecari del Friuli, la civica “Vincenzo Joppi” di Udine.
Il taglio dell’opera si presenta quindi, a prima vista, come uno studio eminentemente locale, sia pure con dimensione regionale. Tuttavia, gli sviluppi del servizio, che vengono accuratamente esaminati prima e dopo l’avvento delle regioni in una serie di saggi che coprono un arco temporale assai largo, conduce l’autore a intervenire anche su tematiche più vaste, come quelle dell’ordinamento regionale, della cosiddetta ‘biblioteca pubblica’ e dell’organizzazione dei servizi a livello ultra-municipale.
In sede di recensione non è evidentemente possibile, e forse non sarebbe neppure un gran che utile, addentrarsi tra tutti i problemi esaminati. Ciò che invece si può fare è tentare di riunire i vari contributi attorno ad alcune tematiche di fondo e contribuire alla loro discussione con qualche elemento critico. I punti su cui si intende qui soffermarsi sono i seguenti: l’evoluzione storica di natura e funzioni di una biblioteca locale esemplificata dal caso della Joppi; l’apporto delle regioni all’organizzazione territoriale delle biblioteche; l’applicabilità della nozione di ‘biblioteca pubblica’ desunta dalla teoria anglosassone della public library alle biblioteche di enti locali italiane.
La biblioteca udinese, dedicata al bibliotecario Vincenzo Joppi (1824-1900), che ne fu fervido propugnatore e animatore, fu inaugurata nel 1866, dopo una sorta di ‘preistoria’ che aveva condotto all’accumulo piuttosto disordinato di materiale di diversa provenienza, per lo più, in questo come in diversi casi analoghi, espressione di ceti intellettuali borghesi. Così configurato, l’istituto non poteva che presentare un carattere generico, adatto più che altro alla documentazione della vita locale su questioni particolari senza vasto respiro. Successivamente esso seppe tuttavia rappresentare con le sue articolazioni aspetti più specifici, ad esempio quelli relativi all’educazione dell’infanzia, un campo nel quale Udine poteva vantare fin dalla seconda metà dell’Ottocento una notevole tradizione legata soprattutto al movimento per i giardini dell’infanzia, che si tradurrà nel 1967 nella creazione di una sezione ragazzi e nel 2012 in una ludoteca comunale posta in un apposito edificio. 
La conquista di un ruolo ben determinato, con opportuna articolazione in sezioni ha continuato lungo la storia dell’istituto, tra successi e problemi di varia natura, aprendosi dalla seconda metà degli anni Settanta al campo del ‘multimediale’ e all’espansione dei servizi oltre la zona meramente cittadina.
Un momento fondamentale di passaggio, non solo per il comune di Udine, ma per l’intero Friuli è costituito dal terremoto del 1976. La vicenda, in sé stessa estremamente drammatica e dolorosa, ha però costituito un’occasione di ripresa per l’intera regione, sia sul piano economico che su quello culturale. Basti pensare all’istituzione nel 1978 dell’Università degli studi di Udine, la prima in Italia dove verrà attivato un corso di laurea in Conservazione dei beni culturali con vari indirizzi, tra i quali quello archivistico-librario, e dove insegneranno gran parte dei più noti docenti italiani di discipline bibliografiche e bibliotecarie. 
Nel campo specifico delle biblioteche Vecchiet riconosce l’importanza degli interventi di ricupero soprattutto edilizio, ma anche di raccolte librarie, reso possibile anche in piccoli centri dalla crescita economica della regione, ma lamenta l’assenza, se non in aree geografiche determinate, di un parallelo sviluppo nella concezione e organizzazione dei servizi. 
Con l’avvio di questo secolo la biblioteca civica fu fortemente coinvolta in una vasta opera di ristrutturazione edilizia, che comportava la soluzione di diversi spinosi problemi come il collegamento tra i due palazzi che costituivano l’insieme della struttura e l’accesso alle varie sezioni. Ciò naturalmente ha implicato anche lo spostamento di raccolte, particolarmente del fondo antico, dando luogo a contestazioni piuttosto assurde che si sono riflesse addirittura sul piano giudiziario a carico del direttore. La vicenda non si è comunque conclusa in maniera soddisfacente, restando aperto un contenzioso tra architetti incaricati della ristrutturazione ed esperti di biblioteche, tra i quali in primis lo stesso direttore. Per una soluzione più armonica avrebbe evidentemente dovuto intervenire il Comune, che invece ha lasciato isolato il direttore, a cui peraltro è stato poi conferito l’incarico su tutto il settore bibliotecario e museale.
Questa parte della vicenda storica della Joppi ci riporta al primo dei quesiti che sono stati posti in apertura: quali funzioni possono dirsi oggi caratteristiche di una biblioteca locale in relazione ai nuovi contesti culturali aperti soprattutto dall’informatica. In linea di massima a me sembra di poter asserire che l’aspetto fondamentale che presentano oggi tali strutture è costituito proprio dagli spazi attrezzati che esse mettono a disposizione. L’osservazione può apparire paradossale se si pensa alla cosiddetta ‘dematerializzazione’ del documento risultante dai progetti di digitalizzazione. Eppure proprio questo aspetto mette in discussione il rapporto tradizionale tra spazi e raccolte. La ricerca bibliografica, ad esempio, viene oggi per lo più compiuta fuori dalla biblioteca, mentre l’accesso agli scaffali aperti sembra essere estremamente ridotto, specialmente per l’utenza giovanile. Ciò che si cerca in biblioteca è quindi principalmente uno spazio per la lettura che però prescinde largamente dal suo posseduto e acquista valore come luogo di una possibile, più o meno esplicita, socializzazione.
A partire grosso modo dalla metà degli anni Settanta del secolo scorso, le biblioteche di enti locali hanno subito, a opera delle neo-istituite regioni, un processo di coordinamento in sistemi bibliotecari, certamente più consistente, almeno per alcuni casi prevalentemente in Italia settentrionale, di quanto precedentemente attuato in ambito ministeriale. Se il modello precedente ricordava troppo da vicino (anche in Friuli) le pratiche di una società contadina in cui le famiglie raccolte intorno al desco attingono con un proprio pezzo di pane a un’unica zuppiera, il modello proposto dai sistemi bibliotecari regionali è quello di una cooperazione in varie forme tra strutture che tuttavia, almeno fino alla riforma degli enti locali di base attuata nel 1990 (Legge 8 giugno 1990, n. 142, Ordinamento delle autonomie locali) sono rimaste di dimensioni e di capacità assai limitate.
Punto essenziale dei rapporti tra regioni e biblioteche (dopo il dettato costituzionale e le infelicissime nuove riforme che hanno condotto, ad esempio, ad attribuire alle soprintendenze archivistiche il controllo sulla tutela di tutti i beni librari) è costituito dal passaggio dall’autonomia legislativa e amministrativa regionale alla centralità dell’autonomia comunale, prima responsabile della realizzazione dei servizi di base.
Proprio a partire dalla riforma dell’ordinamento comunale, che sembra un po’ sottovalutata nella trattazione di Vecchiet, nascono in comuni di medie e anche piccole dimensioni nuove realtà bibliotecarie che richiedono per la loro istituzione stanziamenti la cui valutazione è in miliardi di lire (cifre inconcepibili nel sistema precedente) e per il loro mantenimento qualche milione di lire all’anno, pur restando assai limitata la spesa per acquisti librari.
A questo punto si potrebbe incominciare a parlare anche per l’Italia di biblioteche e sistemi bibliotecari comparabili alle public library anglosassoni; se non che il contesto storico, economico e sociale, entro cui si poneva la public library, è ormai mutato profondamente lungo più di un secolo di storia.
La public library nasce a metà dell’Ottocento in Gran Bretagna e negli Stati Uniti su dei canoni programmatici abbastanza precisi. Essi sono costituiti non tanto dall’apertura al pubblico che era già ben presente, ad esempio, nella realtà italiana, ma dall’istituzione di un vero e proprio servizio pubblico, finanziato regolarmente da tasse locali e poi da interventi di mecenatismo industriale di enorme portata. La public library costituisce insomma più che un ‘istituto della democrazia’, come si è voluto sostenere su base ideologica, un istituto del capitalismo industriale e soggiace alle regole di questa cultura: grandi investimenti, finalità di inclusione nel sistema sociale, controllo istituzionale. Una cultura di questo tipo, propria della prima rivoluzione industriale, può dirsi in larga misura superata anche nei paesi che l’hanno originata, dove sono attualmente in primo piano problemi diversi da quelli di un industrialismo meccanico; in primo luogo le tecniche di produzione, gestione e controllo dell’informazione: campi questi nei quali anche le biblioteche sono chiamate a esercitare un proprio ruolo, in termini ancora in gran parte da definire.
Nella legislazione italiana l’aggettivo ‘pubblica’ è riservato esclusivamente alle biblioteche pubbliche statali, tra le quali alcune, come quelle dei monumenti nazionali, non presentano neppure i requisiti minimi di pubblicità nel senso più tradizionale. Sul quesito se si possa e si debba parlare in Italia di biblioteca pubblica la risposta a mio parere è negativa, in quanto il termine è oggi produttivo più di confusione che di chiarezza.
Resta tuttavia da difendere il ruolo delle biblioteche locali almeno sotto due profili: quello di luoghi di aggregazione di un’utenza che, sia pure socialmente determinata, non trova riscontri analoghi in altre strutture, e quello di una diffusione del sapere che, se bene organizzata, superando limiti localistici, può effettivamente contribuire a una crescita culturale. 

Paolo Traniello
già Università degli studi Roma Tre