Le donne nell’editoria del ’900: fonti e casi di studio (Università degli studi di Milano, 8 marzo 2023)

Angelica Cremascoli

Introduzione

Sulla scia del convegno “L’altra metà dell’editoria: le professioniste del libro e della lettura nel Novecento” (Milano, 23-26 novembre 2020) e della pubblicazione dei relativi atti1, il Centro Apice e il Dipartimento di Studi storici dell’Università degli studi di Milano si sono fatti promotori di un’altra iniziativa volta a proseguire la riflessione sul professionismo delle donne nella filiera del libro e nella promozione editoriale, allo scopo di valorizzare un ambito di studi che richiede ancora molto lavoro. Lo ha sottolineato Lodovica Braida in apertura della giornata, ricordando la difficoltà intrinseca nell’individuazione e nell’utilizzo di fonti adeguate e la marginalizzazione dell’operato femminile nel contesto editoriale, nel quale le tracce delle professioniste si frammentano e si disperdono. Considerato il carattere ibrido e opaco dell’impegno delle donne in editoria, oltre che la sua scarsa visibilità, resta dunque l’obiettivo di ampliare gli orizzonti di studio con la ricostruzione delle biografie e dell’attività delle figure protagoniste e di discutere riguardo a fonti e a metodologie di ricerca, campo nel quale a spiccare e a fornire ottime suggestioni per questo secondo appuntamento è il recente interesse nei confronti degli archivi editoriali e autoriali.
Braida cita come esempio il volume L’autore e il suo archivio, curato da Simone Albonico e Niccolò Scaffai e pubblicato da Officina letteraria nel 2015, a seguito di un convegno tenutosi a Losanna nel 2013. L’opera, pur non includendo nessuna figura femminile, raccoglie dodici saggi incentrati sugli archivi letterari e sulle ragioni alla base della loro costituzione, ponendo numerose questioni generali e di metodo, utili ad ampliare la riflessione circa questa particolare tipologia di fonti e segno di un’attenzione crescente verso il tema. Come emerge dal volume, gli archivi autoriali ed editoriali possono infatti riflettere le scelte operate nel tempo da parte degli autori in relazione alla propria attività e alla conservazione della propria memoria, possono esprimere le ragioni che hanno determinato la sopravvivenza di alcuni materiali piuttosto che di altri e si prestano a un approccio analitico, caratterizzato da uno sguardo complessivo, esteso all’intero corpus delle carte conservate dall’autore, più che parziale, incentrato sul singolo documento o sulla singola opera.
Sulla scorta di tale esempio, Braida illustra i percorsi di studio e ricerca su cui si muovono i contributi del convegno, individuando nella ricostruzione del profilo intellettuale e culturale di una determinata personalità e nel rapporto tra la sua immagine nota e quella ricostruibile dall’archivio i due ambiti di rilievo nei quali si sono inscritti i lavori: un apporto prezioso, tra le altre cose, per interrogarsi sulle professioniste editoriali che hanno manifestato la volontà di costituire e conservare un proprio archivio, veicolo di un proprio autoritratto, e per mettere in luce il nesso imprescindibile tra gli archivi finora studiati, cioè quello tra scrittura, affermazione di un’identità intellettuale e necessità di documentare la propria carriera e la propria vita attraverso la conservazione di documenti privati.
In quest’ottica, di fondamentale importanza, ricorda Braida, sono gli studi avviati all’inizio degli anni Duemila sull’archivio di Alba De Céspedes, conservato presso la Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, e sull’archivio di Elsa Morante, conservato presso la Biblioteca nazionale centrale di Roma, o ancora sull’archivio di Gianna Manzini, le cui carte sono conservate da tre diversi enti, la Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, la Biblioteca nazionale centrale di Roma e l’Università La Sapienza di Roma. Come ulteriore testimonianza relativa agli archivi femminili e ai loro significati, viene inoltre citato il numero monografico Archivi letterari del Novecento: gli archivi femminili, curato da Giuliana Zagra, Monica Davini, Maddalena Maria Cubas e pubblicato sulla rivista I quaderni del Novecento nel 2019, che, tramite l’analisi delle carte d’archivio di una traduttrice e diverse scrittrici, sottolinea come la scrittura abbia effettivamente rappresentato in molteplici occasioni un’«apripista per l’affermazione di un’identità intellettuale»2. Ma Braida insiste anche e soprattutto nel definire e nell’enucleare linee metodologiche precise a supporto dello studio di queste fonti e a espressione concreta di quanto, grazie al convegno, ci si è prefissati di discutere: si dimostra essenziale, per esempio, comprendere l’esistenza o meno di un elemento di volontarietà del soggetto produttore, o se invece la costituzione dell’archivio sia il risultato di una cumulazione involontaria e casuale, specialmente quando a voler costruire e documentare la propria storia, il proprio cammino verso la conquista di un’identità e un ruolo professionale e culturale, sono le donne. Questo perché la volontarietà presuppone gesti di valore filologico che uno storico non può non considerare, come la scelta e l’utilizzo di un criterio d’ordine delle carte o l’individuazione, all’interno di esse, di «un luogo della propria identità», costruito e offerto con consapevolezza al fine di «offrire un ponte per la memoria di sé nel futuro».
Il convegno si è articolato in due sessioni, quella della mattina e quella del pomeriggio, a racchiudere un programma ricco e intenso che riprende e approfondisce il tema della femminilizzazione del lavoro editoriale e il tema dell’utilizzo dell’editoria come sonda del lavoro femminile, affrontando il problema delle fonti e portando a emergere, grazie a un percorso complesso e interdisciplinare che attraversa la storia di genere, la storia delle professioni e la storia della cultura, autrici, traduttrici, editrici, redattrici dal profilo vivace e sfaccettato, spesso soffocato dall’ombra degli uomini e, pertanto, difficile da restituire. 

Fonti del sé

La prima sessione del convegno, nella mattinata dell’8 marzo, coordinata da Lodovica Braida e intitolata “Fonti del sé”, ha visto le relazioni di Elisa Marazzi (Università degli studi di Milano) Emilia Santamaria costruttrice di memoria: ricerca, pedagogia, editoria, Anna Ferrando (Università di Pavia) Donne e traduzioni nel Novecento: fonti epistolari, problemi e prospettive di ricerca, Simone Cattaneo (Università degli studi di Milano) L’editoria al femminile di Esther Tusquets: una questione di classe, Irene Piazzoni (Università degli studi di Milano) Narrate, donne, la vostra storia: Laura Lepetit e l’autobiografia ‘di tutte’, Sara Sullam (Università degli studi di Milano) Memorie di professioniste dell’editoria britannica nel secondo Novecento.
pElisa Marazzi indaga sul ruolo della pedagogista Emilia Formiggini Santamaria, moglie di Angelo Fortunato Formiggini, nelle vicende della casa editrice del marito e nella preservazione della sua memoria, sottolineando quanto la sua identità culturale e professionale si sia affermata in piena luce e in piena autonomia, in altri canali e in altre sedi, rispetto alla Formiggini, pur godendo del rapporto privilegiato con essa. Se l’attività editoriale di Santamaria diventa sistematica nel 1918, anno di fondazione dell’Italia che scrive, rivista bibliografica che, nel corso del tempo, si trasforma nella tribuna d’espressione del suo pensiero pedagogico, dopo il suicidio del marito, avvenuto nel novembre del 1938, Emilia si fa custode e vettore dell’archivio Formiggini e del suo archivio personale, versato da lei stessa il 1° dicembre 1938 in Biblioteca Estense, allo scopo di combattere la condanna all’oblio sancita dal regime fascista. In linea con le coordinate metodologiche del convegno, Marazzi descrive la rilevanza, le problematiche e le peculiarità di tale archivio di persona, sollevando la questione della volontarietà, ancora da esplorare pienamente, data dalle operazioni di selezione delle informazioni da conservare da parte non solo del soggetto produttore, Angelo Fortunato Formiggini, ma anche della moglie, i cui principi e criteri restano poco chiari.
Anna Ferrando si concentra invece sul settore delle traduzioni, partendo dai carteggi delle traduttrici degli anni Trenta. La sua tesi e la sua linea interpretativa si condensano nell’idea che la pratica della traduzione e l’industria delle traduzioni fossero percepite come canale d’ingresso nell’ambito editoriale e, con esso, nel mondo della cultura, a partire dal quale costruire un’identità professionale e conquistare margini di emancipazione. Ferrando pone due domande di fondo: perché così tante donne in quegli anni cominciano a tradurre? Cosa significa per loro quello spazio culturale? Anche in questo caso il richiamo è al problema metodologico, dovuto nello specifico alla dispersione delle fonti e all’eterogeneità dei materiali d’archivio fruibili (corrispondenza privata e familiare, corrispondenza redazionale, schede di lettura, corrispondenza per l’acquisto dei diritti). La riflessione di Ferrando è incentrata sulla fonte epistolare in quanto fonte del sé e interlocutrice di altre forme di scrittura, diaristica e autobiografica, che rimandano alla soggettività dello scrivente: ne è un esempio l’archivio di Alessandra Scalero, traduttrice vissuta tra il 1893 e il 1944, conservato presso la Biblioteca civica di Mazzé.
L’intervento di Simone Cattaneo è dedicato alla figura proteiforme e affascinante di Esther Tusquets (1936-2012), direttrice della casa editrice Lumen. Per mostrare le peculiarità della sua esperienza professionale, Cattaneo si avvale di tre libri di carattere autobiografico: Confeciones de una editora poco mentirosa (Lumen, 2005), una raccolta di aneddoti riguardanti la sua attività lavorativa; Habíamos ganado la guerra (Bruguera, 2007), che ricostruisce le tappe dell’infanzia e dell’adolescenza di Tusquets fino all’ingresso in università, e Confeciones de una vieja dama indigna (Bruguera, 2009), versione ampliata dei due libri precedenti. Letti nella loro totalità, ne risulta un quadro d’insieme di grande interesse per la costruzione a posteriori, volontaria e consapevole, di un’identità, professionale e culturale, e del suo rapporto imprescindibile con la casa editrice. La vita di Tusquets, infatti, va di pari passo con le vicende di Lumen, che esordisce nell’ambito del libro per ragazzi e degli albi illustrati, che, negli anni Sessanta, s’impone come faro del contesto editoriale spagnolo, e il cui catalogo e le cui scelte dialogano direttamente con i fatti narrati nelle opere autobiografiche della sua direttrice, e quindi con gli eventi che ne hanno segnato e influenzato l’esistenza.
Al contributo di Cattaneo si lega quello di Irene Piazzoni, che, per tratteggiare la personalità intellettuale e l’attività di Laura Lepetit, si avvale dell’opera Autobiografia di una femminista distratta (Nottetempo, 2016), in cui la fondatrice della Tartaruga, la sigla editoriale femminista più longeva d’Italia, riflette sul cimento della scrittura e veicola un’idea ragionata e personale di autobiografia: non un atto di rispecchiamento ma di profonda comunicazione con sé e con gli altri, vettore di un autoritratto di gruppo, che nel caso di Lepetit include lettrici, autrici e compagne femministe, oltre che frutto dell’esperienza di editrice avvezza ai linguaggi originali del pensiero femminista. In entrambi i contributi vengono poste in luce le insidie insite nella fonte autobiografica, come il controverso concetto di verità che si propone di rappresentare ed esprimere o il suo essere costruzione, interpretazione, opera di autorappresentazione, e pertanto «da leggere nella sua stratificazione di significati e di valenze». Piazzoni discute così i punti che affiorano con più forza dall’autobiografia di Lepetit, come la sua formazione e il suo ambiente sociale e familiare, la ricerca di un’identità professionale, il rapporto con la sfera politica e l’impegno atto all’emersione e alla valorizzazione della coscienza femminile, il cui risultato è un catalogo che abbraccia e riflette l’esistenza di tutte le donne, invitate a narrarsi e a usare la propria voce per farlo.
Sara Sullam riprende le fila delle relazioni precedenti affrontando sia il problema delle fonti del sé sia le fonti d’archivio relative alle traduttrici, le quali tendono a diminuire in concomitanza con un ingresso più strutturato all’interno del mondo editoriale. Caso emblematico in tal senso è quello di Ada Salvatore, traduttrice per il già citato Formiggini del Tristram Shandy, che inizia a lavorare come traduttrice e consulente per poi approdare alla redazione dei periodici di Mondadori, in un progressivo professionalizzarsi che corrisponde anche a un progressivo diradarsi delle sue tracce negli archivi editoriali. Sullam ricorda come nel secondo Novecento la presenza delle donne in editoria fosse altissima, concentrandosi sulla «tensione tra identità professionale e restituzione soggettiva attraverso il racconto autobiografico» e presentando tre casi studio di memorie femminili, che riflettono altrettanti modi differenti di restituire l’esperienza all’interno dell’industria editoriale: Memoir. 1906-1969 di Manya Harari (Harvill Press, 1972), fondatrice della Harvill Press (1946-1954) con Marion Villiers; Stet. An editor’s life di Diana Athill (Grove Pr, 2002), unico volume di una serie autobiografica che riguarda la carriera editoriale dell’autrice, editor e redattrice presso la Andre Deutsch Ltd., e A life on my own di Claire Tomalin (Viking, 2017), scritto al termine di una lunga carriera di biografa.
Nel corso della discussione è stato messo in luce come gli studi sulle professioni femminili e sul lavoro delle donne in editoria siano lacunosi anche a causa della fluidità intrinseca dei mestieri editoriali e come sia l’irrobustimento stesso dell’industria a condurre verso una definizione più chiara e formale delle figure coinvolte a vario titolo nella filiera. Tema, quello di uno sguardo da rivolgere ai tempi, agli snodi, allo sviluppo del sistema editoriale e culturale in generale per arrivare a una forte contestualizzazione della storia delle donne in editoria, che si affianca a quello del trattamento delle cosiddette fonti del sé, per loro natura molto complesse e metodologicamente critiche, come sottolineato da ciascuno dei relatori nel corso della sessione. 

Una stanza tutta per sé? Casi di studio e progetti di digitalizzazione

La seconda e ultima sessione del convegno, nel pomeriggio dell’8 marzo, presieduta da Giovanna Rosa e Fabio Guidali e intitolata “Una stanza tutta per sé? Casi di studio e progetti di digitalizzazione”, ha ospitato gli interventi di Alberto Cadioli (Università degli studi di Milano) Laura Novati tra lavoro editoriale e studi sull’editoria, Roberta Cesana (Università degli studi di Milano) Anarchia e carta stampata: un binomio indissolubile nell’esperienza di Leda Rafanelli, Teresa Franco (Università degli studi di Milano) Tradurre in un letto di rose: Adriana Motti e la casa editrice Einaudi, Nicola Wilson (Università di Reading) Digitising the archive: Virginia Woolf and women workers at the Hogarth Press, Giuliana Zagra (Biblioteca nazionale centrale di Roma) La stanza di Elsa Morante alla Biblioteca nazionale di Roma: l’archivio di tutta la vita.
Il contributo di Alberto Cadioli si concentra sulla figura di Laura Novati (1943-2021) e sul suo ruolo di studiosa, consulente editoriale e collaboratrice del Giornale della libreria, riflettendo sulla poliedricità delle attività che ha svolto nel corso del tempo e sulle difficoltà che oggi si presentano a chi voglia individuare le fonti più adatte a restituirne linearmente e chiaramente l’esperienza. Cadioli, infatti, sottolinea come i ruoli di Novati, così come dei collaboratori editoriali in generale, non abbiano generato archivi personali propriamente detti, circostanza che obbliga a interrogarsi sulla localizzazione delle loro carte, spesso disseminate nei vari archivi editoriali. Ma, in questo intervento, il problema delle fonti s’intreccia a un’interessante ricostruzione del profilo e del percorso professionale di Novati, a partire dal suo lavoro alla Marietti, casa editrice genovese, fino a giungere al suo impegno per il rinnovamento del già citato Giornale della libreria, organo ufficiale dell’Associazione italiana editori, contemporaneo all’attività di consulenza per le case editrici. Per il Giornale Novati firma circa seicento articoli, usando il proprio nome o uno pseudonimo, come quello di Gaia Weiss, nei quali emerge lo spiccato interesse per i fenomeni del contesto editoriale e culturale italiano, inscritti in una riflessione più ampia sulla condizione del libro e della lettura, a dimostrazione della liquidità e versatilità della sua figura e identità professionale.
Roberta Cesana pone invece i riflettori su una personalità complessa, poliedrica e anticonformista quale Leda Rafanelli (1880-1971), prima tipografa, poi libraia e infine editrice, militante tra le fila dell’individualismo anarchico di inizio Novecento, la cui biografia, unitamente all’attività letteraria e pubblicistica, è ampiamente documentata nelle carte del fondo conservato presso l’Archivio Berneri-Chessa di Reggio Emilia. Unendo allo studio delle carte d’archivio quello della copiosa produzione letteraria e pubblicistica della Rafanelli, e concentrandosi soprattutto sulle sue scritture autobiografiche (che si fanno più frequenti a partire dagli anni Quaranta, quando abbandona la militanza politica), risulta possibile ricostruire il suo protagonismo e la sua individuale iniziativa nel quadro di numerose imprese editoriali: il precoce apprendistato in tipografia, le prime pubblicazioni come autrice presso i maggiori editori socialisti e anarchici, l’attività pubblicistica estesa fino a oltreoceano, la collaborazione con la Società editrice milanese di Giambattista Pirolini, i contatti con Carlo Carrà che illustra numerose copertine per la Libreria editrice sociale, la scelta degli autori da proporre in catalogo, il suo continuo impegno in lavori tipografici per finanziare le iniziative della Casa editrice Sociale che fonda con Giuseppe Monanni, all’ombra del quale è finora spesso stata, riduttivamente, letta anche la storia di Leda Rafanelli.
Nella sua ricerca sul ruolo delle traduttrici nella storia dell’editoria italiana del Novecento, Teresa Franco si concentra invece sul caso di Adriana Motti, una prolifica traduttrice dall’inglese nota soprattutto per aver tradotto per Einaudi, nel 1961, Il giovane Holden, una versione che ha goduto di straordinaria longevità. Franco ricostruisce la traiettoria della vita professionale di Motti, come si avvicina a questo mestiere, quali sono le condizioni nelle quali lo ha esercitato, e lo fa evidenziando il punto di vista della traduttrice, insieme con gli ostacoli che ha dovuto superare per consolidare e affermare la propria attività. Motti resta una figura piuttosto in ombra, che, secondo il suo epistolario, fonte utilizzata da Franco, stenta a identificarsi nell’immagine della traduttrice riconosciuta e ripagata dal successo, sentendosi al contrario più affine a una lavoratrice precaria, che vive nell’incertezza economica e immersa tra le fatiche spinose della traduzione. L’epistolario è folto e attraverso di esso è possibile ripercorrere l’intero arco della collaborazione con Einaudi, durata dal 1951 al 1968, oltre che rintracciare i fili dei numerosi rapporti professionali di Motti e recuperare la sua voce autoriale.
Nicola Wilson è tra le fondatrici del MAPP (Modernist Archive Publishing Project), un progetto di digitalizzazione sorto nel 2013 attorno all’interesse per la Hogarth Press, casa editrice fondata nel 1917 da Leonard e Virginia Woolf. Wilson presenta i risultati finora raggiunti dal MAPP, il cui obiettivo è quello di contestualizzare e mostrare su larga scala gli archivi dispersi degli editori, focalizzandosi sulla prima metà del Novecento e rispondendo così ai problemi incontrati dai ricercatori nel lavorare su archivi disseminati per il mondo. L’attività del MAPP, supportata da diversi partner, come la University of Texas, lo Smith College, la University of Toronto e la Washington State University, affonda le radici negli studi sul libro e sull’editoria per proporre, grazie alle digital humanities, una nuova idea di libro, che da oggetto materico diventa uno scenario di eventi, condizioni materiali e attività. Il MAPP infatti non riguarda solo le opere ma anche le persone, redattori, editori, traduttori, illustratori, che gravitano attorno alle edizioni, collegate reciprocamente a ulteriori item come la corrispondenza. Unificando tra loro oggetti così eterogenei, l’archivio si ‘anima’, veicolando recupero e scoperta, resi possibili da un uso consapevole, raffinato e creativo della digitalizzazione, insieme alla creazione e alla proposta d’inediti percorsi di accesso, tra cui quello che conduce ai possibili studi d’approfondimento sulle molte professioniste donne coinvolte nella Hogarth Press.
Giuliana Zagra, col suo intervento, porta un caso emblematico d’intreccio tra documenti e biografia, descritto dal punto d’osservazione della Biblioteca nazionale centrale di Roma, per cui, in quanto responsabile dell’Ufficio archivi e biblioteche letterarie contemporanee, ha contribuito ad acquisire e a valorizzare la biblioteca di Elsa Morante. Zagra racconta l’incontro con l’archivio Morante e la costruzione, o ricostruzione, della sua stanza, del suo laboratorio: un vero e proprio sistema museale sviluppatosi all’interno della Biblioteca nazionale di Roma, che include documenti, oggetti, mobili donati dagli eredi in un processo di acquisizione durato molti anni. Il primo nucleo di carte, spiega Zagra, è arrivato alla Nazionale di Roma all’indomani della scomparsa di Morante, avvenuta il 25 novembre 1985, e, attraverso tutte le sue opere edite, ne rappresenta l’intero percorso di scrittura, dalle bozze ai dattiloscritti. La seconda tranche di documenti, acquisita nel 2007, completa tale processo, consentendo lo studio approfondito della scrittura di Morante sia tramite le opere sia tramite l’esplorazione del suo ambiente di lavoro, uno spazio personale, in cui tutto è originale e niente è artificioso.
Lo spazio rientra pienamente, grazie a quest’ultima relazione, tra le fonti del sé, a conclusione di un convegno durante il quale proprio lo spazio, astratto e concreto, occupato dalle donne in editoria, ricoprendo qualunque tipo di ruolo professionale, è stato, secondo Giovanna Rosa, oggetto principale di un osservatorio privilegiato, caratterizzato dalla convergenza di discipline, studi e ricerche. Se questo incontro avviene grazie al sorgere e allo sviluppo di un nuovo sguardo sul lavoro editoriale femminile e sulle prospettive delle donne coinvolte in esso, il quadro che ne risulta finisce in modo quasi fisiologico per includere anche una conoscenza arricchita dei protagonisti maschili e, di conseguenza, per mostrarsi, o ambire a mostrarsi, finalmente completo in ogni sua parte, in ogni sua sfumatura, da quella più in luce a quella più in ombra.

Articolo proposto il 17 maggio 2023 e accettato il 16 giugno 2023.


Note

1 L’altra metà dell’editoria: le professioniste del libro e della lettura nel Novecento, a cura di Roberta Cesana e Irene Piazzoni. Vicenza: Ronzani, 2022.
<2 Le citazioni che seguono sono tratte dalla registrazione del convegno, che sarà a breve disponibile sul sito del Centro Apice.