Franco Neri
I Manifesti UNESCO sulla biblioteca pubblica hanno una lunga storia, le cui origini datano all’immediato secondo dopoguerra. Il primo Manifesto risale al 1949, e della filosofia visionaria UNESCO dei primi anni è espressione di rara efficacia.
Il suo primo aggiornamento, frutto di collaborazione con IFLA, è del 1972.
Dal 1994 i Manifesti sono ricondotti alla responsabilità congiunta IFLA/UNESCO.
Nell’analizzare il Manifesto del 1949 terremo presente la lezione di Robert Darnton in The case for books: past, present and future1: un’opera che procede, con una organizzazione tripartita e apparentemente a ritroso, dal futuro al passato, con una continua messa in gioco di sincronia e diacronia.
Dal 1 al 16 novembre 1945 si tiene a Londra la Conferenza delle neonate Nazioni Unite2 per la costituzione di una organizzazione educativa e culturale dell’ONU. Nel corso della conferenza il nome della nuova organizzazione assunse, dietro le insistenze della delegazione inglese, una più ampia denominazione, coprendo anche l’orizzonte scientifico: United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization.
Recita il preambolo3 dell’Atto costitutivo:
The Governments of the States parties to this Constitution on behalf of their peoples declare:
«Nello spirito degli uomini», in the minds of men recita la versione inglese dell’atto fondativo5.
È questa l’ispirazione di fondo che prevale nell’UNESCO dei primi anni, a partire dalla 1a Conferenza generale dell’Organizzazione (Parigi, 20 novembre - 10 dicembre 1946).
È stato da poco nominato Direttore generale dell’UNESCO (1946-1948) lo scienziato e intellettuale Julian Huxley (1887-1975). Egli, che ha creduto con forza nel corso degli anni Trenta nella possibilità che l’intensificarsi della cooperazione e degli scambi culturali internazionali potessero agire efficacemente da antidoto alle crescenti tensioni e venti di guerra6, è fra i più convinti assertori nel dopoguerra della necessità di un nuovo umanesimo7.
I fondamenti di questo nuovo umanesimo consistono innanzitutto nella connessione fra ‘cittadinanza mondiale’ (world citizenship), cosmopolitismo e ricerca di una cooperazione educativa e culturale oltre le frontiere nazionali. Il senso della catastrofe percepita e vissuta, e della possibilità di una sua riproduzione futura, ponevano l’educazione e la cultura come fondamenti imprescindibili della costruzione di un mondo di pace, della promozione della pace.
Vi è uno scarto netto, una rottura rispetto ai convincimenti di quindici anni prima: la cooperazione intellettuale fra élites non è sufficiente. La prospettiva cosmopolita si è trasformata.
Analizziamo più a fondo il testo del 1949. Innanzitutto quello che convenzionalmente identifichiamo come Manifesto, e che nel 1972 sarà denominato UNESCO Public Library Manifesto con una denominazione di ‘genere testuale’ connessa all’ambito tematico di riferimento, nel 1949 ha tutt’altro titolo, The public library, a living force for popular education. È una distinzione fondamentale. Il titolo esclusivamente tematico esprime un focus centrato sull’orizzonte valoriale dell’istituzione, sui principi che ne guidano l’esistenza stessa: «a living force for popular education».
In questo contributo lo continueremo a chiamare Manifesto perché sarà il termine con cui UNESCO, a partire dai primi anni Cinquanta, riterrà più congruo definirlo o riproporlo nelle sue pubblicazioni: ma è essenziale sottolineare il valore del titolo effettivo del testo per una sua più esatta comprensione e inquadramento culturale.
Soffermiamoci innanzitutto sul sintagma popular education8: esso denota un processo continuo di formazione e autoformazione diffuso in sedi formali e informali, intessuto di competenze di vita e di competenze/alfabeti disciplinari, che sostiene l’esistenza e la crescita delle persone e di comunità/gruppi.
Il Manifesto si presenta in una forma e in un linguaggio inusuale: è un testo stilisticamente evocativo e letterariamente di rara efficacia.
Con la pubblicazione del Manifesto si dà attuazione a una delle risoluzioni della 2. Conferenza generale UNESCO (Messico, novembre-dicembre 1947): promuovere «the development and extension of public libraries» mediante la realizzazione di agili strumenti come leaflets.
Nella risoluzione c’è una parola chiave: extension. Essa all’epoca ha già una storia pluridecennale, che ha inizio alla fine del secolo XIX, ma affonda le sue radici in un dibattito interno alla biblioteconomia nordamericana a partire dagli anni Settanta, caratterizzandone due linee divergenti di sviluppo: da un lato l’idea di una library economy9 (Melvil Dewey), di un servizio che dovesse essere reso il più possibile efficiente, coerente sia nei linguaggi tecnici che nella metodologia di erogazione e valutazione, nonché negli allestimenti stessi. La possibilità di accrescere, quantitativamente e qualitativamente, il pubblico delle biblioteche dipendeva primariamente dalla qualità e coerenza del servizio erogato.
Dall’altro, in una organizzazione bibliotecaria fortemente policentrica come quella statunitense, il tentativo di portare i libri e la lettura anche fuori dagli spazi istituzionali: biblioteche viaggianti; biblioteche di fattoria per famiglie di agricoltori che abitavano in zone non contigue; servizi per ragazzi; promozione della biblioteca presso i potenziali lettori migranti che a fine secolo affollano il porto di New York. Non servizi e attività concepiti in un orizzonte ‘aggiuntivo’, ma l’ansia di ampliare contemporaneamente raggio di azione e profilo del servizio.
Nella prima metà del secolo XX, con cadenze non omogenee fra i decenni, numerose sono le pubblicazioni di biblioteconomia, prima di area statunitense, poi britannica, caratterizzate nel titolo dal sintagma library extension. Il tema tocca il cuore dell’identità e della funzione sociale della biblioteca pubblica. A titolo esemplificativo, e in ordinamento cronologico:
Stati Uniti:
Gran Bretagna: Gli studi più significativi provengono da Lionel Roy McColvin, fra i più attivi collaboratori di UNESCO fra 1948 e fine anni Cinquanta:
Affermerà Ranganathan nelle Five laws of library science10 che l’utilità sociale dei libri «is not only for the dissemination of knowledge, but also for the extension of the boundaries of knowledge». Per correlazione, come è usuale nel pensiero di Ranganathan, ciò che è funzione della risorsa (i libri) è funzione, etica e intellettuale, dell’istituzione: i libri e le biblioteche vedono la loro più profonda missione realizzarsi nell’ampliamento dei confini della conoscenza, nello spostarne in avanti il perimetro.
Un ampio capitoletto Extension work11 è dedicato specificatamente al tema nel capitolo 5, The third law. Con richiamo in nota al primo testo di Lionel R. McColvin sull’argomento12, Ranganathan vede l’extension work come una delle modalità con cui il servizio ricerca e favorisce l’incontro fra risorse e opportunità di conoscenza e lettori. Ma i lettori, come ha ampiamente illustrato nei capitoli 2-4 dedicati all’esame della seconda legge (Books are for all, nella modulazione del 1931), non sono dati: l’orizzonte è quello amplissimo dei non lettori e di coloro che, per condizione sociale, di ceto, di limitazioni fisiche o temporanee (degenti, carcerati) rimangono al di fuori del circuito della lettura e del sapere.
Torniamo all’analisi del Manifesto 1949.
La premessa, dal titolo UNESCO and Public libraries, colloca la missione della biblioteca pubblica come naturale contestualizzazione della finalità dell’UNESCO: «to promote peace and social and spiritual welfare by working through the minds of men». La promozione della pace e dell’international understanding sono missioni sovraordinate a quelle di ambito. La realtà di un mondo interdipendente che potrebbe divenire one world/one mankind richiede con forza lo sviluppo di scambi interculturali e dialoghi fra culture e paesi. È un orizzonte molto diverso (anche se le sue radici in parte affondano in quella storia) da quello dell’International Institute of Intellectual Cooperation, sorto nel 1922 all’interno della Lega delle Nazioni.
L’esame della struttura argomentativa del testo rivela una originale bipartizione:
Il termine prescelto, agency, richiama la grande sociologia americana degli anni Trenta-Quaranta (Talcott Parsons, innanzitutto) e una visione della biblioteca come struttura necessaria per la comunità, per il suo equilibrio e progresso sociale e intellettuale. La richiama, come vedremo, in una prospettiva di cambiamento, non di conservazione di rapporti dati. La premessa dichiara immediatamente il background valoriale:
The public library is a product of modern democracy and a practical demonstration of democracy's faith in universal education as a life-long process.
Già qui, da un punto di vista della struttura argomentativa, vi è una non indifferente differenza con i Manifesti successivi: il testo del 1949 dichiara missioni sociali, culturali e istituzionali, individua pubblici di riferimento e i legami delle biblioteche pubbliche da un lato con le comunità locali, dall’altro con il mondo e le culture. Dichiara la fede in una istituzione democratica (pertanto educatrice alla democrazia), aperta e gratuita «on equal terms, to all members of the community, regardless of occupation, creed, class or race», ma non enuncia servizi specifici.
Scarsa sensibilità nei confronti di questi? Tutt’altro, semplicemente non è quello l’orizzonte di riferimento né il livello di discorso prescelto.
La presenza del modo condizionale nel titolo è affermazione di strategia da perseguire sin d’ora per il futuro, immediatamente spiegata da quanto segue:
«The complete public library should provide»: complete, compiuta, una biblioteca completamente funzionante, nella interazione e compiutezza dei suoi elementi di servizio. E subito dopo recita: «books, pamphlets, magazines, newspapers, maps, pictures, films, music scores and recordings».
Sono indicati tutti i supporti di conoscenza registrata esistenti all’epoca. Non è assolutamente vero quanto sostenuto da molti che l’orizzonte del Manifesto 1949 sia esclusivamente librario. Una biblioteca pubblica per essere tale, nella compiutezza dei propri servizi, dovrebbe ospitare nelle proprie collezioni una differenziata e ricca tipologia di risorse, e garantirne accesso e guida all’uso.
Ma complete indirettamente indica anche una linea di processualità nella costruzione della varietà dell’offerta, a partire dalla concretezza e dall’urgenza delle situazioni.
I destinatari sono un pubblico amplissimo, bambini ragazzi e giovani, uomini e donne verso i quali la biblioteca offre opportunità e stimoli a un apprendimento permanente e all’aggiornamento nei diversi campi del sapere; a coltivare la libertà di espressione e un atteggiamento costruttivamente critico nei confronti di tematiche di interesse pubblico; ad agire come cittadini partecipi «of their country and of the world».
Infine la conoscenza e il sapere producono maggiore efficienza nella vita quotidiana e una felicità e benessere personale e sociale.
È uno dei punti più alti del testo, l’affermazione di una doppia necessaria cittadinanza: del proprio paese e mondiale. I libri, le opportunità di crescita e apprendimento, come aveva affermato Ranganathan, dilatano i confini della conoscenza, e – aggiungiamo noi - dilatano i confini dell’appartenenza.
Il titolo del successivo capitoletto ne è naturale conseguenza:
La vitalità è innanzitutto una vitalità democratica: la biblioteca pubblica «non dovrebbe dire alle persone cosa pensare, ma aiutarle a decidere su cosa pensare».
Sembra incredibile che questo testo sia stato scritto e approvato poco dopo l’inizio della Guerra fredda. Esso colloca l’azione della biblioteca pubblica in una linea di naturale cooperazione con «altre agenzie educative, culturali e sociali, scuole, università, musei, associazioni sindacali, gruppi di studio, gruppi di educazione di adulti ecc.» e in una – non necessariamente scontata – prassi di cooperazione con altre biblioteche per lo scambio di pubblicazioni e con le associazioni professionali dei bibliotecari, «for the advancement of public librarianship».
Librarianship indica sia la professione che la disciplina: il far fronte, da parte delle biblioteche pubbliche, a sfide così importanti e il farlo con altri, promuove contemporaneamente la professione del bibliotecario pubblico e la disciplina che delle biblioteche pubbliche studia le trasformazioni, le vocazioni, i servizi, i linguaggi di mediazione.
Infine la biblioteca pubblica è:
È necessaria un po’ di storia di questa definizione. Essa non nasce all’interno della professione, ma – stando alle nostre ricerche – alla riflessione e alla penna di Alvin Saunders Johnson (1874-1971), economista, sociologo e intellettuale liberal di particolare rilievo negli Stati Uniti fra la fine del secondo decennio e i primi anni Cinquanta, direttore della rivista New Republic, co-direttore della monumentale Encyclopaedia of Social Sciences (1930-1936).
La definizione si trova nell’opera di Johnson The public library, a people’s university13, pubblicata nel 1938 dalla American Association for Adult Education, e ne attraversa compiutamente il testo.
Il tema di fondo del volume, edito poco dopo l’inizio del secondo mandato (1937-1941) di Franklin Delano Roosvelt, all’uscita dal periodo drammatico della Grande Depressione, è il ruolo di guida della biblioteca pubblica nell’educazione degli adulti, in particolare nei processi di educazione e apprendimento informali. Johnson sostiene che è tuttora in gran parte da esplorare il nuovo ruolo delle biblioteche pubbliche «in the intellectual lives of masses»14 e per lo sviluppo di una società democratica che necessita di pensiero critico e del libero confronto senza censure dei diversi punti di vista.
L’esercizio della funzione di people’s university richiede una riconversione della professionalità del bibliotecario e l’acquisizione di un approccio di leadership da parte delle biblioteche rispetto ai bisogni formativi dei loro pubblici15; ma richiede anche una nuova editoria tale da soddisfare bisogni di sapere inesplorati.
La presenza nel Manifesto di tale definizione non è scelta neutra: recupera una recente linea di pensiero, ben presente ai bibliotecari di cultura anglosassone, e la proietta, trasformandone impegno e portata, su un orizzonte mondiale.
Con quali implicazioni? Che una biblioteca pubblica ‘università della gente’ deve offrire a tutti coloro che la frequentano una liberal education: nell’accezione UNESCO, una educazione generale fondata sul superamento della contrapposizione fra sapere umanistico e sapere scientifico. E il tratto peculiare dell’umanesimo UNESCO sin dalle origini, per quanto declinato con accenti diversi nel corso dei decenni16.
Esso rappresenta il fondamento di una cittadinanza partecipe e consapevole che ha sempre necessità di autoformazione («Citizens of a democracy have need of such opportunities for self-education at all times»). Sono proprio la complessità e l’incertezza della vita a richiederlo con una particolare urgenza.
Il legame dell’apprendimento e del sapere con la vita individuale e sociale è quindi connaturato e ha bisogno di luoghi, risorse, possibilità che ne sostanzino l’acquisizione e la condivisione.
Il Manifesto non finisce qui. Inattesa, se commisurata alla struttura dei successivi manifesti, la seconda e conclusiva parte.
Il Manifesto si rivolge direttamente ai destinatari veri, primari del messaggio: i cittadini, individualmente considerati, e nella loro appartenenza comunitaria.
Nella prima parte del Manifesto sono state descritte le potenzialità e la ricchezza della biblioteca pubblica «as an agency for popular education».
Il periodo che segue evidenzia la dimensione sociale del sapere e la costruzione di legami solidali di appartenenza: «Naturalmente è per voi un grande vantaggio vedere realizzate queste potenzialità nella vostra comunità».
E subito dopo un interrogativo che, in realtà, è invito:
È una domanda aperta, non retoricamente conclusiva. Oggi, forse, si considererebbe il testo concluso. Non così gli estensori dell’epoca. Essi, saggiamente crediamo, hanno ritenuto che fosse necessaria una indicazione di prospettiva aperta alla concretezza di possibili sviluppi.
Per le comunità che non dispongono di una biblioteca pubblica – ed è già significativo che si parta dall’ipotesi di una situazione di deprivazione di strutture educative e culturali – si propongono:
sino al conseguimento dell’obiettivo.
Per le comunità che invece dispongono di una biblioteca pubblica si invita a:
Il linguaggio invita all’emersione di energie e competenze in una alleanza ideale fra i cittadini, la comunità e i bibliotecari: un processo dal basso che costruisce il servizio e struttura legami comunitari. Si noti la comparsa del termine standard: «demand for the standard of service endorsed in this manifesto». L’accezione è completamente diversa da quella, prevalentemente quantitativa, che segnerà la riflessione dalla fine degli anni Sessanta all’inizio degli anni Ottanta. Essa indica qui una dimensione qualitativa coerente con la complessità delle missioni evidenziate. É la traduzione, sul piano della complessità e varietà di servizi e risorse, dello stile della biblioteca nei confronti della comunità di riferimento e del suo duplice sguardo: sul territorio e sul mondo.
Nel 2007 il bibliotecario svedese Barbro Thomas sostenne17 la tesi della authorship dello scrittore e intellettuale francese André Maurois rispetto al Manifesto UNESCO 1949. La tesi di Thomas, peraltro non dimostrata adeguatamente né con fonti di archivio né con analisi dello sviluppo tematico, argomentativo e stilistico, veniva riproposta con forza da Amanda Laugesen18.
Altri studiosi, come Miriam Intrator19, ne hanno messa in discussione l’attendibilità riconducendo – sulla base di fonti di archivio - l’elaborazione del testo a un lavoro congiunto coordinato da Edward Julian Carter (1902-1982), responsabile della UNESCO Libraries Division, Richard Hart (1908-2007) responsabile del Department Humanities della Enoch Pratt Free Library di Baltimora, e principalmente Emerson Greenway (1906-1990), allora Direttore della Enoch Pratt Free Library.
Chi scrive ritiene che in linea di principio non si debbano confondere i dati di provenienza biografica e professionale con una automatica appartenenza a linee di tradizione biblioteconomica, e che il tema dell’attribuzione di authorship sia in qualche modo fuorviante rispetto a uno studio, molto più rilevante e storiograficamente pertinente, della compresenza e sintesi di culture (bibliografiche e intellettuali) nel Manifesto UNESCO 1949, e della loro evoluzione, con differenti equilibri, nel corso del decennio successivo.
Con il Manifesto UNESCO 1949 siamo dinanzi a una pubblicazione la cui responsabilità intellettuale è stata assunta dall’organizzazione stessa. Nel Report (22 marzo 1949) elaborato dalla UNESCO Libraries Division20 sul processo di attuazione delle decisioni della 3. Conferenza (1948), si afferma a proposito degli strumenti in corso di elaborazione:
The public library, a living force for popular education is the title of a leaflet and poster to be published soon. This document, intended as a manifesto, or charter, states in simple terms the main governing principles of public librarianship. The public library at its most effective is described under the following headings: UNESCO and Public Libraries; The Public library, a democratic agency for education; What the public library should offer; A vital community force; and the People’s University. The concluding section suggests action which the reader may take to obtain full public library service for his community21.
A tale data il documento è quindi in avanzato stato di elaborazione: ne sono descritti con esattezza temi e indice dei contenuti con larga coincidenza rispetto al testo definitivo. Nel medesimo Report, laddove i contributi richiesti a specialisti si traducono in autonoma elaborazione, come i volumi della nuova serie UNESCO Public library manuals22 o il progetto di Vocabolario biblioteconomico multilingue23, gli autori sono invece sempre segnalati.
Significa che il futuro Manifesto è visto come l’esito di un processo elaborativo collettivo la cui responsabilità finale sarebbe stata assunta dall’Ente.
«Un poissement de conceptions diverses» è stato definito il periodo della direzione di Huxley dalla studiosa francese Chloé Maurel che ha prodotto lo studio sinora più problematico sui primi trent’anni dell’UNESCO24.
Il Manifesto riflette nella sua composizione tematica la compresenza di diverse tradizioni biblioteconomiche e una sintesi dell’umanesimo della conoscenza e dell’educazione che è il tratto peculiare dell’UNESCO.
È un grave errore prospettico, oltre che storiografico, trascurare la convergenza sugli obiettivi UNESCO fra la fine degli anni Quaranta e i primi anni Cinquanta di due grandi figure della cultura bibliografica e documentalistica mondiale come Theodore Besterman (1904–1976) e Suzanne Briet (1894-1989).
Besterman, fondatore e primo direttore (1945) del Journal of Documentation, collaborò intensamente i primi anni con UNESCO, divenendo responsabile del Department for the exchange of information.
Nella sua opera UNESCO: peace in the minds of men25 il presupposto valoriale è dichiarato nel titolo stesso e nella dedica a Julian Huxley. Il focus è su quell’architettura di cooperazione e comunicazione che può permettere alle biblioteche di attuare il loro nuovo ruolo di «permanent custodians and disseminators of man’s recorded wisdom». Recorded wisdom: il sintagma in senso lato coincide con l’orizzonte del cultural heritage del testo successivo di Maurois: esprime l’idea di un sapere da conservare, diffondere e fruire oltre le barriere nazionali.
Da qui l’accento di Bersterman su: miglioramenti dei servizi bibliografici; scambio e più libera circolazione delle risorse bibliografiche; sviluppo del prestito interbibliotecario; promozione dell’idea di biblioteca pubblica; piani di ricostruzione delle biblioteche dopo gli orrori della guerra; creazione dell’UNESCO Bulletin for libraries come «intermediary between libraries of the world».
E, infine, in questo orizzonte di visione che lo accomuna, per ampiezza, a quello del primo direttore Huxley, la proposta di realizzare un catalogo collettivo delle biblioteche europee.
Il legame inscindibile fra la ricostruzione materiale e prospettive globali di circolazione e comunicazione di informazioni bibliografiche, risorse, competenze rappresenta un elemento di profonda connessione con l’opera precorritrice di Suzanne Briet.
La grande documentalista nel 1948 era stata autrice per UNESCO del rapporto Bibliothèques en dètresse26] e due anni dopo della Enquête sur la formation professionnelle des bibliothécaires et des documentalistes27 presentata a IFLA e FID.
UNESCO agiva all’epoca, nella debolezza delle due organizzazioni tematiche internazionali, come soggetto promotore e facilitatore di un dialogo e di messa in comune di competenze28.
In una sorta di background culturale e ideale del Manifesto 1949 è così possibile cogliere in filigrana, filtrati dalla natura stessa del documento, la pluralità delle culture e delle tradizioni bibliografiche e biblioteconomiche.
Riprendendo il titolo della ricerca di Laugesen, si assiste a una originale Carta dei valori che consiste nella globalizzazione di un’idea di biblioteca29, lungo una prospettiva i cui interlocutori espliciti sono anzitutto gli operatori del mondo delle biblioteche, dell’educazione e della cultura e i cittadini.
Questo non significa assolutamente misconoscere il tema delle responsabilità istituzionali di livello locale, nazionale e internazionale. Altri però sono gli strumenti utilizzati dall’UNESCO per questo dialogo e confronto.
Coerenti con questa scelta di interlocuzione sono alcune buone pratiche attuate fra il 1947 e il 1953:
Con l’inizio degli anni Cinquanta possiamo considerare conclusa una fase. Il clima della Guerra fredda incide pesantemente. Quella che si apre delinea una transizione da un approccio culturale e partecipativo, seminatore di idee e fermenti, ispirato a un multilateralismo culturale e professionale, a un orizzonte a più marcata valenza di cooperazione istituzionale.
UNESCO si orienta alla sperimentazione in diverse aree del pianeta (America Latina; Africa; India) di pilot public libraries nate con un partenariato UNESCO/governi locali e rivolte innanzitutto a un pubblico di new literate, persone di recente alfabetizzazione.
La prima esperienza fu quella della New Delhi Public library, inaugurata nel 1950. A lungo presentata come modello di servizio, per un non breve periodo risentì di capacità di gestione non pienamente adeguate, segnalate con preoccupazione a Petersen, fra gli altri, da Ranganathan stesso31.
L’elemento di novità fu tuttavia costituito dalla realizzazione di Conferenze per specifiche aree finalizzate alla definizione di linee di sviluppo dei servizi bibliotecari, come la “Conference on the development of public library services in Latin America” (San Paolo, Brasile, ottobre 1951).
Nel preambolo della risoluzione finale32 sono richiamati alcuni dei valori fondanti del Manifesto 1949, ma il linguaggio è orientato ora a differenti interlocutori: innanzitutto i livelli istituzionali (locali e nazionali); in secondo luogo i professionisti. La dimensione partecipativa e comunitaria è relegata sullo sfondo rispetto a due temi:
Il decennio 1951-1960 vede maturare due tendenze distinte e in qualche modo parallele:
Tuttavia questi piani come la coeva riflessione sulla trasformazione dei bisogni educativi nei paesi di recente indipendenza procedono per percorsi in gran parte paralleli.
Una sintesi alta, non strettamente riconducibile alle tradizioni biblioteconomiche prevalenti, è il più volte citato Public libraries and their mission del 1961 di André Maurois. Il testo venne pubblicato nel medesimo anno in una doppia veste:
Il titolo è informativo, ma il focus è duplice: l’autorevolezza del ‘parlante’ (Maurois); la duplicità tematica del messaggio: libri e biblioteche, il servizio rispetto ai bisogni di lettura e allo strumento principale (il libro) su cui si esercita.
La doppia pubblicazione è un segno esplicito della volontà dell’UNESCO di diffondere presso destinatari diversi la riflessione di Maurois. Basta questo per definirlo, come fa Barbro Thomas36, official document? Non è un documento ufficiale se con questo termine si intende (e dovrebbe intendersi) una pubblicazione il cui contenuto intellettuale viene assunto dall’organizzazione. Da questa prospettiva la definizione di Thomas è errata.
Tuttavia il rilievo dato allo scritto di Maurois fu tale che potremmo parlare di una ufficialità indiretta. Maurois era da anni uno degli intellettuali di riferimento che negli anni Cinquanta aveva svolto un ruolo rilevante nei convegni37 di scambi culturali promossi dall’UNESCO.
Il primo tema centrale è quello della lettura in relazione al libro. Maurois non nega la varietà di supporti di informazione e di conoscenza, ma il focus della sua riflessione è il libro nella duplice dimensione di registrazione e comunicazione del patrimonio culturale, e di veicolo per ampliare i confini della conoscenza e comprendere culture e gruppi sociali «that we never frequent».
Le biblioteche hanno una funzione essenziale rispetto a questa necessità: «every library is a centre for international understanding»; esse sono le istituzioni più adatte a farlo proprio perché «free from propaganda and prejudice».
I diritti della biblioteca sono garanzie di diritti, libertà e democrazia per i lettori: essi contribuiscono a fondare quella doppia appartenenza, locale/comunitaria e mondiale, che è uno dei tratti del Manifesto 1949.
Maurois, rileggendo il Manifesto in chiave di autonomia della biblioteca, sottolinea: «education is but a key to open the doors of libraries». É una sottolineatura forte e diversa sia rispetto all’accentuazione del legame fra scuole e biblioteche propria di una parte della biblioteconomia nord-americana, che alla stessa sintesi del Manifesto, che proponeva una autonoma dimensione educativa della biblioteca, più libera e ampia di quella delle istituzioni educative formali.
Qui Maurois, a differenza del Manifesto, per education intende il luogo dell’apprendimento istituzionale che preparerebbe e introdurrebbe ad altri luoghi di un apprendimento più libero come le biblioteche pubbliche.
Infine la centralità delle biblioteche per bambini e ragazzi: raccolte, servizi, attività e un design adeguato. Sono luoghi vivi di crescita, di relazioni con l’esterno, di apprendimento individuale e comunitario. Quell’orizzonte professionalmente delineato da McColvin38 è reinterpretato in chiave di piccole comunità di lettori: le illustrazioni, relative a diversi paesi, dalla Grecia al Giappone all’India, rappresentano innanzitutto lettori e stili di lettura.
Di fatto è una reinterpretazione del Manifesto con la sottolineatura della dimensione interculturale primaria dei libri e del cultural heritage, e dell’apprendimento, sin da piccoli, del gusto e dell’abitudine alla lettura.
La biblioteca pubblica è naturalmente un centro culturale, la cui funzione si propaga e irradia oltre le immediate vicinanze. Il concetto di comunità non coincide con quello di comunità locale: la biblioteca si caratterizza per la sua capacità di correlare luoghi e persone: «in country districts the public library is a cooperative venture»39. Il servizio alla comunità è una prospettiva non localistica.
Vi è di più. Maurois nel capitoletto finale The future of libraries40 colloca le linee di una possibile evoluzione delle biblioteche dentro il contesto dei nuovi stati successivi al processo di decolonizzazione come nazioni consapevoli del proprio patrimonio culturale: la cultura come un ponte fra il passato e il futuro.
A library is not only a valuable instrument for the nation’s use – it helps to shape the nation itself41.
Articolo proposto il 4 luglio 2023 e accettato il 2 settembre 2023.
FRANCO NERI, e-mail: franconeri50@gmail.com.
Ultima consultazione siti web: 2 settembre 2023.