a cura di Desirée de Stefano e Federica Olivotto
Il volume, primo numero della collana Il sexante casanatense diretta da Lucia Marchi per l’editore Il sexante, ripercorre le vicende della Biblioteca Casanatense, dai primi anni di gestione laica fino ai nostri giorni, da una particolare prospettiva: quella dei direttori. Peculiarità del testo è la scelta dell’autrice Angela Adriana Cavarra di delineare nel dettaglio il percorso tracciato da ciascuno di essi nello svolgimento del proprio incarico e di far emergere dalle carte d’archivio non solo la loro professionalità, preparazione tecnica, culturale e intellettuale, ma soprattutto la loro personalità – il temperamento, le emozioni, gli entusiasmi, le gioie vissute nel raggiungimento di risultati ricercati per amore della cultura e delle istituzioni bibliotecarie – così come i dolori per i mancati finanziamenti, per i sogni progettati e mai realizzati, la fatica per le lotte intraprese per il bene della biblioteca, dei suoi utenti, del suo personale. A fare da cornice alle vicende raccontate, sono le ricche note che corredano il testo e che riportano citazioni, riferimenti bibliografici, approfondimenti storici, profili biografici, il tutto documentato dal materiale conservato nell’archivio della Biblioteca Casanatense, nell’archivio storico della Biblioteca nazionale centrale di Roma e nell’Archivio centrale dello Stato.
Elemento centrale da cui parte il volume, articolato in quattro capitoli, è rappresentato dal passaggio della biblioteca dalla direzione puramente domenicana a quella statale: in questa fase di transizione, in cui le due realtà convivono e si intrecciano e i protagonisti di due mondi differenti si armonizzano (e non) nella conduzione del medesimo istituto, vengono affrontate le prime difficoltà amministrative, contabili e organizzative della gestione laica (Dall’alta vigilanza alla gestione mista). Da spartiacque per il secondo capitolo (I direttori storici: 1884-1936) è l’anno 1884, nel quale la ‘lite’ intentata dai domenicani per la gestione della biblioteca si conclude con la vittoria legale dello Stato italiano in seguito alla quale la Casanatense diviene ‘autonoma’ dalla Vittorio Emanuele, infrangendo il sogno della ‘grande biblioteca d’Italia’ di Ruggiero Bonghi. Si iniziano così a percepire con maggiore intensità le criticità di un istituto di tale portata: la sensazione è quella di rivivere le problematiche ancora attuali con un’ottica storica, dall’organizzazione dei servizi resa difficoltosa per la mancanza di personale, alla ricerca continua di finanziamenti per l’accrescimento del patrimonio e per i progetti di tutela e valorizzazione, dalle proposte di razionalizzazione degli spazi dovuta alla loro perenne carenza, alle problematiche di un ‘fuori posto’ che chi vive in biblioteca conosce bene.
L’arco cronologico trattato nel terzo capitolo (Le direzioni al femminile) – dal 1936 al 1990 – si connota per la presenza predominante di donne nel ruolo dirigenziale che, seppur costrette ad affrontare le medesime problematiche già menzionate, riescono a prestare particolare cura alla valorizzazione del patrimonio grazie all’allestimento di mostre, alla realizzazione di importanti iniziative editoriali, all’esecuzione di progetti di catalogazione, ad acquisti sul mercato antiquario, potenziando così il ruolo della Casanatense nel panorama culturale.
Il capitolo conclusivo (I direttori dell’era digitale) delinea gli approcci tenuti dagli ultimi direttori nei confronti di tematiche sempre nuove, sorte dalle costanti e rapide evoluzioni del panorama sociale e culturale, dalle continue trasformazioni subite dalle modalità di produzione e fruizione della conoscenza e dal sopraggiungere di eventi particolari, come la diffusione del Covid-19, per la quale sono state adottate misure specifiche non solo per il contenimento e gestione dell’emergenza ma anche per uno sviluppo dei servizi in grado di mantenere vivo, nonostante le difficoltà, il contatto della biblioteca con gli utenti. Tutto ciò ha fatto sì che venissero ripensati alcuni servizi, concepiti nuovi uffici, arricchiti gli strumenti inventariali e catalografici con l’aiuto delle nuove tecnologie e organizzati eventi in grado di riallacciare quei rapporti che la pandemia aveva allentato.
L’autrice con questo contributo apre quindi uno scorcio sulla gestione quotidiana della direzione di un importante istituto culturale romano, consentendo al lettore di tracciare un profilo ben definito, sia professionale che umano, di tutti quegli uomini e quelle donne che si sono succeduti nel ruolo di direttore e di tutti gli altri personaggi che li hanno contornati sulla scena.
Ilaria Vercillo
Biblioteca Casanatense
Da qualche tempo gli archivi d’artista sono al centro di un vivace dibattito sviluppato in modo originale sia dal mondo dell’arte che dagli archivisti. L’archivio – «un cruciverba di molte definizioni e di altrettante soluzioni» (p.9), come spiega nell’Introduzione al volume Federico Valacchi – per sua natura si presta a usi molteplici e l’alleanza con l’arte è senza dubbio fra le più originali e interessanti di questi anni. Assistiamo allo sviluppo di fenomeni documentari inediti che si confrontano con patrimoni eterogenei di persona e della creatività, i quali necessitano oggi di una lettura archivistica. Concetta Damiani ci offre proprio questo: uno sguardo attento in equilibrio fra incroci professionali e un sano senso della realtà, fra il presidio della disciplina e la curiosità di partecipare a una sperimentazione di grande fascino.
Il volume, dopo l’intervento introduttivo di Valacchi, si articola in quattro capitoli la cui impostazione appare chiara e condivisibile: la prima parte identifica le testimonianze per la storia dell’arte e i soggetti coinvolti, la seconda colloca gli archivi d’arte entro il perimetro della disciplina, la terza affronta le questioni della loro descrizione e rappresentazione; l’ultima parte, infine, indaga il rapporto fra produzione artistica e tecnologia.
Il primo capitolo (Archivi d’artista: testimonianze frammentarie e realtà strutturate) individua le fonti che hanno consentito agli storici dell’arte di rispondere alle necessità di attribuire, datare e identificare un’opera anche quando gli archivi d’artista non avevano ancora assunto una propria connotazione specifica e la ricerca era condotta in fondi di famiglia, parrocchiali, locali e nei protocolli notarili. L’autrice indaga con originalità la natura delle fonti multiple e ricorrenti (contratti, inventari, testamenti, ecc.) ripercorrendo lo sviluppo della storiografia di settore: si sofferma prima sui testi che a partire dall’Ottocento hanno proposto i carteggi d’artista al pubblico, e successivamente, sugli epistolari e sulle lettere che, anche grazie ad alcuni progetti nazionali e internazionali che ne hanno evidenziato l’eccezionale rilevanza, hanno contribuito alla riflessione sull’identità degli archivi d’artista. Si trattiene poi sui fondi bancari ed economici che fin dall’età moderna documentano aspetti rilevanti delle produzioni artistiche, dei rapporti con la committenza, gli intermediari e i fornitori. Infine l’attenzione viene indirizzata agli atelier, cioè gli spazi di vita e di creazione, laboratorio e vetrina, luogo intimo e pubblico in cui l’artista concentra le opere, i materiali, i documenti richiamando il valore dei testamenti e degli inventari di bottega e di casa, che ci restituiscono un’immagine ampia e spesso di incredibile dettaglio della vita, del percorso formativo, della rete di rapporti dell’artista. In questa sezione del libro troviamo anche una bella definizione di archivi d’artista: «intesi e preservati come fondi documentari organici che accompagnano e rendono testimonianza delle vicende umane e intellettuali e dei processi creativi dei singoli soggetti» (p. 19).
Il capitolo seguente si addentra in modo più deciso nel vasto mondo oggetto di riflessione, per definirne un perimetro teorico e operativo e analizzarne i differenti aspetti disciplinari. Considerando l’ampiezza dello sguardo riservato al tema, il capitolo è intitolato Gli archivi d’arte anziché, come potrebbe apparire normale, ‘Gli archivi d’artista’, così da riservarsi la possibilità di considerare anche gli altri attori in gioco: i collezionisti, i curatori d’arte, i galleristi e le case d’asta. Damiani poi, in modo sistematico, affronta le diverse declinazioni degli archivi d’arte: prima nell’accezione di archivi d’autore, approcciando la questione in modo ampio e proponendo alcune esemplificazioni; successivamente nel senso di archivi d’artista, come sottogruppo di quelli di persona fisica; infine, segnalando buone pratiche, di cui peraltro l’intero libro è costellato.
Dopo aver identificato le principali tipologie documentarie e i soggetti produttori, l’autrice affronta nel terzo capitolo (intitolato Gli archivi d’artista tra valore strumentale e valore culturale) alcuni aspetti specifici riferiti al loro trattamento e uso. Certo, «la valutazione va affrontata da diverse angolature: quella della pluralità dei materiali – documentari e non – che rientrano nei patrimoni d’artista, quella della varietà dei soggetti produttori e della molteplicità di relazioni che li legano, quella delle dinamiche che sottendono alla produzione documentaria e artistica, quella delle modalità di organizzazione, conservazione e restituzione adeguate alle differenti funzioni e ai diversi tipi di fruizione» (p. 99). Alla luce delle specificità indicate bisogna coltivare modelli descrittivi capaci di assolvere alla necessità di rappresentare questi fondi facendo ricorso a standard diversificati e guardando con attenzione allo standard RiC-CM, che propone raffinate soluzioni di rappresentazione. Si affronta poi il ruolo che gli archivi d’artista hanno assunto per la tutela del diritto d’autore e per le attività di certificazione delle opere, facendo riferimento al modello di certificato denominato PACTA (Protocolli per l'ambiente, la cura e la tutela dell'Arte), elaborato nel 2017 dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo. Un paragrafo specifico è riservato alla presenza degli archivi dell’arte nei sistemi informativi archivistici nazionali e locali, e viene proposto un ricco catalogo di esperienze. Infine, la rassegna si completa con la presentazione di alcuni archivi dell’arte disponibili in altri contesti rispetto a quelli archivistici, ossia in portali di musei, università e istituti culturali.
Il quarto e ultimo capitolo (Lo stato dell’arte e le ICT) approfondisce alcuni aspetti del rapporto fra l’arte contemporanea e la tecnologia, indugiando in particolare sulle «opere che comportano l’impiego della tecnologia e dei sistemi informatici come parte essenziale del processo creativo e della successiva presentazione e fruizione» (p. 133). L’arte digitale, infatti, oggi porta alla realizzazione di opere che necessitano di speciali riguardi senza i quali si rischia di non poterle fruire e conservare. I collezionisti e i musei del digitale pongono quindi sempre più attenzione a presidiare il legame fra l’opera e la documentazione del percorso creativo che la integra e l’accompagna, ricorrendo anche a particolari token basati sulla tecnologia blockchain, che si stanno diffondendo come metodo sicuro per certificare l’identità, l’unicità e il possesso di un’opera elettronica, ma talvolta anche fisica.
Il libro si conclude con una bibliografia ricca di quasi duecento occorrenze e con una selezionata sitografia, che merita senza dubbio un’attenta lettura per scorrere i titoli, i nomi, le edizioni e gli anni di pubblicazione, così da ricomporre una geografia d’interesse, un’architettura entro la quale non è sempre facile orientarsi.
Non si può che essere grati all’autrice per il suo lavoro poiché se ne sentiva proprio l’esigenza. Da tempo, infatti, il mondo dell’arte sembra volersi appropriare del concetto di archivio per poi declinarlo su percorsi che talvolta tendono a snaturare la disciplina e fanno ‘storcere il naso’ agli archivisti. In effetti, come si legge anche nelle Riflessioni conclusive, «non c’è giorno in cui non si registri una nuova iniziativa legata al mondo dell’arte e alle connessioni con le fonti archivistiche» (p. 151), in cui però l’archivio è visto come strumento di certificazione di autenticità, supporto al catalogo e talvolta anche come opera d’arte esso stesso. Qui ascoltiamo la voce dell’archivista, la professione che Concetta Damiani pratica da sempre rivestendo molteplici ruoli. Troviamo un’analisi accurata e documentatissima della questione, un approfondimento disciplinare lineare e mai altero. Questo è un libro prezioso, da leggere e conservare.
Dimitri Brunetti
Università degli studi di Udine
Il Piano d’azione per l'infrastruttura nazionale della conoscenza raccoglie e ‘attualizza’ alcuni documenti prodotti dal 2019 al 2022 da parte del Gruppo di lavoro sulle biblioteche digitali dell'AIB, al centro del quale vi è la questione chiave del ruolo centrale delle biblioteche nell’offrire accesso libero ai documenti nell’attuale contesto di trasformazione digitale, e quindi come offrirlo oggi e in futuro in maniera sostenibile.
Il cuore del documento è rappresentato dal Nuovo manifesto per le biblioteche digitali pubblicato nel 2020, il quale aggiorna il Manifesto per le biblioteche digitali del 2005. Le date di pubblicazione sono già di per sé significative: il 2005 può essere considerato l’anno del web 2.0, quando le piattaforme social e streaming, oggi comuni, erano appena nate o in procinto di nascere e venivano lanciati sul mercato smartphone e tablet; questo scenario nel 2020 si è ulteriormente evoluto, non senza criticità: tra i temi centrali e più attuali figurano l'intelligenza artificiale, le fake news, la protezione dei dati personali, la realtà virtuale, la crisi climatica, la sostenibilità e l’Agenda ONU 2030. Tutte questioni che hanno radici nel passato (si pensi ad esempio all’intelligenza artificiale), ma oggi sono ancora più rilevanti. Inoltre a seguito della pandemia da Covid-19, nel 2020 è stato approvato il piano Next Generation EU e, successivamente, il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR). Sono questi aspetti da tenere presenti mentre si leggono il Manifesto e lo stesso Piano d’azione.
Dopo aver proposto una sintetica analisi delle tesi del Manifesto e dei suoi fondamenti, la sezione più consistente del documento riguarda l'analisi del contesto; segue poi una sezione relativa alla sua ricezione e alcune raccomandazioni finali. In questa sede non essendo possibile far riferimento a tutte le tematiche trattate, si cercherà di focalizzare l’attenzione su alcune di queste.
Ampio spazio è riservato a questioni strutturali legate alla trasformazione digitale delle biblioteche e della pubblica amministrazione (PA) nella realtà italiana, tenendo conto della politica europea. Come specificato, «il cuore della trasformazione digitale consiste nel ripensare interamente la propria organizzazione a partire dalla centralità dell’utente, ovvero del destinatario del valore che viene prodotto» (p. 31-32); quindi è importante capire come la trasformazione digitale nell’ambito degli enti pubblici incida sul lavoro delle biblioteche e, viceversa, quale ruolo possano avere queste come parte della PA, ad esempio per quanto riguarda la gestione dei dati.
Un tema rilevante – trasversale al Piano d’azione e al centro della riflessione biblioteconomica del nostro tempo – è la complessità del ruolo e delle funzioni delle biblioteche. Siamo consapevoli che questi aspetti sono molto più ampi rispetto a quanto previsto dal Codice dei beni culturali e del paesaggio, questione affrontata da AIB anche nelle cosiddette Tesi di Viareggio del 1987. Piuttosto le biblioteche devono collocarsi in molteplici ambiti della vita culturale e sociale, del benessere e della formazione di persone e comunità. Purtroppo questa complessità non emerge dal PNRR, dove invece le biblioteche si trovano in una posizione legata soprattutto alla digitalizzazione e alla fruizione del patrimonio che conservano nell’ottica della missione M1C3 (misura relativa al settore turistico e culturale). A tal proposito, per quanto riguarda il PNRR, nel documento si approfondisce anche il ruolo della Digital Library e del Piano nazionale di digitalizzazione del patrimonio culturale.
Con una visione molto più ampia, ciò che il Nuovo manifesto – e quindi il Piano d’azione – propone è «un’infrastruttura pubblica, o comunque a controllo pubblico, coerente con le previsioni della strategia cloud per la pubblica amministrazione, dotata continuativamente di risorse finanziarie adeguate, e composta di dati, strutture tecnologiche e organizzative, strumenti di gestione, risorse umane adeguate per numero e capacità» (p. 126-127). Uno dei pilastri su cui questa deve basarsi è il Servizio bibliotecario nazionale, in grado di aprirsi a documenti di diversa tipologia e a tutte le biblioteche, predisposto per il riuso dei dati da parte di persone e macchine. Un altro elemento centrale è rappresentato da Magazzini digitali, ovvero il servizio di deposito legale di risorse digitali previsto dalla normativa vigente, fondamentale per la conservazione e l’accesso permanente. Entrambi però presentano problematiche legate alla governance e alla dotazione di risorse economiche e umane indispensabili per lo svolgimento delle loro funzioni. Il terzo cardine è quello della scienza aperta, strettamente connesso sia ai processi di produzione e pubblicazione della ricerca scientifica nonché al suo accesso, sia alla diffusione della stessa, al trasferimento delle conoscenze ai territori, alle comunità e alle imprese. In questo caso è necessaria una cooperazione strutturata tra biblioteche accademiche e di ricerca e biblioteche pubbliche diffuse capillarmente sul territorio. In generale, nel documento emerge con forza l’esigenza di nuovi paradigmi e modelli per la gestione e l’accesso a dati, informazioni e contenuti, considerando anche diverse forme di relazione tra pubblico e privato.
In conclusione, quel che sembra mancare a livello politico-istituzionale è una visione che comprenda le tante dimensioni e i molti ruoli della biblioteca legati a vari aspetti: la conservazione, l’accesso alla conoscenza, i beni culturali e la partecipazione al patrimonio (si pensi ad esempio alla Convenzione di Faro del 2005, ratificata in Italia proprio nel 2020), l’educazione e la formazione permanente, il benessere delle persone, l’information literacy, i valori democratici, la sostenibilità, ecc. Questa concezione ampia dovrebbe essere alla base di indirizzi e piani di sviluppo comuni, da declinare quindi in progetti, strumenti, piattaforme, forme di cooperazione, servizi, relazioni e ‘conversazioni’ (come recita il Manifesto). Lo stesso concetto di accesso alla conoscenza deve basarsi su principi fondamentali e, nello stesso tempo, essere in relazione ai vari ‘mondi’ e ‘dimensioni’ delle biblioteche, affinché le forme proposte possano rispondere ai diversi bisogni delle persone.
Nel Piano d’azione si propone inoltre un’attività di advocacy a livello politico da parte dell’Associazione italiana biblioteche. Inevitabilmente, al centro di questa dovrebbe esserci il tema dell’impatto delle biblioteche.
Fabio Mercanti
Sapienza Università di Roma
Il volume edito dall’Associazione italiana biblioteche, vincitore del "Premio Giorgio De Gregori", di cui l’autrice Virginia Scarinci è stata insignita nel 2021, trae origine dalla tesi di laurea magistrale in Archivistica e biblioteconomia discussa presso la Facoltà di lettere e filosofia di Sapienza Università di Roma nell’anno accademico 2020/21.
L’autrice circoscrive il campo di indagine del proprio lavoro nel primo capitolo, ponendo i concetti trattati all’interno di uno specifico contesto: menziona le tre differenti locuzioni inglesi con le quali si traduce il termine italiano ‘malattia’ alle diverse definizioni di ‘medicina narrativa’, compresa quella elaborata nel corso della Conferenza di consenso organizzata nel 2014 presso l’Istituto superiore di sanità, alla quale oggi si fa riferimento, poiché quest’ampia accezione riesce a inglobare al suo interno quattro differenti approcci teorici insieme alle loro innumerevoli declinazioni. Da questa premessa, l’autrice passa poi a descrivere una nuova ottica legata al tema della salute e benessere, che va dalla centralità della patologia a quella dell’uomo, evidenziando come negli ultimi anni sia stato riconosciuto in molti paesi il forte legame che intercorre tra pratica culturale e benessere, e si siano elaborati indicatori che ne misurino la relazione.
Nel secondo capitolo viene descritto il ruolo del bibliotecario nell’ambito medico, in particolare nel rapporto con i pazienti, e vengono presentate le iniziative svolte all’Istituto superiore di sanità, al Centro di riferimento oncologico di Aviano e all’interno dell’Azienda ospedaliera Santi Antonio e Biagio e Cesare Arrigo di Alessandria. Una sezione a parte è dedicata all’apporto della biblioteca nei contesti di cura, con esemplificazioni in merito alla biblioterapia e alla 'prescrizione dell’informazione'.
Il terzo capitolo, parte centrale del volume, presenta il progetto di medicina narrativa Raccontami di te della Biblioteca del paziente dell’Istituto nazionale tumori “Regina Elena”, culminato con due pubblicazioni che ne raccontano gli esiti. L’iniziativa prevede la redazione di uno scritto che prende spunto da specifici temi proposti nelle diverse edizioni, ognuna delle quali si conclude con un incontro: ciò che emerge è la presenza costante di sentimenti positivi anche nei racconti di eventi tragici. Infine nel quarto capitolo si accenna agli sviluppi futuri.
Il testo – in cui compaiono frequenti riferimenti al periodo interessato dalla pandemia da Covid-19, durante il quale è stato redatto – costituisce un ottimo punto di partenza per chi voglia indagare la tematica della medicina narrativa, volta a migliorare la relazione medico-paziente. Sia i medici che i bibliotecari potranno infatti trovare in questo lavoro spunti di riflessione ed elementi utili al proprio aggiornamento professionale.
Elisabetta Castro
Biblioteca Medica Statale
Con un’interessante panoramica dall’analisi della definizione del supporto fino alle moderne regole di catalogazione e indicizzazione, passando attraverso una continua evoluzione storica, concettuale e culturale, Laura Manzoni ci accompagna alla scoperta del materiale cartografico, cercando di farci appassionare a una materia tanto complessa quanto affascinante, che è la sintesi tra biblioteconomia, geografia e storia. Ci riesce: il lettore si lascia condurre facilmente attraverso l’intero percorso, grazie alla scrittura scorrevole ma puntuale che rende agevole l’excursus storico-culturale.
Da sempre la catalogazione cartografica è stata lo ‘spauracchio’ del bibliotecario: tante regole, diverse da quelle più consuete – già indicativa l’ardua scelta tra ISBD(CM) oppure ISBD(NBM) – formati dalle dimensioni ingombranti, esemplari talvolta incompleti.
L’autrice ci aiuta innanzitutto a orientarci nella terminologia di base: ‘mappa’, ‘carta’, ‘cartografia’? Un dubbio che già di per sé è in grado di anticipare la complessità del tema, come anche sottolineato in uno dei saggi introduttivi da Andrea Cantile, uno dei massimi esperti italiani in materia. Tale complessità viene evidenziata già dalle prime battute del volume, quando l’autrice cerca di inquadrare l’argomento trattato con ‘un tentativo di definizione’. Classificare le risorse cartografiche è infatti arduo: una distinzione può essere effettuata in base alla scala di rappresentazione, al contenuto, al supporto, alla bi-tridimensionalità, ma questa mancata standardizzazione lascia ampio spazio alle interpretazioni, che trovano un’applicazione diversa secondo la tradizione catalografica delle grandi aree culturali. Attraverso una puntuale ricostruzione cronologica, l’autrice giunge a illustrare queste divergenze catalografiche, arrivando ai giorni nostri, fino all’impatto col digitale che, come in numerosi altri ambiti, ha mutato completamente l’approccio del bibliotecario nei confronti delle risorse. Proprio in quest’ottica è interessante la descrizione dell’applicazione della classificazione bibliografica per argomenti, con un focus sulla Classificazione decimale Dewey (CDD).
Una particolare menzione spetta al capitolo dedicato all’evoluzione dell’indicizzazione semantica, che nella contemporaneità biblioteconomica merita un’attenzione sempre maggiore: se i moderni modelli di catalogazione tendono a divenire applicabili a tutti i tipi di media e di contenuto, la tanto ricercata standardizzazione e interoperabilità degli strumenti d’accesso per soggetto dovrà necessariamente essere trasversale per la totalità dei settori culturali e degli ambienti digitali in genere, compreso l’affascinante mondo cartografico.
In conclusione l’opera di Laura Manzoni è un ottimo strumento da collocare nella propria biblioteca personale e da tener pronto alla bisogna. Utile anche come ideale introduzione alla nuova Guida alla catalogazione in SBN: materiale cartografico, diffusa dall’ICCU soltanto qualche mese dopo la pubblicazione di questo volume.
Gabriele Romani
Fondazione FS italiane
La parola 'trasmissione’ denota il trasferimento di un bene, dei caratteri ereditari e di energia da un soggetto o da un sistema a un altro; nel caso di Mauro Guerrini si può parlare proprio di questo: in senso lato, di energia, entusiasmo e passione che accompagnano da anni la trasmissione di sconfinate conoscenze a generazioni di stduenti e studentesse. Venti di loro lo hanno omaggiato attraverso altrettanti contributi presenti in questo volume pubblicato da Editrice bibliografica nel 2021. Si tratta della prima miscellanea nel settore della biblioteconomia offerta esclusivamente dagli allievi, secondo la finalità originale delle Festscrift.
Il volume si apre con una Tabula gratulatoria; seguono una Presentazione a firma dei curatori Carlo Bianchini e Lucia Sardo, una Nota biografica e una Bibliografia degli scritti di Mauro Guerrini curata da Laura Manzoni, corposa nel numero ed eterogenea nei contenuti, in cui si susseguono monografie, contributi in volume, prefazioni e premesse a convegni, recensioni, ecc. I saggi sono articolati in quattro sezioni tematiche che rispecchiano gli interessi e alcune delle molteplici aree di studio di Guerrini: Bibliografia, Biblioteche e bibliotecari, Formazione e didattica e Metadatazione. Manca il tema dell’open access, caro al professore, peraltro recentemente nominato membro dell’Osservatorio sulla scienza aperta della Commissione per le biblioteche della Conferenza dei rettori delle comunità italiane (CRUI) per gli anni 2023-2025.
La prima sezione raccoglie due contributi: il primo di Rossano De Laurentiis che si sofferma su alcune ‘spigolature paleografiche’ nel Dante epigrafista, poiché «può darsi che seguendo l’evoluzione delle tipologie paleografiche e librarie della tradizione della Commedia, potremo cogliere meglio l’avventura del testo trasmesso» (p. 182); il secondo di Giuliano Genetasio che affronta le criticità e le prospettive del deposito legale, ovvero «l’istituto che stabilisce che tutti documenti destinati all’uso pubblico e prodotti in tutto o in parte in Italia debbano essere consegnati in un certo numero di copie alle biblioteche italiane» (p. 191). La normativa, tuttavia, risulta inadeguata, in particolar modo per problemi di gestione legati ai rapporti tra gli attori coinvolti, soprattutto tra autori, editori e biblioteche.
Biblioteche e bibliotecari e Metadatazione sono le sezioni più ampie, entrambe le quali raccolgono ben otto saggi. Tra gli altri sono presenti contributi che offrono materiali inediti su figure fondamentali del mondo bibliotecario: per esempio l’intervento di Stefano Gambari su Antonio Panizzi, principal librarian del British Museum, e quello di Elisabetta Francioni su Torello Sacconi, prefetto della Biblioteca nazionale centrale di Firenze. Domenico Ciccarello narra la vita da filantropo di Andrew Carnegie, il quale grazie a ingenti patrimoni personali crea un sistema di public library nel mondo anglofono, poiché «non vi era maniera più benefica di impiegare il denaro in favore di ragazzi e ragazze validi, capaci e ambiziosi, che il fondare una biblioteca pubblica in una comunità desiderosa di sostenerla come istituzione civica» (p. 206). Maria Chiara Iorio intervista Barbara B. Tillett che, in sintonia con i ruoli ricoperti nelle principali organizzazioni americane e internazionali del settore (ALA e IFLA), spinge ad andare oltre la propria istituzione abbracciando una visione mondiale, la stessa che ha segnato da sempre la carriera professionale di Guerrini. Daniela Giglio compie un’attenta ricognizione sulle diverse definizioni di biblioteca digitale, elettronica o virtuale, nell’alveo dell’interesse per la terminologia che in Guerrini ha radici profonde. Laura Manzoni si concentra sulla storia della biblioteca conservata nell’Osservatorio ximeniano, una delle più antiche istituzioni scientifiche fiorentine, ricostruibile grazie a un catalogo redatto da Guerrini nel 1994.
Nella sezione Formazione e didattica Bianchini presenta il caso di studio dell’information literacy degli studenti del Dipartimento di musicologia dell’Università degli studi di Pavia (anni accademici 2012/13 e 2019/20). Lucia Cappelli inquadra storicamente il master universitario in Archivistica, biblioteconomia e codicologia dell’Università degli studi di Firenze (fondato da Guerrini nel 2002), che costituisce un’esperienza di alta formazione ormai consolidata e che recentemente ha cambiato nome in master in Organizzazione e gestione degli archivi, catalogazione e metadatazione di risorse manoscritte, stampate e digitali, adeguandosi al nuovo universo bibliografico più vasto ed eterogeneo.
L’ultima sezione è dedicata alla Metatadazione, ovvero la dimensione assunta dalla catalogazione in era digitale. È la tematica più tecnica: i contributi si occupano di codici catalografici, classificazione e modelli concettuali. Solo per citarne alcuni, Agnese Galeffi esamina alcuni appunti inediti di Seymour Lubetzky su Eva Verona durante l’International Conference on Cataloguing Principles (ICCP) del 1961, evento spartiacque nella storia della catalogazione. Lapo Ghiringhelli analizza le entità nel passaggio da FRBR (1998) a IFLA LRM (2017). Lucia Sardo ricostruisce l’evoluzione dell’authority control, «con un excursus che va dai cataloghi cartacei ai cataloghi online, fino a toccare le questioni attuali legate principalmente alle modalità d’identificazione delle entità e all’integrazione di risorse provenienti da fonti diverse, focalizzando l’attenzione principalmente sul dibattito teorico» (p. 379).
L’ampiezza dei temi e la profondità dei saggi offerti testimoniano il carattere, l’impegno profuso, l’intensità nella trasmissione dei saperi che animano da sempre l’attività di docente di Guerrini. La miscellanea è un felice omaggio, un atto di riconoscenza, un dono verso il proprio maestro.
Denise Biagiotti
Università degli studi di Firenze
Nel Medioevo creare un libro non era facile e poteva richiedere anni: uno scriba si chinava sul suo tavolo da copista, illuminato solo dalla luce naturale, perché le candele erano un rischio troppo grande per i libri, e passava ore e ore ogni giorno a scrivere pagine, a mano, attento a non commettere errori di trascrizione. Essere un copista, riportava uno scriba, era doloroso: «Spegne la luce degli occhi, incurva la schiena, schiaccia i visceri e le costole, procura dolore ai reni e stanchezza a tutto il corpo» (p. 52). Dato l'estremo sforzo per la creazione di libri, gli scribi, ma anche coloro che commissionavano i manoscritti, avevano motivazioni molto forti a proteggere i codici che uscivano dalla bottega di un copista o da uno scriptorium. Così usavano l'unico potere che avevano: le parole. Dato l’alto valore economico del manoscritto, unito all’aura di preziosità che ha sempre avvolto il codice, all'inizio, ma soprattutto alla fine del testo (in particolare nel colophon o nell’explicit), gli scribi e i proprietari dei libri erano soliti trascrivere terribili maledizioni minacciando i ladri di dolore e sofferenza se avessero rubato o danneggiato i loro tesori. Intimavano le peggiori punizioni che conoscevano, come la scomunica dalla Chiesa («Non amoveatur sub poena excomunicationis») e la morte, che era quasi sempre orribile e dolorosa («Si quis furetur, Anathematis ense necetur»): per aver rubato un libro, si poteva ad esempio essere trafitti da una spada demoniaca, soffrire di una malattia terribile, morire sul rogo, costretti a sacrificare le mani, avere gli occhi cavati («Chi ruba sia maledetto, sia ucciso, a chi ruba siano strappati gli occhi», come recita una maledizione recuperata in un codice della Biblioteca apostolica vaticana). Si poteva poi finire nelle «fiamme dell'inferno e dello zolfo», spesso assieme ai propri parenti che condividevano il destino del ladro, o anche essere condannati da un tribunale ecclesiastico: è la sorte, ad esempio, di John Leycestre e sua moglie Cecilia, che furono impiccati nel 1413 per aver trafugato un volume dalla cattedrale di Stafford. Il famoso monaco Bernard di Montfaucon era convinto che al criminale sarebbe potuta toccare la stessa sorte di Giuda Iscariota che, non riuscendo a sopportare il rimorso per aver tradito Gesù, si impiccò dopo aver gettato nel tempio i trenta denari del suo tradimento. Gli anatemi potevano prevedere la maledizione del ladro di libri da parte di Dio, della Vergine, di tutti i santi ma anche del concistoro formato da tutti i trecentodiciotto Padri che parteciparono al Primo concilio di Nicea.
Le parole, soprattutto nel Medioevo, avevano un enorme potenziale, magico e alchemico e quindi l’anatema, formula di ammonimento, permetteva la protezione del libro dai furti, dai danneggiamenti e dalle mutilazioni. «Queste maledizioni erano le uniche cose che proteggevano i libri» (p. 71), afferma Marc Drogin, autore di Anathema!: medieval scribes and the history of book curses (Allanheld & Schram, 1983), oggi offerto per la prima volta alla comunità scientifica italiana da Simona Inserra con la sua traduzione e curatela.
La pubblicazione inizia con una dettagliata introduzione della stessa Inserra, che pone le basi per una comprensione approfondita del contesto storico e delle sfide affrontate dai copisti medievali. La studiosa ci guida attraverso il complesso processo di produzione dei libri nel Medioevo, sottolineando la laboriosità il lavoro dei copisti che si dedicavano a trascrivere, e così preservare, opere letterarie e scientifiche per le generazioni future.
La tematica, come ricordato nel volume, non era stata affrontata in maniera dettagliata se non in saggi che hanno indagato aspetti locali di uno specifico scriptorium o di un particolare scriba. Marc Drogin offre un'analisi approfondita delle maledizioni che i copisti medievali scrivevano nelle pagine dei manoscritti, come precauzione contro il furto, il plagio e i danneggiamenti, una sorta di protezione magica, e attraverso citazioni dimostra in modo convincente come queste fossero una parte integrante della cultura dei copisti medievali.
Il libro di Drogin – disegnatore di cartoni animati e di biglietti da visita, calligrafo e giornalista deceduto nel 2017 – è ancora oggi il più completo censimento di anatemi per libri che sia mai stato scritto. Mentre stava cercando di apprendere la scrittura calligrafica medievale, il cui studio approfondito lo avrebbe portato a pubblicare il volume Medieval calligraphy: its history and technique (Allanheld & Schram, 1980), si imbatté in una breve formula e in seguito ne trovò altre, nascoste in molti casi nelle note a piè di pagina dei libri di storia scritti nel XIX secolo. La sua ricerca spasmodica di questo tipo di espressioni, attraverso fonti primarie e secondarie, lo portò a repertoriarne diverse dall'antica Grecia e dalla biblioteca di Babilonia fino al Rinascimento.
Per gli storici del libro le maledizioni erano solo curiosità, ma per Drogin erano la prova di quanto i testi scritti fossero preziosi per gli scribi e per gli eruditi medievali, in un'epoca in cui anche le istituzioni più elitarie potevano avere biblioteche di poche decine di esemplari. Egli esplora una vasta gamma di credenze e tradizioni, dalle preghiere protettive contro il furto alle proibizioni contro coloro che osavano danneggiare un testo. Attraverso un considerevole numero di esempi tratti da manoscritti antichi, l'autore ci offre una panoramica completa e affascinante del modo in cui queste convinzioni si sono radicate e si sono trasmesse, dimostrando come le maledizioni fossero parte integrante della cultura dei copisti medievali. La sua scrittura accurata e coinvolgente, che si presta anche al lettore meno esperto (come da buona tradizione anglosassone e statunitense), insieme alla preziosa traduzione e introduzione di Inserra a quasi quarant’anni dalla prima edizione, rendono quest'opera un contributo significativo alla comprensione della cultura del libro nel Medioevo.
C’è da chiedersi come mai finora nessuno avesse mai pensato di tradurre un testo così famoso nel contesto internazionale, ma questo è il merito che va riconosciuto a Simona Inserra, che da anni si occupa di catalogazione di fondi di incunaboli spostandosi per la sua amata Sicilia.
Francesca Nepori
Archivio di Stato di Massa
Definire l'orientalismo è cosa ardua, basti pensare che la conoscenza di tutto ciò che si trova ‘a Oriente’ parte dalla percezione stessa di cosa esso sia e di dove si trovi, nello spazio geografico e anche nell'immaginazione. Una percezione che si trasforma nei secoli in base all'acquisizione di nuove conoscenze così come alle condizioni politiche (un esempio fra tanti può essere la nascita ufficiale dell'Impero anglo-indiano nel 1876) o alle prese di posizioni filosofiche (si pensi all’opera Così parlò Zarathustra di Friedrich Nietzsche). Si potrebbe tornare indietro nel tempo alla ricerca dei primi viaggiatori che si spinsero verso est o dei pionieri delle discipline linguistiche, filologiche e storiche riguardanti questo oriente percepito, risalendo alle prime traduzioni di testi dall'arabo, o dal siriaco, o dal cinese. Si potrebbero prendere come riferimento gli studi biblici o anche quell’ondata di interesse nata in associazione con le esigenze di un proselitismo cattolico che a partire soprattutto dal XVI secolo, portò missionari in ogni angolo dell'Asia. Si potrebbe, seguendo il tracciato del celebre Orientalismo di Edward Said (Bollati Boringhieri, 1991; prima edizione Pantheon, 1978), individuare l'emersione di discipline più strutturate, più legate ai singoli contesti linguistici, religiosi, storici e culturali che accompagnarono l'espansione commerciale e politica dell'Occidente verso est (di qui l'esempio citato). Discipline che oggi si sono sviluppate a tal punto da rendere fin troppo generico e forse inutile l'uso di un termine come ‘orientalistica’.
Un altro approccio più connesso al dato concreto può consistere nel tracciare una storia altrettanto variegata, quella delle edizioni occidentali in alfabeti non latini e di tutto ciò che attorno a esse ruota. Un’impresa non facile, tentata dalla corposa opera che reca nel titolo il nome della Tipografia medicea orientale, ovvero la stamperia che nel 1584 il cardinale Ferdinando de’ Medici (1549-1609) approntò a Roma, sulla spinta di papa Gregorio XIII (al secolo Ugo Boncompagni, 1501-1585), con l’obiettivo di pubblicare opere in lingue ‘orientali’ – un oriente che qui si estende fino alla Persia safavide – di natura religiosa e scientifica. Un tale approccio, che fa maggiormente riferimento alla produzione materiale, in questo caso editoriale e tipografica, è stato finora avvicinato con metodologie e prospettive diverse, vuoi per la difficoltà intrinseca nell'approfondimento di un tema che richiede tante conoscenze, non solo linguistiche, vuoi per la sottovalutazione dell'importanza delle avventure editoriali che accompagnano lo sviluppo degli studi e delle discipline. Gli studiosi si sono concentrati spesso su singole opere, su singole lingue e più raramente – in un'ottica puramente descrittiva – su editori poliedrici la cui attività appare assai diversificata. L’angolo della cultura materiale, invece, specialmente nell'affrontare un corpus come quello orientalistico, può fornire chiavi di lettura importanti, che superano gli steccati delle tradizionali aree disciplinari. Non è un caso che, per definire i contorni tematici di questa trattazione, i curatori Eckhard Leuschner (direttore dell’Institut für Kunstgeschichte presso la Julius-Maximilians-Universität di Würzburg) e Gerhard Wolf (direttore del Kunsthistorischen Institut in Florenz - Max-Planck-Institut) usino l'espressione «transcultural knowledge translation and transfer» (p. IX).
Il libro ha come presupposto un progetto di ricerca vasto che – come descritto in apertura – interroghi le tante e variegate fonti con lenti diverse, così come il coinvolgimento di studiosi provenienti da più discipline: storia dell’arte, storia del libro, studi orientali. Il comporsi dei diversi contributi scientifici – la prima parte, dopo una prefazione e due articoli introduttivi, è dedicata ai saggi (Essays), mentre la seconda all'edizione commentata di documenti d'archivio (Archival documents with commentaries) – getta una luce sul clima culturale che si respirava fra Firenze e Roma tra la fine del Cinquecento e l'inizio del Seicento, un affresco di difficile composizione. Il tentativo è di restituire la complessità insita in un'impresa editoriale ambiziosa che vede al centro l'orientalista Giovanni Battista Raimondi (1536-1614), la cui biografia è curata nel volume da Angelo Michele Piemontese. Il lascito di questa esperienza, durata qualche decennio e terminata con la morte di Raimondi, ha dato una spinta formidabile agli studi riguardanti l'Asia occidentale antica e contemporanea: per comprenderne l’importanza basti solo passare in rassegna l'inventario della casa di Raimondi e della Tipografia medicea orientale, pubblicato al termine della sezione dedicata all'edizione dei documenti d'archivio.
Lorenzo Declich
ISMEO - Associazione internazionale di studi sul Mediterraneo e l'Oriente
L’ottimo volume Lettrici italiane tra arte e letteratura, curato da Giovanna Capitelli e Olivia Santovetti, fornisce un prezioso e stimolante studio volto alla definizione di una figura, quella della ‘donna lettrice’ in Italia dall’inizio dell’Ottocento fino ai primi decenni del Novecento.
Testi letterari dalle spiccate finalità didattiche, educative o edonistiche; testi d’opera; fonti iconografiche e più in generale artistiche, come pittura, scultura, fotografia, cinematografia: vastissima è la mole documentaria esaminata. Da essa, gli autori dei sedici contributi hanno enucleato i diversi profili della ‘donna lettrice’, convergendo sistemicamente a dimostrare con metodo scientifico, profondità di ricerca e sorprendenti capacità rivelatrici – pur nella diversità degli aspetti valutati - la tesi che sottende all’intera opera: tutta la narrazione pittorica, letteraria, teatrale e musicale tra Ottocento e Novecento fu frutto di uno sguardo prevalentemente e marcatamente maschile, male gaze, sulla donna che legge, assurta al ruolo di topos diffuso attraverso le arti e la cultura; presenza innegabile ma, talvolta strumento di indagine metacognitiva da parte degli intellettuali sullo stato delle arti più diverse; talvolta creduta vittima predestinata di contenuti narrativi ritenuti osceni o devianti per il mondo femminile; talvolta, docile divulgatrice dei dettami della morale corrente; o addirittura sospettata di usare la lettura come ‘schermo’ dietro il quale nascondere alla società certe finzioni della propria vita familiare e tutta sé stessa.
Sostanzialmente il divenire fattuale, economico e più genericamente storico della società italiana dall’Ottocento ai primi decenni del Novecento si estrinsecò in una produzione letteraria, pittorica, teatrale e più tardi cinematografica, nella quale sempre più la ‘donna lettrice’ assunse un ruolo apparentemente più emancipato, ma ben lontano dal non suscitare sospetto, allarme, resistenze. Vi fu un flusso continuo, un vero e proprio rispecchiamento tra divenire storico e ambiti culturali, e tra questi ultimi e il primo. Infatti, mentre in Europa l’accettazione della donna dedita alla lettura si era già consolidata, provenendo essa dall’affermarsi della cultura protestante che favorì una diffusa alfabetizzazione anche in ambito femminile, in Italia assunse invece una fisionomia più consistente solo successivamente, agli albori dell’Ottocento, e comunque sempre in ambienti elitari, benestanti, conservatori.
La figura sostantivata come ‘donna’ e aggettivata come ‘italiana’ lasciava, tuttavia, totalmente in ombra milioni di italiane per le quali l’analfabetismo, la miseria economica e culturale, i pregiudizi correnti, dovuti anche al conservatorismo cattolico, prolungavano attraverso numerosi altri decenni e drammatiche vicende storiche, fino alle soglie della Seconda guerra mondiale, la condizione di minorità ed estraneità all’evoluzione di una coscienza intellettuale nazionale. Un processo lentissimo, farraginoso, spesso involuto e contraddittorio caratterizzò il divenire della storia della lettura al femminile fino a tutto il modernismo.
Dal 1890, dagli anni d’oro del Romanticismo italiano e ancora più avanti, il sempre più corposo numero delle scrittrici militanti infranse l’esclusività dell’‘uomo scrittore’, trattando tematiche reali, spesso scabrose e tentando l’equiparazione al già affermato mondo letterario maschile.
Questo ricco e documentato volume costituisce un prezioso contributo per cogliere aspetti finora inediti o inesplorati dell’evolversi di questa particolare figura di donna. L’auspicio è che tempi più illuminati a venire ci consegnino una lettrice affrancata dalla sottolineatura della sua appartenenza a uno specifico genere.
Giuseppina Maria Sutera
Roma
La crescente diffusione della lettura online e su schermo porta a valutare i punti di forza e di debolezza, le prerogative e i rischi del digital reading: tutti noi ormai navighiamo nella ricchezza di informazioni digitali ed è quindi importante capire in quali condizioni e per quali scopi un lettore può trovare maggiori benefici dall’utilizzo di un medium di lettura piuttosto che da un altro, senza lasciarsi coinvolgere dalla contrapposizione ‘ideologica’ tra lettura tradizionale e lettura digitale. Sono utili, piuttosto, prove empiriche per capire quando, dove e per quale tipo di lettore i maggiori vantaggi sono offerti da lettura su carta, in digitale o in combinazione tra le due modalità. Questi aspetti si legano al dibattito sugli effetti cognitivi prodotti dalla lettura digitale, dibattito alimentato dalle divergenze tra gli studiosi convinti che il testo elettronico diminuisca la crescita personale degli individui e i sostenitori delle nuove modalità di lettura, secondo i quali la navigazione di testi online garantirebbe maggiore flessibilità cognitiva ai lettori: si contrappongono l’esaltazione della linearità, dell’attenzione profonda, della cultura del libro (‘mito della profondità’) e l’elogio del multitasking, della velocità, della reticolarità, della simultaneità (‘mito della superficialità’).
Non si tratta di sterili dispute tra nostalgici del cartaceo e sostenitori del digitale, ma di questioni fondamentali il cui approfondimento è finalizzato a informare i decisori politici, gli insegnanti, i genitori per supportare gli studenti nell’acquisizione di quelle literacy necessarie per leggere, pensare e comunicare nel nuovo contesto digitale in cui siamo immersi.
Nonostante non sia ancora stato prodotto un consolidato corpus di conoscenze in materia e nonostante i libri digitali abbiano trovato un’accoglienza piuttosto tiepida, molti governi stanno investendo cospicue risorse per introdurre nuovi dispositivi di lettura e, sia all’estero che sul territorio nazionale, alcune scuole sono in procinto di adottare libri di testo elettronici abbandonando quelli cartacei. Inoltre i supporti digitali vengono sempre più spesso utilizzati non solo per l’autoapprendimento e l’attività didattica in aula, ma anche per test standardizzati e valutazioni degli studenti.
La pandemia da Covid-19 ha poi mostrato chiaramente come sia fondamentale il ruolo delle tecnologie digitali per l’istruzione e ha reso urgente la riflessione su come arginare i fenomeni di disinformazione e infodemia. Si tratta di questioni molto complesse perché chiamano in gioco una varietà di fattori che necessitano di indagini da diverse prospettive di studio.
Andrea Nardi – dottore di ricerca in Scienze della formazione e psicologia, in servizio presso l’Istituto nazionale di documentazione, innovazione e ricerca educativa (INDIRE) – ci propone un’interessante e documentata riflessione che si colloca all’interno del cosiddetto ‘rallentamento’ dei ritmi educativi, sostenuto negli ultimi anni da vari autori tra cui, a livello nazionale, Gianfranco Zavalloni (La pedagogia della lumaca, Emi, 2009) e Lamberto Maffei (L’elogio della lentezza, Il mulino, 2014).
Il testo si articola in sei capitoli, ognuno dedicato a quesiti cui l’autore si propone di dare risposta, sebbene senza alcuna presunzione di completezza, considerata la complessità del tema: il primo capitolo (Che cosa possiamo imparare dalla storia?) propone un utile excursus storico sull’evoluzione del testo digitale e sui cambiamenti dell’esperienza di lettura dovuti alla tecnologia e fa il punto sullo stato attuale del libro di testo digitale. Nel secondo capitolo (Lo schermo sta cambiando il nostro modo di leggere?) si indaga sul modo in cui le distrazioni digitali possano coinvolgere negativamente il processo di lettura profonda e i processi attentivi. Il terzo (Leggere in digitale sta trasformando il nostro cervello?) analizza i dati forniti da studi di ricerca, soprattutto neuroscientifica, per capire se i cambiamenti nell’attività di lettura possano indurre modificazioni a livello cerebrale. I possibili benefici e svantaggi cognitivi della lettura digitale rispetto alla lettura tradizionale sono passati in rassegna nel quarto capitolo (Meglio leggere su carta o su schermo?), mentre il quinto (Saper leggere su carta è sufficiente per comprendere testi digitali?) affronta il tema delle literacy necessarie a una lettura efficace nel contesto digitale e dei metodi di supporto agli studenti affinché essi comprendano e assimilino ciò che leggono. Infine l’ultimo capitolo (Come insegnare la lettura digitale?) propone e descrive le strategie ritenute affidabili in letteratura per l’insegnamento delle competenze di lettura critica in ambiente digitale.
Il lavoro di Nardi – con intelligente consapevolezza delle insidie che accompagnano la riflessione sulle tecnologie educative – risponde a una serie di interrogativi con prudenza e cautela, riuscendo a sfuggire al dogmatismo e ponendosi tra ‘mito della profondità’ e ‘mito della superficialità’.
Manuela Grillo
Biblioteca centrale della Facoltà di ingegneria civile e industriale “G. Boaga”, Sapienza Università di Roma
AIB studi, vol. 63 n. 2 (maggio/agosto 2023). DOI: 10.2426/aibstudi-13917. ISSN: 2280-9112, E-ISSN: 2239-6152 - Copyright (c) 2023 Gli autori