Nello spirito di Budapest: open access e transformative agreements

Enrico Massimo Dotti 

Il movimento per l’accesso aperto ha conseguito, nei vent’anni trascorsi dalla sua nascita, notevoli risultati. Open access directory1 riporta i seguenti dati, che si riferiscono all’inizio del 2018: 11.169 periodici peer reviewed open access censiti nella Directory of open access journals, oltre 50 milioni di record depositati nei repository, oltre 1000 le istituzioni scientifiche che hanno aderito alla Budapest open access initiative e così via. Dati più recenti, resi noti nel giugno 2023 da Dimitrije Curcic per Wordsrated ci informano che dall’inizio del secolo gli articoli accessibili ‘in qualche modo’ ad accesso aperto sono aumentati del 58%, che negli ultimi dieci anni l’aumento è stato del 78% e che nel 2020 hanno superato quelli del tutto chiusi raggiungendo il 56,86% del totale.2]
Questi risultati sono tanto più sorprendenti in quanto ottenuti in anni in cui si è imposto un modello politico ed economico sfavorevole, anzi decisamente ostile a qualsiasi forma di gratuita condivisione dei beni. La massiccia opera di privatizzazione praticata dai governi di tutto il mondo sulla scorta delle idee affermate dagli economisti della Scuola di Chicago, codificate dal Washington Consensus e fatte proprie da potenti istituzioni sovranazionali3 ha riguardato anche la scienza, e in particolare il grande ambito della diffusione dei risultati della ricerca.
Tradizionalmente si identifica la ragione della nascita del movimento per l’accesso aperto con la crisi del prezzo dei periodici: non a torto, se consideriamo le enormi difficoltà in cui si sono trovate le università e gli enti di ricerca in quel frangente. Ma forse ci si può spingere a individuare nelle politiche di privatizzazione una causa remota e più profonda. Si tratta di una tesi non nuova, già presente, per fare solo due esempi, in una raccolta di saggi del 2006 curata da Elinor Ostrom e Charlotte Hess4 e, più recentemente, nel libro di Massimo Florio La privatizzazione della conoscenza5].
Florio definisce ‘privatizzazione della conoscenza’ l’appropriazione da parte di soggetti privati di conoscenza prodotta con risorse pubbliche, per fini speculativi. L’autore analizza nel dettaglio e con esempi concreti questo fenomeno e ne sottolinea gli effetti negativi generali: l’aumento delle diseguaglianze sociali, l’iniqua distribuzione della ricchezza, la difficoltà a utilizzare la scienza per migliorare le condizioni generali dei cittadini. Inoltre, sottolinea che sebbene le comunità nazionali e internazionali utilizzino risorse proprie, costituite dalle tasse e dai contributi di tutti i loro membri, per favorire la creazione, la diffusione e l’incremento della conoscenza, attraverso l’istituzione di scuole, università e centri di ricerca (e lo fanno perché riconoscono la dignità e l’utilità sociale della scienza, e ritengono opportuno che essa sia diffusa nella maniera più vasta possibile), poi questa conoscenza così prodotta perda efficacia perché viene sottratta all’uso pubblico e diventa indisponibile o disponibile come merce, non per tutti. E il paradosso non è solo economico, non riguarda solo il fatto che i cittadini devono finanziare un bene che poi non possono utilizzare se non a condizione di ricomprarlo, ma anche che i privati si trovano a decidere sull’uso di un bene prodotto con risorse pubbliche per fini pubblici. Questa situazione paradossale, e onerosa per la maggior parte dei cittadini (non per i pochi che ne traggono profitto), non è necessaria, ma dipende da politiche messe consapevolmente in atto da istituzioni identificabili.
Il movimento per l’accesso aperto è sorto anche per contrastare la riduzione a pura merce della scienza e dei prodotti della ricerca, ma questo contrasto è reso a mio avviso almeno in parte inefficace perché attuato con politiche che ripropongono in altri termini lo stesso problema invece di risolverlo.
La necessità di diffondere ad accesso aperto articoli e monografie frutto di una ricerca per ottenere che sia finanziata ha cambiato in parte le abitudini dei ricercatori ma, nello stesso tempo, ha fatto suonare un campanello d’allarme nelle case editrici. La trasformazione dell’editoria scientifica, avvenuta nell’ultimo mezzo secolo a causa dell’introduzione dell’impact factor e della nozione di riviste fondamentali nella valutazione della ricerca, ha avuto come effetto la formazione di un sistema oligopolistico, in cui pochi grandi gruppi si contendono più della metà del mercato6, un mercato molto ricco e con grandi margini di profitto, reso possibile dal meccanismo economico descritto da Florio: gli autori cedono gratuitamente agli editori le loro opere e gli editori le rivendono alle istituzioni (che, in generale, hanno finanziato le ricerche e in questo modo si trovano a pagare due volte).
Alla minaccia della perdita di una parte di quelle rendite a causa dell’accesso aperto, gli editori hanno reagito in prima battuta rifiutando ogni possibile cambiamento. Nel dicembre del 2018 fu promosso dalla Max Planck Gesellschaft un incontro tra 170 delegati di consorzi bibliotecari ed enti di ricerca di 37 paesi per discutere una soluzione al problema dell’enormità delle risorse economiche necessarie a garantire ai ricercatori l’accesso alle pubblicazioni scientifiche (“Aligning strategies to enable open access”). All’incontro parteciparono anche i grandi editori (Elsevier, Wiley e Springer Nature), ai quali venne proposto un nuovo modello contrattuale che prevedeva la limitazione nella cessione dei diritti da parte degli autori e la trasformazione degli abbonamenti in un sistema in cui le quote pagate per essi sarebbero servite a rendere gli articoli accessibili a tutti, non solo agli abbonati. Il passaggio dal vecchio sistema al nuovo sarebbe avvenuto gradualmente, attraverso la stipula di transformative agreements, ovvero contratti che prevedono una graduale apertura degli articoli scientifici finanziata con parte degli oneri di abbonamento fino a che, in un tempo stabilito e breve, questi oneri non saranno destinati ad ‘acquistare’ l’apertura di tutti gli articoli delle riviste dell’editore. In altri termini, si tratta del passaggio da un modello pay per read a un modello pay per publish7.
Gli editori in prima battuta rifiutarono le proposte di cambiamento8, ma l’atteggiamento di chiusura non durò molto: di fronte alla clamorosa rinuncia di molti grandi centri di ricerca e consorzi di biblioteche agli insostenibili abbonamenti, come ad esempio quella del consorzio Bibsam, che gestiva abbonamenti per 85 centri di ricerca svedesi per una spesa annua di 35 milioni di euro, i grandi gruppi editoriali si spostarono su posizioni più accomodanti che si risolsero prevalentemente nell’accettazione dei transformative agreements, che cominciarono a essere stipulati, fino a diventare una diffusa strategia praticata dai fautori dell’open access. I transformative agreements sembrerebbero aver messo fine allo stallo tra finanziatori, enti di ricerca ed editori; sono compatibili con le richieste di PlanS e con Horizon Europe. PlanS li cita direttamente e sommariamente nei Principles (il decalogo fondamentale dell’iniziativa) e in altri documenti rende esplicito che il piano

…] supports the global open access 2020 initiative (OA2020) which aims to accelerate the transition to open access by adopting strategies to systematically withdraw financial support of paywalled publishing venues and reinvest those funds to support open access publishing. cOAlition S encourages that publishers enter into transformative arrangements globally in all countries and share data from such arrangements. cOAlition S strongly encourages institutions and consortia to develop new transformative agreements and will only financially support agreements after 1 of January 2021 where they adhere to the ESAC guidelines9.

Horizon Europe non li menziona, prevedendo semplicemente la pubblicazione ad accesso aperto e senza embargo delle pubblicazioni relative alle ricerche finanziate; nel programma non è prevista nessuna esclusione per le pubblicazioni apribili tramite il pagamento di APC e non è esclusa la green road, anche se le versioni pubblicate debbono essere peer-reviewed10.
Apparentemente, l’accettazione dei transformative agreements da parte dei più importanti gruppi editoriali sembrerebbe sancire il successo definitivo del movimento dell’accesso aperto. Una volta trascorso il periodo di ‘trasformazione’, infatti, gli articoli pubblicati dalle più importanti riviste scientifiche dovrebbero essere disponibili per tutti.
La conoscenza dovrebbe ritornare pubblica, il meccanismo di privatizzazione dovrebbe fermarsi. In realtà i nuovi contratti, anche quelli successivi al periodo di trasformazione, lasciano sostanzialmente inalterato il quadro generale.
Nell’ipotesi che i transformative agreements porteranno in futuro a una reale trasformazione del modello di pubblicazione di articoli scientifici, ipotesi ben lontana dall’essere realizzata11, le istituzioni pubbliche continueranno a pagare per un bene da loro prodotto. Questo bene sarà liberato una volta per tutte, per tutti, e non da ogni singola istituzione che ne vuole usufruire; ma per liberarlo ci sarà bisogno di riscattarlo, di pagare un riscatto. Questa interpretazione può apparire troppo radicale e ingiusta. Gli editori obiettano che quello che gli autori pagano per riavere quello che è loro sotto forma di abbonamento oppure attraverso la liberazione degli articoli a seguito dei contratti ‘trasformati’ è un servizio essenziale. In un suggestivo articolo pubblicato su JLIS, Andrea Angiolini, direttore della rivista Il mulino, così sintetizzava il bene offerto dall’editore:

Si selezionano o sollecitano i testi, li si rifiuta, li si riscrive, gli si dà forma, li si fa arrivare al lettore lungo la filiera distributiva. Molte tipologie di testi sono possibili - differenti per formalizzazione, dimensioni, grafica di copertina, caratteri, paratesti, prezzo, etc. - e tutte richiedono, certamente beneficiano, di un intervento professionale che consente, favorisce, migliora l’apertura verso il lettore, cioè la possibilità di scegliere, leggere, comprendere realmente un testo12.

Il ragionamento è singolare: perché dovrei avere più possibilità nello scegliere e leggere un articolo selezionato da un editore e che debbo pagare (o che qualcuno deve pagare per me) piuttosto che un articolo liberamente concesso dall’autore? E anche: perché e come l’editore mi aiuta a «comprendere realmente un testo»? Angiolini risponde a quest’ultima domanda con un lieve scarto rispetto alla spiegazione canonica (la revisione tra pari, fornita dall’editore, corregge le imperfezioni dell’articolo): sostiene infatti che l’editore permette la comprensione dell’articolo anche al lettore comune («che probabilità reali ci sono che un lettore non specialista possa realmente beneficiare di un’apertura che lascia intatta la tipologia di testo e chiede al lettore di trasformarsi improvvisamente in uno studioso?»). Questo scarto trae origine da un fraintendimento dell’oggetto dell’open access, che è l’articolo scientifico per la comunità scientifica, non l’opera di divulgazione per il lettore non specialista. Nella realtà, nessun editore di articoli scientifici ha come scopo quello di rendere a tutti comprensibile un articolo di matematica pura o di fisica quantistica.

La giustificazione canonica del riscatto sembra più sensata di quella di Angiolini: l’editore garantisce la validità dell’articolo o della monografia scientifica attraverso la revisione. Questo implica che un articolo scientifico scritto da un ricercatore non è, per sua natura, completo, non è ancora pronto per essere utilizzato dalla comunità scientifica. Ha bisogno di un controllo da parte di terzi. Questi terzi sono i ‘pari’ scelti dagli editori: studiosi che hanno le stesse competenze dell’autore dell’articolo, che decidono se questo può essere pubblicato, se va modificato, se deve essere respinto. Solo dopo questo passaggio l’articolo è perfetto, e può trovare posto in una rivista scientifica. Ma questo è veramente necessario?
Il dibattito sull’argomento è stato, e continua a essere, intenso e serrato; una pietra miliare sul suo percorso l’ha messa Stevan Harnad nell’articolo Scholarly skywriting and the prepublication continuum of scientific inquiry13, pubblicato sulla rivista ‘chiusa’ Psychological science nel 1990, ma poi depositato in CogPrints la banca dati di preprint immaginata e realizzata da Harnad nel 1997. Harnad sostiene il «prepublication continuum», quel fenomeno attraverso il quale i risultati della ricerca «are discussed informally with colleagues (currently in person, by phone and by regular mail), presented more formally in seminars, conferences and symposia, and distributed still more widely in the form of preprints and tech reports that have undergone various degrees of peer review»; discussi, giudicati, contrastati, ampliati, i risultati della ricerca sono sottoposti a «various degrees of peer review» prima di arrivare dall’editore, che sono forse più efficaci della revisione editoriale, perché si esercitano su un magma che non si è ancora consolidato, che lascia intravedere ancora le intuizioni, le false partenze, gli errori, le conclusioni approssimative e i felici accidenti che ingombrano il lavoro di ricerca14. L’articolo pubblicato su una rivista è sottoposto anch’esso all’apprezzamento della comunità scientifica, ma non più di quello che viene messo direttamente a disposizione dei ricercatori attraverso il deposito in un archivio senza il passaggio editoriale. Inoltre, i contenuti dell’articolo pubblicato non hanno un grado di stabilità maggiore del preprint. Il brillante cambiamento di prospettiva proposto da Guédon, che propone un record of versions, al posto della version of record15 vuole anche dar conto della natura fluida del processo di ricerca, che deve informare di sé anche ciò che documenta la ricerca. Si potrebbe pensare allora che l’articolo nella forma uscita dalle mani e dalla mente di un ricercatore e sottoposto immediatamente e direttamente alla totalità della comunità scientifica sia più adatto, o comunque non meno adatto, dell’articolo pubblicato a favorire la great conversation utile al progresso della scienza.
Nella pratica, la comunità scientifica ha sentito, nel corso della pandemia di Sars-covid 19, la necessità di esporre i risultati delle ricerche sul virus più rapidamente di quanto il lungo percorso della pubblicazione tradizionale avrebbe permesso. La necessità e l’urgenza sono servite a chiarire che, nonostante la cautela spesso espressa in articoli e dichiarazioni dagli scienziati nei confronti dei preprint, questi si fidano della loro validità. Un esempio di questo atteggiamento è l’allestimento, da parte della rivista «Epidemiologia & prevenzione», organo dell’Associazione italiana di epidemiologia, di un repository16 dove i ricercatori «possono depositare senza attendere i tempi lunghi della letteratura […] articoli, documenti, protocolli, analisi, traduzioni, dati preliminari» relativi alla ricerca sul virus. La scelta dell’Associazione è coerente con l’atteggiamento dei ricercatori delle discipline biomediche, che ha deciso di scommettere su questa forma di diffusione dei risultati scientifici preferendola spesso alla pubblicazione tradizionale. 
Tuttavia, gran parte della comunità scientifica attende ancora al modello di pubblicazione tradizionale, per ragioni diverse da quelle più propriamente epistemiche: solo gli articoli pubblicati sulle riviste dei grandi gruppi editoriali permettono ai loro autori di utilizzarli per procedere nella loro carriera accademica. Anche in questo caso possiamo chiederci: è veramente (ancora) così? Nel 2012, nel corso del convegno annuale della Società americana di biologia cellulare a San Francisco, è stata formulata la Dichiarazione sulla valutazione della ricerca (DORA) con la quale editori e curatori di riviste scientifiche hanno sostenuto la necessità di cambiare le pratiche valutative. In particolare, nella Dichiarazione si affermano, tra l’altro, «la necessità di eliminare l’uso di metriche relative alle riviste scientifiche, come i journal impact factor, dai criteri per la distribuzione di fondi per la ricerca, per le assunzioni e le promozioni» e «la necessità di valutare la ricerca scientifica per i suoi meriti intrinseci piuttosto che sulla base della rivista in cui viene pubblicata»17. Nei dieci anni trascorsi dalla Dichiarazione, oltre 2600 enti di ricerca l’hanno sottoscritta, favorendo così la creazione di un contesto in cui la liberazione dall’impact factor e dalle ‘riviste fondamentali’ sembrerebbe possibile. Nel luglio 2022 un ulteriore passo è stato fatto: coARA, la Coalition for advancing research assessment, un’importante istituzione di cui fanno parte tra gli altri Science Europe, European University Association e Commissione europea, ha lanciato l’Agreement on reforming research assessment che prevede che «inappropriate uses of journal- and publication-based metrics in research assessments hould be abandoned. In particular, this means moving away from using metrics like the Journal impact factor (JIF), Article influence score (AIS) and h-index as proxies for quality and impact»18. Il 6 ottobre 2022 l’ANVUR, l’Agenzia italiana di valutazione della ricerca, ha dichiarato di aver sottoscritto l’agreement, sostenendo che questo impegno «rappresenta un punto di partenza per le attività che l’Agenzia dovrà sviluppare per la definizione di regole comuni a livello internazionale a partire da questo documento programmatico»19. DORA e l’agreement non implicano una immediata modifica delle pratiche valutative; così come la sottoscrizione dell’Anvur non significa necessariamente che nel prossimo ciclo di valutazione verranno utilizzati parametri diversi dagli attuali20 (la sottoscrizione di molte università italiane alla Dichiarazione di Berlino sull’accesso aperto rimase lettera morta per molti anni); ma le une e l’altra favoriscono la possibilità del cambiamento creando un diffuso, se pur generico, consenso. Su questo consenso, su questo cambiamento di clima, ci si può basare per affermare che anche il legame tra pubblicazione tradizionale e carriera si può spezzare o, almeno, indebolire.
Forse a questo punto è lecito chiedersi se c’è ancora bisogno di sottoporsi al lucroso affare delle riviste scientifiche, se non è il caso di cominciare a opporsi non solo al sistema tradizionale degli abbonamenti, ma anche ai transformative agreements e alla gold road. Vent’anni dopo aver fatto nascere il movimento per l’accesso aperto, la Budapest open access initiative fa il punto della situazione e rilancia le sue esortazioni in una direzione che ci sembra non divergente rispetto alle nostre ultime considerazioni. Così si legge nelle 20th anniversary recommendations:

We recommend inclusive publishing and distribution channels that never exclude authors on economic grounds. We recommend moving away from article processing charges (APCs). Viable alternatives have long existed, but they are systematically under-noticed, under-discussed, under-appreciated, under-funded, and under-used. We recommend taking full advantage of these alternatives to enhance the equity, quality, usability, sustainability of OA research. We recommend investments and creative exploration to identify other alternatives to APCs. […] However, even if APCs were lower, and even if publishers become more transparent about the costs covered by APCs (a goal of cOAlition S and the Fair open access alliance), we still recommend taking better advantage of alternatives to APCs. Lower APCs and APCs transparently tied to a publisher costs are still author-side barriers, unrelated to merit, and obstruct progress toward a more equitable and inclusive system of research communication. […] There have always been two large alternatives to APCs: repository-based (or “green”) OA and no-APC (or “diamond”) OA journals. Because green and diamond OA are open to readers and authors, not just readers, we recommend giving them more attention, more use, more funding, and more priority. Shifting resources from APC-based OA to green and diamond OA will enfranchise more voices in global research without reducing the quality or openness of research. It will increase the quality of research by sharing perspectives previously excluded. It will reduce the money flowing from nonprofit research institutions to for-profit corporations and enhance community control over scholarly communication21.

Quella che abbiamo ampiamente citato è una vera requisitoria dei ‘padri costituenti’ dell’open access contro le APC e, sostanzialmente, contro la gold road. Né basta a mitigarla quel che si dice subito dopo, «We are not saying that articles in APC-based OA journals are not OA in the full BOAI sense. They are. When APC-based OA grows, OA grows»22, che sembra estraneo a tutto il resto. Quello che emerge da tutto il resto è l’idea che le APCs sono ciò che rende i risultati della ricerca pubblica una merce, sottraendoli al bene comune, alla comunità che li ha prodotti. E forse la dichiarazione dei vent’anni richiama l’autentico spirito dell’open science, che dovrebbe essere quello di porre la ricerca, almeno la diffusione della ricerca, fuori dal mercato. Dovremmo cominciare a chiamare open access solo quello che si sottrae alla speculazione editoriale. Già nel 2013, le Linee guida per la redazione di policy e regolamenti universitari in materia di accesso aperto alle pubblicazioni e ai dati della ricerca della CRUI ponevano la questione supponendo che «occorre tempo per denervare un potere di mercato che deriva da fattori endogeni attinenti alla valutazione» 23. Ma se i fattori endogeni stanno venendo meno, allora forse è tempo di denervare il potere del mercato e di utilizzare gli strumenti che la tecnologia e la tradizione, per richiamare il motto di Budapest24, hanno messo a disposizione degli studiosi per fare della scienza un bene comune.

Articolo proposto il 28 ottobre 2023 e accettato il 10 dicembre 2023.


Note 

ENRICO MASSIMO DOTTI, Sapienza Università di Roma, Biblioteca generale Facoltà di economia, e-mail: enrico.dotti@uniroma1.it.
Ultima consultazione siti web: 10 dicembre 2023.

1 http://oad.simmons.edu/oadwiki/OA_by_the_numbers.
2 https://wordsrated.com/open-access-publishing-statistics/.
3 Cfr. Marco Bersani, CatasTroika: le privatizzazioni che hanno ucciso la società. Roma: Alegre, 2013.
4 Charlotte Hess; Elinor Ostrom, Understanding knowledge as a commons. Cambridge: The MIT Press, 2006 [trad. it. La conoscenza come bene comune: dalla teoria alla pratica. Milano: Bruno Mondadori, 2009].
5 Massimo Florio, La privatizzazione della conoscenza. Roma; Bari: Laterza, 2021.
6 Cfr., tra gli altri, Vincent Larivière; Stefanie Haustein; Philippe Mongeon,  The oligopoly of academic publishers in the digital era «PLoS ONE », 10 2015, n. 6, https://doi.org/10.1371/journal.pone.0127502.
7 AISA, Accordi trasformativi: perché collaborare alla loro promozione? https://aisa.sp.unipi.it/accordi-trasformativi-perche-collaborare-alla-loro-promozione/.
8 Cfr. Paola Galimberti, Svezia-Italia 1-0. Berlino 2018: Italia fanalino di coda nell’open science, https://www.roars.it/svezia-italia-1-0-berlino-2018-italia-fanalino-di-coda-nellopen-science/.
9 https://www.coalition-s.org/addendum-to-the-coalition-s-guidance-on-the-implementation-of-plan-s/principles-and-implementation/.
10 La conformità dell’open access ottenuto attraverso i TA alle norme di Horizon Europe sembra d’altronde confermata da numerosi enti di ricerca, che la esplicitano nelle istruzioni rivolte ai loro ricercatori per l’accesso ai fondi.
11 Si veda al proposito il report pubblicato da Robert Kiley di cOAlition S nel giugno 2023 Transformative Journals: analysis from the 2022 reports.
12 Andrea Angiolini, Open to whom. The open science in the quest for readers, «JLIS.it» 12 (2021), n. 3,  p. 7, DOI: 10.4403/jlis.it-12763.
13 https://eprints.soton.ac.uk/251894/.
14 Robert K. Merton, Teoria e struttura sociale. Bologna: Il mulino, 1966, vol. 1, p. 14.
15 «Ostensibly aligned, publishing and communication have diverged. Journals and the concept of “version of record” are not only a legacy from print, but their roles have shifted to the point where some processes involved in scholarly publishing are getting in the way of optimal scholarly communication, as the present pandemic amply reveals. Taking full advantage of digital affordances requires moving in different directions. This is an opportunity, not a challenge. Platforms and record of versions” will eventually supersede journals and their articles, and now is the time to make some fundamental choices». Jean-Claude Guédon, Scholarly communication and scholarly publishing, April 21, 2021, https://oaspa.org/guest-post-by-jean-claude-guedon-scholarly-communication-and-scholarly-publishing/.
16 https://repo.epiprev.it/.
17 https://sfdora.org/read/read-the-declaration-italiano/.
18 https://coara.eu/app/uploads/2022/09/2022_07_19_rra_agreement_final.pdf.
19 https://www.anvur.it/news/anvur-firmataria-dellagreement-on-reforming-research-assessment/.
20 A una prima lettura della bozza del bando per la VQR 2020-24, sembrerebbe che l’Anvur abbia disatteso le indicazioni di coARA. Cfr. a tal proposito il comunicato dell’AISA del 17 ottobre 2023, https://aisa.sp.unipi.it/un-commento-non-richiesto-sul-bando-per-la-valutazione-di-stato-vqr-2020-2024/.
21 https://www.budapestopenaccessinitiative.org/boai20/.
22 Ibidem.
23 Linee guida per la redazione di policy e regolamenti universitari in materia di accesso aperto alle pubblicazioni e ai dati della ricerca, https://www.crui.it/linee-guida-per-la-redazione-di-policy.html.
24 «Un’antica tradizione e una nuova tecnologia sono confluite per dar vita a un bene pubblico senza precedenti. L’antica tradizione è la scelta degli scienziati e degli studiosi di pubblicare gratuitamente i frutti delle loro ricerche in riviste scientifiche, per amore della ricerca e della conoscenza. La nuova tecnologia è Internet». https://www.budapestopenaccessinitiative.org/read/italian-translation/.