Giovanni Di Domenico
Credo che poche cose come la lettura abbiano la virtù di unire le anime umane.
Dino Provenzal
Dal 1922, e per più di tre lustri, Dino Provenzal fu collaboratore assiduo dell’Italia che scrive, il mensile fondato da Angelo Fortunato Formiggini quattro anni avanti1. Per il periodico lo scrittore tenne una sorta di rubrica senza titolo2, alimentata in maniera abbastanza regolare con briosi articoli riguardanti ora i conformistici rituali praticati dagli abitanti della provincia letteraria nazionale (intellettuali, critici, recensori e scrittori, soprattutto scrittori), ora i ritardi e gli infiniti impacci nella percezione sociale del libro, ora il fragile radicamento della lettura nelle abitudini quotidiane dei ceti istruiti, specialmente nella vita della piccola e media borghesia urbana. La sua fu una delle firme che aiutarono Formiggini nel tenace sforzo di fare dell’Italia che scrive una rivista di idee, oltre che un diffuso ed efficace veicolo di informazione bibliografica e promozione editoriale. Quella non notissima produzione si rivela, oggi, una guida preziosa ad alcuni aspetti dei costumi (e dei parchi consumi) culturali italiani tra le due guerre, aspetti periferici, se si vuole, rispetto alla ribalta ideologica del regime fascista, ma non trascurabili. Ogni volta che entrava nella virtuale «casa delle lettere», nella stanza di un lettore, in una biblioteca, Provenzal sapeva guardarsi intorno e ricavarne impressioni e riflessioni da fissare su carta: ritagli necessari per la storia dell’Italia che (non) leggeva. Sullo sfondo va collocato un vero e proprio tormentone del ventennio, in parte ereditato dai decenni precedenti: quella reale o presunta ‘crisi del libro’ (calo di produzione o di vendita, difficoltà finanziarie dell’editoria, tassi di lettura perennemente bassi) intorno alla quale si arrovellavano editori, scrittori, intellettuali (organici al fascismo e non), esponenti del governo, senza venirne sostanzialmente a capo, pur generando una gran quantità di scritti, discorsi, campagne promozionali e battaglie editoriali3. La questione incrociava sicuramente le esigenze di egemonia, politica culturale e narrazione del regime (‘libro e moschetto’), ma trovava anche sbocchi non propagandistici e posizioni, come quelle di Provenzal, prive di cornici retoriche.
Dino Provenzal era nato a Livorno il 27 dicembre 1877 da famiglia di origine ebraica. Perse il padre – un insegnante – molto presto, ma da lui ereditò una forte impronta culturale, risorgimentale e principalmente mazziniana. A Livorno compì i suoi studi liceali e tra i professori ebbe Giovanni Pascoli. Frequentò con profitto le aule universitarie a Pisa e a Firenze, dove poté seguire le lezioni di filologi e italianisti di prestigio, come Alessandro D’Ancona, Guido Mazzoni e Pio Rajna. La sua tesi di laurea fu pubblicata con il titolo I riformatori della bella letteratura italiana: Eustachio Manfredi […]: studio di storia letteraria bolognese del secolo 18. (Rocca San Casciano: L. Cappelli, 1900). Sotto-bibliotecario alla Nazionale di Torino per pochi mesi, tra il 1903 e il 1904, fu, per il resto della vita, uomo di scuola, dapprima docente poi preside, e cambiò molte sedi (egli stesso contò 14 residenze), per fermarsi, dal 1930, a Voghera, dove gli fu affidata la presidenza del Liceo Ginnasio “Severino Grattoni”. Nel 1906, sposò Lavinia Barteletti, dalla quale ebbe tre figli. Tra le sue residenze vi fu Messina: lì, durante il terremoto del 1908, rischiò di perdere la moglie e la piccolissima figlia Emilia, sepolte sotto le macerie della loro abitazione. Sui tragici eventi messinesi redasse una testimonianza5, che gli valse il plauso di Ada Negri e Arturo Graf.
Da giovane attraversò un periodo ‘positivista’; maturò, altresì, una sua sensibilità per le condizioni economiche delle classi subalterne. La guerra lo spinse verso posizioni interventiste e di sostegno all’irredentismo. Turbato dai forti conflitti sociali e politici del 1919-1920, aderì al movimento fascista, per allontanarsene dopo un paio d’anni e sviluppare progressivamente un sentire e un pensiero antifascisti. Nel 1926 abbracciò con convinzione il cristianesimo. Ciononostante, le leggi razziali del 1938 lo colpirono duramente: perse l’incarico di dirigente scolastico a Voghera, si vide espellere dalla scuola, i suoi libri furono banditi e fu costretto a celarsi dietro pseudonimi o a servirsi di qualche amico (Piero Operti) disposto a fargli da prestanome. Nel 1943 dovette rifugiarsi sugli Appennini, a Pianosinatico, poi si nascose a Firenze, presso il cugino Alighiero Bacci, un impiegato dell’Ospedale degli innocenti che aveva casa all’interno dell’ospedale stesso. Il fratello di Dino, Federico, fu invece deportato e morì ad Auschwitz. Nel 1946 Provenzal fu reintegrato nei ranghi scolastici e gli fu restituita la presidenza del Liceo Grattoni. In pensione dal 1948, si dedicò alla scrittura per un ulteriore ventennio di attività. Morì a Voghera l’11 aprile 1972.
Nel corso della sua lunga esistenza aveva intrecciato importanti amicizie e relazioni culturali. Il fondo Dino Provenzal della Biblioteca Labronica “Francesco Domenico Guerrazzi” conserva lettere e cartoline postali da lui ricevute nel periodo 1902-1959. Tra i tantissimi corrispondenti troviamo Massimo Bontempelli, Piero Calamandrei, Ernesto Codignola, Benedetto Croce, Alessandro D’Ancona, Grazia Deledda, Angelo Fortunato Formiggini, Giovanni Gentile, Giuseppe Lombardo Radice, Guido Mazzoni, Bruno Migliorini, Attilio Momigliano, Marino Moretti, Giuseppe Prezzolini. Un altro fondo a lui intitolato, e nato per suo impulso, è quello dell’Archivio storico civico di Voghera, nel quale, insieme con manoscritti di sue opere, è stata raccolta una cospicua porzione della sua corrispondenza (ottobre 1905-marzo 1961). Spiccano anche qui nomi importanti, come Silvio Filippi Spaventa (fra le amicizie più strette), Curzio Malaparte, Giuseppe Marotta, Fausto Nicolini, Luigi Russo (con il quale ebbe anche seri contrasti)6.
Provenzal fu autore assai prolifico e di agile, sapida scrittura, in diversi ambiti7: il folclore (un interesse giovanile), la narrativa per l’infanzia8, i testi scolastici e le pagine sulla scuola, i commenti ai classici della letteratura italiana (Dante e Manzoni, soprattutto) l’educazione e divulgazione linguistica, l’umorismo (che, più in generale, caratterizzò le sue scelte stilistiche) e altro. Fu, insomma, quasi un poligrafo, ma mai superficiale, e forse non a caso si preoccupò di rivalutare questa figura, evidenziarne i pregi e ridimensionarne i difetti da troppi enfatizzati9.
Tra le sue opere sono almeno da ricordare il fortunato Manuale del perfetto professore (Rocca San Casciano: L. Cappelli, stampa 1917), destinato agni insegnanti ‘novellini’, che ebbe cinque edizioni10; la selezione di articoli Il libro del diavolo (Milano: “La Cardinal Ferrari”, 1928), di cui si dirà dopo; il Dizionario umoristico: massime, sentenze, definizioni […] (Milano: Hoepli, 1935), anch’esso più volte riproposto; le citate memorie scritte durante la clandestinità fiorentina, nel 1943-1944: Coi pargoli innocenti; uno sferzante, implacabile bilancio storico e culturale del fascismo, dei suoi aspetti più grotteschi, delle leggi razziali: Ius murmurandi: … e mi gabellan per anti-italiano perché metto i fascisti alla berlina? (Milano: Cavallotti, 1946); i lavori editi a Milano da Hoepli sulla lingua italiana scritta e parlata e la sua storia, il linguaggio e il suo uso, le parole e il loro significato: Dizionario delle immagini: come hanno visto il mondo centinaia di scrittori italiani dall’Ottocento a oggi (stampa 1953); Dizionario delle voci: come parlavano - voce, gesto […] - centinaia di uomini e donne d’ogni tempo e d’ogni nazione (1956); Perché si dice così: origine dei modi di dire, delle locuzioni proverbiali […] (1958); Dizionarietto dei dubbi linguistici: etimologie, proprietà delle parole, sinonimi (1961)11.
Tra gli editori con i quali lavorò e stabilì ottimi legami (un discreto numero)12 ci fu Angelo Fortunato Formiggini13. Una cartella del fondo archivistico della Labronica è costituita da lettere e cartoline spedite da quest’ultimo a Provenzal: datano dal 1913 e testimoniano di un’intesa che si consolidò nel tempo.
Il tono della corrispondenza, dapprincipio solo cortese, divenne via via confidenziale e spiritoso, com’era nello stile di Formiggini. Si manifestarono affinità (alcune nutrite da un medesimo humus culturale ebraico), un autentico sentimento di simpatia e una stima sincera, ai quali non fecero velo franchezza di rapporti (sulle prestazioni professionali, sui compensi ecc.) e qualche punzecchiatura, per esempio di Formiggini sull’amicizia tra Provenzal e Giovanni Gentile: questi, come si sa, non era esattamente nelle simpatie di Angelo, per le vicende connesse alla Fondazione Leonardo per la cultura italiana e al progetto della ‘Grande enciclopedia italica’, da cui l’editore era stato brutalmente estromesso14. Nel corso degli anni, tra Provenzal e Formiggini (che propriamente antifascista non era mai stato) crebbe una ironica e ‘privata’ complicità nella canzonatura di Mussolini e del fascismo15, ma poi Provenzal si ritrovò a piangere la tragica fine dell’amico, che si era tolto la vita il 29 novembre 1938 in segno di rivolta contro le misure antisemite del regime: «Non avrei mai pensato che uno spirito come lui, amabile, malizioso, arguto, cordiale, potesse pensare al suicidio»16. Nel secondo dopoguerra ne avrebbe tracciato un commosso ricordo e un puntuale profilo, con pagine di sentita e potente condanna del razzismo e della barbarie nazi-fascista17.
La collaborazione con Formiggini era nata prima della guerra, con la traduzione di un Tillier, per proseguire più tardi con la curatela delle Lettere all’Adele di Carlo Bini e altre traduzioni (di Mirabeau e Karr)18. Con l’editore modenese Provenzal pubblicò, sotto pseudonimo (Aldo Provenzani), anche quattro volumi della collana Aneddotica (La caserma, Esculapio, Il focolare domestico, Il vile metallo), tutti recanti la data di Roma, 1929. Lo pseudonimo, creato un po’ sbrigativamente e maliziosamente da Formiggini, che ne avrebbe fatto volentieri a meno, non piacque all’autore, in quanto troppo «translucido»19, e tuttavia l’editore fu fermissimo nel rifiuto di cambiarlo. In realtà, Provenzal compilò quelle raccolte di aneddoti (qualcuna rimasta anche nel cassetto della casa editrice) con nessuna convinzione e scarso impegno, come Formiggini non omise, più volte, di fargli notare20.
Con accenni a progetti e relative richieste di pareri, nelle lettere dell’editore erano invece pressanti gli inviti a che Provenzal collaborasse con continuità all’Italia che scrive21. In un caso, Formiggini ricorse anche all’adulazione scherzosa: «Tu sei e resti lo specialista capo degli articoli libreschi»22. In effetti, Provenzal non si fece pregare troppo e alla rivista consegnò, tra il 1922 e il 1938, decine di contributi, parecchi dei quali dedicati al libro e alla lettura. Alcuni, poco più di una dozzina fra quelli licenziati nei cinque anni iniziali della collaborazione, li riunì (con minime limature) ne Il libro del diavolo già menzionato23, insieme con scritti che erano usciti in altri giornali e periodici24.
Tra gli articoli passati all’Italia che scrive, più di uno ha come oggetto il mondo letterario contemporaneo: Provenzal si diverte a tratteggiare varie tipologie di scrittori (aspiranti, sconosciuti, mancati, mediocri, celebri, dimenticati ecc.)25, regole e procedure di inclusione nella «casa delle lettere» (dalle raccomandazioni in su)26, costumi e tic relazionali (ipocrisie e favori reciproci compresi)27, modeste vanità, aspirazioni di riconoscimento sociale e status. Il desiderio di gloria, fama o almeno notorietà fa un po’ da filo conduttore.28 È un desidero raramente soddisfatto e che perciò genera parecchia frustrazione, ma Provenzal non si lascia impietosire:
…] gli scrittori potrebbero lavorare in pace e non essere troppo esigenti, non inquietarsi se la fama non grida il loro nome intronando gli orecchi di tutti: basta che i libri si vendano. Se poi neppure si vendono, se al pubblico non importa nulla di quel che vi ostinate a scrivere, superbi e imperterriti […], nessuno vi impedisce di cambiar mestiere […]29.
Riprenderà il tema nel suo diario fiorentino, sfruttando l’opportunità di scoccare strali anche in direzione degli accademici:
…] il vostro nome – dice ai «colleghi scrittori», fingendo di rassicurarli –, anche se non gridato dalle trombe della fama […], non lo seppellirà nemmeno la morte, perché […] ci sarà lo studentello […] che cercherà i vostri libri nelle biblioteche per trarne l’argomento della tesi di laurea: e undici professori ostenteranno di saper di voi e delle cose vostre assai più di quanto non ne sappia il giovane che intorno all’opera vostra ha sudato per mesi e mesi30.
Più folto è però il numero di articoli che vedono protagonisti la lettura e i lettori. Punto di partenza delle escursioni di Provenzal è spesso la ‘crisi del libro’, sulla quale ha salde opinioni: influiscono, certo, i costi produttivi (carta, stampa) e le tariffe postali, ma anche da un lato l’eccesso di offerta e l’aumento dei prezzi, dall’altro una voglia di lettura calante, un pubblico che si accontenta di farsi un’idea dei contenuti attraverso le recensioni e il sentito dire, persone che si lasciano di buon grado distrarre dagli spettacoli e dalla radio e che vanno a letto tardi, troppo stanche per riempire una mezzoretta finale della giornata con un libro31. Fa capolino anche un po’ di tirchieria, quando è il momento di acquistarlo.32 Il tempo per la lettura manca perfino ai letterati: possiedono troppi libri, troppi ne ricevono in omaggio33, per cui non sanno su quali fermarsi. Perdipiù, sono perennemente impegnati nella scrittura, e si sa: «[…] chi di libri vive i libri ha in uggia […]»34. Non funziona neanche l’(auto)promozione: «[…] il pubblico diffida delle loro parole che, in fondo, non fanno che vantare la loro merce. Finché il gusto della lettura non sarà esaltato da uno che non ci ha nessunissimo interesse, saranno parole al vento»35. Non leggere rimane, tuttavia, una vergogna, un imbarazzo36, ai quali Provenzal sente di dover trovare un qualche (umoristico) rimedio: «[…] bisogna vivere come se leggessimo»37, dunque dare a credere di aver letto, rimanere sul vago nella conversazione letteraria e così via. Alla fine,
…] i nostri figli vedranno sorgere la cultura fondata sul libro non letto […] e si scambieranno titoli, nomi, indicazioni con un garbo finissimo, con una semplicità sorridente. L’arte di non leggere uscirà dalle cognizioni empiriche e avrà dettami precisi38.
Pur prevalente, l’approccio ironico-fatalista alla ‘crisi del libro’ è affiancato, in seguito, da considerazioni più articolate. Alcune intendono mettere in chiaro un punto che Provenzal reputa decisivo: non tutti i generi sono in crisi. Per ragioni e con percentuali diverse, poesia, libri tecnici e scientifici, testi scolastici, saggistica di storia, filosofia e arte si continuano a vendere. I venti di crisi soffiano sulla narrativa: «Dunque la questione è più semplice: i narratori sono umiliati di vedere che il pubblico s’interessa poco delle creature della loro fantasia […] e son riusciti, furbescamente, a far credere che la loro disgrazia sia un flagello nazionale e mondiale»39. Dal dopoguerra in poi novelle e romanzi hanno goduto di alterne fortune. Provenzal constata che nel corso del tempo il romanzo ha conquistato i lettori, ma poi stende un’unica coltre di sfiducia su tutta la letteratura di finzione:
…] ho domandato a dieci persone se preferissero le novelle o i romanzi. Le prime nove mi hanno risposto che non leggono né le une né gli altri perché non hanno tempo da buttar via: la decima poi mi ha risposto che legge, quando ne ha voglia, tanto romanzi che novelle, purché i libri le vengano dati in prestito e non ci sia da spender quattrini40.
Secondo Provenzal, il persistente abuso del termine ‘crisi’ è tuttavia frutto di un’esagerazione: «A farlo apposta, non solo l’analfabetismo va scomparendo, ma di libri se ne stampano assai più che dieci o venti anni fa, e se i libri si stampano è segno che si vendono, se si vendono vuol dire che qualcuno li legge»41. In realtà, è cambiato il modo di leggere, che – in linea con i tempi – è divenuto più veloce e sintetico42. Così, per definire l’operazione della lettura, si usano, a parte ‘leggere’, verbi distanti da quelli che le erano stati storicamente associati. In luogo di ‘scartabellare’, ‘compulsare’, ‘postillare’ si affermano ‘scorrere’, ‘sfogliare’, ‘spulciare’, ‘spigolare’, ‘informarsi’. In definitiva, la crisi non è questione di una determinata fase della vita culturale italiana, ma è una sua caratteristica endemica: «[…] un periodo critico, un imbarazzo passeggero non esiste e il male è antico e costante se già son cinquant’anni e più che Carducci lamentava l’ostinazione di poche decine d’uomini a scrivere e di molte migliaia a non voler leggere […]»43.
L’educazione tradizionale alla lettura non risolve il problema. La costrizione è nociva, le pressioni sono sterili: amica della lettura è solamente la trasgressione. Provenzal aveva a suo tempo spiegato che nel lettore giovane la passione non potrà mai sbocciare per merito delle letture imposte dalla scuola o dalla famiglia, saranno anzi proprio le proibizioni ad accendere la sua curiosità: «A noi furon proibiti i giornali e i romanzi: e non leggemmo – eludendo la vigilanza dei maestri – che romanzi e giornali»44. Più gli insegnanti raccomandano libri, spronano gli studenti a leggere i quotidiani, organizzano biblioteche scolastiche e meno riescono a ottenere risposte positive: «Sarebbe ora di smetterla, nelle scuole, questa storia di incitare allo studio, alla lettura, alla riflessione, di stimolare i giovani (questo poi è un pericolo sociale!) a scrivere, scrivere, scrivere»45. In un articolo del 1928 coinvolge nel ragionamento la lettura dei classici, entrando in polemica con chi intende mettere nelle mani dei «bimbi piccoli i libri grandi»46. Quei ragazzini, diventati adulti, «avranno orrore dei “capolavori forzati” che li afflissero all’aurora della vita»47.
E i lettori già adulti? Attento ai loro comportamenti, Provenzal si cimenta nella compilazione di un insieme di regole che dovrebbero guidarli nei loro rapporti con il libro, il prossimo, gli altri lettori, gli autori48. Per esempio, il libro non va danneggiato e non va sporcato, che sia o meno di proprietà; inoltre, sarebbe corretto comprarlo e non chiederlo in prestito. Se preso in biblioteca, va comunque restituito puntualmente. E ancora: mai svelare la trama del romanzo letto, mai disturbare la lettura altrui, mai essere indiscreti: ‘scusi, cosa sta leggendo?’49. Avere, infine, sempre rispetto degli autori e ricordarne i nomi, non parlare delle opere di cui si è letta appena una recensione, non screditarle senza averne approfondito la lettura50. Tra le raccomandazioni c’è anche quella di acquistare un secondo libro di un autore che si è apprezzato. In coda, un accenno ai doveri degli autori, «primo fra tutti quello di offrire al pubblico della roba leggibile»51.
Suggerimenti forse più originali, Provenzal li ha dettati in due articoli precedenti, l’uno sui modi e l’altro sui luoghi della lettura52. La premessa è che si legge male, spesso distrattamente e frettolosamente, piluccando, assimilando poco. Per «cercar d’intendere la voce di chi scrive»53, bisognerebbe affrontare un libro alla volta, per intero, con fiducia, soffermandosi su taluni brani o anche leggendoli a voce alta o magari trascrivendo le parti salienti, riassumendole, per tornare anche dopo anni sui nostri appunti. Fondamentale è la rilettura:
…] bisognerebbe rileggere: rileggere perché non abbiamo capito abbastanza oppure perché c’è il pericolo che in noi non sia rimasta impressa la parte più vitale della lettura, ma solo gli elementi secondari, oppure perché certe delicate bellezze non appaiono a prima vista: rileggere quel che c’è piaciuto per gustarlo una seconda volta e rileggere quel che non c’è piaciuto, per uno scrupolo di coscienza, perché non ci accada di dare un giudizio sommario ed ingiusto54.
Nel secondo articolo sono individuati i principali luoghi in cui gli adulti leggono, o potrebbero leggere, per il piacere di farlo: treno, tram, anticamere, sale d’aspetto, caffè. E si legge a letto: «Sono tanti e così vicini i rapporti fra il letto e la lettura, che mi meraviglio non sia nata già una falsa etimologia, che il volgo non creda ad una comune radice per il letto e per il participio passato del verbo leggere»55. Purtroppo, però, a letto si rimane sulle righe per un tempo ridotto, «soltanto nei momenti che precedono il sonno, fra la stanchezza del giorno e l’assopimento della notte, tra nebbie ed ombre […]»56. Ma non è che in treno la lettura possa vantare una miglior sorte:
…] sarebbe una bella cosa se si leggesse durante un lungo viaggio, per ore e ore: ma no: il libro in treno è un oggetto di comodo, come il cuscino per riposare o il binocolo per contemplare il panorama: se una persona appena appena simpatica attacca discorso, si preferisce la sua compagnia a quella dei personaggi di qualsiasi romanzo: e il libro si chiude57.
La verità, per Provenzal, è che «si legge per disperazione, si legge quando proprio non si sa che cos’altro fare […]»58. Ne consegue che «per la lettura non c’è né un tempo determinato né un luogo preciso […]»59. Desta meraviglia «che gli scrittori si affatichino tanto per lettori che in tram, in treno, a letto, tra una boccata e l’altra di fumo, offriranno loro appena qualche minuto d’attenzione»60.
In altre pagine l’osservazione dei comportamenti è condotta con ricercata leggerezza e una non banale verve satirica. Sotto la lente passano, per esempio, i libri usati, intesi non come supporti della lettura, ma come oggetti adibiti a funzioni occasionali, quindi di volta in volta maltrattati dai bambini e dai ragazzi nei loro giochi, maneggiati dalle signore a mo’ di ventagli o da esse esibiti come ornamenti o ancora impiegati quali scrigni galeotti di lettere e segni in codice; e poi gli usi domestici: libri adattati a zeppe per tavolini traballanti, adoperati come combustibile ecc. Ma ecco l’illuminazione: «[…] d’un lampo vidi l’utilità vera. Il libro commestibile. Il libro fa mangiare l’autore, fa mangiare l’editore […], nutre sorci, tarli e un gran numero d’insetti d’ogni genere e specie»61.
Vediamo un secondo esempio: si tratta di una disinvolta serie di ‘cattivi’ precetti. Chi (scrittore, recensore) riceve molti libri in omaggio, e non può (ma non vuole, non deve) leggerli tutti, farà bene a predisporre acconce giustificazioni, da propinare agli autori in caso di incontro fortuito: il libro non mi è arrivato; aspettavo il momento migliore per leggerlo; l’ho dovuto dare in prestito e non mi è stato restituito; l’ho nascosto, perché tutti in casa lo volevano, e non lo trovo più ecc. Se però il libro è stato perlomeno leggiucchiato, allora le scuse possono sfiorare vette di sublime ipocrisia: era troppo ricco di dottrina, non ero sufficientemente preparato per coglierne lo spessore; è così bello che avrei rischiato il plagio; mi sarei sentito costretto, per la qualità dell’opera, a scriverne in maniera talmente elogiativa da far ingelosire la ‘concorrenza’ e così via. Al volutamente improbabile elenco delle bugie fanno da pendant le parole che sarebbero invece dettate dalla franchezza: «Non ho letto il tuo libro perché il tempo lo spendo meglio, perché non ne avevo voglia, perché non sapevo che farmene, perché ero sicuro che non valeva un fico […]»62.
Provenzal cattura sovente un’immagine tetra della biblioteca, che si accompagna a un disagio, a uno spaesamento nel vedersi assediato dai libri, come gli accadeva già da bambino:
Il mio ottimo Padre, un po’ nella speranza di arrotondare il magro stipendio e molto per appagare il suo gran desiderio di palpar libri, sfogliarli, averli vicini a sé, fondò più di cinquant’anni fa una libreria circolante che i vecchi rammentano ancora a Livorno. Ma dovette chiuderla presto perché gli affari andavano a rotta di collo; nella mia infanzia è un ricordo quella libreria morta prima che io nascessi e di cui restavano tracce nelle migliaia di volumi accumulati in ogni stanza e in ogni mobile di casa, in armadi, cassapanche e credenze, in salotto, in cucina e in soffitta63.
Tuttora, aggiunge, «Se penso ai libri che ho posseduti […], vedo con la fantasia una catena di montagne di carta e me in mezzo accovacciato, sgomento, senza trovar la via d’uscita fra queste muraglie di sapienza stampata»64. Ne conserva, perciò, pochi – quelli indispensabili e quelli del cuore – e si libera degli altri, dopo averli letti, usati «per gli acquisti necessari dello spirito»65. Li allontana da sé impietosamente, con regali, prestiti senza speranza di ritorno, perfino gettando nella stufa roba che giudica indegna. Fra i libri trattenuti emergono le opere di consultazione: «[…] mi hanno seguito qua e là per l’Italia e se ai miei verrà l’idea di trasformare un giorno il mio studio in camera ardente, saranno loro, dizionari ed enciclopedie, che, allineati nei palchetti, mi porgeranno l’ultimo saluto»66.
A chi invece, nonostante tutto, voglia formarsi una biblioteca personale, cedendo alle tante sollecitazioni della pedagogia e della moda culturale, Provenzal trasmette ‘subdoli’ stratagemmi67: farsi prestare i libri (ma è pratica sempre più difficile) e con scuse varie non restituirli; rubarli, tanto la bibliomania passa per perversione nobile; chiedere il libro in dono all’autore o all’editore (anzi, a entrambi, meglio), accampando un qualche pretesto, come l’intento di scriverne una recensione, che ovviamente non si farà. Ci si può anche rivolgere a un autore per farsi spedire tutte le sue opere in vista di una fantomatica compilazione di profili, voci di dizionari bio-bibliografici, antologie ecc. Oppure si può confezionare un libello e mandarlo in giro, così da ottenere qualche pubblicazione in cambio. Avrei tanti suggerimenti «onesti» da offrire, assicura Provenzal, e «In compenso dei miei servigi, una cosa sola domando: chiedo che qualcuno m’insegni il modo di sformare una biblioteca, di liberarmi dai troppi volumi che non posso, nonché leggere, neppure ospitare, in questa carestia di alloggi, con questo aumentar di pigioni […]»68.
Provenzal non scrive frequentemente di biblioteche istituzionali69, ma afferma di averne conosciute molte, a cominciare dalla Labronica, e di averle amate e odiate: «E le ho amate finché ci potevo stare un’ora o due a scappa e fuggi copiando, con l’avidità di un goloso e di un ladro, pagine di libri e di manoscritti […]»70. Alla Labronica è comunque affezionato: «[…] lì […] feci le mie prime letture di adolescente provandoci più gusto che nella ricca biblioteca paterna […]»71. La biblioteca della città natale è anche beneficiaria di suoi doni, specialmente opuscoli, libri rari, esemplari con dedica, «quelli che un giorno sarà difficile trovare allo studioso ed è bene perciò siano collocati stabilmente in un luogo sicuro […]»72. In generale, però, non ha un’altissima considerazione delle biblioteche e ritiene che non siano adatte alla lettura: «Su cento frequentatori di una biblioteca pubblica, tolti coloro che ci vanno per riscaldarsi gratuitamente o per mangiare […] o per copiar le traduzioni se studenti o per consultar libri se dotti, appena due o tre sono occupati propriamente a leggere»73. Diciamolo, le biblioteche invitano al sonno: «Esse furono dette cimiteri di libri e “cimiteri” suona “dormitorii” nella lingua d’origine»74. Non manca un rilievo di carattere sociale, che marca la sua sostanziale distanza dalla funzione delle biblioteche ‘per tutti’, perché incentiva il «parassitismo» dei lettori abbienti:
…] nelle pubbliche biblioteche si diano in lettura libri di contemporanei soltanto a chi presenti il certificato di miserabilità […]: che lo Stato debba provvedere ai poveri […] è innegabile, ma è una pretesa curiosa, a dir poco, che gente la quale ha fior di quattrini si debba leggere gratuitamente […] libri che ai loro autori sono costati mesi ed anni d’intenso lavoro75.
Quanto ai gabinetti di lettura, essi sono l’‘eroica’ meta dei lettori che vogliono risparmiare, nulla di più:
Per rigirar bene le cinque lire mensili dell’abbonamento e per non avere il pungente rimorso di comprar libri nonostante la tassa, pagata apposta per questo, di cinque lire, alcuni sfidano pioggia, neve, solleone, corse di molti chilometri a piedi, e si piantano lì, per ore e ore, col libro davanti, finché un po’ per sera, non l’hanno letto fino in fondo76.
In alternativa, ci si può abbandonare al pisolino anche lì. Un tale signore
Andava al Gabinetto di lettura per dormire come fanno tanti altri: anzi, forse questo è il motivo per cui nei gabinetti di lettura generalmente non sono ammesse le donne: nessuno vuol far sapere alla moglie, alla fidanzata […] che un luogo il quale dovrebbe essere consacrato allo studio concede invece la comodità delle sue poltrone agli amici del sonno77.
La sconfortata conclusione di Provenzal è che nessuno più si procura i libri acquistandoli (unico comportamento per lui davvero virtuoso): i clienti delle librerie sono in via di estinzione78.
Tornano, in tanti dei suoi giudizi, oltre che tardi echi di un certo risentimento elitario e corporativo degli intellettuali d’inizio secolo, i brevi ma non sereni trascorsi alla Biblioteca nazionale [universitaria] di Torino: «Per sei mesi io ci fui durante sei ore al giorno e n’ebbi un senso di soffocazione […]»79. Deprimente anche l’immagine offerta dai frequentatori: «[…] dando un’occhiata alla sala di lettura sempre piena di gente silenziosa e cupa sembrava di vedere un’accolta di pazzi innocui, intenti a sfogliar pagine e pagine fino alla fine della vita così per il gusto di fare un’opera vana»80. E altrove:
…] vedevo studenti che andavano lì per copiar le traduzioni e rubacchiar frasi da componimento, vedevo poveri diavoli che si facevano portare un libro qualunque e alla biblioteca domandavano soltanto un po’ di calore, vedevo un vecchio che, di nascosto ai distributori, tirava fuori di tasca due o tre panini e se li sgranocchiava […]. In biblioteca è permesso copiare, disegnare, scriver lettere, mangiare, pulirsi le unghie, sbadigliare e far tante altre graziose faccende: perché sia proibito dormire non capisco […]81.
La coda è piuttosto velenosa: «Il permesso di dormire, in biblioteca l’hanno soltanto gli impiegati […]: ricordo le dormite lunghe e discrete – un russare ch’era appena un respiro – del sotto-bibliotecario addetto alla sala dei professori di X. […]»82.
Del resto, lo stesso Provenzal aveva vissuto il lavoro in biblioteca come un peso insopportabile e un’infinita noia: «[…] il libro diventava una scheda di catalogo, la scheda si trasformava in numero d’inventario; poi, numero, scheda, titolo riapparivano in mano del distributore, come un libro solido e duro»83.
Sognava di imbattersi in «una biblioteca senza libri»84, Provenzal, e qualcosa di simile gli capitò a Siena, quando poté visitare, estasiato, la Libreria Piccolomini, con i suoi «magnifici antifonari» e i suoi «sfolgoranti» affreschi:
Ne parlai col primo amico che incontrai […] e mi rispose che lui quando andava in una biblioteca ci andava per studiare, tanto che se ne tornava sempre con le cartelle zeppe di note e d’appunti: io invece ero uscito dalla Libreria Piccolomini a mani vuote, ma non invidiavo la vana ricchezza delle schede riboccanti di scienza85.
È però nel volume Coi pargoli innocenti la ricostruzione più ampia dell’amara esperienza di sotto-bibliotecario86: lì narra di freddo, digiuni e solitudine torinesi, dei suoi difficili inizi con il direttore Francesco Carta («un prepotente»)87, del clima tossico respirato in biblioteca, dovuto ai contrasti che opponevano il capo ai suoi funzionari88; soprattutto, narra dell’incendio che nella notte fra il 25 e il 26 gennaio 1904 devastò la Nazionale, dell’inchiesta che ne seguì e dell’interrogatorio al quale fu sottoposto in veste di testimone, con a margine la sua ipotesi circa la causa del disastro (un cortocircuito, non – come invece a lungo si disse – un sigaro lasciato incautamente acceso dall’accanito fumatore che dirigeva la biblioteca).
Nella stessa opera c’è comunque un accenno che, per quanto minimo, riesce a riscattare la presenza e l’importanza delle biblioteche nella vita dell’autore. È dove egli descrive le tristi giornate della sua ‘prigionia’ agli Innocenti, l’impossibilità di circolare in città senza l’incubo di un arresto, le azzardate uscite che si è concesso: «Io mi sono esposto, ho girato un po’ per Firenze, sono andato in Biblioteca, sono stato da qualche amico»89.
Uno sguardo pessimistico e scettico, che sa farsi parola pungente, si posa su ogni ambito e aspetto del piccolo mondo librario italiano degli anni Venti e Trenta del secolo scorso: Provenzal pedina gli scrittori (categoria verso la quale esprime comunque orgoglio di appartenenza e di cui condivide talune rivendicazioni professionali), li spia nei loro rapporti con editori, critici e lettori, ne mostra i rancori e le apprensioni, li disillude circa le attese vane che coltivano; al tempo stesso, segue i lettori, quelli veri e quelli finti: ne svela orientamenti, manie e diffidenze, cataloga un vasto campionario di comportamenti deprecabili o auspicabili, cerca di rintracciare le ragioni e le pratiche della lettura nella vita sociale e in quella privata, di spiegarne la latitanza; propone una visione critica delle biblioteche e del loro funzionamento: immobilismo, carenze professionali, malattie burocratiche. Il tutto è sorretto da tenaci convincimenti culturali (di segno talvolta trasgressivo e talvolta conservatore) e dal ricordo personale, dall’osservazione diretta. Sono noterelle sparse, nulla di sistematico, anche perché, ogni tanto, il gusto della divagazione elegante o erudita ha la meglio. Provenzal non ambisce a delineare un quadro completo della materia, si limita a offrire singoli scorci e spunti interpretativi. Epperò gli uni e gli altri restano fra i passaggi che non è opportuno sottovalutare se si vuole comprendere quale significato, quale rilievo hanno assunto libro, lettori e lettura nella cultura letteraria di un certo nostro Novecento.
Articolo proposto il 23 dicembre 2023 e accettato il 28 dicembre 2023.
GIOVANNI DI DOMENICO, già Università di Salerno, e-mail: giodidomenico@libero.it.
Ultima consultazione siti web: 12 luglio 2023.