Franco Neri
Premessa
Il contributo prosegue l’analisi dei Manifesti UNESCO sulla biblioteca pubblica avviata con il saggio In the minds of men1. Comune è pertanto la metodologia storiografica e di analisi e la scelta di un approccio per «differenza e tracce»2, nel tentativo di leggere dietro e oltre l’ufficialità dei testi l’intreccio fra momento storico-culturale (anche interno alle organizzazioni), i conflitti fra culture biblioteconomiche e i processi interpretativi di contesti non locali.
Come aveva ricordato ottanta anni fa Marc Bloch, «le ricerche storiche non sopportano l’autarchia»3. Un invito meraviglioso e appassionato, a maggior ragione se collocato nella drammaticità del momento in cui fu formulato, alla ricerca di convergenze nella ricerca e di strumenti e metodi condivisi più raffinati.
L’UNESCO public library Manifesto4 formalmente si presenta come aggiornamento del precedente del 1949.
Si inaugura una prassi, che sarà seguita anche dai Manifesti successivi a responsabilità congiunta IFLA/UNESCO, di presentare il nuovo testo come aggiornamento/revisione del precedente.
Il Manifesto 1972, si legge nella premessa, è il frutto di una richiesta avanzata dall’UNESCO all’IFLA «to prepare a revised Manifesto, taking into account the changes and developments that have taken place over nearly twenty-five years».
Quali i cambiamenti che hanno segnato il periodo che intercorre fra il 1949 e gli inizi degli anni Settanta, o – meglio ancora – a partire dalla pubblicazione di Public libraries and their mission (1961) di André Maurois?
Chloé Maurel ha messo in evidenza come nel periodo 1960-1974 la novità della presenza politica sulla scena globale del terzo mondo modifichi la natura delle relazioni nel conflitto ormai storico Est/Ovest con il manifestarsi anche di fenomeni di frammentazione dell’unità dei due blocchi5.
La conflittualità e la complessità della situazione politica internazionale e delle stesse relazioni politiche interne a UNESCO – frequenti furono i contrasti fra la direzione di René Maheu (1961-1974) e alcuni paesi fondatori, come gli Stati Uniti – rendevano molto più difficile la possibilità di comunicazione e sintesi fra i diversi ambiti di attività dell’organizzazione.
Un aspetto, forse trascurato dalla ricerca storica, è rappresentato dalla trasformazione della classe dirigente UNESCO e dalla tipologia di professionalità tecniche e culturali messe in gioco.
Nel periodo pionieristico, che nei suoi elementi (auto)interpretativi può considerarsi concluso con Public libraries and their mission, la classe dirigente UNESCO era rappresentata da alcuni esponenti della migliore intellettualità europea e, per quanto riguardava il mondo delle biblioteche, dall’incontro e dall’apertura intellettuale di un gruppo di professionisti che provenivano da diverse tradizioni biblioteconomiche e documentalistiche dell’Occidente e dell’India.
La cifra di quell’impegno potrebbe essere rappresentata dalle parole anticipatrici del più grande critico letterario americano del Novecento, Francis Otto Matthiessen:
The true function of scholarship as of society is not to stake our claims on which others must not trespass, but to provide a community of knowledge in which others may share6
Gli anni Cinquanta vedono anche lo sviluppo del grande progetto di Scientific and cultural history of mankind (SCHM)7, approvato nelle sue finalità dalla “Quinta conferenza generale UNESCO” (Firenze, maggio 1950). Un confronto a più voci del 1951 a Radio UNESCO8 ne rappresenta le finalità e la collocazione nella cultura UNESCO del periodo. Dal confronto emerge la condivisione di alcune linee di fondo: apertura e pluralismo culturale così da rappresentare «various cultural backgrounds» (Zurayk); approccio privo di pregiudizi «to cover as many points of view from all sides of the world as possible» (Praz); superamento di una visione eurocentrica nella prospettiva di una storia globale (Turner).
Significativo lo spazio riconosciuto a Ralph E. Turner (1893-1964) nel dibattito. Una parte non indifferente dell’opinione pubblica e della politica americana (è l’inizio del periodo maccartista) inizia ad avere perplessità sulla gestione dell’UNESCO e su un ‘universalismo’ ritenuto eccessivo. Turner, indirettamente fugando queste preoccupazioni, sottolinea aspetti non scontati. In primo luogo, l’accentuata specializzazione in corso nella ricerca storica poteva costituire un ostacolo non indifferente alla comprensione delle vicende umane nella loro complessità. L’orizzonte è quello di una storia globale non eurocentrica, capace di rappresentare la diversità delle culture del pianeta.
Questa dimensione duplice, a un tempo sia universalistica che attenta alle differenze e alla ricchezza delle relazioni fra culture, è patrimonio ideale comune alla direzione generale, ai responsabili dei dipartimenti e ai più stretti collaboratori, e permette di individuare linee di connessione al di là delle specializzazioni, dall’educazione al sapere scientifico al ruolo delle biblioteche, ai grandi progetti bibliografici, all’iniziativa SCHM.
I fili della tela UNESCO nel corso degli anni Sessanta crescono in complessità culturale e regionale, ma perde vigore la capacità di connessione. Lo sfilacciamento del progetto SCHM ne è la prova, con i deludenti risultati della pubblicazione della prima edizione9. Parallelamente ai cambiamenti nei gruppi dirigenti, si allarga l’articolazione burocratica dell’organizzazione e la sua struttura in gruppi di ricerca e progetto. La tendenziale proliferazione dei centri di elaborazione rende più complessa la circolazione e i tentativi di sintesi. Emergono nuove tematiche, e con esse una maggiore differenziazione della produzione editoriale. Se una rivista ‘storica’ come la International review of education, fondata nel 1931, a partire dal 1955 sarà edita dall’UNESCO Institute for Education di Amburgo, pochi anni dopo la rivisitazione di alcune aree di mission primarie – nel campo educativo lo slittamento dall’orizzonte fondato sul momento dell’insegnamento a quello dell’apprendimento (learning) con focus sui ‘soggetti’ primi dei processi di (auto)apprendimento e crescita – vede emergere nuovi periodici come Prospects: quarterly review of education (1970-).
Negli anni Sessanta UNESCO privilegia nei diversi ambiti azioni di sistema che tengano conto della diversità dei contesti nazionali o regionali, non più direttamente la costruzione di esperienze pilota. La lettura dell’UNESCO courier e dell’UNESCO bulletin for libraries è illuminante in tale prospettiva: i contributi su tematiche educative riguardano lo sviluppo, in particolare nei paesi del terzo mondo, di sistemi educativi più moderni; la costruzione di reti di biblioteche scolastiche (Venezuela, Tanzania, paesi scandinavi, Ceylon, Nigeria ...) e la loro evoluzione agli inizi degli anni Settanta in esperienze pilota di school media centres.
All’interno delle azioni di sistema ‘per’ le biblioteche rientra il crescente impegno di UNESCO per le politiche della documentazione, e il ruolo strategico che fra gli anni Settanta e gli anni Novanta avranno i programmi UBC (Universal bibliographic control) e UAP (Universal availability of publications)10.
Il lessico traduce questa complessa evoluzione, nient’affatto lineare nella tempistica. Se negli anni Cinquanta dentro le fasi convulse del processo di decolonizzazione alcuni intellettuali dei paesi emergenti avevano posto il problema della diversity of cultures (non ancora cultural diversity) per il superamento di un approccio eurocentrico, il tema in sé fatica nel decennio successivo a trovare una trasversalità di elaborazione.
Nel 1972, International book year, la revisione del Manifesto 1949 venne delegata a IFLA, anche con una certa frettolosità. Quasi un obiettivo, potremmo dire, ‘adempimentale’, un aggiornamento doveroso dopo 23 anni, ma senza rimettere in gioco, in un tentativo di sintesi, la complessità di culture che avevano contraddistinto sia lo specifico impegno UNESCO che la collaborazione con IFLA. Non è un caso che in Anatomy of an international year: book year 197211], report di iniziative e realizzazioni per l’anno internazionale del libro, non si citi l’aggiornamento del Manifesto fra queste ultime.
Il Manifesto si presenta come un testo agile, strutturato in partizioni testuali tematiche relativamente brevi, con una alternanza del presente affermativo utilizzato per la formulazione dei fondamenti di mission, e del condizionale espressivo di un dover essere.
Pur non esplicitandolo direttamente, esso segna un netto cambio di destinatari: il linguaggio e la ricerca di un minore livello evocativo a favore di una dimensione di servizio più definita rivelano la scelta di due principali categorie di interlocutori: le autorità pubbliche (locali e nazionali); la professione bibliotecaria. Non vi è più una sezione specifica (e neppure un invito) assimilabili a What you can do del testo del 1949 nel suo rivolgersi alla comunità locale.
La prima partizione, UNESCO and public libraries, richiama i principi del 1949 (promozione della pace e comprensione reciproca fra popoli e nazioni).
Una modifica contrassegna da subito il mutamento di prospettiva: nel testo del 1949 la biblioteca è definita a vital community force, tale è il titolo della terza partizione.
Nel 1972 essa è «a living force for education, culture and information». Al ruolo della biblioteca nella comunità è dedicata l’ultima partizione del Manifesto, The public library in the community, con un evidente ridimensionamento nella collocazione e nella dimensione valoriale. Nella struttura testuale la ripetizione, ad ogni paragrafo, di should be sposta sul piano del dover essere operativo quel che invece è dimensione fondante. Nel Manifesto, ritenendo squilibrata nel testo del 1949 la dimensione educational, si sottolinea con maggior forza il ruolo strategico della biblioteca pubblica nella cultura, nell’assistenza agli studenti, nella lettura come svago e nell’informazione, con particolare risalto a quella di tipo tecnico-scientifico.
L’accesso deve essere libero e gratuito per tutti i membri di una comunità «a prescindere da razza, colore, nazionalità, età, sesso, religione, lingua, condizione economica o titolo di studio».
La partizione Resources and services è il corrispettivo di What the public library should offer del precedente Manifesto. Il timore di un approccio troppo orientato al libro (esclusivismo in realtà assente nel testo del 1949) conduce a una lunga elencazione di formati diversi dai supporti cartacei. Qui un’affermazione, che all’epoca sembrò ‘dovuta’ data la proliferazione progressiva di media diversi dai supporti cartacei:
Since the printed word has been for centuries the accepted medium for the communication of knowledge, ideas and information, books, periodicals, newspapers remain the most important resources of public libraries. But science has created new forms of record.
Fu invece pesantemente (e giustamente) criticata anni dopo nella preparazione del Manifesto IFLA/UNESCO 1994: il focus sulla parola scritta come veicolo privilegiato di conoscenza e sapere risultava eccessivamente western-oriented ed emarginava modalità di trasmissione culturale ed elaborazione del sapere proprie di altre culture12.
Le tre successive partizioni (Use by children; Use by students; The handicapped reader) possono essere viste come un discorso unitario sull’esigenza di presentare a specifici settori di pubblico la biblioteca pubblica come spazio e risorsa accessibile e rispondente alle loro necessità. Uno sviluppo positivo nella prospettiva di un servizio veramente accessibile a tutti, nessuno escluso.
Formalmente è il primo manifesto congiunto IFLA-UNESCO13. Idealmente il punto di partenza del processo di revisione può essere collocato all’interno del quadro programmatico delineato dall’Intergovernmental Committee of the World Decade for Cultural Development di UNESCO nel 199214.
UNESCO da alcuni anni era impegnata nella rivisitazione del concetto di sviluppo a lungo coincidente con la dimensione quantitativa della crescita. La messa in discussione del paradigma vede fra gli anni Settanta e gli anni Ottanta fra i protagonisti Amartya Sen. Il volume The quality of life15 riassume nella varietà dei contributi quindici anni di riflessione. I curatori Amartya Sen e Martha Nussbaum non casualmente nella loro introduzione si interrogano, a partire dal capolavoro dickensiano Hard times, sui concetti di ricchezza, benessere e qualità della vita umana e sui parametri nuovi adottabili per misurarla. Lo slittamento da Development a Human development segna una cesura radicale testimoniata dallo ‘storico’ Human development report 199016.
Il discorso introduttivo del Direttore generale UNESCO dell’epoca, Federico Mayor, al citato Intergovernmental Committee riassume queste coordinate, con una specifica sottolineatura delle correlazioni fra sviluppo umano, lotta alle disuguaglianze, diversità culturali («a diversity not folded in upon itself, but open and expressive of its richness») e la cultura (e l’educazione in primo luogo) «as the key to being, caring and sharing»17, come processo di costruzione e affermazione delle capabilities.
La bibliotecaria danese Hellen Niegaard, a lungo collaboratrice di UNESCO, ha presieduto il gruppo18 incaricato della revisione del Manifesto UNESCO 1972. Il suo saggio The right to know19, che illustra a conclusione dei lavori il nuovo Manifesto, così inizia:
Knowledge transfer is one of the keys to promoting the kind of sustainable human development worldwide on which the future of this planet will depend». UNESCO’s Director-General, Mr. Federico Mayor, said so at the opening of the last Session of the Intergovernmental Council for UNESCOs General Information Programme (PGI) concerning archives, libraries etc., Nov. 1992. He stressed the importance of organizing and transferring knowledge when introducing a new type of document, The long-term-strategic-orientations of the PGI.
Niegaard collega con nettezza il ruolo strategico della biblioteca pubblica nel rendere effettivo il diritto alla conoscenza al tema dello sviluppo umano e sostenibile20. Quanto di questo background si traduce nel Manifesto? Qui l’analisi deve farsi problematica, e non ammette semplificazioni.
Il Manifesto, sin dall’inizio, rivela una articolazione ben diversa dal testo del 1972. Il punto di avvio non è l’UNESCO, ma la connessione intima, connaturata «fra libertà, prosperità e benessere, e lo sviluppo della società e degli individui ... valori umani fondamentali» e l’esercizio consapevole libero e pieno del diritto di accesso «alla conoscenza, al pensiero, alla cultura e all’informazione» come condizione essenziale per una «partecipazione costruttiva e sviluppo della democrazia». Immediatamente dopo la definizione, divenuta ben presto famosa, di biblioteca pubblica:
La biblioteca pubblica, via di accesso locale alla conoscenza, costituisce una condizione essenziale per l’apprendimento permanente, l’indipendenza delle decisioni, lo sviluppo culturale dell’individuo e dei gruppi sociali.
Local gateway to knowledge: definizione efficace e al tempo stesso espressiva di una visione innervata in processi reali di cambiamento. Il richiamo successivo alla visione storica dell’UNESCO sulla biblioteca pubblica («forza vitale per l’istruzione, la cultura e l’informazione e come agente indispensabile per promuovere la pace e il benessere spirituale delle menti di uomini e donne») e l’invito ai poteri nazionali e locali perché ne sostengano lo sviluppo concludono la premessa del Manifesto. Tuttavia non si sfugge all’impressione che questa parte avrebbe potuto anche essere scritta dieci-quindici anni prima, almeno per il livello di formulazione dello scenario di contesto. Si è preferito, riteniamo, una strategia di mediazione prudenziale rispetto ai contenuti che erano già emersi e che si erano strutturati, fra l’altro, negli Human development reports dell’UNPD.
Nelle partizioni successive (Public library; Missions of the public library; Funding, legislation and networks; Operation and management) vengono approfondite i punti essenziali di questa missione complessa:
Infine, una collezione è viva se è contemporanea: è tale se riflette le problematiche e le tendenze attuali ed evolutive della società, e documenta la creatività artistica e intellettuale umana.
Rispetto alle ‘missioni’ chiave elencate, è la prima volta che compare una partizione definita Missions of the public library: la declinazione, sul versante di azioni strategiche fondamentali, delle macro finalità individuate nella sezione The public library. La formulazione delle missioni incrocia formulazioni nuove per funzioni ‘istituzionali’ che nei 22 anni intercorsi hanno subito drastiche trasformazioni, e l’elencazione di missioni prima non citate, non perché nuove in assoluto, ma nel senso di un loro esplicito riconoscimento. Questa scelta costruisce un quadro ricco e composito delle azioni strategiche di una biblioteca pubblica, talora inatteso per chi ne ha una visione più orientata a una stabilità di prassi e di ruolo sociale.
Se una critica va fatta alla declaratoria delle 12 missioni, sta nell’incongruità di alcune distanze e nel mancato approfondimento di contiguità e relazioni: se la missione 2 è «sostenere sia l’educazione individuale e l’autoistruzione, sia l’istruzione formale a tutti i livelli», perché «sostenere le attività e i programmi di alfabetizzazione rivolti a tutte le fasce di età, parteciparvi e, se necessario, avviarli» è la missione 12? Si tratta di un problema di coerenza e congruità espositiva che si ripropone ancor più nel nuovo Manifesto 2022; quasi che al crescere della complessità dell’insieme venga preferita una strategia elencativa piuttosto che associativa, con un rischio di dispersione delle missioni e addirittura di ‘esplosione’ delle stesse.
Va detto, tuttavia, che nel testo del 1994 questo rischio è sostanzialmente controllato.
Le partizioni successive (Funding, Legislation and networks; Operation and mangement) scelgono una linea di esposizione di strategie consolidate:
Per quanto riguarda la sezione Operation and management, essa copre forse troppi aspetti:
Tecnicamente solo i primi due aspetti avrebbero dovuto esservi trattati, mentre gli altri avrebbero potuto essere integrati nella sezione The public library.
Il testo termina con una ultima partizione, Implementing the Manifesto, che è invito ai decisori politici (nazionali e locali) e all’intera comunità bibliotecaria a mettere in pratica nel loro insieme i principi del Manifesto.
A quasi trent’anni di distanza dal precedente, nel luglio 2022 è stato approvato il nuovo Manifesto IFLA/UNESCO sulla biblioteca pubblica, a 75 anni dall’avvio del primo partenariato IFLA/UNESCO.
Il Manifesto 2022 nasce dalla collaborazione fra IFLA e UNESCO - Section Information for all Programme (IFAP)23. Ricchezza e limite al tempo stesso perché, se da un lato si fonda su un ampio e solido nucleo di orizzonti condivisi in merito alla società della conoscenza, al ruolo di questa e dell’informazione nelle politiche di sviluppo sociale, economico e civile, dall’altro rimane sullo sfondo quello che è stato per decenni il grande patrimonio di esperienze, saperi, riflessione dell’UNESCO nelle aree delle politiche educative, del cultural heritage complessivamente inteso, del dialogo interculturale, dello sviluppo umano.
Il Manifesto si muove, dal punto di vista della struttura espositiva, confermando sostanzialmente indice e titoli di sezione del testo del 1994, in ordine sequenziale:
Questo rappresenta il primo degli elementi problematici. La scelta di equilibrio fra continuismo e trasformazione, sostanziata anche dalla compresenza di nuclei testuali preesistenti. non rischia di compromettere l’unitarietà e la forza del messaggio, oltre a inevitabili complessità interpretative? Non rischia, innanzitutto, una scarsa trasparenza nella formulazione delle aree di mission e delle loro relazioni?
Per favorirne leggibilità e comprensione IFLA ha realizzato un essenziale e agile strumento tempo informativo e di promozione, The mission of the public library today24, in cui sono evidenziati innanzitutto i due macronuclei25 tematici ritenuti a più forte innovazione: lo sviluppo sostenibile; le biblioteche nella società della conoscenza, con la sottolineatura della produzione sociale di saperi.
Vi viene proposto un confronto, per rendere più chiare differenze di accento e novità, fra alcune missioni chiave così come formulate nel 1994 e le formulazioni del 2022.
Approccio discutibile proprio da un punto di vista metodologico, come se le novità di un testo si collocassero solo su di un asse espositivo incrementale del discorso, e non invece, valutando, anche e principalmente, differenti correlazioni e gerarchie, la proposta di contesti in precedenza inesplorati, o addirittura la scomparsa di missioni precedentemente formulate come autonome.
Passando all’esame del testo26 nelle sue sezioni costitutive:
1) Premessa
I primi due blocchi testuali, sino a «lo sviluppo culturale dell’individuo e dei gruppi sociali» sono identici a quelli del Manifesto 1994. L’inserzione di un nuovo paragrafo («Essa [la biblioteca pubblica] è alla base di società della conoscenza sane, in quanto fornisce l’accesso e consente la creazione e la condivisione di conoscenze di ogni tipo, comprese quelle scientifiche e locali, senza barriere commerciali, tecnologiche o legali») rende esplicito il contesto in cui si colloca il Manifesto.
La riflessione sulla società della conoscenza ha una storia che dura ormai dalla seconda metà degli anni Ottanta, e che ha visto in ambito europeo i due celebri ‘libri bianchi’ (1993-1996) di Edith Cresson e Jacques Delors: l’idea che l’educazione diffusa, e un sistema articolato di apprendimento (formale/istituzionale vs. diffuso/autodiretto) e la condivisione e apertura dei risultati della ricerca, fossero fattori non solo di avanzamento socio-economico e di innovazione, ma di equilibrio sociale e di contrasto alle disuguaglianze27.
Nel testo vi è una affermazione che necessita di opportune contestualizzazioni: «including scientific and local knowledge». Cosa è local knowledge? Più che di ‘conoscenze locali’, è preferibile parlare di ‘conoscenza locale’: quell’insieme di saperi diversi (economici, sociali, intellettuali, antropologici) prodotti in un territorio, frutto delle relazioni di contesto, e a loro volta costruttivi di relazioni. In questa accezione la conoscenza locale è uno degli elementi costitutivi di una comunità: più le conoscenze hanno una dimensione bridging, di ponte, di correlazione, più una comunità ha le risorse per affrontare crisi, trasformazioni, processi di cambiamento28.
In un testo che si pone con ambizioni di valenza mondiale, bisogna dare a local knowledge il significato più esteso possibile, congruo con una concezione multidimensionale e aperta del sapere.
Il Manifesto prosegue nella descrizione dello scenario sociale, con una novità di accenti rispetto al precedente del 1994:
In ogni nazione, ma soprattutto nei paesi in via di sviluppo le biblioteche contribuiscono a garantire che il maggior numero possibile di persone acceda al diritto all’educazione e alla partecipazione alla società della conoscenza e alla vita culturale della comunità.
I cittadini per essere tali devono essere non solo fruitori, ma costruttori di saperi. Purtroppo rimane vago nel testo, qui come altrove, il problema della costruzione e condivisione di quello che altrimenti preferiamo chiamare ‘sapere sociale’.
Questo Manifesto proclama la fiducia dell’UNESCO nella biblioteca pubblica come forza viva per l’educazione, la cultura, l’inclusione e l’informazione, come agente essenziale per lo sviluppo sostenibile, e il contributo individuale alla realizzazione della pace e del benessere spirituale nelle menti di tutte le persone.
Troviamo qui il primo riferimento esplicito allo ‘sviluppo sostenibile’. La collocazione in premessa ne fa una dimensione valoriale costitutiva. Il tema sarà poi variamente declinato nelle sezioni successive, in particolare nella terza, Missions of the public library. Tuttavia il riferimento all’Agenda ONU 2030 con suoi 17 macro-obiettivi non è mai diretto. Un richiamo esplicito avrebbe reso trasparente alcuni orientamenti necessari per affrontare le sfide di Agenda 2030:
trasversali rispetto a tutte le sezioni del Manifesto. In più avrebbe reso meno sequenziale e riduttiva una interpretazione della Sezione Missions of the public library.
Altra novità riguarda l’accento notevolmente diverso in merito alla pace e alla sua promozione. Nel Manifesto 1949 ogni azione in merito era collocata nell’orizzonte di una desiderata cittadinanza mondiale, di popoli interdipendenti i cui legami sarebbero stati resi meno fragili e più compatibili dagli scambi culturali e da una educazione alla comprensione internazionale che era, innanzitutto, educazione culturale alla conoscenza e all’apprezzamento delle altre culture. Questo accento, la cui forza era stata assai ridimensionata nei due Manifesti successivi, vede qui una declinazione in termini di impegno individuale, solo indirettamente comunitario. Un limite non indifferente.
2) The public library
In questa sezione i due temi proposti con particolare forza (biblioteche nella società della conoscenza; biblioteche creatrici di comunità) si alternano a partizioni testuali provenienti dal Manifesto 1994 (equità nell’acceso ai servizi; congruità fra collezioni e bisogni diversificati del pubblico; contemporaneità nelle collezioni qualunque sia supporto o la modalità di accesso; opposizione a qualunque forma di censura o a pressioni commerciali).
Come si realizza questo ruolo di istituzioni ‘creatrici di comunità’?
Con una capacità di relazione e di ascolto di nuovi pubblici, di uscita dai propri confini («proactively reaching out to new audiences»).
È una declinazione, in altra forma, dell’accezione estesa di extension che abbiamo analizzato nel Manifesto UNESCO 1949: un ‘movimento verso’ da parte di un’istituzione che richiede spesso forme poco istituzionali per realizzare un ascolto effettivo.
Nonostante l’efficacia di alcune sottolineature, rimane tuttavia forte l’impressione di un linguaggio orientato su un prevalente registro dichiarativo. Quale è la comunità che si prospetta? Si può parlare solo di comunità al singolare? Che ruolo hanno i saperi nel dimensionarne, estendendoli, i confini? La produzione di saperi è solo locale? Esiste una interculturalità della biblioteca più ampia del pur necessario soddisfacimento di esigenze di lettura, apprendimento, informazione di minoranze linguistiche e culturali? Non sono interrogativi retorici o tanto meno astratti.
Ogni educazione, ogni crescita culturale coraggiosa è produttrice di futuro. Questa dimensione è implicita nel discorso del Manifesto, ma senza il coraggio di pronunciarne chiaramente la parola.
3) Missions of the public library
Le seguenti missioni chiave, che riguardano l’informazione, l’alfabetizzazione, l’educazione, la partecipazione civica e la cultura, dovrebbero essere al centro dei servizi delle biblioteche pubbliche. Attraverso queste missioni chiave, le biblioteche pubbliche contribuiscono agli obiettivi di sviluppo sostenibile e alla costruzioni di società più eque, solidali29 e sostenibili.
La correlazione delle missioni chiave con gli obiettivi di sviluppo sostenibile colloca la biblioteca pubblica come necessario agente di cambiamento in strategie più complessive, nazionali e internazionali e permette di approfondirne il ruolo strategico in correlazione con altri soggetti.
Mettere in gioco l’identità in un orizzonte così vasto significa situare le diverse risorse delle biblioteche (fra cui le competenze dei bibliotecari e delle biblioteche stesse) dentro gangli vitali della struttura sociale, civile, educativa di un paese. E tuttavia la dimensione cooperativa, per quanto implicita nello sviluppo tematico del documento, è rappresentata in maniera inadeguata nelle sezioni successive. Probabilmente è in questa parte l’elemento di maggior debolezza.
Le missioni chiave (KM) indicate nel Manifesto sono 11; nel 1994 erano 12. Sin dall’inizio si è posto un problema di formulazione. Differenziare ulteriormente le missioni, dinanzi a contesti di complessità accresciuta e radicalmente mutata, oppure perseguire una linea di contenimento, aggregando missioni potenzialmente distinguibili? L’adozione della seconda strada vede la compresenza di una doppia strategia retorica:
Nell’esame delle missioni interpretiamo con libertà l’ultima sezione del Manifesto denominata Implementing the Manifesto, Attuazione del Manifesto. Il Manifesto è una dichiarazione autorevole delle finalità e delle missioni fondanti la biblioteca pubblica. Se ‘implementare’ ha anche il significato di ‘completare, perfezionare’, è questo forse l’oggetto più profondo dell’invito del Manifesto. Di ogni missione sono possibili infinite esperienze, tale è la varietà dei contesti.
Per questo nell’esame di alcune missioni ci prenderemo la libertà di ampliare la riflessione oltre il momento della descrizione/commento del testo del Manifesto.
Accorpando le missioni, e considerando la loro collocazione (frequenza e distanza) nella struttura espositiva, risultano prioritarie le seguenti azioni strategiche:
Quando Michael Gorman introduce come primo dei valori31 la stewardship, usa un termine difficilmente traducibile in italiano: denota la capacità di cura, trasmissione, reinterpretazione e lascito di un bene considerato common. Non un bene chiuso, ma un sapere continuamente reinventato e prodotto nella cura di una comunità.
Pur ammettendo, come crediamo, che l’elencazione non abbia una funzione di per sé gerarchizzante, la missione 11 non dovrebbe essere fra le prime richiamate rinnovando nella formulazione quell’antica idea del sapere come common da conquistare e condividere, come possibile sconfinamento e superamento delle barriere, portatore di dialogo
In questa articolazione di missioni c’è infine una tensione sottostante: potremmo definirla una tensione di futuro in una preoccupata attenzione al presente. È uno dei messaggi più significativi, che avrebbe potuto e dovuto essere reso più nitido e intenso.
Il Manifesto IFLA/UNESCO 2022 è probabilmente un testo transizione, che dovrebbe – auspicabilmente – essere superato da una sintesi più efficace. Paradossalmente, nonostante il processo di coinvolgimento, è un testo ancora frettoloso.
Laddove un manifesto rinunci alla dimensione valoriale e di futuro, a una visione di lungo periodo autolimitandosi alla registrazione dei cambiamenti, rinuncia ipso facto a interpretare le trasformazioni. Non parla abbastanza né alla professione né ai decisori politici e neppure ai cittadini. Rinuncia a essere linguaggio comune di profondità. Il Manifesto IFLA/UNESCO 2022 non è questo, ma non è neppure ancora compiutamente il documento di cui la professione ha bisogno.
Nel Manifesto frequente è il ricorso alla reiterazione come modalità espressiva, spesso di una parola ritenuta chiave (knowledge, community …). È un artificio che in genere dovrebbe essere utilizzato con parsimonia: maggiore è la reiterazione, maggiore è il rischio di impoverimento sia della forza evocativa che dell'approfondimento.
Fernand Braudel nella prefazione (1946) alla prima edizione di Civiltà e imperi del Mediterraneo al tempo di Filippo II32(1949) si chiede quali possano essere i ‘parenti di lavoro’ degli storici nel tentativo di scrivere una storia globale. E risponde con sicurezza: «etnografi, geografi, botanici, tecnologi». Parentele assolutamente inattese nel 1946, forse anche oggi.
Abbiamo bisogno di manifesti che siano grandi testi. La loro forza dovrebbe consistere nella capacità di interpretare linee di tendenza e valori dentro i processi di trasformazione, di interpretare i punti di connessione significativi e di proiettarli su un orizzonte di futuro. Allora anche una parola, se reiterata, potrà arricchirsi delle risonanze nuove che si producono fra l’una e l’altra occorrenza.
Abbiamo sempre più bisogno anche noi, come compagni non occasionali di viaggio, dei nostri «etnografi, geografi, botanici, tecnologi».
Articolo proposto il 1 gennaio 2024 e accettato l’8 febbraio 2024.
FRANCO NERI, e-mail: franconeri50@gmail.com.
Ultima consultazione siti web: 8 febbraio 2024.