Oggetti e carte: assemblaggi che parlano

Guido Melis

Aby Moritz Warburg è stato uno straordinario e insieme geniale storico dell’arte. Nato nel 1866 ad Amburgo, era il primogenito di una famiglia di banchieri. Tre dei suoi  fratelli avrebbero conseguito nella nobile professione del credito successi importanti: Max, più giovane di un anno –  al quale Aby bambino aveva, con un patto segreto tra ragazzi, ceduto nientemeno che la sua primogenitura in cambio di continui rifornimenti di libri, non interessandogli, così gli aveva detto, l’arte della finanza –  sarebbe stato – scrive il biografo di Aby, l’altrettanto grande critico d’arte Ernst H. Gombrich – «un’eminenza grigia del sistema bancario e commerciale in Germania»; Paul, fratello pure minore, sarebbe divenuto non solo banchiere ma «economista e funzionario pubblico di fama negli Stati Uniti», raggiungendo in quel Paese il più giovane dei fratelli, Fritz1.
In quel contesto profondamente segnato dalla cultura dell’alta finanza e della borghesia ebraica che la rappresentava, così tipico della Germania ottocentesca (sarebbero potuti essere – i suoi familiari –  i personaggi dei Buddenbrook di Thomas Mann), Aby, per così dire, ‘dirazzò’. Sin da ragazzo fu affascinato sino a provarne l’emozione intima più forte e il massimo, persino l’estremo,  coinvolgimento psicologico, dalla storia dell’arte. Ma in essa egli cercò costantemente, per tutta la sua breve ma intensa vita di studioso (morì nel 1929 a poco più di 50 anni), il gusto della gestualità e del movimento, la dinamica del mutamento, l’ebrezza dell’innovazione. E soprattutto l’incrociarsi e sovrapporsi, sino a fondersi, delle influenze, la contaminazione; il trasferirsi delle esperienze; il contagio reciproco; il mescolarsi dei generi artistici e degli stili.
Non sono uno studioso di Warburg né uno storico dell’arte. Se me ne occupo oggi, a conclusione di questo interessantissimo convegno,  e lo faccio apparentemente andando fuori tema (ma non è così, come cercherò di dimostrare), è perché Aby ci ha lasciato una mirabolante eredità: quella che Open Education Database ha definito «una delle 20 biblioteche che hanno cambiato il mondo»; e che il New Yorker ha chiamato «la biblioteca più bizzarra del mondo». La sua biblioteca privata di Amburgo – di questo stiamo parlando –  è oggi il cuore dell’istituto specialistico che da lui prende il nome, conservato dall’Università di Londra, School Adfanced Study: il Warburg Institute2.
Parlo, come molti di voi sapranno, di un centro di ricerca specializzato nello studio della influenza dell’antichità classica sulla civiltà occidentale. Una raccolta imponente di oltre 350 mila volumi, nella quale però domina quello che un bibliotecario o un archivista dei tempi passati (forse anche dei nostri tempi) avrebbe definito ‘il caos’ o ‘il disordine’: un ‘insieme’ – mi è capitato di scrivere altrove – caratterizzato dal suo originalissimo sistema di indicizzazione.
Warburg in vita ne disegnò i canoni secondo la sua personale visione della storia umana, affermandovi caparbiamente i criteri sovrani della interdisciplinarietà contro quelli vigenti della biblioteconomia: ciò che contava – per lui – era ‘l’incontro casuale’ del lettore coi libri, in un gioco degli specchi che costituiva l’essenza stessa dell’attività di ricerca.
‘Perdersi tra i libri’ era la sua parola d’ordine, ma anche smarrire il cammino tra le sculture, i quadri, gli oggetti stessi che costituiscono il necessario corredo dell’opera dell’artista. Questo motto, anziché costituire un rischio (quello di avventurarsi nell’ignoto e di finirne magari schiacciati), costituiva per Warburg una tentazione virtuosa, foriera in sé di nuovi percorsi e di inedite scoperte. Un po’ come l’esploratore alla ricerca delle sorgenti del Nilo, Warburg rifuggiva dalle mappe antiche, dalle piste sperimentate dei carovanieri, per inoltrarsi arditamente nei territori inesplorati; e in essi si addentrava, affascinato da panorami mai visti, incantato da specie animali ignote, avido di conoscere popolazioni sconosciute.
Ciò che attraeva Warburg, e attrae noi con lui,  è dunque il concetto di ‘insieme’. La mescolanza, il meticciato, la fusione tra quello che prima sembrava inconciliabile. L’epoca moderna (quella di Warburg e ancor più quella che noi viviamo) si caratterizza, rispetto alle precedenti, per le connessioni, le sinergie, lo sviluppo senza limiti della comunicazione. Mai nella storia del mondo era accaduto che ‘i mondi’ divenissero ‘il mondo’; che la distanza fosse in sostanza annullata; che lo scorrere del tempo fosse sostituito tanto radicalmente dal tempo istantaneo.
Non rifuggiva, lo studioso tedesco, dall’accostare ai libri i documenti originali, anche manoscritti; anzi ad essi aggiungeva gli oggetti che vi si connettevano; e a questi le raccolte fotografiche, i visi e le pose dell’epoca, l’abbigliamento, i dati fisici e antropologici sulle persone, le ricostruzioni d’ambiente; e potevano figurare, nella raccolta così assemblata, anche le note da lui stesso scritte durante la ricerca, magari in scartafacci anche occasionali. Tutto questo trovava posto nella sua biblioteca.
Se si dovesse riassumere con un’immagine questa originale concezione (‘bizzarra’: abbiamo visto che così la si definisce tuttora), si dovrebbe ricorrere a quella del bazar orientale: nel quale si mischiano, per affinità anche indiretta o addirittura casualmente, per esservi capitati, materiali che – secondo la tradizionale partizione dei saperi – dovrebbero restare rigorosamente separati: le statue e i dipinti nei musei, i libri nelle biblioteche, le carte negli archivi, le registrazioni audio e di suoni in appositi spazi. Viceversa, al criterio della verticalità e relativa autonomia dei saperi, della loro sostanziale indipendenza fissata secondo regole precise e plurisecolari scissioni e gerarchie (le canne dell’organo), si sostituisce l’opposta geometria della loro orizzontalità. L’unità della cultura si ricompone3.
Mi attardo a parlare di Warburg perché egli ebbe il merito di opporsi, in tutta la sua esistenza, al concetto chiave dell’opera d’arte isolata dal suo milieu. Egli ci ha consegnato invece un suggerimento estremamente attuale, anzi direi  proprio oggi più attuale che mai: quello della contestualizzazione, della ricostruzione paziente dei nessi tra le cose e le persone, della caduta delle barriere disciplinari, della fine del separatismo tradizionale tra scrittura, arti visive, musica, teatro, cinema, rappresentazione fotografica, forma, stile, colore, valore d’uso e materialità stessa degli oggetti. Il mondo che Warburg vaticinava (forse da visionario, come gli fu rimproverato dai suoi tanti critici) era in fondo, se ci riflettiamo, quello stesso in cui sempre di più siamo immersi. Il mondo della mescolanza e del meticciato culturale, fortemente caratterizzato dalla opportunità che ci offre la rivoluzione digitale in atto. Nello spazio digitale, l’habitat dell’uomo del nostro secolo, i tanti dati disseminati dalla memoria, e conservati sinora rigorosamente divisi in nicchie separate, si unificano, smaterializzandosi e ricomponendosi. Ciò che era diviso si riunifica ma non necessariamente nello stesso contenitore-contesto. Può accadere – ha scritto in un e-book stimolante di qualche anno fa Madel Crasta, una delle operatrici di cultura più attente al fenomeno – , che quegli oggetti «si muovono fluidamente nella loro rappresentazione – testuale e/o  iconografica – mentre il corpo materiale resta ancorato al suo contenuto»4. Ciò si riflette sulla memoria. La memoria, adesso, può essere ripercorsa trasversalmente. La memoria non ha paraocchi.
Scorro il catalogo, leggo le interessantissime relazioni raccolte nel volume, e mi confermo nella mia idea, che un pò sommariamente riassumerò così: il sapere, in particolare quello dell’età che viviamo, richiede, per essere davvero posseduto nella sua interezza e nelle sue pieghe più recondite, di essere mescolato. I fili si intrecciano nella matassa: ed è la matassa, alla fine, che ce ne restituisce il senso.
Il catalogo di cui ci stiamo occupando raccoglie beni tra i più disparati. Diversa ne è la datazione storica, la provenienza geografica, la sede e lo scopo di produzione e la proprietà originaria, differente il valore; diverse sono state anche le circostanze storiche che quei beni hanno quasi casualmente aggregato. Si passa dai lingotti d’oro sequestrati al gerarca fascista in fuga ai gioielli di pregio di chissà quali svendite obbligate, dalle opere d’arte di varie epoche e autore che un tempo facevano bella mostra di sé nei palazzi aristocratici alla documentazione meramente amministrativa; dai manoscritti ai registri, dagli elenchi-inventario alle carte di ragioneria, dai tanti dati dei censimenti di quei beni nelle varie epoche alle sfilze d’archivio che li descrivono o li concernono; dalle lettere ritrovate (magari mai spedite) alle cartoline postali (ognuna ricca di dati materiali: nomi, parole, timbri; e quelle illustrate testimonianza di viaggi dal mittente compiti, di panorami da lui ammirati); dai francobolli (quelli da collezione) e dagli oggetti domestici più pregiati (l’argenteria, le collane, i monili) a quelli d’uso comune quotidiano: per esempio gli oggetti di cancelleria, le suppellettili di un ufficio, di una stanza di scrittura; dal danaro nella sua forma cartacea ormai fuori corso alle raccolte non casuali di monete di varia epoca storica (ma anche casse zeppe di monete di conio relativamente recente, come lo scrigno che conserva le 500 lire della Repubblica); dalle fedi di credito ai titoli, nazionali ed esteri.
Gli autori della ricerca hanno compiuto un lavoro minuzioso e ammirevole: hanno collocato ognuno di questi frammenti storici nel suo contesto di provenienza e ne hanno illustrato, carte alla mano, il percorso compiuto per giungere infine al suo porto quiete. Spesso è stato un viaggio drammatico, in epoche tragiche della storia: il terremoto di Messina e Reggio Calabria che tutto ha distrutto e ha seminato la morte; il furto o l’appropriazione indebita in tempo di guerra, o la spoliazione degli ebrei deportati, che ha rovinato intere famiglie depredandole con la violenza; la dispersione casuale degli oggetti, abbandonati nella fuga precipitosa da un pericolo incombente.
Emergono da questi beni, nel loro complesso e nella loro singolarità, le tante storie minime degli individui che li hanno posseduti o vi sono entrati a contatto; ma anche la storia massima – a volte grande e terribile – che li ha travolti, offesi, strappati alla loro originaria collocazione, ammassati alla rifusa uno sull’altro, e che infine ha fatto calare su di loro il velo spesso dell’oblio. Un oblio durato sin troppo (dagli anni Quaranta del secolo scorso, quando la raccolta fu conferita al Tesoro per poi più tardi essere affidata alla Banca d’Italia), a testimonianza – ed è uno scandalo –  dei ritardi cronici dell’amministrazione e della troppo labile memoria storica delle nostre istituzioni.
Perché i beni, questi beni, lungi dall’essere cosa morta, in definitiva ‘parlano’. Sono, sia se li consideriamo isolati o ancor più se i assumiamo nel loro insieme, oggetto parlante di storia. Una storia che ci interessa non solo come storici; e nella quale trovano  un posto di rilievo le stesse istituzioni finanziarie dello Stato che li hanno conservati e gestiti, e che hanno messo in opera le pratiche amministrative che li hanno investiti, determinandone i molti ritardi, le tante dimenticanze, i  trasferimenti ed oggi, finalmente, la loro riscoperta e valorizzazione. Il lungo viaggio della memoria, insomma.
Ho accennato alla rivoluzione digitale. Essa è inarrestabile e sta già mettendo in mora le tradizionali divisioni sia del sapere qual era nel passato, sia delle mille e mille partizioni disciplinari che quel sapere caratterizzavano (e che ancora lo caratterizzano) negli ordinamenti culturali oggi in vigore. Il destino ultimo di questa, che si annuncia già come la rivoluzione del primo secolo del nuovo millennio, sarà probabilmente l’abbattimento delle mura che per secoli (a partire dal secolo XVII almeno) hanno distinto e cinto di ferree cortine divisorie la cultura.
Dal XVII secolo, ho detto, e non l’ho detto per caso: perché prima di allora il sapere era stato quello emblematicamente rappresentato dall’intellettuale leonardesco: enciclopedico, letterato e al tempo stesso scienziato, matematico, teorico ma anche capace di applicazione pratica, lavoratore della mente ma anche del braccio. Leonardo era insieme inventore di macchine prodigiose e pittore eccelso, letterato finissimo e poeta eccelso, scrutatore dei cieli e della terra, della volta celeste come dell’animo umano,  filosofo e buon conoscitore di storia. Era il prototipo incarnato di un sapere che non conosceva distinzioni né frammentazioni: era un tutto unitario.
Viviamo forse, sotto questo profilo, gli ultimi anni della scissione tra culture iniziata nel XVII secolo. Ci avviamo forse (azzardo una previsione) verso un futuro nel quale le enormi potenzialità del digitale abbatteranno le attuali apparentemente invalicabili frontiere tra i saperi.
Eravamo abituati alla verticalità della conoscenza (una storica legge dell’archivistica imponeva e ancora impone, sia pure oggi con temperamenti, non solo la separazione fisica del documento dal libro stampato ma l’inventariazione di quel documento secondo l’ente che lo ha prodotto). Oggi al contrario apprezziamo l’opportunità che il progresso digitale ci offre di poter ‘navigare’ un complesso di documenti orizzontalmente, di poterlo consultare per lemmi, di poterlo accostare per compiervi una lettura integrata al libro o ad altra fonte, percorrendo in un continuum ciò che prima era diviso.
I contenuti digitali, estratti dal loro specifico, sono per definizione ‘leggeri’. Viaggiano in rete. Tendono a compenetrarsi e ad aggregarsi virtualmente in modo diverso dalla loro stessa collocazione d’origine. Possono far parte di nuovi insiemi.
Da qui una conclusione, forse controcorrente (e me ne scuso). Leggo nel libro, sparso in vari dei saggi, l’intento lodevolissimo di riportare i beni oggetto del convegno ognuno alla sua originaria provenienza, per quanto almeno sarà possibile; oppure di ricondurli ciascuno alla sua originaria appartenenza di genere, nei luoghi dove possono ricollocarsi tra beni loro affini; ‘a casa propria’, insomma. Lo capisco: è stata la via maestra del passato, la più facile e anche la più naturale. Tuttavia, sommessamente, mi permetto di avanzare un suggerimento alternativo. Pensiamo (almeno valutiamo l’ipotesi) se non sarebbe più consono tenerli insieme così come la storia dalla quale sono stati travolti ce li ha riconsegnati, agglomerati come sono stati dopo il lungo viaggio compiuto: essi rappresentano nel loro insieme (insisto) un deposito della memoria che da solo ‘parla’, che racconta una storia. Vivono non più  ormai in una ‘casa comune’.
So che questa soluzione, non solo logistica ma culturale, può apparire assai meno scontata, e che molte obiezioni le si potrebbero indirizzare.
Ma consentitemi di dire, in conclusione: forse Aby Warburg ne sarebbe contento.

Articolo proposto il 10 febbraio 2024 e accettato il 15 febbraio 2024.


Note

GUIDO MELIS, professore emerito della Sapienza Università di Roma, e-mail: guido.melis@uniroma1.it.
Questa relazione è stata da me tenuta a conclusione del convegno “Beni svelati. La singolare vicenda dei depositi custoditi nel caveau della Tesoreria dello Stato”, promosso dalla Banca d’Italia nel Centro convegni “C.A. Ciampi” l’8 febbraio 2024 per presentare l’omonimo volume.
Ultima consultazione siti web: 13 febbraio 2023.

1 Ernst H. Gombrich, Aby Warburg: una biografia intellettuale, con uno scritto di K. Mazzucco. Milano: Aestetica, 2018, in particolare p. 31.
2  Cfr. https://warburg.sas.ac.uk/news/temporary-new-entrance-and-opening-hours-september-2023.
3 Ho in parte svolto argomenti analoghi in Guido Melis, Sessione 1: L’archivio, il digitale e la formazione al tempo del digitale. In: Archivi e mostre, atti del 3° convegno internazionale “Archivi e mostre-Archives and exhibitions”. Venezia: La Biennale di Venezia, 2018, p. 24-51.
4 Madel Crasta, Di chi è il passato? L’ambiguo rapporto con l’eredità culturale. Roma: Garamond, 2013.