Simona Inserra
Un certo numero di saggi di Ezio Ornato dedicati alla storia del libro è stato riunito, oltre vent’anni fa, in un corposo volume pubblicato dall’editore Viella e intitolato La face cachée du livre médiéval1, ossia, come recita, nella traduzione italiana, il titolo di questo intervento, il lato oscuro del libro medievale. Riferendosi alle due ‘facce’ della luna, quella a noi oscura e quella, invece, visibile, l’autore intendeva descrivere il lato illuminato come tutto ciò che abitualmente vediamo del libro antico: il testo, la scrittura, la decorazione, le illustrazioni, la legatura. Il lato oscuro sarebbe rappresentato, d’altro canto, da tutto quello che rimane sullo sfondo, non compreso dal lettore e spesso, però, scrive Ornato con un certo dispiacere, neanche dallo specialista del libro medievale2.
In questo lato oscuro confluirebbero gli aspetti per così dire ‘interni’ della ricezione, le pratiche artigianali e grafiche poco visibili una volta completato il manufatto, i difetti, le negligenze e tutte le incoerenze che non si riescono, per vari motivi, a mettere in luce; sinteticamente, si tratterebbe di tanti dettagli che, mai lasciati emergere nelle diverse fasi di descrizione, potrebbero aiutare a rivelare la vera natura dell’oggetto libro. A questi aspetti interni si aggiungono anche alcuni aspetti ‘esterni’, rappresentati, per esempio, dalle questioni culturali, economiche, sociali, ma anche puramente tecniche che, interagendo incessantemente con la funzione fondamentale del libro (quella di assicurare presto e bene la trasmissione della cultura), ne condizionano fortemente la struttura, la presentazione e l’evoluzione stessa.
In maniera molto suggestiva lo stesso Ornato scriveva di una triplice valenza del lato oscuro: non è visibile al lettore, è volutamente occultato dall’artigiano, è per lo più ignorato dallo storico. Per essere più precisi, occorre ricordare, però, che i casi di occultamento possono essere legati non sempre o non esattamente alla volontà del tipografo di nascondere alcuni passaggi della stampa, quanto, piuttosto, ad una serie di difficoltà tecniche alle quali, nei primi decenni della stampa, egli non era ancora in grado di ovviare3.
È da questi studi, ripresi in mano dopo molti anni dalla loro prima pubblicazione, e dai ragionamenti che ad essi sono sottesi, che vorrei ripartire per riflettere sulle metodologie di descrizione degli incunaboli e su alcune campagne in atto, in Italia e all’estero, volte allo studio e alla restituzione alla collettività, proprio per il mezzo della descrizione bibliografica, di un patrimonio ancora non sufficientemente noto4.
Armando Petrucci, a proposito del lavoro di Ezio Ornato, apprezzava l’estensione delle metodologie, delle pratiche di ricerca e delle problematiche tipiche di quella che allora veniva definita ‘archeologia del libro’, ossia la codicologia materiale5, intesa come attività di ricerca che si snodava dal libro manoscritto tardomedievale a quello del primo periodo della stampa a caratteri mobili, nonché, poi, si manifestava come una «estensione continua, sostenuta da inesausta ansia sperimentale, del campo di indagine, secondo una pulsione che potrebbe riassumersi nel motto: ‘contare tutto il contabile, misurare tutto il misurabile’, pur restando sempre all’interno dell’universo librario»6.
È indicativo senz’altro il fatto che nella raccolta appena citata sono presenti anche alcuni saggi dedicati proprio agli incunaboli7.
Lotte Hellinga ha contribuito con significative riflessioni ad ampliare le conoscenze relative al libro a stampa delle origini, affrontando questioni metodologiche non semplici e conducendo approfondite analisi rivolte tanto alle tecnologie quanto ai testi, al contenitore e al contenuto. Tra i numerosi spunti di riflessione condivisi dalla studiosa, merita senz’altro di essere ricordato in questa sede quanto segue: «Esistono ancora molte idee sbagliate sulla relazione fra codice manoscritto e codice a stampa nel XV secolo, allorché ebbe luogo la transizione della forma di produzione di un libro. Ritengo, soprattutto, che per valutare come essi li intesero sia cruciale tentare di guardare ai libri con gli occhi dei contemporanei di allora. Con poche ma significative eccezioni, non appena fecero la loro comparsa sul mercato, i ‘codici’ a stampa furono salutati con stupore, orgoglio ed entusiasmo. Tuttavia, per la maggioranza delle persone, questi libri erano prima di tutto codices, cioè vettori di un testo, che fossero a stampa o meno» e ancora, continua la studiosa, «strutturalmente non ci sono differenze fra il codice manoscritto e quello a stampa. La differenza materiale, per il lettore, stava solo nella tipografia. Le esigenze tecniche delle stamperie apportarono una semplificazione immediata nelle forme, e nel corso dei primi cinquanta anni della stampa si assistette a un processo inesorabile di semplificazione degli usi grafici»8.
Se sentiamo di avere la percezione di una visione unica, o quanto meno sentiamo fortemente la connessione tra le modalità di costruzione e trasmissione del manoscritto e quelle del libro di prima stampa, questo non può che suggerirci di adottare un trattamento descrittivo simile per i due oggetti, che ponga, appunto, in continuità, le imprese di descrizione dei manoscritti con quelle degli incunaboli. In tal modo saremo forse in grado, coltivando un terreno comune tra codicologia e bibliologia, tra filologia del manoscritto e filologia del testo a stampa, di portare a casa un raccolto più ricco.
Mi preme ricordare che, in tempi più recenti rispetto a quelli delle riflessioni di Bozzolo, Coq, Ornato e Petrucci, Neil Harris aveva già definito l’incunabolo come ‘Giano bifronte’, così scrivendo nella conclusione di un suo intervento: «Questi appunti hanno avuto lo scopo di palesare il fascino degli incunaboli come opere, come testi, e come oggetti materiali che rispecchiano un momento di straordinaria ebollizione tecnologica e culturale, che con ragione è stato considerato un passaggio chiave nella storia della civiltà umana. Il valore della loro testimonianza sta proprio nel fatto che, come il Giano bifronte, guardano simultaneamente al passato e al futuro, e il nostro studio deve sempre tenere conto di questo fatto»9.
È di questo guardare indietro e guardare in avanti che vogliamo provare a rendere conto nei nostri cataloghi.
L’occasione della ricerca sul fondo di incunaboli dell’Abbazia di Montecassino10, dopo alcuni anni e alcune imprese già portate a termine, pone la necessità di una sosta, utile per avviare alcune riflessioni su quello che è stato fatto fino ad ora e su come si intenda proseguire.
Le esperienze concluse e quelle portate a termine mi permettono oggi di chiarire meglio la natura dell’atteggiamento di studio che ritengo utile da adottare nelle imprese volte alla descrizione degli incunaboli. Dal mio punto di vista, mi sembra necessario continuare a praticare una metodologia che è, di fatto, solo parzialmente nuova nello studio e nella descrizione del libro a stampa tardomedievale; credo infatti che si tratti di un modello che potrebbe senz’altro riallacciarsi a quello individuato da quel gruppo di studiosi italiani e francesi, già nominati in apertura di questo contributo, che alcuni decenni fa già suggerivano di guardare ai libri del tardo Medioevo come a un corpus unico composto da manoscritti e incunaboli11. E allo stesso tempo, rimanendo nell’ambito del libro a stampa, è vero anche che nel secolo scorso vennero portate avanti campagne di catalogazione nelle quali vi era una attenta descrizione degli esemplari, la trascrizione delle note di possesso e puntuali indicazioni sullo stato di conservazione dei manufatti12.
L’approccio codicologico allo studio e alla descrizione degli incunaboli, a mio avviso, comporta una osservazione più attenta (con una conseguente minuziosa restituzione nei cataloghi) delle testimonianze prodotte dai libri di prima stampa, interne ed esterne, che possono condurci allo studio di intere serie, utili per osservare meglio la struttura e le manifestazioni delle edizioni. Bisogna ricordare, forse, che nella seconda metà del Quattrocento ci troviamo nel vivo di una transizione tecnologica che è anche una trasformazione del modo di concepire il rapporto con il testo, nel senso della produzione e nel senso della fruizione. La produzione di più copie da uno stesso antigrafo si pone come operazione molto diversa e assai più complessa rispetto alla tradizionale trascrizione manuale di un modello; con il cambiamento della tecnica di riproduzione cambia anche il concetto di testo e di pubblico dei lettori e nasce l’edizione nel senso in cui oggi l’intendiamo e, con essa, la nuova figura di ‘editor’ del testo.
Studiare i libri a stampa del secondo Quattrocento significa, per forza di cose, studiarli insieme ai loro omologhi manoscritti; non è un caso che il numero più alto di manoscritti datati è stato redatto nella seconda metà del Quattrocento, fino al 1460, quando la stampa aveva già iniziato a diffondersi anche in Italia e da quel momento in poi, piano piano, i manoscritti diminuiscono perché aumentano i libri a stampa. Possiamo permetterci di non considerare tutto questo? Noi pensiamo che non sia opportuno farlo, proprio perché si è trattato di una transizione morbida, non di una rottura col passato, cioè, ma di un processo che ha portato all’affermazione, per i motivi a tutti noti, del volume stampato rispetto a quello manoscritto13. Quando arriva e si diffonde una nuova tecnologia, è chiaro che la vecchia non scompare improvvisamente, che esiste un periodo di convivenza che in certe aree periferiche potrà durare più a lungo rispetto a quanto non accada nei grandi centri imprenditoriali e culturali, ma poi una delle due tecnologie, inevitabilmente, prenderà il sopravvento a scapito dell’altra che, in ogni caso, continuerà per un certo tempo a svolgere un ruolo significativo; si pensi a certi trattati di medicina, alle cronache familiari, ma anche ai libri proibiti, per esempio ai libri di magia, che continueranno a essere tramandati nella forma manoscritta ancora per alcuni secoli14.
Ai tempi della nascita della nuova arte tipografica erano numerose le voci che si ergevano contro la stampa, definita meretrix15; del resto,
il testo, fabbricato in serie e venduto dopo un mercanteggiare grossolano, minava alla radice la sacralità della trasmissione del sapere, fino a quel momento preservata dai tempi della produzione e dal sistema forzatamente elitario della diffusione manoscritta16.
E il frate Filippo da Strada si scagliava con veemenza contro la stampa, da lui considerata capace di corrompere le coscienze, e che in lui stimolava la
visione della prostituta seduta sulla bestia dalle sette teste e dalle dieci corna, preziosamente adornata e colma di orrori e nefandezze. Venezia appariva allora come la nuova Babilonia, affollata di mercanti e merci e, in essa, la ‘meretrix’ della profezia giovannea aveva assunto un corpo concreto, si era «stampificata». Essa provocava il diffondersi virale di parole agghindate con copertine attraenti; essa si vendeva impunemente ai clienti a ogni angolo della città, trasportata da carretti ingombri di volumi e pubblicizzata dalle grida dei suoi lenoni stranieri17.
Egli stesso, del resto, era ben consapevole che i tipografi, come anche, prima e contemporaneamente, i copisti, fossero
guidati da puri motivi economici e, per questo motivo, dovevano essere pronti a tutto per vendere: falsificavano gli scritti, ossia li stampavano pieni di errori, e li offrivano per pochi soldi. Si delineava così, nella visione del domenicano, la divisione sociale tra un consesso di puri e, dall’altra, l’accozzarsi di stampatori e volgari clienti nello scuro delle calli e delle taverne, ma anche nel rumore delle piazze, tutti luoghi che divenivano tangibile metafora delle tenebre dell’intelligenza18.
E l’abate Tritemio, elogiando il lavoro degli amanuensi, scriveva:
Nessuno pensi, fratelli, nessuno dica: perché devo stancarmi scrivendo, quando l’arte della stampa dà alla luce tanti e tanti libri da permettere di formare una grande biblioteca a un modico prezzo? […] E se anche tutti i libri del mondo fossero stampati, un amanuense devoto non dovrebbe desistere dal suo lavoro, ma anche tramandare testi a stampa utili attraverso la scrittura a mano, che altrimenti non potrebbero durare a lungo19.
Dall’altro lato, anni prima, già nel colophon del De officiis di Cicerone stampato nel 1466, Fust e Schoeffer avevano sottolineato che il loro prodotto era qualcosa di ancora più bello del manoscritto. Il colophon recitava, infatti, in questo modo:
Presens Marci Tulii clarissimum opus Johannes Fust Moguntinus civis non atramento plumali canna neque aerea, sed arte quadam perpulcra, manu Petri de Gernshem pueri mei feliciter effeci finitum, anno MCCCCLXVI quarta die mensis februarii et cetera20.
Insomma, si descriveva un’arte bellissima e lo si faceva sin da subito: evidentemente era necessario farlo proprio nel colophon, dove ci si sforzava di pubblicizzare la nuova tecnica di produzione dei libri mostrando, in qualche modo, che non c’era niente di male ad avere un libro stampato! E la nuova tecnica andava accolta, nel pensiero dei prototipografi, come lineare prosecuzione della tradizione manoscritta, come mezzo e strumento che permetteva di riprodurre al plurale lo stesso testo, ma in tempi e con costi significativamente differenti.
È per alcuni dei motivi che ho provato or ora a sviscerare che mi sembra interessante riprendere la visione che ebbero i primi tipografi, di una piena continuità con la tradizione manoscritta; in questo senso, quindi, mi sembra appropriato approfondire le metodologie di descrizione dei manoscritti e cercare di adattarle ai nostri incunaboli, perché diversamente rimarrebbero troppi elementi sullo sfondo che invece, dal mio punto di vista, necessitano di maggiori sforzi di analisi.
Iniziare a descrivere incunaboli partendo dalla metodologia di descrizione del manoscritto: questo è quello che facciamo nei nostri gruppi di ricerca, dove un importante riferimento per la nostra attività è rappresentato dalle Norme per la descrizione dei manoscritti21.
Ma quali sono i punti di forza e le novità del nostro lavoro? Per comprenderli è opportuno osservare da molteplici punti di vista il lavoro di descrizione degli incunaboli che abbiamo portato avanti negli ultimi anni. La scheda descrittiva da noi concepita vede l’uso di metodologie e lo svisceramento di problematiche proprie della ‘archeologia del libro’, cioè dell’esperienza della codicologia materiale applicata a questi nuovi codices a stampa22. Va ricordato anche che lo studio della scrittura a mano presente negli esemplari stampati, sia in qualità di note di possesso o di note marginali, o ancora di correzioni al testo stampato, o semplicemente a dimostrazione dell’uso di un libro come oggetto a portata di mano su cui appuntare qualcosa di impellente, è, tra l’altro, un aspetto che ci interessa molto far emergere nei nostri cataloghi di incunaboli.
Nell’osservare, quindi, l’incunabolo come immediato successore del manoscritto, mi è sembrato opportuno adattare la metodologia descrittiva dei manoscritti ai libri a stampa del XV secolo; poiché sono ancora molti gli elementi che rimangono sullo sfondo e che invece necessitano di maggiori sforzi di riflessione e di analisi, forse adottando questa metodologia potremo raggiungere risultati di un qualche significato e apportare qualche novità negli studi.
Le Norme già citate sono state pubblicate nell’ambito dell’ampio progetto dei ‘Manoscritti datati d’Italia’, dal quale è nata una collana editoriale che ha preso le mosse dalla descrizione dei manoscritti datati della provincia di Trento23. I nostri gruppi di studio nell’avviare i lavori di descrizione degli incunaboli adottano quindi alcuni criteri delle Norme dell’Associazione Italiana Manoscritti Datati, ma anche quelli comunemente in uso per la descrizione degli incunaboli. La novità del metodo consiste, appunto, nella convivenza di modalità descrittive del manoscritto e del libro a stampa.
I lavori di catalogazione sono iniziati grazie a un primo gruppo di professionisti della Soprintendenza per i Beni Culturali e Ambientali di Siracusa, coordinato da Marco Palma, che nel 2015 ha pubblicato il primo catalogo redatto con questo spirito e secondo questa metodologia, Incunaboli a Siracusa24. Il volume successivo, quello che ha dato inizio alla collana Incunaboli dell’editore Viella, è rappresentato da Incunaboli a Catania I: Biblioteche Riunite ‘Civica e A. Ursino Recupero’25, pubblicato nel 2018, anche in questo caso frutto di un lavoro collettivo, cui hanno fatto seguito alcuni altri cataloghi relativi non solo alla Sicilia ma anche ad altre regioni italiane, sino ad arrivare all’ultimo appena pubblicato nel 2024, Incunaboli a Monreale26.
Sono due, ad oggi, invece, i cataloghi di collezioni conservate oltre confine: Incunaboli a San Marino27 e Incunaboli a Nova Gorica28.
In più, va segnalato l’allargamento a descrizioni di raccolte private nell’ambito del catalogo Incunaboli a Ragusa, al cui interno è stata descritta la collezione privata Ottaviano29 e in Incunaboli a Cesena30, dove sono descritti due esemplari in mani private; infine, al momento attuale, abbiamo la disponibilità di alcuni collezionisti privati in Friuli, Emilia-Romagna e a Roma31.
Qualche anno fa, scrivendo a proposito di questi progetti di catalogazione, annotavo che
Le riflessioni recenti sulla circolazione del patrimonio librario antico a stampa segnalano la necessità, condivisa in molteplici contesti, di provvedere a descrizioni accurate che contengano elementi identificativi degli esemplari, accuratamente descritti e, ove possibile, verificati, in modo da consentire al lettore e allo studioso di entrare pienamente non solo tra le pagine del documento ma proprio dentro la storia: la storia della circolazione libraria, la storia della manifattura libraria, la storia dei materiali, le vicende di un ceto sociale, di una famiglia, di un luogo, la storia degli studi e così via32.
Ma in realtà non si tratta di riflessioni del tutto nuove; per esempio già Alberto Petrucciani, riflettendo sulla peculiarità della catalogazione degli incunaboli scriveva:
Nella mia esperienza di catalogatore di incunaboli, per caso più che per vocazione, sono rimasto colpito da quanto questo campo – per tradizione piuttosto appartato – si riveli ricco di suggestioni e di insegnamenti di larga applicabilità, per un complesso di ragioni che vanno dall’effetto straniante del trattare un materiale piuttosto diverso dal libro a stampa ‘maturo’, alla complessità delle questioni bibliografiche incontrate, alla ricchezza del confronto tra lavoro catalografico e sistemazione repertoriale, fino alla varietà, sincronica e diacronica, degli elementi di storicità degli esemplari. Pur diffidando dalle paradigmaticità forzate, mi sembra che si possa dire che questo campo costituisce un laboratorio in cui le problematiche della catalogazione dei fondi antichi emergono con particolare evidenza non appena la tradizione incunabolistica, raffinata e solida ma un po’ isolata e in qualche punto invecchiata, venga messa a confronto con le grandi correnti della bibliografia descrittiva e della teoria catalografica33.
E continuava nella sua riflessione sostenendo che, pur esistendo numerosi strumenti di ricerca bibliografica per il Quattrocento, rimane tuttavia molto da fare, perché il campo è «bibliograficamente molto ostico, perché, per esempio, circa la metà delle edizioni conosciute manca di indicazione di luogo, di data o di tipografo, perché comunque gli elementi di identificazione delle edizioni sono scarsi, ambigui, poco evidenti, perché molte edizioni si sono conservate in una sola copia […], perché molti libri sono arrivati a noi mutili, manipolati o a frammenti»34.
E, cosa che mi sembra ancora più importante e che ben si avvicina alle nostre riflessioni:
Sotto un profilo più storico che bibliografico, è anche da notare che per questo periodo le informazioni sui processi di produzione, di circolazione, di raccolta, di fruizione vanno molto spesso tratte solo dall’esame bibliologico (si potrebbe dire ‘archeologico’), essendo inesistenti o insufficienti le fonti informative collaterali, manuali tipografici e altre descrizioni tecniche, testimonianze memorialistiche e carteggi, documenti contabili, ecc.35.
Chi si avvicina ai cataloghi ha bisogno di acquisire informazioni sulle caratteristiche di manifattura, uso e circolazione degli esemplari, osservandoli come testimoni di cultura che hanno viaggiato nel tempo e nello spazio, portatori di molte più informazioni di quante solitamente ne siano accolte in cataloghi redatti secondo modelli più tradizionali. In questo senso, un ottimo strumento nel quale sono raccolti i dati materiali provenienti dagli esemplari delle edizioni a stampa del Quattrocento è MEI (Material Evidence in Incunabula), la banca dati progettata da Cristina Dondi proprio con l’obiettivo di registrare i movimenti nel tempo e nello spazio degli esemplari36.
Sono, del resto, i dati materiali e la loro descrizione quelli che ci avvicinano pienamente alla conoscenza delle caratteristiche di ciascun esemplare e contribuiscono a raccogliere le informazioni utili per la successiva individuazione del peso specifico di una determinata raccolta, di un personaggio che è stato possessore di libri, etc.
È sempre Petrucciani che scrive:
Un catalogo deve dire molto di più: altrimenti si tratta effettivamente di un’impresa in larga misura inutile. Un catalogo deve in primo luogo informare sulle peculiarità storiche del singolo esemplare (ornamentazione, note di possesso, legature, ecc.) oltre che, dal punto di vista bibliografico, apportare nuovi elementi, se e quando emergono dagli esemplari esaminati, sulle questioni bibliografiche irrisolte o controverse. Non si tratta – è sempre utile ribadirlo – di ridescrivere per esteso edizioni già descritte, ma di dare, in forma più economica e più funzionale un’informazione altrettanto esauriente37.
Insomma, crediamo che gli strumenti bibliografici a nostra disposizione non rispondano pienamente alle esigenze di ricerca e che, senza volerli sostituire, piuttosto ben grati della loro esistenza e debitori a quanti si sono spesi nella loro redazione, crediamo che nuovi strumenti da approntare debbano contenere elementi di novità che vadano proprio nella direzione di un loro arricchimento, al fine di una migliore e più completa risposta alle differenziate esigenze di ricerca.
La finalità dei nostri cataloghi sarà quindi quella di dar conto di tutte le peculiarità dell’esemplare che saremo in grado di individuare sulla base delle nostre competenze (e perciò tutto sarà sempre suscettibile di miglioramento), in modo da fornire dati utili per la ricostruzione della sua storia di manufatto che, una volta uscito dalla tipografia, ha viaggiato per luoghi e nel tempo, è stato oggetto di decorazione, è stato letto e annotato, è stato venduto, ceduto, sottratto illecitamente, è stato rilegato e restaurato, per arrivare sino all’attuale sede di conservazione.
Le imprese condotte secondo il metodo che abbiamo adottato e i cui esiti sono rappresentati dai cataloghi pubblicati dall’editore Viella nella collana Incunaboli diretta da Marco Palma, sono contraddistinte dall’adozione di un duplice modello descrittivo, cosa inusuale nell’approccio bibliologico alla descrizione del libro a stampa del quindicesimo secolo, quello, come già abbiamo scritto, dei Manoscritti datati d’Italia e quello tradizionalmente dedicato alla descrizione degli incunaboli. Sia chiaro che non si tratta di una descrizione ‘economica’, perché il livello di analiticità a cui si tende è volutamente alto.
La scheda descrittiva di un incunabolo si articola in varie sezioni. La prima sezione è quella del numero d’ordine: ogni scheda è introdotta da un numero d’ordine in cifre arabe, in grassetto, che negli indici, in corsivo, servirà per il rinvio alle schede.
Segue la sezione dedicata alla segnatura in uso nella biblioteca, quindi quella relativa alla data, al luogo di stampa e al nome del tipografo: il dato cronico, seguito da quello topico, è posto subito al di sotto della segnatura e riporta, in cifre arabe, la data presente nel colophon, registrata nella successione di anno, mese e giorno senza alcun segno intermedio di punteggiatura; il dato è seguito da una virgola, quindi dal luogo di stampa separato da un’altra virgola dal nome del tipografo. Questi dati, qualora il colophon mancasse (o perché inesistente nel progetto editoriale o perché l’esemplare è lacunoso), saranno riportati tra parentesi quadre.
Al di sotto di questi dati si trovano le due bibliografie, eventualmente integrate dai cataloghi, in corpo minore: la bibliografia dell’edizione e la bibliografia dell’esemplare. La prima riporta le citazioni dei maggiori repertori che nel corso del tempo hanno descritto le edizioni, riportati in forma abbreviata (poi sciolta in bibliografia) e in ordine alfabetico (in grassetto sono i riferimenti al Gesamtkatalog der Wiegendrucke38 e all’Incunabula Short Title Catalogue39, in modo da mettere in evidenza i due maggiori repertori); rispetto al primo modello siracusano quello catanese ha innovato con l’inserimento di ulteriori riferimenti bibliografici reperiti, sia recentemente pubblicati (per esempio il catalogo della Biblioteca nazionale centrale di Firenze curato da Piero Scapecchi40), sia altri cataloghi, anche locali e poco noti. Nella bibliografia dell’esemplare si dà conto, invece, dei contributi che hanno avuto per oggetto l’esemplare in questione: non sempre (anzi, raramente) è una bibliografia ricca e non sempre è presente nella scheda.
Come già avveniva in tutti i cataloghi di incunaboli, sin dalla fine dell’Ottocento, nella nostra scheda la fisionomia bibliografica è dunque delineata attraverso la citazione puntuale di numerosi repertori che nel corso del tempo hanno descritto le edizioni di ciascun incunabolo. Riteniamo utile questa pratica per due motivi: da un lato per non perdere memoria della disciplina, proprio attraverso il riferimento a repertori che già hanno creato un collegamento con l’edizione in questione o con l’esemplare che abbiamo in mano; dall’altro lato perché attraverso le citazioni bibliografiche documentiamo quando e da chi una certa edizione o un certo esemplare sono già stati oggetto di segnalazione o di descrizione, potendo al contempo verificare la qualità dei dati forniti. Il controllo sistematico delle fonti bibliografiche relative all’edizione e all’esemplare rappresenta quindi il momento iniziale del lavoro e fornisce esso stesso uno strumento utile, soprattutto nei casi bibliograficamente più complessi41.
Dopo le due bibliografie si registrano in modo analitico il testo o i testi contenuti nell’incunabolo e tutti gli elementi paratestuali.
La descrizione dell’esemplare è suddivisa in una descrizione interna e in una esterna; in quella interna si elencano i testi con le loro eventuali partizioni e il riferimento alle relative carte, delle quali viene data l’indicazione secondo la numerazione originale a registro e secondo quella progressiva attribuita in sede di esame dell’esemplare; qualora siano note edizioni critiche dei testi, esse vengono riportate tra parentesi prima della numerazione delle carte42.
All’elenco dei testi, che possiamo considerare come una novità nella prassi catalografica incunabolistica italiana e che, nel nostro caso, prende come modello quanto fatto nell’impresa catalografica portata avanti dalla Bodleian Library43 (ma, nel contesto italiano, il modello era in parte stato già anticipato nel Novecento, per esempio da Serra Zanetti44), segue la trascrizione integrale del colophon in edizione interpretativa, con lo scioglimento delle abbreviazioni e l’inserimento della punteggiatura moderna.
La descrizione esterna prevede l’indicazione del numero delle carte (carte di guardia, coeve o meno, e corpo del volume), la registrazione delle dimensioni di una carta specifica con misure relative agli spazi riservati al testo e agli spazi bianchi, della fascicolazione, offerta sia mediante formula di collazione sia secondo la numerazione progressiva attribuita in sede di esame dell’esemplare (in alcuni casi, quando non rilevabile a causa, per esempio, di anomalie realizzate in fase di rilegatura, se ne dà notizia), dell’impronta, del tipo di carattere adottato, della presenza di eventuali decorazioni, a mano o xilografiche.
Di seguito si riportano le note manoscritte, le note di possesso, gli ex libris, gli ex dono e tutti quegli elementi apposti successivamente alla pubblicazione, secondo lo spirito e la metodologia adottati da MEI, dove figurano già integralmente i dati degli esemplari descritti in alcuni cataloghi da noi pubblicati, inseriti non appena il catalogo è stato dato alle stampe45.
Grande importanza è riservata alle note di possesso, che sono trascritte integralmente e, quando cassate o non pienamente leggibili, indicate in quanto tali; gli ex libris sono descritti accuratamente (ricercati nei repertori e, quando presenti, individuati) e altrettanto accuratamente sono descritti, e in alcuni casi anche trascritti, gli ex dono. Relativamente alle note manoscritte, si individuano la o le mani e il secolo presunto in cui sono state vergate. Nei casi in cui esse rivestano un significato particolare (perché mettono in luce episodi o vicende storiche rilevanti o individuano elementi degni d’interesse), sono trascritte integralmente e viene fornita l’indicazione della carta nella quale si trovano: è questo il caso, ad esempio, delle note manoscritte in vernacolo siciliano, tutte integralmente riportate nelle schede catalografiche all'interno del primo catalogo catanese46.
Per quanto riguarda la descrizione delle legature si registrano i dati relativi alla natura della legatura (se coeva o rifatta o restaurata), alla sua tipologia, ai materiali utilizzati per il rivestimento della coperta, alla tipologia dei capitelli e del sistema di cucitura, a eventuali decorazioni della coperta e dei tagli, come anche la presenza di nastri, segnacoli e lacci di chiusura.
Per esemplificare quanto ho tentato di descrivere nel paragrafo precedente, riporto di seguito due schede relative allo stesso esemplare, ma redatte nell’ambito di due diversi progetti di catalogazione e con uno scarto temporale di quasi cento anni.
Si tratta della scheda di un esemplare appartenente alla Biblioteca monastica 'Paolo Diacono' di Montecassino, la biblioteca privata dei monaci i cui esemplari sono conservati nello stesso ambiente che ospita la Biblioteca statale del monumento nazionale di Montecassino, ma in scaffali separati; l’esemplare, come quasi tutti gli altri presenti in quel momento nell’Abbazia, venne descritto nel catalogo a stampa del 1929 ed è stato nuovamente descritto, molto di recente, nell’ambito dell’impresa Incunaboli a Montecassino47, allo scopo di mostrare quali e quante informazioni in più vengano fuori adottando il nostro modello descrittivo.
L’incunabolo in oggetto è un esemplare dell’edizione ISTC ih00206000, le Vitae sanctorum patrum attribuite a san Girolamo e stampate a Venezia da Ottaviano Scoto il 14 febbraio del 1483.
Nel Catalogo degli incunabuli di Montecassino di Itala Santinelli Fraschetti e Camillo Scaccia Scarafoni48, la scheda descrittiva è la seguente:
34 (222). Hieronymus (S.). - Vitae Sanctorum Patrum. - Venetiis, Octavianus Scotus, 16 kal. Mart. (14 febb.), 1483, 4°.
H.C. *8599; Proct. 4573.
Legat. origin. in cuoio natur., con borchie.
Come si evince dalla lettura, è una scheda molto stringata. I due numeri in grassetto fanno riferimento il primo alla numerazione dell’incunabolo all’interno della raccolta monastica (descritta nella seconda parte del catalogo) e il secondo, tra parentesi, alla numerazione nella serie completa che parte, appunto, dagli incunaboli della Biblioteca statale. Seguono i dati relativi all’autore, nella forma normalizzata latina e in grassetto, poi il titolo, i dati tipografici e il formato. Nella stringa successiva si forniscono indicazioni relative ai due repertori bibliografici di Copinger (supplementi al repertorio di Hain)49 e Proctor50. Infine, in corsivo e in chiusura della scheda, alcune informazioni relative alla tipologia della legatura.
Di seguito si presenta la scheda recentemente redatta nell’ambito dell’impresa Incunaboli a Montecassino, che sarà presente nel catalogo di prossima pubblicazione51.
36
Biblioteca monastica Paolo Diacono
3C-II-12
1483 [stile veneto, in realtà 1484] febbraio 14, Venezia, Ottaviano Scoto
Bibliografia dell’edizione: Aquilon, Région Centre, 370; Arnoult, Champagne-Ardennes, 798; Badalić, Inkunabule u Hrvatskoj, 542; BMC, V 279; Bod-Inc, H-113; BSB-Ink, V-256; Buffévent, Ile-de-France, 269; Castan, Besançon, 560-561; CCIR, H-36; CIBN, H-126; Copinger, Supplement, 8599*; Finger, Düsseldorf, 543; Girard, Basse-Normandie, 246; Goff, Incunabula, H-206; Gspan - Badalić, Incunabule v Sloveniji, 345; GW, M50888; IBE, 3173; IBPPort, 993; IGI, 4753; Incunaboli a Catania II, 52; ISTC, ih00206000; Li Calsi, Palermo, 487; Madsen, Katalog, 4179; Martín Abad, Catálogo, H-34; Mendes, Catálogo, 689; Mittler - Kind, Göttingen, 1771; Ohly - Sack, Frankfurt am Main, 2987; Pell, Ms, 11713; Polain, Catalogue, 3995; Pr, 4573; Sajó-Soltész, Catalogus, 1695; SI, 1941; Scapecchi, Firenze, 1390; Scardilli - Venezia, Enna, 148; Simáková - Vrchotka, Katalog, 957; Voull (B), 3903, 3; Walsh, Harvard, 1788; Zehnacker, Alsace (Bas-Rhin), 1167.
Bibliografia dell’esemplare: Santinelli Fraschetti - Scaccia Scarafoni, Montecassino, 34 (223).
Pseudo-Girolamo], Vitae sanctorum patrum (cc. b1va-E2rb = 8va-241rb), mutilo della c. a1
Precedono: l’ultima carta della tavola (erroneamente individuata quale c. a1r-v = 1r-v, invece è c. a8r-v), una nota sull’organizzazione del materiale (c. a2ra = 2ra), la tavola (cc. a2ra-a8vb = 2ra-7vb) e il prologo (c. b1ra-va = 8ra-va)
De virtutum laude et effectu (cc. E2vb-F3va = 241vb-250va), preceduto dall’indice dei capitoli (c. E2rb-va = 241rb-va)
Segue il registro (c. F4r = 251r)
(c. F3va = 250va) Impressum Venetiis per Octavianum Scotum Modoetiensem, sextodecimo kalendas Martii MCCCCLXXXIII, Ioanne Mocenico inclyto Venetiarum duce.
Cc. I, 251, I’; in 4°; 234 × 165 = 20 [171] 43 × 16 [57 (5) 57] 30, ll. 47 (c. b2r = 9r); a8 (-a1), b-z8, et8, cum8, rum8, A-E8, F4 = 17, 2-318, 324; coi. loua esge musu (3) 1483 (R); got.; la c. a8 montata erroneamente, in fase di restauro, al posto della c. a1 (qui mancante); spazi riservati per le iniziali; note manoscritte di mani differenti (s. XV/XVI); segni d’attenzione e sottolineature; maniculae (cc. b2ra = 9ra, b3ra = 10ra, 16va = 36va); nota di possesso: Pro p…] duobus a Iohanne Bactista fratris Alberti 1526, penultima iulii, in abatia Sancti Martini in montibus Cimini de Viterbio …] hunc (c. F3va = 250va); timbro in inchiostro nero della Biblioteca privata di Montecassino (cc. [a]1r = 1r, b1r = 8r). Legatura di restauro (245 × 175 × 53 su 235 × 165 × 48), rigida con coperta in piena pelle (s. XIX/XX); decorazione a secco sulla coperta, con filetti e decorazione centrale; autore e titolo impressi a secco sul dorso, decorato con filetti a secco e tre nervi finti in rilievo; capitelli finti in tessuto; cucitura su tre nervi in spago. Carte di guardia costituite da un bifolio anteriore e uno posteriore, aggiunte in fase di restauro, con controguardie incollate appieno. L’esemplare si presenta in buono stato di conservazione, con lieve ossidazione della carta, rare infiltrazioni di umidità; macchie brune di varia natura. Tagli rifilati.
In questo caso, si tratta invece di una scheda molto analitica; il numero in grassetto fa riferimento alla numerazione dell’esemplare all’interno del catalogo, nel quale saranno riportati, in ordine alfabetico dell’istituzione, prima gli esemplari della Biblioteca monastica Paolo Diacono e a seguire gli esemplari della Biblioteca statale annessa al Monumento nazionale di Montecassino; segue quindi l’indicazione della Biblioteca conservatrice e la segnatura di collocazione dell’esemplare (che era assente nel precedente catalogo a stampa).
Successivamente si forniscono i riferimenti bibliografici, in corpo minore, suddivisi in una bibliografia dell’edizione e in una bibliografia dell’esemplare. La bibliografia dell’edizione, lo ricordiamo, non è redatta con intento di esaustività, ma per dare conto, quanto più possibile, delle notizie contenute nei maggiori repertori bibliografici e in cataloghi redatti in tempi più recenti. Seguono la data, il luogo di stampa e il nome del tipografo. Nella stringa successiva si registrano l’autore e il titolo e la suddivisione delle opere contenute nell’edizione, con la consistenza delle carte.
Segue, in corpo nuovamente minore la descrizione delle peculiarità materiali dell’esemplare, con l’indicazione delle maniculae e delle note manoscritte riscontrate, con la loro esatta collocazione nel corpo delle carte, delle note di possesso, dei timbri, infine l’esame accurato della legatura e dello stato di conservazione.
La comparazione delle due schede descrittive riguardanti lo stesso esemplare di una edizione del XV secolo fa senz’altro emergere la differenza di approccio allo studio e alla descrizione degli incunaboli; da una serie di informazioni minime si passa a una serie di informazioni più ampie che riguardano l’apparato bibliografico, il contenuto testuale dell’incunabolo e la materia di cui è fatto l’esemplare. Come si potrà notare da una lettura contestuale delle due schede, l’originale coperta in piena pelle con borchie è stata sostituita negli anni da una legatura di restauro, probabilmente realizzata tra il XIX e il XX secolo; e infine, quelli che mi sembrano più rilevanti come elementi di differenza tra l’una e l’altra scheda, i dati relativi alla misurazione e alla consistenza delle carte, l’indicazione di note manoscritte e la trascrizione della nota di possesso che colloca l’esemplare nel 1525 nell’Abbazia di San Martino al Cimino52, nei pressi di Viterbo.
Quello che mi preme fare emergere è che il nostro modello non si sostituisce (e non intende assolutamente farlo) al modello tradizionale in uso per la descrizione dei libri a stampa del secondo Quattrocento, ma si propone di integrarlo senza far perdere a nessuno dei due modelli la sua specificità. In questi ultimi anni, a partire dal 2015, abbiamo quindi, certamente, assistito al consolidamento di un metodo fatto di esercizio e di insegnamento allo stesso tempo, una pratica attiva sui libri, attraverso la descrizione e il confronto costante tra professionisti con diversa maturità scientifica, differenti sensibilità, diversa provenienza. Negli anni, inoltre, abbiamo visto una espansione dei gruppi di ricerca e l’ampliarsi di una rete di collaborazione tra individui e istituzioni, anche universitarie.
Quali risultati possiamo raggiungere procedendo in questo senso, nel proporre al pubblico degli studiosi uno sguardo diverso sul libro antico, uno sguardo di conciliazione tra manoscritto e libro a stampa53? Ribadisco che, sviluppando un modello descrittivo singolare o originale, non vogliamo distanziarci dalla tradizione incunabolistica nazionale e internazionale, che apprezziamo senz’altro e di cui siamo certamente debitori, ma desideriamo sostenere che la ricerca a cavallo tra la codicologia e la bibliologia, tra la filologia e la storia del libro può essere ancora sperimentata e che certi limiti, non ancora del tutto esplorati, possono essere superati, a favore di progressi nella ricerca stessa.
È indubbio inoltre che un approccio descrittivo come quello appena mostrato amplia la possibilità di un uso degli incunaboli quali fonti storiche nell’ambito di ricerche di vario tipo; è vero infatti che già i singoli progetti hanno permesso di acquisire numerosi dati utili per la ricostruzione di collezioni storiche disperse e hanno fatto emergere dal buio della storia nomi e vicende di collezionisti dimenticati, anche grazie allo studio congiunto di fonti storiche quali inventari, liste di acquisizione, bibliografie e cataloghi, anche d’asta e di antiquari, tutti strumenti che forniscono ulteriori dati per arricchire la ricostruzione della storia degli esemplari, dalla data di stampa ad oggi.
Appare chiaro che, pur essendoci approcci in piccola parte diversi tra loro, dovuti alla formazione e alla personalità dei collaboratori coinvolti nei singoli progetti, il risultato finale dei cataloghi proposti nella collana Incunaboli risulta omogeneo e in grado di fornire sia uno sguardo d’insieme su ciascuna collezione presentata, sia il giusto livello di dettaglio nella descrizione di ogni esemplare.
Per chiudere, ritengo che lavorare esclusivamente ai cataloghi è operazione non completamente fruttuosa: è necessario infatti, a mio avviso, mettere in rete i dati raccolti facendo buon uso delle tecnologie e per questo ritengo fondamentale, dato alle stampe ciascun catalogo, aggiornare i dati presenti in ISTC e in MEI, che alcune volte sono incompleti perché non recentemente aggiornati o per gli eventi specifici occorsi a ciascuna collezione, e procedere rapidamente all’inserimento in rete dei dati contenuti nei nuovi cataloghi54.
Articolo proposto il 27 maggio 2024 e accettato il 20 giugno 2024.
SIMONA INSERRA, Università di Catania, Dipartimento di Scienze umanistiche, e-mail: simona.inserra@unict.it.
Ultima consultazione siti web: 20 maggio 2024.