Leggere in Europa: ieri, oggi, domani

Giorgio Caravale

La storia della lettura è da decenni ormai uno dei campi più fecondi e vitali della ricerca storiografica italiana e internazionale. Gli storici e le storiche hanno imparato da tempo a riflettere sulla lettura come pratica attraverso la quale i testi acquistano valore: un testo esiste nella misura in cui qualcuno se ne appropria attraverso il filtro della propria cultura, formazione e sensibilità. Le modalità di questa appropriazione possono essere le più diverse tra loro. Così come diverse possono essere le forme materiali, oggi diremmo i supporti tecnologici, attraverso i quali i testi vengono offerti in lettura, ciascuna delle forme destinata a sua volta a influenzare il modo in cui i testi vengono recepiti, selezionando dunque il pubblico o i pubblici cui sono indirizzati.
Una ricchissima raccolta di saggi curata da Lodovica Braida e Brigitte Ouvry-Vial per Carocci, Leggere in Europa. Testi, forme, pratiche (Secoli XVIII-XXI)1, fa tesoro delle migliori acquisizioni storiografiche degli ultimi decenni per proporre, a distanza di trent’anni dalla pubblicazione della Storia della lettura nel mondo occidentale2, una storia comune della lettura in Europa a partire dal Settecento fino ad arrivare ai nostri giorni. Le curatrici sono perfettamente consapevoli della difficoltà di individuare punti di convergenza in questa storia centenaria. Gli storici e le storiche che si cimentano con tali temi sono indotti a oscillare costantemente tra due poli estremi. Da una parte c’è la teoria della ricezione che sulla scia di Roger Chartier e Pierre Bourdieu, come accennato sopra, ha insegnato che esistono categorie interpretative e strategie di avvicinamento ai testi condivise da comunità di lettori e lettrici3. Dall’altro l’idea che ogni lettore è un ecosistema a sé, che ogni caso e ogni interpretazione testuale è un caso particolare: qualsiasi lettore legge un testo in un modo diverso, e in certa misura irriducibile, rispetto all’altro. Ogni storia della lettura, questa più recente compresa, deve tenersi in equilibrio tra questi due opposti estremi, bilanciando le ragioni dell’una con quelle dell’altra.
L’intero volume gioca intorno al concetto di rivoluzione, un concetto di per sé ambiguo e discutibile, qui usato ma continuamente messo in discussione alla luce della necessità di tenere all’interno del quadro generale elementi di continuità e frattura. Di rivoluzione si parlò molto una trentina di anni fa, quando uscì il volume di Elizabeth Eisenstein tradotto in italiano con il titolo Le rivoluzione del libro4. Il contenuto del volume non era certo riducibile a una sola tesi ma si enfatizzarono molto gli elementi di novità insiti nell’invenzione della stampa messa in opera da Johann Gutenberg alla metà del ‘400. Molta storiografia è intervenuta negli anni successivi a ridimensionare il carattere rivoluzionario di quell’invenzione, sottolineando piuttosto gli elementi di continuità con l’epoca pre-Gutenberg5. I libri manoscritti, solo per fare un esempio continuarono a circolare per almeno tre secoli dopo la metà del ‘4006.
La seconda rivoluzione, la prima tra quelle evocate nelle pagine del volume curato da Braida e Ouvry-Vial, è quella occorsa tra gli ultimi decenni del ‘700 e i primi dell’800, una rivoluzione segnata dal passaggio dalla lettura ad alta voce alla lettura silenziosa, da una lettura collettiva, caratteristica della prima età moderna, a una lettura individuale, più intima e riflessiva, prodromica quest’ultima alla nascita del romanzo, all’intesa di una trama che non si conosce ancora, sviluppandosi in modi inaspettati laddove invece prima si condividevano ad alta voce riscritture, più o meno fantasiose o fedeli, di storie universalmente conosciute, adattate per l’occasione a contesti e pubblici diversi. All’ancien régime che caratterizza il regime tipografico di fine Settecento si contrappone il passaggio verso la modernità segnato dall’allargamento di un pubblico tenuto insieme dall’idea i lettori e le lettrici sono simili tra loro in ragione dell’universalità dei nostri sentimenti7.
La terza rivoluzione, la seconda seguendo la cadenza del volume, situata tra ‘800 e ‘900, la cosiddetta rivoluzione culturale silenziosa, per usare un termine di Jean-Yves Mollier segnata, a partire dall’inizio della cultura di massa, da investimenti sempre più corposi nel mercato della divulgazione, fenomeni entrambi collegati all’incremento dell’alfabetizzazione favorita dalle leggi sull’obbligatorietà scolastica adottate in Europa nel corso dell’Ottocento.
Infine, terza e ultima, la rivoluzione digitale che rimette seriamente in discussione l’industria editoriale tradizionale, favorendo una sovrapposizione, a volte spiazzante, tra le figure dell’autore, del lettore e del critico letterario. Su questo torneremo più avanti.
I saggi sono introdotti, oltre che dalla vera e propria introduzione delle curatrici, da un denso e utile capitolo scritto dallo stesso Chartier che fornisce le coordinate concettuali attraverso le quali leggere i capitoli seguenti. Lo storico francese ricorda le tappe della formazione di una vera e propria «coscienza tipografica» nei secoli centrali dell’età moderna: la nascita della punteggiatura, l’uso delle lettere maiuscole, l’invenzione di giochi tipografici capaci di condizionare la lettura. Sottolinea naturalmente la centralità della materialità del testo che, a seconda della forma che assume, guida e indirizza la lettura in una direzione piuttosto che un’altra. Un testo esiste nella misura in cui c’è qualcuno che se ne appropria ma le forme cangianti in cui i testi sono offerti in lettura crea pubblici diversi. La lettura poi non è solo lettura di libri a stampa ma include, gli studi degli ultimi venti anni lo hanno definitivamente certificato, anche la lettura di un materiale effimero molto variegato che include pamphlet, avvisi a stampa, preghiere, fogli sciolti animati dai cantastorie di strada8. Chartier lo ricorda puntualmente, così come ricorda i tanti nuovi usi che la scrittura a mano conobbe nei secoli successivi all’invenzione della stampa, a cominciare dagli spazi bianchi delle pagine di almanacchi e altri generi di volumi riempite dalla penna di lettori particolarmente coinvolti dalle storie contenute in quei libri.
Per chi come me arriva alla storia del libro attraverso la storia religiosa e culturale e attraverso le carte degli archivi della repressione, è naturale pensare alla storia della censura libraria e dell’Indice dei libri proibiti come una storia della lettura al negativo. La storia della censura studia i libri percepiti come pericolosi, la modalità con cui i censori leggono determinati testi decretandone o meno la proibizione. La straordinaria documentazione conservata nell’Archivio del Dicastero della dottrina della fede (ADDF), già Archivio della Congregazione per la dottrina della fede (ACDF), aperto agli studiosi e alle studiose solo nel 1998, comprende, oltre alle carte della Congregazione dell’Inquisizione, anche migliaia di faldoni prodotti dalla Congregazione dell’Indice. Questi comprendono pagine e pagine manoscritte che raccontano il modo in cui i censori leggevano i libri, annotandoli al margine, appuntando sui loro fogli i passaggi più pericolosi, confrontandosi con colleghi e conoscenti sull’interpretazione da darne, ipotizzando possibili riscritture, individuando paragrafi da espungere, e via dicendo.
In un libro celeberrimo pubblicato ormai quasi cinquanta anni fa Carlo Ginzburg ha mostrato come la storia della censura e dell’Inquisizione si intrecci a doppio filo con la storia della lettura9. La vicenda di Domenico Scandella detto Menocchio, l’oggetto della sua ricerca, non è altro che la storia di un mugnaio del Cinquecento e dei pochi libri in suo possesso: libri di natura spirituale, allora non proibiti, leggendo i quali egli aveva costruito una cosmogonia del tutto alternativa a quella proposta dalle autorità romane. Gran parte del processo intentato ai suoi danni dall’Inquisizione romana, e dunque gran parte del libro di Ginzburg, verteva sulle «letture sbagliate» di Menocchio, sulle modalità oblique con le quali, filtrando il contenuto di quei pochi testi di natura devozionale attraverso una cultura prevalentemente se non esclusivamente orale, il mugnaio si era formato idee e concezioni altamente sospette se non del tutto eretiche alle orecchie degli inquisitori.
Lettura è anche pericolo, dunque. La lettura smodata viene presto individuata dalle autorità ecclesiastiche come una malattia che associa l’immobilità del corpo all’eccitazione dell’immaginazione: tanto fermo rimane il corpo della lettrice e del lettore durante l’atto della lettura, tanto veloce e fantasiosa scorre invece la loro immaginazione. L’aspetto più pericoloso della lettura, dal punto di vista ecclesiastico, è che azzera i confini tra realtà e finzione, o comunque li riduce drammaticamente, creando immedesimazione ma anche mozioni: nelle pagine di Leggere in Europa viene citata tra gli altri la commossa lettera di Diderot che racconta a Sophie Volland le emozioni procurategli dalla lettura della Clarissa di Samuel Richardson10. Più in generale, secondo la visione apocalittica delle autorità romane del tempo, la lettura genera fraintendimenti e si presta a forme di appropriazione per l’appunto incontrollate. Il caso di Menocchio, citato sopra, è in questo senso emblematico11.
Tra i tanti temi affrontati da questo volume merita sicuramente di essere segnalato quello della traduzione, qui presentata nel saggio di Alessia Castagnino come una nobile operazione di mediazione culturale12. Anche oggi le traduzioni di libri a stampa sono tentativi di adattare il testo a un pubblico diverso da quello per il quale era stato pensato. In un regime fondato sul diritto d’autore, gli editori possono limitarsi a suggerire modifiche o aggiunte testuali, a favorire l’inserimento di una nuova introduzione ad hoc, oppure spingere per l’adozione di un titolo che meglio favorisca la ricezione di quel libro. Nell’antico regime tipografico, un regime nel quale il libro godeva di uno statuto fragile, la traduzione assumeva forme molto più aggressive e manipolatorie. In molti casi la manipolazione testuale cui i traduttori sottoposero i testi loro affidati assunse le forme di una censura volta a evitare, dunque a prevenire, l’intervento delle autorità censorie. Si trattò di una censura preventiva spontanea, volontaria, raramente sollecitata o diretta dall’alto, differente dalla censura preventiva formale o ufficiale perché il suo esplicito intento era quello di favorire la pubblicazione e il successo editoriale dell’opera, mai quello di impedirne o ostacolarne la circolazione. In alcuni casi il traduttore si limitò a omettere alcune pagine o capitoli che reputava inopportuni; in altri si avventurò in una riscrittura del testo per meglio adattarlo ai canoni letterari e soprattutto ai dettami culturali del tempo: più spesso ancora operò un sapiente intreccio di tagli, aggiunte e riscritture13. Ma la traduzione poteva essere anche un mezzo per confutare il testo che si andava traducendo. In questo caso si escogitavano diversi espedienti per smentire il contenuto del libro che si stava traducendo, per esempio attraverso l’uso delle note a pie’ di pagina inserite, nel caso menzionato da Castagnino, dai curatori e dai traduttori dei testi giansenisti nella seconda metà del ‘70014.
Altro grande tema affrontato dal libro è quello dell’uso politico del passato da parte del potere politico. La storia è stata sempre utilizzata dalle autorità politiche per legittimare la propria autorità. «Chi controlla il passato controlla il futuro», scrisse George Orwell in uno dei suoi più celebri romanzi15. Sin dall’antichità imperatori, principi e condottieri militari hanno posto grande attenzione alla narrazione delle vicende storiche, specie le più recenti nel tempo. Controllare la storia delle proprie gesta era uno degli strumenti più efficaci per perpetuare il proprio potere personale. Qui in particolare il tema viene trattato attraverso il caso della Cecoslovacchia stalinista del secondo dopoguerra, dove i classici nazionali sono presentati come precursori della rivoluzione comunista, con l’effetto di creare due memorie nazionali in conflitto tra loro, una di stampo comunista per l’appunto, l’altra rimasta affezionata alla rilettura di quegli stessi testi letterari come fondatori degli ideali democratici coltivati in Cecoslovacchia tra le due guerre mondiali del ‘90016.
Il saggio di Lodovica Braida conduce il lettore per mano in pagine di storia comparata che spaziano dall’editoria inglese del ‘700 alle città tedesche dell’età della Riforma. Si tratta di pagine che riprendono e sviluppano molti dei temi conduttori del volume, dal rapporto tra cultura manoscritta e cultura a stampa fino al legame tra lettura e scrittura. Braida ricostruisce le vicende degli almanacchi, calendari ricchi di informazioni astrologiche, astronomiche, geografiche e agresti, un genere ibrido che prevedeva in modo programmatico l’intreccio tra lettura e scrittura: basti pensare alla circostanza che spesso l’almanacco veniva venduto insieme a una matita pronta per l’uso. Così dunque i molti fogli bianchi sparsi nelle pagine del calendario si riempirono di tracce manoscritte contribuendo, nel lungo periodo, alla lenta e graduale trasformazione degli almanacchi stessi in agende personali. L’abitudine era quella di concepire questi fogli come archivi del passato, luoghi della memoria in cui segnare gli eventi della storia personale e collettiva, piuttosto che ricordare appuntamenti del futuro. I mercanti li usavano per segnare perdite e guadagni o per controllare le date dei loro incontri passati. Altri lettori e altre lettrici li usavano per appuntare fatti di cronaca, o come rubrica di indirizzi utili, o ancora come deposito di informazioni utili alla vita quotidiana. Altri segnavano su questi almanacchi eventi della propria vita, battesimi, matrimoni, morti, malattie. Solo con il passare dei secoli, e in modo molto graduale per l’appunto, si consolidò l’abitudine di usare i calendari per segnare eventi destinati a verificarsi nel futuro, prossimo o meno prossimo17.
Oltre a ricostruire tappe importanti della storia della lettura in Europa, il volume curato da Braida e Ouvry-Vial ci fa anche riflettere sugli scenari futuri che riguardano la storia del libro. Un saggio in particolare, quello di Gerhard Lauer, riflette sui modi in cui la lettura sta oggi mutando e suscita una serie di riflessioni sulle sfide presenti e future che il libro dovrà affrontare18.
La stagione del diritto d’autore sarà ricordata come una parentesi nella storia dell’editoria, un breve seppur importante capitolo della centenaria vicenda del libro a stampa? Il dubbio sorge spontaneo di fronte a fenomeni come quello di Wattpad.com, una piattaforma canadese menzionata da Lauer su cui migliaia di utenti spendono centinaia di milioni di ore commentando, leggendo, scrivendo e riscrivendo centinaia di migliaia di storie in decine di lingue diverse. Fino alla seconda metà dell’Ottocento, fino a quando cioè in Italia non furono adottate le norme relative al diritto d’autore già varate alla fine del Settecento in Francia, e ancor prima in Inghilterra il libro godeva di uno statuto molto fragile. Quando l’autore consegnava il suo manoscritto allo stampatore perdeva qualsiasi forma di controllo sul testo. Quest’ultimo, per suo conto, poteva godere di un privilegio di stampa rilasciato dalle autorità di governo, una forma di tutela che proteggeva il suo investimento economico impedendo ad altri di ristampare il medesimo testo per un certo numero di anni. Almeno in teoria. Già, perché nella pratica, era sufficiente varcare i confini di uno stato attiguo, allora la penisola italiana era divisa in una miriade di piccoli stati indipendenti l’uno dall’altro, affinché la tutela di quel privilegio di stampa non avesse più alcun valore legale. Alternativamente, era sufficiente modificare una singola pagina, addirittura un solo paragrafo, per sostenere con buone ragioni di aver stampato un libro diverso dall’originale. Privo di diritto d’autore, dunque, protetto solo da qualche parziale forma di tutela commerciale, il testo a stampa era un oggetto alla mercé di uomini di cultura e d’affari, un manufatto che poteva essere ristampato, riscritto, plagiato, modificato senza che nessuno opponesse alcuna resistenza, tantomeno il suo autore. Di qui una profluvie di ristampe, adattamenti, traduzioni, florilegi, liberamente tratti dai libri a stampa più popolari del tempo, che alimentava il mercato editoriale del cosiddetto antico regime. La pirateria editoriale trionfava ovunque, in Italia come in Europa, e gli autori stessi provavano a sfruttare la fragilità di statuto del libro. Molti di loro continuarono a considerare il libro a stampa esattamente negli stessi termini in cui concepivano il libro manoscritto: un testo la cui pubblicazione non era altro che un passaggio intermedio e provvisorio di un percorso intellettuale ed editoriale ben più lungo e fecondo, un testo sulla base del quale continuare a riflettere aggiungendo, sottraendo, modificando.
Il Dulce bellum inexpertis di Erasmo da Rotterdam, per esempio, testo tra i più rilevanti dell’irenismo cinquecentesco, venne progressivamente crescendo sotto l’impulso della meditazione personale dell’autore. La prima versione, contenuta nell’edizione manuziana degli Adagia (1508), era brevissima: contava cinque sole righe, e tale restò nelle successive edizioni fino a quella pubblicata dallo stampatore basileese Froben nel 1515, allorquando crebbe fino a raggiungere l’ampiezza di mille righe. Anche negli anni successivi Erasmo tornò su quel testo: diverse aggiunte comparvero nelle due successive edizioni frobeniane del 1523 (contro i nobili e contro i monaci) e del 1526 (contro i preti politicanti e contro gli scolastici). Solo a questa data l’adagio poté dirsi definitivamente compiuto, in tal forma poi definitivamente consacrato nell’edizione del 153619.
Lo stesso avvenne con uno dei testi più celebri dell’Illuminismo europeo come l’Encyclopédie di Diderot, la cui edizione più diffusa nella Francia del Settecento conteneva centinaia di pagine che non comparivano nell’edizione originale: persino Voltaire considerò l’Encyclopédie così imperfetta e incompiuta che pensò alla sua ultima grande opera, Questions sur l’Encyclopédie, come a un sequel di nove volumi all’Encyclopédie stessa20.
Spesso furono gli autori stessi ad approfittare dell’assenza di copyright per ottenere la massima diffusione possibile del loro testo. Ci fu chi arrivò a vendere il medesimo scritto con titoli differenti a due o tre editori, e chi ripubblicò le proprie opere con stampatori diversi e in luoghi diversi, semplicemente aggiungendo qualche piccolo brano o cambiando la lettera prefatoria. Lo stesso Erasmo fu più volte esortato dallo stampatore fiammingo Josse Bade a limitare le ristampe dei suoi scritti. Una nuova, ravvicinata edizione, in tutto e per tutto simile alla precedente, o contenente più o meno rilevanti modifiche, rischiava di costringere lo stampatore «ufficiale» a gettare al macero l’intera tiratura. Come gli ricordò Bade, «la sua reputazione tra i colleghi è tale che se lei annuncia un’edizione rivista di una qualsiasi delle sue opere, anche se non ha aggiunto nulla di nuovo, essi penseranno immediatamente che la vecchia edizione sia priva di valore». In fondo, era la logica stessa del mercato editoriale a ispirare simili operazioni. Invece di essere prodotti in enormi quantità da un singolo editore, i best-seller venivano stampati simultaneamente in tante edizioni a bassa tiratura da molti editori, ognuno dei quali cercava di ricavare il massimo da un mercato del libro libero, appunto, da diritto d’autore. Non potendo rivendicare alcun diritto su ciò che avevano scritto, non aspettando dunque alcun tornaconto economico dalla loro attività intellettuale, gli autori non potevano che gioire della proliferazione di nuove edizioni e ristampe delle loro opere, accogliendola come l’ennesima conferma del proprio successo21.
La cultura del libro a stampa, esattamente come quella del testo manoscritto, fu dunque a tutti gli effetti una cultura della correzione che vide all’opera tanti attori del mondo librario, tutti intenti a modificare, manipolare, ripensare testi già stampati o in procinto di essere pubblicati, per presentarli infine al pubblico dei lettori in una veste a loro avviso più consona allo spirito dei tempi o, più semplicemente, alle loro personali inclinazioni, o ancora alle prospettive di vendita e circolazione che quella versione sembrava garantire22.
Oggi siamo molto più vicini a quella cultura della correzione di quanto non fossimo solo vent’anni fa. E il libro sembra tornato alla fragilità di statuto che lo ha caratterizzato nei primi tre secoli della sua esistenza. I più moderni strumenti tecnologici di comunicazione favoriscono l’affermazione di un processo collettivo di creazione letteraria e artistica che tende a sostituire la tradizionale figura del singolo autore, attribuendo all’opera un carattere permanentemente provvisorio e incompiuto, svilendo dunque in modo consapevole l’idea di copyright. Attraverso piattaforme come Wattpad.com i testi, vere e proprie storie romanzate, vengono condivisi in forma libera e gratuita dagli utenti, per essere poi successivamente modificati, rimaneggiati, riscritti da centinaia di lettori pronti a contribuire alla loro rielaborazione, a riscrivere per l’appunto, e a commentare. Questo processo di condivisione implica, diversamente da quanto accadeva durante l’antico regime della cultura libraria, una confusa ma fruttuosa sovrapposizione tra le figure del lettore, dello scrittore e del critico. Chi condivide le proprie storie si ferma a commentare criticamente le altre, chi legge aggiunge frasi o pagine di proprio pugno. Qui la letteratura viene letta, scritta e discussa criticamente senza sosta. E non si tratta di poche decine di utenti. Nell’agosto 2019, per rimanere ai dati della piattaforma canadese Wattpad.com, 980 milioni di persone, per lo più giovani, hanno trascorso circa 250 milioni di ore su questa piattaforma e ogni giorno hanno scambiato letto o scritto circa 100 mila storie in 50 lingue diverse: sono i lettori intensivi e gli autori giovani e assidui di cui i critici culturali e gli statistici deplorano l’assenza23.
La sfida al diritto d’autore non è però certo l’unica che l’industria editoriale deve fronteggiare oggi. Il rapido sviluppo dei sistemi di intelligenza artificiale creativa e generativa sta mettendo radicalmente in crisi l’intero universo della traduzione. Traduttori e traduttrici rischiano di vedere le loro competenze superate dal rapido processo di apprendimento di software sempre più sofisticati. E presto potremmo trovarci sui banchi delle libreria romanzi interamente scritti da ChatGPT & Company: con una radicale ridefinizione, anche in questo caso, della questione del diritto d’autore.
L’altra grande sfida alla quale dovrà fare fronte l’industria editoriale tradizionale è quella del self-publishing, un’industria mossa da logiche completamente nuove, alimentata dal narcisismo dei lettori, ciascuno dei quali ambisce a essere egli stesso autore di un libro quale che sia, e sostenuta da un mondo della critica in profonda evoluzione. Dal vecchio modello verticale e gerarchico delle poche e autorevolissime recensioni pubblicate sui grandi quotidiani nazionali o sulle principali riviste letterarie si sta lentamente ma inesorabilmente transitando verso un mondo segnato dalla disordinata orizzontalità delle recensioni fai da te, quelle pubblicate su Amazon da lettori e amatori, tanto per intenderci, segnalazioni che prediligono il registro dell’empatia quale metro supremo di valutazione, assimilando indirettamente il libro a un ristorante o a un hotel commentato su Tripadvisor («mi piace, mi ha fatto commuovere, si legge velocemente»).
Il sorprendente, recentissimo, successo del libro del generale Roberto Vannacci, Il mondo al contrario, prima auto-pubblicato tramite Kindle Direct Publishing poi riedito da Il Cerchio dopo il boom di vendite, un caso da 240 mila copie in pochi mesi (200 mila nella versione fai-da-te e 40 mila nell’edizione Il Cerchio)24, è solo la punta dell’iceberg di un universo in piena ebollizione. Al di là del contenuto più che discutibile del volume, un campionario di luoghi comuni sessisti e razzisti appena temperati da una postura populista, il caso Vannacci impone due ordini di riflessioni. Per quali ragioni un autore dovrebbe preferire pubblicare con un editore tradizionale disposto ad accordargli una cifra corrispondente al 7-10% del prezzo di copertina rispetto a una piattaforma di self-publishing che gli garantisce il 60-70%? In ragione del prestigio e della tradizione della casa editrice, della visibilità e della rete di contatti da essa assicurata, si dirà: in nome, insomma, dell’affidabilità e della rispettabilità garantita da un editore referenziato. Le nuove generazioni di autrici e autori però non ragionano con le medesime categorie mentali. Quanto potrà durare il sistema reputazionale del sistema editoriale tradizionale di fronte a un cambiamento, non sappiamo quanto repentino e duraturo, delle fonti di legittimazione del libro? Quando le segnalazioni empatiche delle lettrici e dei  lettori oppure un breve video di un/una booktoker conteranno infinitamente più, in termini di influenza delle vendite, di una pagina di un qualsiasi critico su qualche quotidiano nazionale, quando insomma la legittimazione di un prodotto editoriale agli occhi del pubblico giungerà attraverso canali completamente nuovi. Sono domande alle quali non siamo in grado di rispondere, legate peraltro a fenomeni dei quali non possiamo prevedere la durata e la profondità, che tuttavia fanno riflettere sui mutamenti in corso.
Nel frattempo, mentre iniziamo a intonare anzitempo il de prufundis di un mondo che forse non esisterà più forse invece resisterà molto più a lungo di quanto alcuni segnali lascerebbero intuire, possiamo rallegrarci che il libro, inteso come oggetto e simbolo, è oggi in splendida forma. Tutti, o quasi, mi riferisco alle donne e agli uomini del mondo dello spettacolo, dello sport, della politica, delle professioni, vogliono pubblicare un libro. Il libro pubblicato è uno status symbol, qualcosa che certifica la notorietà, la dimensione pubblica della propria reputazione, qualcosa cui tutti, da qualsiasi ambito professionale provengano, ambiscono. E questa, al di là dell’istinto elitario che ci indurrebbe a difendere il libro come veicolo di una cultura esclusivamente alta, è probabilmente la notizia migliore tra quelle sin qui raccontate.
Riflettendo sulle abitudini intellettuali degli italiani, alla metà del secolo scorso Luciano Bianciardi, noto scrittore e critico televisivo, scrisse che nel nostro paese «moltissimi scrivono e pochissimi leggono»25. Oltre cento anni prima, in termini molto simili, Giacomo Leopardi aveva sottolineato che nella penisola italiana erano «più di numero gli scrittori che i lettori»26. È probabile che questa nuova ondata di scrittori non professionisti, influencer, sportivi, showmen e showgirl, spesso coadiuvati da eserciti di ghostwriter, questi sì professionisti, non facciano che rafforzare le impressioni che Leopardi e Bianciardi avevano espresso tempi addietro.
Si legge poco e, spesso, si legge per scrivere. Questa però è un’altra storia. A meno che, grazie a piattaforme come wattpad.com, la scrittura e la lettura non rimangano più due atti separati seppur collegati tra di loro, ma arrivino a coincidere fino quasi a sovrapporsi. Sarebbe un capitolo tutto vecchio e allo stesso tempo tutto nuovo nella storia della cultura scritta.

Articolo proposto il 31 maggio 2024 e accettato il 7 giugno 2024.


Note

Giorgio Caravale, Università Roma Tre, giorgio.caravale@uniroma3.it
Ultima consultazione siti web: 07 giugno 2024

1 Lodovica Braida; Brigitte Ouvry-Vial, Leggere in Europa. Testi, forme, pratiche (Secoli XVIII-XXI). Roma: Carocci, 2023.
2 Curata da Roger Chartier e Guglielmo Cavallo per Laterza nel 1995. Cfr. Storia della lettura nel mondo occidentale, a cura di Roger Chartier e Guglielmo Cavallo. Roma; Bari: Laterza, 1995.
3 Pierre Bourdieu, ‘Censure et mise en forme’, in Id., Ce que parler veut dire. L’économie des échanges linguistiques. Paris: Fayard, 1982, p. 167-205; Roger Chartier, L’ordine dei libri. Milano: Il saggiatore, 1994.
4 Elizabeth L. Eistenstein, Le rivoluzioni del libro: l’invenzione della stampa e la nascita del mondo moderno. Bologna: Il mulino, 1995.
5 Cfr. tra gli altri il saggio di Anthony Grafton, The Importance of Being Printed, «Journal of Interdisciplinary History», 11 (1980), n. 2, p. 265-286.
6 Cfr. Giorgio Caravale, Libri pericolosi. Censura e cultura italiana in età moderna. Roma; Bari: Laterza, 2022, p. 302-313.
7 Su questo l’autore del saggio rinvia naturalmente a Lynn Hunt, La forza dell’empatia. Una storia dei diritti dell’uomo. Roma; Bari: Laterza, 2018.
8 Su questi temi vedi il recente Rosa Salzberg, La città di carta. Stampa effimera e cultura urbana nella Venezia del Rinascimento. Roma: Officina libraria, 2023.
9 Il riferimento è naturalmente a Carlo Ginzburg, Il formaggio e i vermi. Torino: Einaudi, 1976, ristampato recentemente da Adelphi con una nuova prefazione dell’autore (Milano, 2020).
10 L. Braida; B. Ouvry-Vial, Leggere in Europa cit., 43-44.
11 Sul tema della immaginazione e del presunto azzeramento dei confini tra realtà e finzione mi permetto di rinviare a G. Caravale, Libri pericolosi cit., p. 149-154.
12 Alessia Castagnino, Il “bisogno di traduzione”. Lettori, editori e strategia di traduzione nell’Italia del XVIII secolo. In: L. Braida; B. Ouvry-Vial, Leggere in Europa cit., p. 141-164.
13 G. Caravale, Libri pericolosi cit., p. 231.
14 L. Braida; B. Ouvry-Vial, Leggere in Europa cit.,  p. 153-154.
15 George Orwell, 1984. Milano: Mondadori, 2011, p. 276.
16 Roar Lishaugen, «‘La loro opera’ ci insegna a guardare correttamente al nostro passato». La lettura di massa dei classici nazionali nella Cecoslovacchia stalinista. In: L. Braida; B. Ouvry-Vial, Leggere in Europa cit., p. 377-390.
17 Ludovica Braida, Libri “ibridi” per leggere, scrivere e organizzare il tempo. Almanacchi-agenda e memorandum books nel Settecento. In: L. Braida; B. Ouvry-Vial, Leggere in Europa cit., p. 299-322.
18 Gerhard Lauer, La lettura nell’era digitale o la fine dell’editoria letteraria che abbiamo conosciuto. In: L. Braida; B. Ouvry-Vial, Leggere in Europa cit., p. 113-139.
19 Su queste vicende editoriali mi permetto di rinviare al mio G. Caravale, Libri pericolosi cit., p. 21-22.
20 Ibidem.
21 Ibidem, p. 22.
22 L’espressione cultura della correzione è presa in prestito da Anthony Grafton, The Culture of Correction in Renaissance Europe. London: British Library, 2011.
23 Lauer, La lettura nell’era digitale, p. 113.
24 R. Vannacci, Il mondo al contrario, Kindle Direct Publishing, 2023; Id., Il mondo al contrario, Il Cerchio, 2023.
25 Luciano Bianciardi, Il lavoro culturale. Milano: Feltrinelli, 2018, p. 67.
26 Giacomo Leopardi, Zibaldone di pensieri, 5 febbraio 1828 cit. in Libri per tutti. Generi editoriali di larga circolazione tra antico regime ed età contemporanea, a cura di Ludovica Braida, Mario Infelise. Torino: UTET, 2010, p. 8.