Una mappa topica per la professione: l'atlante di R. David Lankes

di Anna Galluzzi

R. David Lankes, The atlas of new librarianship. Cambridge, MA: MIT, 2011. ISBN 978-0-262-01509-7

David Lankes è professore di biblioteconomia alla School of Information Studies della Syracuse University (NY), nonché direttore dell'Information Institute presso la medesima Scuola. È noto da tempo anche ai bibliotecari italiani per la sua teoria sulle biblioteche come conversazione di cui quest'ultima fatica editoriale è di fatto il compimento.
Chi ha avuto l'opportunità di ascoltare Lankes in occasioni convegnistiche sa che si tratta di un oratore appassionato, capace di creare entusiasmi e di tenere sempre viva l'attenzione del pubblico grazie all'originalità con cui esprime il proprio pensiero e al forte impatto retorico del suo eloquio. A proposito dell'uso della retorica, in The atlas of new librarianship Lankes previene le possibili critiche a questo suo approccio linguistico e concettuale precisando - nelle pagine introduttive del volume- che la retorica è uno strumento ch'egli utilizza volentieri quando parla di argomenti che lo coinvolgono particolarmente. Si deve del resto ricordare che Lankes ha dalla sua parte anche una tradizione accademica americana che, al contrario di quella italiana, si caratterizza per un elevato tasso di informalità e l'assenza di qualunque remora "a pensare in grande" e a mescolare scientificità e passione "politica".

Così, in questo caso, ci troviamo di fronte non a una introduzione, a un manuale, a un corso di biblioteconomia, bensì a "una combinazione di mappa topica, teoria accademica, esempio pratico, argomenti persuasivi, libro di testo e sermone motivazionale" (p. 3), un atlante (come esplicita il titolo del volume) che di questa tipologia bibliografica ha anche l'aspetto formale, nonché l'allegato cartografico. E l'oggetto di questo atlante non è semplicemente la biblioteconomia, bensì la new librarianship, espressione che sottolinea l'intento di Lankes di rifondare su nuove basi la teoria biblioteconomica.
Andrebbe sottolineato a questo proposito che è certamente voluta la scelta di Lankes di utilizzare il termine librarianship piuttosto che library and information science che negli ultimi anni ha riscosso maggiori consensi nel mondo accademico angloamericano. Infatti, pur non trascurando di analizzare i rapporti e i punti di contatto della librarianship con i settori disciplinari dell'information and communication science, Lankes sceglie volutamente un'espressione antica la cui etimologia pone al centro il bibliotecario e le sue competenze, piuttosto che la biblioteca e la gestione della stessa e dei contenuti informativi.

Questa scelta, che tra l'altro si ricollega direttamente alle radici della tradizione biblioteconomica angloamericana, non fa che sottolineare fin da subito la distanza concettuale e culturale da una realtà italiana in cui il bibliotecario non è mai stato al centro della disciplina, da sempre denominata biblioteconomia e dunque focalizzata sulla struttura "biblioteca" e sul suo funzionamento, come già ricordava Serrai in apertura del suo volume Guida alla biblioteconomia (Firenze: Sansoni, 1981)1.
Per affrontare correttamente la lettura di The atlas of new librarianship, è necessario essere consapevoli del fatto che il suo contenuto principale è proprio la mappa concettuale (o topica che dir si voglia) allegata al volume. In questa mappa, a partire dal presupposto che «la missione dei bibliotecari consiste nel migliorare la società facilitando la creazione della conoscenza nelle loro comunità di riferimento», si illustrano tutte le implicazioni e sotto-implicazioni che ne discendono.
Tenendola in mano, diventa più facile comprendere la struttura del volume che si articola in sei capitoli principali, corrispondenti a sei tematiche fondamentali (quelle che Lankes chiama threads) che vanno a costituire il presupposto succitato: Mission, Knowledge creation, Facilitating, Communities, Improve society e Librarians. L'analisi dei threads non esaurisce i contenuti del volume, pur costituendone la parte principale; infatti, nei cosiddetti agreement supplements Lankes (coadiuvato da altri autori) analizza tutte le relazioni concettuali secondarie (quelle che l'autore chiama appunto agreements) che non sono state compiutamente spiegate nella presentazione dei threads, facendo da indice al volume, ma anche offrendo spunti di riflessione in forma di domande aperte e approfondimenti bibliografici con annotazioni esplicative (sotto l'etichetta di Related artifacts). Su questi Supplements va detto che, essendo la scrittura in parte affidata ad altri autori, il livello di approfondimento, nonché il grado di coerenza con la prima parte del volume sono piuttosto variabili. Ad alcune voci di grande qualità e chiarezza, come quella sul costruttivismo (scritta da Jocelyn Clark), quella sulla learning theory (scritta da Angela Usha Ramnarine-Rieks), o ancora quella sulla scuola (scritta da Buffy Hamilton) se ne affiancano altre un po' ridondanti rispetto ai contenuti già sviluppati (in particolare quelle scritte dallo stesso Lankes), ovvero non in linea con alcuni dei punti di vista espressi nella prima parte dell'opera.

Ciascuna sezione in cui si articola il volume è preceduta dalla riproposizione grafica di quella parte della mappa topica che ne è oggetto specifico, con le coordinate che ne permettono la precisa individuazione all'interno della mappa complessiva.
Spostandosi ai contenuti concettuali, la tesi principale sostenuta da Lankes nel corso dell'intero volume è che sia necessaria una rifondazione ontologica della biblioteconomia basata su un corretto posizionamento delle biblioteche e dei bibliotecari, il cui ruolo non è incentrato sull'oggetto libro, né su qualunque altro tipo di supporto o di tecnologia dovesse diventare vettore di contenuti (quelli che Lankes chiama artifacts), bensì sulla capacità dei bibliotecari di continuare a svolgere il ruolo di facilitatori del processo di creazione della conoscenza in un contesto di apprendimento partecipativo. In buona sostanza, secondo Lankes i bibliotecari (e coloro che stanno seguendo percorsi formativi per l'ingresso in questa professione) dovrebbero far propria «una visione del mondo che non sia incentrata sugli artefatti, ma sulle persone», in quanto le comunità costituiscono la vera collection che i bibliotecari hanno il compito di sviluppare e preservare nel tempo. La domanda che Lankes invita i bibliotecari a porsi è: «how artifact-centric is your worldview?»2.

Per sostenere questa tesi Lankes utilizza teorie (non solo la conversation theory, ma anche le teorie della creazione di senso, quelle motivazionali, quelle sull'apprendimento, in particolare la costruttivista, e così via), esempi e provocazioni, che tutti insieme fanno del volume una lettura stimolante, nonché inevitabilmente controversa. Usando un termine inglese che in questa circostanza trovo molto appropriato, si potrebbe dire che l'opera di Lankes è overwhelming, e di questo termine porta con sé sia l'accezione positiva di "travolgente" ed "entusiasmante", sia quella negativa di "sovrabbondante" e "schiacciante". L'intento di ripensare ex novo l'intero ambito della biblioteconomia rifondandola sul principio della conoscenza come conversazione quasi azzera il mondo bibliotecario come lo conoscevamo, cosicché il vuoto lasciato dall'interpretazione tradizionale delle funzioni bibliotecarie viene colmato da una proposta alternativa che - con tutta evidenza - è convincente su alcuni fronti, mentre risulta debole, lacunosa e contraddittoria su altri.
A dirla tutta, Lankes, dichiarandosi aperto proprio a quella conversazione che è il principio fondante del suo pensiero (tanto che per continuare la conversazione dopo la pubblicazione del volume ha aperto un blog ad esso dedicato: http://www.newlibrarianship.org/wordpress/, già nel libro anticipa e risponde alla maggior parte delle critiche che gli potrebbero essere mosse, spiegando e motivando il suo ragionamento. Mi ha colpito in particolare l'affermazione che il suo libro è volutamente "ambiguo"; secondo Lankes, infatti, scegliere una via prescrittiva e dare definizione e compiutezza a tutte le policies e contenuti dell'attività del bibliotecario congelerebbe qualunque spinta creativa e apertura al nuovo, che soltanto l'ambiguità può invece aiutare a vedere. Certo, dall'altro lato, il rischio che, nell'assenza di una consapevolezza profonda, l'ambiguità lasci spazio all'improvvisazione resta molto alto.

Tornando ai contenuti, il presupposto fondamentale del lavoro di Lankes è l'idea che il concetto di recorded knowledge costituisca un ossimoro, dal momento che, secondo le più accreditate teorie dell'apprendimento, la conoscenza è un processo che si realizza attraverso la conversazione: tale conversazione può avvenire nella testa del singolo individuo, il quale mette in relazione quanto legge, vede, acquisisce con quanto già conosce (cioè quello che ha ritenuto nella sua memoria), costruendo nuove acquisizioni e convincimenti personali (i cosiddetti agreements), ovvero tra due o più soggetti (singoli o collettivi) che si confrontano e si scambiano informazioni e punti di vista fino a giungere a nuovi posizioni di accordo o disaccordo.

Da questo presupposto discendono per Lankes numerose conseguenze:
- il ruolo del bibliotecario è facilitare l'apprendimento informale (quindi al di fuori dei canali di apprendimento formale, come le aule scolastiche e universitarie);
- per farlo il bibliotecario deve prendere parte attiva alla conversazione attraverso cui avviene il processo dell'apprendimento ovvero creare le condizioni per facilitare e/o potenziare tale conversazione; da ciò deriva il concetto di embedded librarian (ossia un bibliotecario che persegue le sue finalità non necessariamente agganciato a una biblioteca, ma all'interno dei contesti dove si svolgono le conversazioni, diventando così parte dei flussi informativi, non un canale parallelo o alternativo), una proposta tanto originale, quanto interessante, dal momento che separa il destino dei bibliotecari da quello delle biblioteche;
- strumenti e funzioni del bibliotecario sono consequenziali al ruolo di facilitatore e possono cambiare nel tempo, ovvero le soluzioni del passato- spesso condizionate dai limiti tecnologici e dalla scarsa disponibilità dell'informazione - non necessariamente sono le migliori nel presente o lo saranno nel futuro e dunque, anche lì dove abbiano alle spalle tradizioni molto consolidate e siano entrate nel bagaglio irrinunciabile di qualunque bibliotecario, vanno messe in discussione e nel caso ripensate completamente, dalla catalogazione al reference, dalla classificazione alla valutazione, dai sistemi di automazione all'uso degli spazi ecc.;
- infine, il ruolo di facilitatore può essere esercitato dal bibliotecario in maniera tanto più efficace quanto più vengono offerte alle comunità di riferimento ampie possibilità di partecipazione, rispondendo contemporaneamente a due tendenze emerse in tempi recenti e destinate a diventare ancora più rilevanti nel futuro: la crescita esponenziale dei dati e delle informazioni e la componente sociale dell'apprendimento (supportata dall'evoluzione della rete in senso 2.0).

In sintesi, secondo Lankes, se «Carnegie costruiva biblioteche per promuovere la democrazia, noi costruiamo bibliotecari per promuovere la knowledge-based society» (p. 29).
Rispetto all'approccio prevalente nel dibattito biblioteconomico italiano, è certamente rivoluzionario il fatto che Lankes non si interroghi tanto sul futuro delle biblioteche - di cui a suo avviso dobbiamo essere pronti anche ad accettare il declino in quanto strutture fisiche - bensì sui modi nuovi in cui i bibliotecari possono continuare a rispondere alla mission della professione, quella che secondo l'autore non è mai cambiata né è destinata a cambiare, perché sempre le comunità avranno bisogno di bibliotecari che facilitino l'accesso e l'acquisizione di quella conoscenza che è strumento essenziale di gestione della complessità e di preservazione dell'autonomia individuale. Diventare cruciali in questo processo è l'unica condizione per garantire futuro alla professione: non basta l'amore per le biblioteche, non basta una visione romantica delle stesse, è addirittura controproducente considerare la biblioteca come il cuore della comunità; piuttosto, dice Lankes, dovremmo diventarne il "sistema di circolazione". In buona sostanza, i bibliotecari- anche attraverso le strutture bibliotecarie- devono garantire alle loro comunità l'accesso al mondo esterno e fare in modo che il mondo esterno possa accedere alle comunità stesse.

Di spunti di riflessione capaci di sviluppare ciascuno un dibattito ce ne sono numerosi nel volume; mi limiterò a richiamarne qualcuno:
- secondo Lankes, non serve cambiare i termini "biblioteca" e "bibliotecario" semplicemente per dare una veste nuova a qualcosa di vecchio; bisogna piuttosto lavorare per cambiare l'associazione mentale che questi termini producono nella testa delle persone;
- al contempo, però, è necessario riconoscere - anche attraverso un diverso uso linguistico - il ruolo dei componenti delle comunità di riferimento, non chiamandoli più utenti o clienti o lettori (o patrons), bensì members, e diventare consapevoli che siamo noi ad essere remoti rispetto ai membri delle nostre comunità di riferimento, e non viceversa, e che sta a loro lasciarci o meno partecipare ai loro processi di apprendimento;
- i confini delle comunità di riferimento per i bibliotecari variano in relazione agli interessi dei membri che le compongono e non possono essere definiti in maniera rigida o fissa;
- il processo di costruzione di senso che la biblioteconomia e il bibliotecario perseguono a vantaggio delle loro comunità fa sì che non ci si possa sottrarre alla necessità dell'interdisciplinarità e al confronto con altre professionalità; è l'insicurezza rispetto alla propria professionalità che porta a tracciare confini rigidi intorno a sé;
- parallelamente, sarebbe necessario un ripensamento delle tipologie bibliotecarie, o meglio bisognerebbe superare gli steccati che la specializzazione bibliotecaria ha creato, riconoscendo che il mondo non è segmentato come noi lo immaginiamo e lo vogliamo e che le nostre comunità non si conformano agli standard dell'essere biblioteca pubblica o accademica così come definiti dai bibliotecari;
- è necessario togliere enfasi dalla biblioteca come magazzino, dal catalogo come inventario e dalla conservazione come collezionismo: in merito agli spazi fisici, Lankes sottolinea la profonda differenza tra spazio pubblico e civico, dove uno spazio pubblico è uno spazio aperto, che non appartiene di fatto a nessuno e di cui ognuno può fare l'uso che ritiene, mentre uno spazio civico è uno spazio il cui uso è regolato per conto di un pubblico, di una comunità. In pratica, lo spazio fisico (e quello virtuale) di una biblioteca devono essere ripensati come "terreni di gioco", in cui esistono dei giocatori (la comunità), degli allenatori (i bibliotecari), delle regole di gioco (i modi per facilitare le conversazioni) e un pubblico (il mondo esterno). Nella stessa ottica vanno ripensati strumenti e servizi come il catalogo o il reference, non spazi per fornire informazioni (per di più grezze e avulse dal contesto), bensì per costruire, descrivere, conservare e mettere a disposizione di altri i threads e gli agreements prodotti dalla comunità, attraverso la costruzione di relazioni significative e l'inserimento delle informazioni in contesti specifici. Per questo è essenziale offrire ai membri della comunità la possibilità di avere un ruolo attivo e collaborativo;
- la partecipazione attiva della comunità si realizza lavorando sulla motivazione all'apprendimento e creando le condizioni per cui tutti i diversi stili di apprendimento che appartengono alle persone possano trovare spazio ed espressione, da quello verbale-linguistico (l'unico- o quasi- che finora le biblioteche hanno curato) a quello fisico-cinestetico, da quello musicale-ritmico a quello logico-matematico, da quello interpersonale a quello intrapersonale. Secondo Lankes, non si può non tener conto che solo una piccola percentuale di persone preferisce apprendere leggendo, e dunque anche il supporto alla information literacy della comunità non deve essere riduttivamente interpretato in relazione alle funzioni di reading e writing, ma come acquisizione della capacità di accedere e usare le informazioni, di qualunque genere esse siano, in modo significativo. In questo senso, il gaming diventa uno straordinario strumento per accrescere le abilità della comunità a usare e interpretare informazioni e situazioni;
- anche il tradizionale approccio all'etica della professione dovrebbe essere, secondo Lankes, ripensato. Posto che la neutralità non esiste, il valore di base cui si deve ispirare il bibliotecario è quello di dichiarare il proprio punto di vista; a questo si affianca la consapevolezza che non esiste buona o cattiva informazione in termini assoluti, ma solo in riferimento a un contesto e alle finalità di chi la utilizza, così come accuratezza ed esaustività spesso risultano in contrasto con le esigenze di plausibilità e "good enough" richieste dal processo di creazione di senso in cui sono immersi i nostri interlocutori. Tutto questo presuppone ovviamente un grado e un tipo diverso di responsabilità del bibliotecario in tale processo;
- diffusa nel volume è anche la critica a tutte le soluzioni e le strutture organizzative formalizzate che, puntando esclusivamente ad efficacia ed efficienza, tendono alla rigidità e a impedire quel processo collaborativo di costruzione della conoscenza che la nuova biblioteconomia pone al centro della missione dei bibliotecari; Lankes dimostra invece una maggiore affinità a certi principi del knowledge management e una predilezione per le realizzazioni dei knowledge management systems. Anche l'approccio tradizionale alla valutazione viene profondamente messo in discussione a vantaggio dell'utilizzo dei metodi della ricerca sociale, finalizzati a interrogarsi sull'outcome, ossia su come e quanto i singoli membri della comunità abbiano migliorato la loro capacità di apprendere e il loro livello di conoscenza e consapevolezza.
A conclusione della lettura di questo volume e avendo presente il pubblico italiano non ho potuto fare a meno di pensare che il libro è destinato a far inorridire il mondo accademico da un lato e i bibliotecari dall'altro (sebbene pare che reazioni simili si siano registrate anche nel contesto americano, come si intuisce cercando in rete commenti e opinioni sul volume di Lankes. Si vedano a titolo esemplificativo il post dedicato al volume dal blog Sense and reference: http://tinyurl.com/764c59h e la serie di sei post dedicati dal blog http://tinyglasshouses.wordpress.com/).

Dal punto di vista di un'accademia italiana per buona parte focalizzata su quelli che l'autore chiama- quasi spregiativamente - artefatti, il volume di Lankes, anche per il suo stile fortemente colloquiale e aneddotico, potrebbe essere considerato troppo poco scientifico e troppo interessato alla professione per appartenere all'ambito della ricerca teorica. E dire che Lankes- pur espressione di un mondo accademico decisamente diverso dal nostro- certamente parla da un punto di vista esterno alla professione, molto accademico, come certe forme di falsa modestia, qualche elemento di prosopopea e di autoreferenzialità e una sorta di monoliticità dell'impianto concettuale rivelano.
Dal punto di vista dei bibliotecari italiani, da sempre abituati a vedere la propria professione incentrata sulla gestione degli artefatti e a intendere il proprio ruolo come unici- o quasi- detentori dei segreti per l'accesso all'informazione e a costruire intorno a sé barriere difensive di fronte all'incapacità del mondo esterno di riconoscerne il valore, la proposta di Lankes apparirà ad alcuni inquietante, quasi fastidiosa, ad altri puramente utopistica. Certamente non è destinata ad essere ampiamente condivisa, in quanto troppo radicale rispetto a posizioni più tradizionali e conservatrici, e troppo timida nei contenuti propositivi e fattivi per chi quella prospettiva è almeno in parte pronto a realizzarla. In generale, un certo cinismo italiano di fronte alla retorica appassionata e una tendenziale lamentela connaturata allo spirito italico non possono certo aiutare a trovare in alcune semplificazioni di Lankes uno stimolo a rileggere con occhi nuovi tanti contenuti del dibattito biblioteconomico, anche contemporaneo. Una parziale idea della varietà delle reazioni che l'eloquio di Lankes può suscitare è nei commenti sul post che Virginia Gentilini ha dedicato alla relazione presentata da Lankes al 57. congresso dell'Associazione italiana biblioteche, tenutosi a Roma a novembre 2011: http://tinyurl.com/737dl9x.

Certo, non v'è dubbio che la sfida che Lankes propone sia molto impegnativa, dal momento che, di fronte alle minacce di sopravvivenza delle biblioteche, egli non spinge i bibliotecari a fare quadrato e ad asserragliarsi nelle biblioteche, bensì a "disperdersi" nelle loro comunità dimostrando a politici e comunità che le loro competenze non consistono nel raccogliere artefatti, ma nel garantirne un senso e un uso all'interno delle conversazioni e del processo conoscitivo.
Lankes fa appello alle capacità e alla creatività dei bibliotecari di rileggere e far rileggere la professione nella giusta ottica, perché di fronte a un mondo che cambia sempre più rapidamente bisogna essere consapevoli della necessità di diventare attori del proprio destino, senza aspettarsi interventi salvifici dall'esterno.
L'aspetto più critico di questa visione consiste nel trasformare tale punto di vista in convinzione comune all'interno della professione e in percezione diffusa nella società, ribaltando secoli di associazione mentale e pratica tra biblioteche, bibliotecari e libri (o altri supporti del sapere), come anche le più recenti ricerche e indagini sulla percezione che gli utenti hanno di biblioteche e bibliotecari continuano a mettere in evidenza (si pensi all'indagine realizzata da OCLC Perceptions of Libraries 2010. Context and Community, http://www.oclc.org/reports/2010perceptions.htm).

Per dirla alla maniera di Lankes, utilizzerò un aneddoto. A Roma c'è una pasticceria che è diventata famosissima per il suo straordinario millefoglie, al punto che la sua fama ha superato il continente e la stessa regina Elisabetta ne è diventata cliente. Ovviamente, come tutte le pasticcerie, anche questa realizza moltissimi altri prodotti, che però nessuno degna neppure di uno sguardo, visto che il 99% dei clienti entra per comprare un millefoglie. Immaginiamo dunque i poveri pasticceri che hanno un'idea ben più ampia e articolata del loro lavoro, ma sono condannati ad essere associati mentalmente solo alla produzione di millefoglie.
Ebbene, l'altro giorno, causa chiusura di tutte le pasticcerie circostanti, ci sono entrata e ho comprato delle castagnole ripiene di ricotta. A dir poco strepitose. Non ho mancato di divulgare la notizia che in quella pasticceria ci si può andare anche per comprare qualcosa che non sia il millefoglie. Ma quante persone che più o meno per sbaglio- come me- hanno scoperto altre possibilità e quanti passaparola saranno necessari perché tale pasticceria possa allargare la sua brand identity al di là del millefoglie?
Dunque, tornando alle biblioteche, Lankes non è una «voce che grida nel deserto», non vive in un mondo parallelo (sebbene moltissimi, credo soprattutto in Italia, non ne condividano il pensiero), e infatti gli esempi di bibliotecari e biblioteche che provano a immaginare la professione in modo diverso non mancano, anche sul piano realizzativo. Si pensi, ad esempio, a progetti sperimentali come il Transformation Lab di Aahrus in Danimarca3, o il DOK Library Concept Centre di Delft in Olanda4. In entrambi i casi si tratta di biblioteche di nuova concezione, il cui focus non è la collezione documentaria, ma appunto il rapporto tra bibliotecari e comunità, e la cui attività non si esaurisce nella fornitura di informazioni bensì consiste nell'offrire agli utenti occasioni di espressione personale e di condivisione.

Tuttavia, come nel caso della pasticceria del millefoglie, qualche dubbio sugli esiti pratici di questi tentativi resta, perché pur riconoscendo la linea di continuità che caratterizza le funzioni dei bibliotecari nel tempo al di là delle collezioni, la discontinuità insita nell'idea di bibliotecari che restano tali pur non essendo agganciati ad alcuna struttura bibliotecaria e di utenti che partecipano alle funzioni bibliotecarie come creatori e vettori di conoscenza resta impegnativa in termini di formazione, di politiche pubbliche, di progettazione dei servizi, di attitudine del personale e di organizzazione delle attività. È inoltre del tutto incerta e per niente scontata la possibilità che le nostre comunità (e le altre professionalità che operano nel settore della conoscenza) possano vederci, in tempi brevi, come partner all'interno di un raggio di azione di quello a cui sono abituati e che scelgano di aprirsi alla conversazione con noi. È vero infatti che- come ricorda lo stesso Lankes- «You can lead a horse to water, but you can't make it drink» (p. 67).
Ciò detto, la proposta di riflessione di Lankes, spogliata di qualche pretenziosità attribuibile non solo alle caratteristiche personali, ma anche alla sua provenienza culturale (il postscript dell'Atlas sembra il corrispettivo biblioteconomico dell'Yes, we can di obamiana memoria), merita la più elevata attenzione, in particolare da parte del mondo bibliotecario e accademico italiano e non va semplicisticamente respinta a causa dell'ambizione eccessiva del progetto e della debolezza di alcune sue componenti. Si tratta piuttosto di accettare l'invito a mettersi continuamente in discussione, a non dare mai niente per scontato di quello che abbiamo imparato e di come l'abbiamo imparato, a prendere in considerazione anche percorsi molto diversi da quelli che ci appartengono di più personalmente e culturalmente. Dal mio punto di vista, trovo in particolare prezioso il suggerimento a scindere le riflessioni sul futuro delle biblioteche da quello delle competenze dei bibliotecari, considerando che come bibliotecari ci siamo fin qui messi troppo poco in gioco al di fuori delle biblioteche e che si tratterebbe di una prospettiva interessante per le future generazioni, sebbene pur sempre subordinata a un parallelo cambiamento della mentalità dentro e fuori la professione.
In generale resta vero per tutti coloro che appartengono a questo mondo che- come dice Lankes - «non scegliendo di partecipare alla conversazione sul futuro della biblioteconomia, abdicate alla possibilità di darvi forma» (p. 407).


[1] «Biblioteconomia è termine di origine dotta che in greco vuol dire 'egge della biblioteca, principio direttivo della biblioteca, ordinamento della biblioteca'. Sorta in Francia all'inizio del secolo XIX, la parola è stata impiegata per dare un nome all'insieme delle conoscenze e delle tecniche occorrenti per allestire, ordinare ed amministrare una raccolta di libri. Nell'area di lingua tedesca era stato introdotto pressappoco nello stesso tempo il termine, equivalente, di Bibliothekswissenschaft, mentre nella lingua inglese Librarianship, come insieme delle abilità tecniche di chi è addetto alla biblioteca, svolgeva la stessa funzione, essendo derivato appunto da librarian che significa 'bibliotecario'» (p. 7)

[2] Ripresa da Virginia Gentilini nel post dedicato a questo tema, consultabile su: http://tinyurl.com/886zcgo

[3] http://www.youtube.com/watch?v=TpFO_L_jA1c

[4] http://www.youtube.com/watch?v=iKpH8fwfqNs


ANNA GALLUZZI, Biblioteca del Senato "Giovanni Spadolini", piazza della Minerva 38, 00186 Roma, e-mail: anna.galluzzi@gmail.com.