Le biblioteche statali non centrali alla ricerca di identità

Come è universalmente noto, una delle anomalie del sistema bibliotecario italiano, rispetto anche al panorama europeo, è rappresentata dall'esistenza di ben due biblioteche nazionali centrali (la Biblioteca nazionale centrale di Roma e la Biblioteca nazionale centrale di Firenze), di sette biblioteche nazionali e di altre 37 tutte dipendenti dal Ministero per i beni e le attività culturali.
Mentre però i compiti delle prime due, pur sostanzialmente identici, risultano delineati e dettagliati da storici provvedimenti legislativi e dalla prassi, c'è da chiedersi (o meglio, è da circa un secolo e mezzo che ce lo chiediamo) che ruolo debbano svolgere le altre, le cui origini e tipologie sono tra le più varie.

Il nucleo più cospicuo, per numero e quantità di materiale conservato, è rappresentato dalle biblioteche degli antichi stati preunitari e delle corti, che svolgono compiti per lo più di conservazione, e comprende la Biblioteca nazionale di Torino (anche Universitaria), la Biblioteca nazionale Braidense di Milano, la Biblioteca nazionale Marciana di Venezia, la Biblioteca Palatina di Parma, la Biblioteca Estense e Universitaria di Modena, la Biblioteca mediceo-laurenziana di Firenze, la Biblioteca statale di Lucca e la Biblioteca nazionale di Napoli.
Costituiscono le biblioteche delle antiche università italiane, oltre alle già citate nazionale di Torino e Estense ed Universitaria di Modena, le biblioteche universitarie di Genova, Pisa, Padova, Pavia, Bologna (ora tornata all'Università), Napoli, Cagliari, Sassari e Alessandrina di Roma, e dovrebbero, ma non lo fanno, fungere da supporto a quelle università cui storicamente fanno riferimento.
Tre biblioteche sono il frutto del collezionismo privato di importanti famiglie e personaggi, in particolare la Biblioteca Reale di Torino, le Biblioteche Riccardiana e Marucelliana, entrambe a Firenze; sono invece biblioteche di ordini religiosi soppressi nel XIX secolo le biblioteche Angelica (degli Agostiniani scalzi), Casanatense (dei Domenicani), Vallicelliana (dei Filippini), tutte a Roma, e le cosiddette biblioteche annesse ai monumenti nazionali, appartenenti ad antiche abbazie e monasteri (tra cui le abbazie di Praglia, Montecassino, Farfa e Subiaco, la Certosa di Trisulti, il Monastero di Montevergine, la Badia di Cava dei Tirreni, l'Oratorio dei Girolamini a Napoli), che non hanno quasi personale ministeriale e sono gestite direttamente dai frati originariamente titolari.

Sono invece biblioteche di carattere specialistico la Biblioteca di archeologia e storia dell'arte, la Biblioteca di storia moderna e contemporanea e la Biblioteca medica, tutte a Roma: i loro rapporti con le biblioteche universitarie di facoltà e di dipartimenti non sono mai stati chiariti, pur condividendo con esse il compito di documentare specifiche discipline.
Svolgono il ruolo di biblioteche civiche, anche per le raccolte che conservano, costituite dai fondi di carattere generale, esigui per consistenze e con limitati materiali antichi, la Biblioteca statale di Cremona, la Biblioteca statale isontina di Gorizia, la Biblioteca statale di Trieste, la Biblioteca statale di Macerata, la Biblioteca Baldini di Roma e le Biblioteche nazionali di Potenza e Cosenza, e anche in parte la Biblioteca nazionale di Bari, che però ha dimensioni superiori alle precedenti.
Pur di fronte a un panorama così diversificato, tutte sono regolate da un unico ed ormai datato regolamento (D.P.R. n. 417/1995) il quale, elencando semplicemente queste biblioteche in ordine topografico regionale, anziché favorire la definizione di uno specifico ruolo istituzionale per ciascuna di esse, le mortifica con una normativa forzatamente egualitaria, invitandole a fare sostanzialmente la stessa cosa.
Tutte infatti devono svolgere identici, ardui e spesso irrealizzabili compiti: raccogliere e conservare la produzione editoriale italiana a livello nazionale e locale; conservare, accrescere e valorizzare le proprie raccolte storiche; acquisire la produzione editoriale straniera in base alla specificità delle proprie raccolte e tenendo conto delle esigenze dell'utenza; documentare il posseduto, fornire informazioni bibliografiche e assicurare la circolazione dei documenti.

Ambigua è pure la denominazione che le accomuna, quella di "biblioteche pubbliche statali", che contribuisce a incrementare la crisi d'identità. Il concetto di "biblioteca pubblica" male infatti si addice alla maggior parte delle biblioteche statali, se intendiamo "pubblica" nel senso biblioteconomico del termine, di biblioteca per tutti e per un pubblico generale interessato alle più varie tematiche e senza aspettative specialistiche. Possiamo pensare che il legislatore lo abbia usato impropriamente, per sottolineare il fatto che si tratta di istituti "aperti al pubblico". Ambigua è anche la tipologia di servizi, tra cui la "circolazione dei documenti", che il regolamento, volendo venire incontro alle tematiche internazionali della piena disponibilità delle risorse documentarie, ha previsto. Essa infatti cozza con i compiti di conservazione della memoria editoriale del paese che molte istituzioni assumono, essendo spesso titolari, fin dalla loro fondazione, del deposito legale, il che le obbliga a garantire la tutela del materiale in questione, puntare all'intatta conservazione dell'archivio documentario, limitare la circolazione dei pezzi.
Le biblioteche statali non centrali stanno vivendo momenti di grande incertezza. Accomunate a forza, come si è detto, da un regolamento unico che non ne dettaglia e non ne esalta identità e peculiarità, rassegnate a non avere più compiti territoriali, private, a favore delle Regioni, dell'attività di tutela già dagli anni Settanta, danneggiate seriamente dalle riforme organizzative ministeriali (in un palleggiamento tra centro e periferia) e comunque lasciate nel loro eterno limbo, falcidiate da continui e indiscriminati declassamenti di sedi dirigenziali, esse sopravvivono in un clima di fine impero, alla ricerca di un ruolo.
Questo numero di «AIB Studi», che ospita contributi di direttori di biblioteche statali, intende approfondire le problematiche accennate. Si tratta di rivedere gli assetti centro/periferia, senza precludersi la strada di un possibile trasferimento agli enti locali o alle università di alcuni istituti che poco hanno di diverso rispetto a prossime altre istituzioni, quali biblioteche di città importanti o biblioteche di facoltà; si tratta di lasciare al Ministero per i beni e le attività culturali solo quelle biblioteche che veramente rappresentano e testimoniano, per storia e per fondi, la cultura italiana e l'evoluzione istituzionale del Paese, dagli stati preunitari alla costituzione dell'identità nazionale. Per tali istituti sarà fondamentale definire, poi, il rapporto con le Biblioteche nazionali centrali e con l'Istituto centrale per il catalogo unico delle biblioteche, al fine di stabilire le reciproche competenze e gli indispensabili raccordi. Si tratta di riflettere, anche, sui criteri di ridefinizione delle posizioni dirigenziali, che spesso sono state soppresse per ragioni imperscrutabili e il più delle volte indifferenti alla realtà degli istituti.

Scriviamo in un momento estremamente triste e doloroso per le biblioteche di Stato, caratterizzato dallo scandalo dei furti alla Biblioteca dei Girolamini di Napoli, effettuati da una vera e propria associazione a delinquere, capeggiata, secondo le accuse, dal direttore della struttura. Un episodio che ha indignato e fatto sussultare le coscienze di tutti, anche per il fatto che la nomina del direttore, persona ben lontana dalle competenze scientifiche richieste a un responsabile di biblioteca, è stata sì proposta dall'amministrazione della Biblioteca dei Girolamini, ma è stata de facto, se non approvata, ratificata e tollerata dal Ministero, che addirittura aveva da tempo annoverato tra i suoi consulenti il direttore stesso. Oltre che a far riflettere sulle necessità di maggiore tutela dei patrimoni bibliografici storici, la circostanza non può non essere percepita come la goccia che fa traboccare il vaso: è giunto il momento di mettere mano, ormai senza se e senza ma, a una profonda riforma del sistema delle biblioteche di Stato, che parta anche da una rivalutazione del personale in servizio e dall'immissione di forze nuove, appassionate e competenti, che da tanti anni attendono al palo. A tal proposito, spiace sottolineare che il recente concorso per funzionari bibliotecari ha portato all'assunzione di sole due unità, incrementate successivamente di altre tre, solo nelle regioni di Veneto, Liguria e Piemonte. È l'ennesimo segnale negativo, soprattutto a fronte delle ben più massicce immissioni in ruolo di personale tecnico-scientifico degli altri profili professionali del Ministero. Ci auguriamo si ponga presto rimedio a questi gravissimi ritardi, pena la prossima, inevitabile paralisi dei servizi offerti dalle biblioteche statali.

Andrea De Pasquale