Storie di autonomia "speciale": le biblioteche specializzate del Ministero per i beni e le attività culturali

di Simonetta Buttò

La storia delle biblioteche specializzate dello Stato non ha seguito un percorso formativo lineare, così come sempre difficile è risultata la definizione del loro ruolo, dei loro compiti e delle loro funzioni.
Negli anni Ottanta del secolo scorso, tuttavia, le biblioteche cosiddette speciali indipendentemente dalla loro appartenenza amministrativa, hanno ottenuto una particolare attenzione da parte della comunità professionale, grazie anche all'influenza della biblioteconomia statunitense che fin dall'inizio del secolo riconosceva a tali istituti particolari caratteristiche, tanto da rappresentare un filone di studi a se stante1.
Anche in Italia si formarono gruppi di studio per il loro censimento, per la migliore definizione dei loro compiti e per migliorarne l'azione cooperativa e la gestione. L'AIB, in particolare, ha destinato alle biblioteche speciali attenzione e risorse, grazie all'intensa attività del Gruppo di studio sulle biblioteche speciali della Sezione Lazio, costituito il 26 novembre 1981, che vantava oltre settanta aderenti2.
Nel 1985 fu organizzato a Vinci, presso la Biblioteca Leonardiana, speciale fra le speciali, un importante convegno, con l'intento di mettere a fuoco la diversità delle biblioteche speciali, nel rapporto con il pubblico, nell'utilizzo delle procedure in campo gestionale, nel sistema di elaborazione delle informazioni, tanto che ancora oggi può essere considerato un ineludibile punto di partenza per gli studi in questo settore.
Il convegno di Vinci3, secondo Giovanni Solimine, «sancì in modo convincente ed autorevole l'impossibilità di definire l'identità delle biblioteche "speciali", attraverso una contrapposizione o, comunque, una distinzione rispetto a non meglio identificate biblioteche "normali". Si può dire che tutte le biblioteche, anche quelle che di solito vengono etichettate come biblioteche "generali"sono speciali - in quanto ognuna è risultato di una propria specifica evoluzione storica ed espressione di uno specifico ambiente culturale, così come ognuna è chiamata a rispondere a specifici bisogni informativi di uno specifico bacino di utenza -, per cui non ha senso tale definizione come identificativa solo di una particolare tipologia di biblioteche, e quindi solo di alcune di esse»4.
Si fa riferimento in questo brano a una questione all'epoca molto dibattuta a livello teorico: la questione terminologica. Si dice speciali o specializzate? Esiste una sfumatura semantica fra i due termini?

Il punto di partenza della discussione era costituito dalla distinzione "classica" offerta da Alfredo Serrai nella sua Guida del 1981: «Mentre la biblioteca specializzata diventa tale in quanto le sue raccolte si identificano con l'ambito e gli interessi di una disciplina [...] la biblioteca speciale è tale quando impiega tecniche e procedure di mediazione fra documenti ed utenti che non sono quelle tipiche delle biblioteche tradizionali ma appunto sono tecniche e procedure "speciali"»5.
Da queste premesse infatti prendeva le mosse anche il curatore del Convegno, Mauro Guerrini6: «La pubblicistica biblioteconomica più aggiornata tende ad individuare la diversità della biblioteca speciale nelle metodologie e nella dinamicità del lavoro bibliotecario, piuttosto che nella specializzazione della raccolta, nell'audience, nella tipologia dell'ente proprietario o in altre caratteristiche simili»7. Eppure, come avvertiva Carlo Revelli all'inizio del suo intervento, «la definizione di biblioteca speciale non è del tutto semplice [...]: l'espressione presuppone infatti la cognizione di che cosa sia una biblioteca normale, con la conseguenza di sfuggire a una definizione assoluta così comoda a chi ami vivere senza dubbi»8, mentre Diego Maltese constatava l'insufficienza della distinzione terminologica9 («La discriminante della specializzazione, probabilmente, non ha grande rilevanza per una classificazione delle biblioteche, se da questa si vogliano far discendere indicazioni per una metodologia specifica di lavoro. Qualsiasi biblioteca che abbia un po' di storia, che non sia più, cioè, solo un progetto o un seme di biblioteca, si caratterizza per le sue specializzazioni, per i filoni di interesse intorno a cui si è venuta sviluppando»10) e rifletteva sul carattere speciale della biblioteconomia, piuttosto che su quello delle biblioteche, concentrandosi sulle funzioni di servizio e su una nuova «filosofia di gestione delle informazioni»11.
Oggi non più tanto di moda, la questione delle biblioteche specializzate o speciali, ha da tempo lasciato il tavolo delle discussioni teoriche, professionali e di politica culturale, ma la presenza di istituti a marcata vocazione disciplinare si è moltiplicata negli anni, grazie anche alle nuove tecnologie che hanno garantito a numerose realtà, legate a enti pubblici e privati, una presenza non trascurabile nell'ambito degli studi e della ricerca, nonostante l'esiguità della loro struttura e la mancanza di risorse, economiche e di personale.

Nel panorama delle biblioteche dello Stato gestite dal Ministero per i beni e le attività culturali, le uniche tre biblioteche riconducibili alla fisionomia delle specializzate - la Biblioteca di archeologia e storia dell'arte, la Biblioteca di storia moderna e contemporanea e la Biblioteca medica - si caratterizzano per la loro (relativamente) tardiva fondazione e per la casualità, si direbbe mancanza di governo, del loro pur indubbio sviluppo.
Eppure il problema delle biblioteche speciali - come si diceva allora - aveva occupato un posto di rilievo all'indomani dell'Unità d'Italia, perfino nelle discussioni politico-parlamentari. E forse è utile partire proprio dall'assetto originario del sistema bibliotecario italiano per capire fenomeni e circostanze che ancora oggi appaiono ai nostri occhi quantomeno di difficile interpretazione12.
Prima ancora che il processo risorgimentale potesse dirsi concluso, lo Stato italiano, espressione di una classe dirigente prevalentemente composta da uomini di cultura liberale, uscita vincitrice dalla battaglia politica e ideale del Risorgimento, aveva cominciato a porsi il problema delle biblioteche storiche, eredità illustre della tradizione culturale unitaria di un paese da secoli diviso. Lo aveva fatto nel pieno fervore delle numerose iniziative, tutte volte a dare una consistenza stabile agli apparati statali esistenti, difformi e frazionati lungo l'arco della penisola, necessaria a compiere l'unità della nazione.
Nel 1863 spettò alla neonata Divisione di statistica generale del Ministero dell'agricoltura, industria e commercio, guidata da Pietro Maestri13, l'arduo compito di fare un censimento di tutte le biblioteche esistenti sul territorio italiano: due anni di lavoro che portarono alla pubblicazione della prima raccolta sistematica di dati relativi al patrimonio e alle strutture bibliografiche italiane ereditate dagli antichi stati14.

L'idea di fondo era quella di dotare la nuova Italia di biblioteche statali ben fornite ed efficienti, su modello di quanto era avvenuto nel resto d'Europa, a Parigi, Londra, Berlino, dove il patrimonio era stato concentrato nelle capitali o nelle grandi città, grazie alla precisa scelta, politica e culturale, di riunificare i fondi storici conservati nelle biblioteche minori e negli istituti bibliotecari più importanti. «La biblioteca è divenuta uno stabilimento universale - si legge nell'Introduzione storica al volume, dovuta con molta probabilità alla penna dello stesso Maestri15 - che per sua natura abbraccia ogni ramo dello scibile, e non può mancare di alcuna serie, sia in ordine alla materia che al tempo. Il carattere delle odierne biblioteche [...] è l'enciclopedismo; e da noi non si potrebbe raggiungere se non con la creazione di una grande biblioteca per ogni città, la quale concentrasse le minori, e fosse copiosamente dotata»16.
Il principio dell'accentramento dei fondi e quello del finanziamento, cospicuo e costante, delle biblioteche dello Stato si collegava direttamente a un'idea di biblioteca generale, universale ed enciclopedica, adatta a rispondere a tutte le esigenze di ricerca, e dunque alla necessità di dotare la nazione di una "biblioteca modello" che - senza rinunciare alla tradizione storica - costituisse lo specchio della cultura del paese, ne seguisse l'evoluzione, ne sostenesse gli studi e la ricerca: una biblioteca nazionale, insomma, dove ricchezza dei fondi e vastità di documentazione moderna si integrassero a favore della crescita intellettuale della popolazione.
E invece i primi governi del nuovo Regno, oscillando fra enunciazioni di principio e scelte dettate dall'opportunità politica o dalle contingenze economiche non ebbero la forza di mettere mano a un piano di riforma e di razionalizzazione delle numerose biblioteche (211) ricevute in eredità, come invece era auspicato nella Relazione al Re del ministro Natoli premessa alla Statistica: «Se la loro molteplicità sia a danno dell'importanza voluta nei tempi presenti per tali istituzioni, se le antiche fondazioni abbiano bisogno di riforma, se le norme da cui sono ora regolate possano venir perfezionate su un concetto più ampio, se ed in quale proporzione lo Stato debba procurare il loro incremento - erano questi i postulati che il sottoscritto andava meditando allo scopo di rendere le nostre collezioni più adatte alle nuove condizioni degli studi e rispondenti a quel grado a cui il paese domanda che siano elevate ed aggrandite»17.
Le trentuno biblioteche poste a carico dello Stato, in particolare, rappresentavano evidentemente per la giovane nazione italiana un banco di prova insuperabile e destinato a sicura sconfitta: in quei primi anni dello stato unitario sarebbe stato necessario evitare in ogni modo la parcellizzazione delle (scarse) risorse finanziarie e la disseminazione sul territorio nazionale di fonti documentarie indispensabili per il progresso degli studi del paese.

Per di più, pochi mesi dopo la pubblicazione della Statistica, con r.d. 7 luglio 1866 n. 3036, si disponeva la soppressione delle corporazioni religiose e l'incameramento dei loro beni, prescrivendo che «i libri, i manoscritti, i documenti scientifici, gli archivi, i monumenti gli oggetti d'arte o preziosi per antichità» si devolvessero a Biblioteche pubbliche e Musei delle rispettive provincie.
Una «legge esiziale» nelle parole di Guido Biagi18, a seguito della quale il patrimonio bibliografico degli enti religiosi venne distribuito tra le biblioteche governative e quelle comunali e provinciali, creando ulteriori problemi pratici, per la difficoltà di reperire i locali e di censire e schedare una grande quantità di volumi di contenuto prevalentemente devozionale e spesso antiquato.
Era proprio quello che non ci voleva: un incremento patrimoniale "a pioggia" dei fondi delle biblioteche esistenti e creazione di nuove biblioteche con raccolte provenienti dalle congregazioni religiose, invece dell'auspicato accrescimento dei fondi moderni, soprattutto per le scienze positive, del necessario alleggerimento degli oneri della gestione statale e della semplificazione del sistema grazie all'accorpamento o la riduzione del numero delle biblioteche e all'estensione dei servizi bibliotecari locali.
Inoltre, proprio in quel momento, per la conclusione del processo risorgimentale, erano necessarie risorse economiche di notevole portata di fronte alle quali i progetti di riforma delle biblioteche erano evidentemente destinati a essere accantonati nelle discussioni politiche e nei lavori parlamentari19.
Nel dibattito professionale, tuttavia, la voce della nascente classe dei bibliotecari italiani non mancò di esprimere le proprie idee-guida di natura tecnica rivolte direttamente al Governo in sostegno dell'azione politica, e lo fece attraverso le parole dell'ancora giovane Desiderio Chilovi, allora scrittore della Biblioteca nazionale di Firenze che, intervenendo sulle pagine de «Il Politecnico», offriva al governo dello Stato l'occasione di far convergere le motivazioni della ricerca scientifica, per il progresso degli studi, con quelle della conservazione e proponeva innanzitutto una "classazione" delle biblioteche italiane20 in base alla loro funzione nella società. Tale visione organica del complesso delle biblioteche italiane avrebbe dovuto costituire la base dell'azione politica: «Noi abbiamo biblioteche che si chiamano nazionali, e certamente (se la parola in questo caso deve avere un significato) esse sono per numero sovrabbondanti; giacché lo Stato non è in grado di sopportarne la spesa occorrente; abbiamo biblioteche universitarie, e manchiamo, quasi del tutto, di biblioteche speciali»21. E ancora: «Ma affinché lo spirito d'ordine entri e regni in questi stabilimenti, affinché essi riescano praticamente utili, non basta che le biblioteche abbiano un nome qualunque. È urgente affermare che cosa s'intenda sotto queste varie denominazioni, che cosa si pretenda da esse; dire in modo chiaro e preciso quale è lo scopo a cui ciascuna deve servire; tracciare il limite della sua azione, e determinare ciò che le fa di bisogno perché essa si trovi in condizioni tali da poter raggiungere la meta prefissa. Quando si hanno ben chiare queste idee, allora soltanto, e non prima, il Governo potrà vegliare su di esse, allora potrà decidere quali sono veramente necessarie, potrà cambiar l'indirizzo a quelle che presentemente servono a poco, o fanno alle esistenti una inutile concorrenza, e saprà quali e dove dovrà crearne di nuove, quando ne avrà i mezzi»22.

Come è noto, invece, la Commissione Cibrario, poco dopo incaricata dal ministro Bargoni di dare una risposta ai molteplici interrogativi, e in primo luogo sulla necessità di dotare la nazione di un'unica grande biblioteca, come quella di Londra o di Parigi, preferì ascoltare la voce dei particolarismi e delle tendenze autonomistiche, tanto ben radicate in Italia, arrivando a consigliare di istituire ben dieci biblioteche nazionali, tutte dipendenti direttamente dal governo, nelle città più importanti, dal momento che «né la configurazione geografica, né il genio dei popoli, né la serie dei fatti storici»23 permettevano di considerare una città come principale.
Il problema dunque, da organizzativo era diventato politico, o meglio di equilibrio politico, in un momento in cui la capitale si era spostata da Torino a Firenze, la questione romana risultava ancora aperta, e il nuovo Stato aveva appena compiuto quella scelta di fondo per il suo ordinamento che è stata brillantemente definita «centralismo debole» e che appare caratterizzata da una prassi amministrativa uniforme e accentrata nei principi, cui corrispondeva tuttavia un forte condizionamento dovuto all'influsso di numerosi interessi locali24.
Il decreto di riordino firmato dal ministro Bargoni nel novembre del 186925 non fece altro che fotografare lo stato di fatto. Invece che per le loro dotazioni, e tanto meno per le funzioni loro attribuite, le numerose biblioteche nazionali italiane erano tali solo in ossequio alla tradizione, e il loro titolo costituiva una forma di riconoscimento storico, ma sostanzialmente privo di contenuti.
Alle tredici biblioteche «destinate a conservare carattere di generalità», delle quali tre insignite del titolo di nazionale, si affiancavano quelle «che hanno o che sono suscettibili di assumere un determinato carattere speciale»26.

La distinzione fra biblioteche generali e biblioteche speciali, senza alcuna ulteriore specificazione, appare perfino una forzatura, tutta teorica, senza alcuna corrispondenza effettiva nella realtà, soprattutto se vista alla luce di quanto auspicato da Chilovi sull'importanza di disegnare - al di là dei "titoli onorifici" - un sistema nazionale organico e integrato, assegnando a ciascun istituto un ruolo ben definito all'interno di una organizzazione complessiva.
L'incertezza e la fumosità insite nell'enunciato del decreto erano tanto evidenti che con r.d. 22 giugno 187327, la distinzione fra biblioteche generali e biblioteche speciali venne di colpo abolita.
Del resto, come si è detto, il decreto di riordino del 1869 non era originato dall'intento di rinnovare radicalmente il sistema esistente, quanto di procedere a una sua sistemazione sulla carta: in realtà, nessuna biblioteca era davvero generale e nessuna speciale, nessuna era realmente dotata di una sua peculiare fisionomia.
Era stata persa un'occasione unica per impostare, all'origine, in termini razionali, efficienti ed economicamente sostenibili il sistema delle biblioteche italiane.
Da quel momento, ogni ripensamento radicale dell'assetto bibliotecario italiano, se non i piccoli aggiustamenti di minore entità, diventerà nei fatti impossibile da attuare, a causa dei numerosi veti incrociati posti a difesa di posizioni ormai acquisite.
Anche la conquista di Roma, che pure aveva fatto riemergere in evidenza il problema della Biblioteca nazionale italiana (unica) già abilmente eluso dalla commissione Cibrario, non riuscì - se non molto parzialmente - a incidere in modo decisivo in favore di una riforma delle biblioteche italiane.
La nascita, nel 1876, della Nazionale di Roma, che poteva rappresentare nella mente del suo creatore, Ruggero Bonghi, l'ultimo colpo di coda in difesa della concentrazione delle più prestigiose raccolte librarie presso la grande biblioteca della nuova capitale dello Stato, secondo l'esempio francese e inglese28, rimase un progetto solo in piccola parte realizzato29.
L'occasione si era già offerta a Bonghi discutendo il bilancio del 1870 alla Camera, nel corso del quale lo statista si dichiarò contrario alla filosofia del Regolamento Bargoni, sostenendo invece una razionalizzazione dell'insieme delle biblioteche che puntasse non alla dispersione ma alla concentrazione delle risorse, sia finanziarie che di personale.
Il regolamento Bonghi doveva rappresentare il momento di fusione fra la passione politica di Ruggero Bonghi e la lucida competenza professionale di Desiderio Chilovi per giungere «ad una effettiva riforma del settore, che riorganizzando e razionalizzando l'esistente ponesse finalmente le basi per la realizzazione di un sistema bibliotecario nazionale. Purtroppo ancora una volta non fu così»30.

Caduto Bonghi e conclusasi l'epoca della Destra al potere, i governi che in rapida successione si divisero la scena politica di quegli anni si dimostrarono incapaci di fare una scelta politicamente forte, culturalmente orientata ed economicamente impegnativa quale che fosse, preferendo distribuire le poche risorse a tutti gli istituti per coltivare estensivamente, ma mediocremente, l'eredità ricevuta.
Nonostante gli interventi di un uomo influente e apprezzato come Ferdinando Martini, fino alla fine degli anni Settanta di progetti di riforma, intesi come interventi complessivi di riordinamento organico del sistema delle biblioteche italiane, non si parlò più. A parte le discussioni sugli scandali che coinvolsero la Vittorio Emanuele romana e sull'inchiesta amministrativa che ne seguì, la questione dell'assetto incompiuto delle biblioteche italiane rimase senza risposte.
Con l'inizio degli anni Ottanta, tuttavia, avvenne una svolta: le discussioni parlamentari originate da un provvedimento apparentemente marginale, la gestione della Biblioteca Vallicelliana, rappresentarono improvvisamente il pretesto giusto, ma anche lo strumento politico, per l'affermazione di una nuova tendenza nella visione complessiva delle biblioteche governative italiane.
Come ben raccontato da Virginia Carini Dainotti31, il progetto del ministro Baccelli di consegnare la Biblioteca Vallicelliana alla Società romana di storia patria per farne una biblioteca speciale per gli studi storici, riservando al Ministero della pubblica istruzione la facoltà di nominare un consegnatario responsabile della gestione, scatenò improvvisamente in aula, durante la presentazione del bilancio di previsione per il primo semestre del 1884, una inattesa «discussione teorica sulla natura e sui compiti delle biblioteche universali e speciali la quale - per l'ampiezza dell'impostazione e l'importanza degli interventi - costituisce una delle pagine fondamentali della storia delle biblioteche in Italia»32. Il problema era evidentemente tutto politico e legato al gioco delle alleanze per confermare la fiducia al traballante quarto Gabinetto Depretis (il che puntualmente avvenne), ma i suoi effetti sull'azione governativa in materia di biblioteche furono radicali e duraturi: «Il disegno politico cui dal 1863 avevano servito uomini come il Minghetti ed il Bonghi era rovesciato»33.
A nulla valsero le brillanti controffensive di Ferdinando Martini, volte a mettere in luce come il progetto di fare della Vallicelliana una biblioteca speciale di storia non solo fosse scientificamente infondato («perché è evidente che una biblioteca speciale di codici non si può fare»34), ma anche dannoso, perché l'isolamento del suo patrimonio avrebbe nuociuto alla Biblioteca nazionale, cui era stato destinato, privandola di una raccolta di manoscritti di pregio che solo una biblioteca generale di grande proporzioni avrebbe potuto adeguatamente rendere disponibile all'uso pubblico.

L'idea sposata dal ministro Baccelli, come si è detto, andava ben oltre le sorti della Biblioteca Vallicelliana, poiché mirava al capovolgimento di quell'indirizzo politico, malamente difeso e scarsamente attuato, che aveva caratterizzato i primi venti anni della Nuova Italia, con il continuo richiamo - sia pure solo di principio - ai modelli europei e alla razionalizzazione della spesa: «E diciamolo pure, tra biblioteche caotiche, biblioteche omnibus, biblioteche universali, oceaniche, che posso rispettare dove sono, io preferisco biblioteche con indirizzo speciale, così esigendo la ragione dei tempi, la ragione degli studi, la legge indistruttibile della divisione del lavoro»35, rilanciava Baccelli contro ogni richiamo alla politica bibliotecaria impostata nei primi venti anni dello Stato unitario.
Evidentemente, però, poco importava che intorno a un progetto tanto innovativo non fosse stata affiancata neanche una sola norma per l'effettiva fondazione di tali biblioteche «con indirizzo speciale».
Il vero centro della questione, ancora una volta, era stato colto da Ferdinando Martini che, con lo sguardo rivolto al patrimonio ereditato dalle biblioteche pubbliche statali, si chiedeva come fosse possibile, nel campo delle scienze umane, separare le singole discipline dalla conoscenza36: «Voi potete fare delle biblioteche speciali di scienze vive, di scienze tecniche, ma il passato voi non lo potete scindere; nel passato non c'era che il sapere»37.
Il problema tornava dunque al punto in cui l'aveva lasciato Chilovi: un sistema bibliotecario moderno non poteva fondarsi sulla gestione di una eredità ricevuta, ma doveva essere costruito nella contemporaneità sulla base della funzione ricoperta dalle varie tipologie di biblioteche, in relazione alle esigenze culturali della società.
Il successore di Baccelli, Michele Coppino, che pure scelse Martini come suo segretario generale, si guardò bene dal rinnovare una disputa parlamentare che aveva già rivelato risvolti politici pericolosi per la tenuta della maggioranza; si limitò pertanto a emanare un regolamento specifico della Biblioteca Vallicelliana (r.d. 15 ottobre 1884), che estendeva a essa il regolamento delle altre biblioteche pubbliche statali, e - di lì a poco - un nuovo regolamento nel quale, nonostante la collaborazione di Chilovi e la cavillosità dei numerosi articoli, la menzione di biblioteche aventi carattere di specialità, in senso proprio, non appariva, mentre cadeva del tutto il tentativo di riunire amministrativamente la Biblioteca Angelica e la Casanatense con la Nazionale di Roma, e la Mediceo-Laurenziana con quella di Firenze, come prescritto dal Regolamento Bonghi.

Accantonato ogni dibattito teorico, per non dire delle discussioni parlamentari, il successivo regolamento dovuto al ministro Rava nel 190738, che sarebbe poi rimasto in vigore per sessant'anni, registrava ben 35 biblioteche pubbliche governative, questa volta divise fra le «autonome» e quelle che «servono di sussidio ad altri istituti» ma senza alcun accenno al ruolo loro affidato. Desiderio Chilovi, interpellato anche in questa occasione per dare un parere sul testo di legge come aveva fatto per i regolamenti di Bonghi e di Coppino, gentilmente, ma fermamente, declinò l'invito39.
A partire dagli anni Venti l'idea di dotare il paese di biblioteche specializzate tornò prepotentemente in primo piano, segno della maturazione di una nuova concezione degli studi, di una maggiore specializzazione delle singole discipline e di una rinnovata apertura al contemporaneo, testimoniata anche dalla nascita di numerosi istituti culturali.
E infatti è proprio a partire dagli anni Venti che nacquero, o meglio, furono "istituzionalizzate", le tre biblioteche specializzate comprese fra le biblioteche pubbliche statali.
La politica culturale del periodo fascista sposerà in pieno la tendenza già in atto, consentendo, anche oltre misura, la proliferazione di strutture talvolta decisamente esili, ma orientate alla diffusione e all'approfondimento di settori disciplinari specifici. «Per il bisogno di consultare organiche raccolte di libri e periodici che si riferiscono a determinate discipline e di avere quindi quasi sottomano le pubblicazioni attinenti a particolari bisogni di studio, sorsero e sorgono ancora con ritmo sempre più rapido biblioteche specializzate o che almeno tendono ad essere tali», riassumeva nella sua Guida del 1939 Ettore Apollonj40, il quale, nel tentativo di darne una classificazione (biblioteche di cultura superiore, biblioteche di cultura generale) affermava che entrambe le classi avrebbero dovuto essere divise in due categorie: biblioteche specializzate e biblioteche non specializzate: «Questa della specializzazione è oggi l'aspirazione comune degli studiosi, persuasi - come è giusto - dei gravi inconvenienti e delle inevitabili manchevolezze che portano in sé anche le più complesse e ricche raccolte di pubblicazioni di vario genere. Si ha quindi la tendenza, specialmente presso gli enti culturali, a creare biblioteche specializzate. Questa tendenza incontra non poche difficoltà, per la riluttanza di rifiutare doni ed apporti di materiale non strettamente specializzato e soprattutto per le ingenti spese che occorrono per costituire raccolte specializzate che, se non complete, non siano almeno scarne o troppo lacunose e soprattutto non difettino di quel vasto materiale di consultazione che non deve mancare nelle biblioteche specializzate. In tema di specializzazione è facile sbizzarrirsi: di specie e sottospecie se ne possono trovare quante se ne vogliono, secondo che tendenze più o meno analitiche prevalgono nel classificare»41.

La nuova tendenza in atto era ben chiara alla mente di Itala Santinelli Fraschetti42, che da dieci anni dirigeva la Biblioteca del regio Istituto di archeologia e storia dell'arte: «Si può scegliere, oggi, fra le biblioteche romane: si può anche rinunziare a biblioteche di prim'ordine e circoscrivere la ricerca nell'àmbito di una sola, meno ricca delle altre, ma specializzata. Un tempo non era così»43.
Il primo nucleo della Biblioteca di archeologia e storia dell'arte risaliva al 1876 come raccolta della Direzione generale degli scavi e dei musei (che diventerà delle Antichità e belle arti), originariamente di poche centinaia di volumi destinati a supportare gli studi dei funzionari di quell'importante settore del Ministero della pubblica istruzione.
Non realmente aperta al pubblico, nel 1903, grazie a una accorta politica di doni e scambi, contava già 13.000 volumi, ma il suo momento di massimo sviluppo è legato alla figura di Corrado Ricci che, nominato direttore generale, fondò il «Bollettino d'arte» e impostò grazie a questo una politica di scambio che arricchì molto la Biblioteca di testate di riviste specializzate.
La prima guerra mondiale e il raffreddamento dei rapporti con gli utenti italiani dell'Istituto archeologico germanico furono l'occasione per una regolamentata apertura al pubblico, mentre si deve a Benedetto Croce e al suo interesse per i problemi delle biblioteche44 la creazione di un ente, l'Istituto italiano di archeologia e storia dell'arte, che nel 1922 ottenne la personalità giuridica, mentre a dirigere la Biblioteca fu chiamato Luigi De Gregori45: «La Biblioteca si chiamava Istituto, e viceversa, poiché l'Istituto non aveva altra forma di attività all'infuori della Biblioteca: i soli funzionari dell'Istituto erano i funzionari che il Ministero destinava alla Biblioteca»46.
L'organizzazione della Biblioteca fu condotta con i criteri più moderni, tipici di un istituto di alta specializzazione. Fu ordinata per classi e collocata negli scaffali per la libera consultazione da parte degli studiosi «senza bisogno di richiesta scritta e senza intervento del distributore»47.

«Si veniva così delineando il carattere singolare della Biblioteca, destinata non più alle rare consultazioni di un ufficio, ma al lavoro quotidiano di dotti frequentatori, a cui non è il caso di fissare limiti nell'uso degli strumenti di indagine scientifica»48. Conservare il carattere specialistico della Biblioteca di Palazzo Venezia fu uno dei compiti sui quali si impegnarono i primi illustri direttori dell'Istituto, De Gregori, Maria Ortiz e la stessa Santinelli Fraschetti: una questione di metodo e di scienza biblioteconomica che venne alla luce nell'atto di ricevere da Napoli la biblioteca privata dello scrittore Rocco Pagliara, bibliotecario del Conservatorio di San Pietro a Maiella, che solo in parte rispondeva al carattere archeologico-artistico dell'Istituto.
«La questione di metodo - scriveva Itala Santinelli - era strettamente connessa con l'altra: in che misura, entro quali limiti doveva intendersi il criterio della "specializzazione" che nella Biblioteca della Direzione generale era stato sempre rigorosamente osservato?»49. E ancora: «La specializzazione rigorosa, soprattutto in una biblioteca destinata alla cultura umanistica, è desiderabile e attuabile fino a un certo punto: l'utilità dei risultati non si può dire che corrisponda pienamente allo sforzo e alle difficoltà del tentativo»50.
Si decise dunque di ampliare i confini della specializzazione, intendendo «con una certa larghezza i compiti di una biblioteca specializzata»51 e furono restituite alla famiglia Pagliara solo opere di scarso interesse.
Lo smembramento, o meglio la selezione, dei fondi ricevuti nel corso del tempo ha rappresentato per la Biblioteca lo strumento principale per il contenimento, sia pure entro confini ampi e comunque aperti all'accoglienza di sezioni speciali per singole materie, della tendenza alla generalità insita in tutte le biblioteche umanistiche («non occorre insistere sui contatti e i riflessi reciproci fra pensiero ed arte, fra lingua e pensiero, fra vita civile e vita del pensiero», chiosava la Santinelli a sostegno del criterio più largo per la scelta dei libri Pagliara)52.
Il nuovo ruolo pubblico assunto dalla Biblioteca nel panorama delle biblioteche romane fu recepito dal governo con l'emanazione di un decreto legge del 10 novembre 1924, n. 2359, poi convertito in legge, in favore dell'Istituto italiano di archeologia e storia dell'arte, che ne ampliava di molto le funzioni come «organo di coordinamento e di propulsione degli studi di archeologia e storia dell'arte nel Regno, di concerto con le rr. Scuole italiane di archeologia e storia dell'arte istituite presso la r. Università di Roma, e gli insegnamenti di dette discipline nelle altre Università del Regno».

Nel decennio della sua direzione della Biblioteca, fra il 1930 e il 1940, Itala Santinelli proseguì nell'utilizzo di strumenti speciali per rafforzare il ruolo di una biblioteca specializzata al servizio di un pubblico composto in massima parte da specialisti: promosse infatti un dettagliato catalogo per soggetto, arricchito anche dagli spogli che derivavano dalla schedatura analitica degli articoli delle riviste53, un'opera meritoria poi completata retrospettivamente sotto la guida di Laura De Felice Olivieri Sangiacomo che, succeduta alla Santinelli nel 1940, diresse la Biblioteca fino al 1949.
Risale al 1947 la grande risistemazione della Biblioteca nella sua sede di Palazzo Venezia, dopo sette anni di "sfollamento" all'Accademia d'Italia, alla quale parteciparono, accanto alla De Felice, sia Luigi De Gregori - già gravemente malato - che la Santinelli, con l'obiettivo di dare continuità, pur nella difficoltà degli spazi diventati nel frattempo insufficienti a contenere l'accresciuto patrimonio, agli strumenti biblioteconomici tipici di una biblioteca specializzata54, in primo luogo quello della collocazione dei volumi in libero accesso, la più gradita a studiosi e ricercatori attratti dalla disponibilità di una vasta scelta autonoma all'interno delle singole discipline.
Da allora la Biblioteca ha sviluppato questa tradizione, che prevede attività, servizi, metodi aderenti alle esigenze di ricerca e di studio della sua consolidata utenza e al passo con i tempi: ne sono esempio la digitalizzazione completa di numerosi periodici disciplinari e il Museum iconographicum, a cura del Servizio CEI (Censimento elettronico incisioni) che fin dal 1993 mette a disposizione, in sede, presso la sala Barbo, una banca dati nella quale sono catalogate le incisioni contenute in volumi editi tra il XVI e il XIX secolo in possesso della Biblioteca. Il database, nato da un progetto con il contributo del CNR, consiste in due archivi: un archivio libri attualmente ricco di quasi 2000 volumi, di cui la metà digitalizzati, e un archivio incisioni di oltre 25.000 record, di cui almeno 7000 corredati da relative immagini. La Biblioteca è ora impegnata nella realizzazione di una interfaccia di ricerca che renderà possibile la consultazione anche da remoto.
Pochi anni dopo la creazione dell'Istituto di archeologia e storia dell'arte, un'altra biblioteca specializzata veniva istituita dal Ministero della pubblica istruzione, questa volta ex novo grazie a un atto normativo, il r.d. 24 maggio 1925 n. 1446 (pubblicato sulla G.U. del 26 agosto 1925, n. 197) che approvava la convenzione stipulata il 31 gennaio 1925 fra lo stesso Ministero, il rettore della r. Università di Roma, il presidente della r. Accademia medica e l'amministrazione del pio Istituto di Santo Spirito e ospedali riuniti55 per la creazione della Biblioteca medica statale presso il Policlinico Umberto I di Roma.

Confluivano nella nuova istituzione i fondi moderni dell'antica Biblioteca Lancisiana, già riconosciuta come "autonoma" nel regolamento del 1907, i libri della regia Accademia medica e quelli di carattere medico ceduti dalla Biblioteca universitaria Alessandrina.
Grazie alle numerose donazioni, entro gli anni Quaranta la Biblioteca poté dotarsi inoltre di una discreta raccolta di dissertazioni straniere, di importanti volumi appositamente acquisiti dal Ministero dell'educazione nazionale e di fondi speciali provenienti da biblioteche private, purtroppo dispersi nelle collezioni della Biblioteca.
In base alla convenzione la Biblioteca, che godeva di finanziamenti da parte di tutti gli enti firmatari, doveva essere gestita da un comitato costituito dal presidente dell'Accademia, dal direttore della Biblioteca, da un rappresentante dell'Università e da un delegato degli Ospedali riuniti.
Fin dall'inizio la Biblioteca medica dovette affrontare problemi di spazio e problemi, a esso connessi, di "coabitazione" con l'Accademia e gli istituti universitari di riferimento. Quanto alla sua missione istituzionale, l'ambizione di rappresentare una biblioteca centrale di medicina per la Facoltà dell'Università di Roma, che avrebbe comportato una politica di acquisti mirata da parte delle biblioteche delle cliniche e degli istituti universitari e la loro catalogazione centralizzata presso la Biblioteca, fin dall'inizio stentò a essere attuata, nonostante l'accordo in tal senso fra il rettore e la direttrice Maria Schellembrid Buonanno che resse le sorti della Medica dal 1935 al 194156.
Dal canto suo, la Biblioteca cercava di rinforzare il suo ruolo di istituto specializzato, elaborando schede di spoglio di importanti opere collettive e un accurato catalogo per soggetti.
Con lo scoppio della guerra il nuovo direttore Arturo Di Cesare57, insediatosi il 1° marzo 1942, dovette sospendere sia i necessari lavori di ristrutturazione degli ambienti che il lavoro di catalogazione centralizzata dei volumi delle cliniche e istituti universitari.
Il difficile cammino della Biblioteca medica alla ricerca di una sua identità riprese ancora prima della fine del conflitto attraverso la formulazione, da parte del direttore Di Cesare, che era laureato in medicina, di un programma per l'istituzione di un corso annuale di medicina generale e di biblioteconomia, al fine di formare operatori specializzati nella gestione di biblioteche mediche o di sezioni mediche di biblioteche generali.

Non se ne fece niente, come del resto avvenne per gli altri tentativi di far emergere in ambito clinico e accademico il ruolo della Biblioteca specializzata in scienze mediche.
Dopo la guerra furono ancora una volta le donazioni a dare impulso alla vita della Biblioteca: tesi di dottorato donate dalla Francia alla Biblioteca universitaria Alessandrina e poi trasmesse nel 1947 alla Medica, notevoli gruppi di periodici e testi americani di medicina donati dall'USIS, volumi e opuscoli in svedese donati dalla Pubblica istruzione, libri e periodici americani e inglesi donati dall'American Book Center, oltre alle biblioteche private di illustri clinici italiani.
L'ultimo tentativo di Arturo Di Cesare per il rafforzamento della Biblioteca medica come organo produttore di cultura, nel senso inteso dal "Congresso internazionale delle biblioteche e dei centri di documentazione" svoltosi a Bruxelles dall'11 al 18 settembre 1955, in un contesto di confronto e di competizione tra nazioni civili impegnate nello sviluppo della cultura, non comportò alcun effetto pratico. Anzi, la nuova convenzione firmata il 23 giugno 1959, stabilì la cessione all'Accademia di alcuni locali della Biblioteca e decise che la sala di lettura venisse utilizzata sia come sala di lettura della Biblioteca che come sala di riunione dell'Accademia, aggravando i già noti problemi di spazio con i frequenti spostamenti di mobili necessari per la diversità delle rispettive esigenze. La successiva convenzione, con scadenza 1971, non ebbe seguito, né sono stati mai ridefiniti né i rapporti fra i vari enti coinvolti nella gestione della Biblioteca, né il ruolo, la funzione, l'identità della Biblioteca stessa.
Fra lavori di ristrutturazione, chiusure al pubblico per periodi anche lunghi, difficile definizione dei rapporti, rimane ancora oggi irrisolta la questione della estraneità istituzionale (anche se non funzionale) della Biblioteca medica rispetto al contesto ospedaliero-universitario nel quale ha sede e per il quale offre un servizio di indubbio valore, ma senza avere titolo giuridico per svolgere funzioni centrali. Più somigliante a una biblioteca universitaria, la Biblioteca medica non è diventata quella biblioteca "nazionale" di medicina quale la vagheggiarono gli accademici di inizio secolo e quale appare dalla sua stessa denominazione. Non è infatti in grado di documentare tutta la produzione bibliografica nazionale in campo medico, che non riceve più per deposito legale dopo l'entrata in vigore della recente normativa, né la più significativa produzione internazionale nel campo. Non ha infine le risorse economiche e di personale per svolgere attività di creazione, organizzazione o distribuzione di contenuti scientifici nel suo campo di specializzazione, anche se, grazie alla vicinanza con l'Università di Roma, la Biblioteca medica ha a disposizione una buona rete telematica, la Biblioteca digitale della Sapienza ricca di contenuti specialistici e la possibilità di acquistare in cooperazione fonti elettroniche (periodici e banche dati) a uso degli utenti. Non meraviglia che il numero dei suoi frequentatori, anche di quelli stranieri, rimanga costante, e anzi in ascesa, poiché effettivamente la Biblioteca, oltre ai terminali per l'accesso alla rete universitaria, mette a disposizione assistenti per un ausilio alla ricerca, un discreto quantitativo di opere generali in consultazione, un ambiente confortevole, un orario piuttosto lungo anche se non quanto sarebbe auspicabile in ambito universitario.

Completamente diverse le vicende della Biblioteca di storia moderna e contemporanea, «una delle raccolte più pregevoli delle biblioteche italiane» secondo Virginia Carini Dainotti, che la diresse in due riprese, nell'estate-autunno del 1943 e poi dall'agosto del 1944 al febbraio del 1952, ma "stranamente" somiglianti a quelle della Biblioteca Vallicelliana, poiché «entrambe fanno testimonianza dei danni che inflisse all'organizzazione bibliotecaria della capitale l'indirizzo decentrato caro al Baccelli»58.
La sua storia ha inizio dalla proposta di Pasquale Villari, avanzata nel corso di una discussione parlamentare del giugno del 1880, di costituire una raccolta di libri, opuscoli, documenti e ogni altro genere di testimonianze relative al Risorgimento italiano per onorare il primo re d'Italia, Vittorio Emanuele II, da poco scomparso59. Fu questo il primo passo per la realizzazione della Sezione del Risorgimento presso la Biblioteca nazionale di Roma che, grazie a uno specifico finanziamento60 e all'opera infaticabile del suo direttore Domenico Gnoli61 nell'acquisizione di una grande mole di materiale di particolare interesse e rarità, poté dotarsi di una documentazione altrimenti di difficile reperimento.
Con il 1906 la storia della Sezione del Risorgimento si intreccia con quella del Monumento a Vittorio Emanuele sul Campidoglio: il ministro Boselli, infatti, volle istituire un Comitato nazionale per la storia del Risorgimento con il compito di costituire una biblioteca e un museo che avrebbero avuto sede nel Monumento. Erede ideale del Baccelli, nella visione di Virginia Carini Dainotti, per aver proseguito la sua opera di disaggregazione delle raccolte librarie, Paolo Boselli volle assegnare la Sezione Risorgimento della Biblioteca nazionale al Comitato che, da quel momento (r.d. 17 maggio 1906, n. 212), continuò in proprio la vasta campagna di acquisti ampliandola ulteriormente, con lo scoppio della guerra, di materiali speciali relativi al conflitto.
Nonostante lo sconcerto di Gnoli per l'improvvisa decisione del ministro, peraltro dimissionario, il provvedimento non fu revocato, ma la sua attuazione procrastinata fino all'allestimento del Museo e della Biblioteca previsti nel Monumento in costruzione.

Poteva sembrare una partita chiusa; in realtà il primo conservatore della Sezione Risorgimento, Emilio Pecorini Manzoni62, nominato da un decreto del 1912, e lo stesso Giuliano Bonazzi63, dal 1909 a capo della Biblioteca nazionale, non si dimostrarono affatto pregiudizialmente contrari al distacco della Sezione dalla Biblioteca. Il primo passo fu compiuto con d.l. 15 febbraio 1917, quando il nome della Sezione fu mutato in quello di Biblioteca centrale del Risorgimento assumendo lo status di biblioteca autonoma retta da un conservatore. Il passo successivo risale al marzo del 1921, quando la "nuova" Biblioteca fu trasferita non già al Vittoriano, i cui locali non erano ancora pronti, ma in alcune sale del Palazzetto Venezia. Con r.d. n. 9320 del 1923 la Biblioteca mutò ancora una volta nome in quello di Biblioteca museo archivio del Risorgimento e fu affidata alle cure di un funzionario bibliotecario del Ministero della pubblica istruzione.
Con la soppressione del Comitato nazionale per la storia del Risorgimento, avvenuta a seguito della legge di riordino degli istituti storici (r.d.l. 20 luglio 1934, n. 1226), la parte più propriamente museale della raccolta iniziata nel 1880 fu posta alle dipendenze della Società nazionale per la storia del Risorgimento (che l'anno seguente diventerà Istituto storico per l'età del Risorgimento), mentre la parte libraria fu affidata a un nuovo istituto, fondato contestualmente: l'Istituto storico italiano per l'età moderna e contemporanea. Il prezioso archivio, dimenticato nel decreto del 1934, troverà posto insieme agli autografi e ai manoscritti64 l'anno successivo, presso l'Istituto storico per l'età del Risorgimento, con sede al Vittoriano.
Finalmente, con r.d. n. 2181 del 1937, la Biblioteca assunse il nome che conserva anche oggi, e due anni dopo venne trasferita a Palazzo Mattei di Giove, dove tutt'ora ha sede.
Se non fosse che il regolamento delle biblioteche pubbliche statali del 1967 le attribuisce una denominazione ancora diversa, e del tutto inedita (Biblioteca dell'Istituto di storia moderna e contemporanea), potrebbe dirsi che le tormentate vicende della Biblioteca ebbero comunque fine con la sua collocazione definitiva, in via Caetani.
Da allora, infatti, la Biblioteca, pur avendo subito le gravi mutilazioni cui si è accennato, ha interpretato nel migliore dei modi la vocazione specialistica che aveva ricevuto all'atto di nascita e ha svolto costantemente una attività tutta organica alla sua caratteristica disciplinare, distinguendosi per la particolare attenzione al trattamento dei materiali speciali (opuscoli, fogli volanti, bandi, manifesti, stampe, fotografie) di cui è ricchissima, alla loro gestione e agli strumenti di mediazione tra il suo patrimonio e il pubblico65.
Nel tempo, ha sviluppato una originale politica editoriale, si è distinta nel campo della didattica della storia, sia collaborando con le cattedre universitarie più sensibili a tale problematica, sia organizzando seminari per gli studenti dell'ultimo anno del liceo, e ha sviluppato una intensa attività culturale favorendo il dibattito fra gli storici, presentando le novità librarie del settore e collaborando con gli istituti culturali e i centri di documentazione dedicati alla storia moderna e contemporanea, per i quali è diventata un vero e proprio punto di riferimento.
In epoca più recente è stata avviata una vasta campagna di digitalizzazione, tuttora in corso, di materiali speciali, grazie alla quale è ora possibile fornire al pubblico - anche da remoto - documenti di ogni tipo direttamente in formato elettronico e banche dati strutturate su argomenti di particolare interesse storico, come la Repubblica romana del 1849 e la prima guerra mondiale, disponibili sul sito internet dell'Istituto. Content provider di iniziative importanti a livello nazionale e internazionale, come la piattaforma digitale Europeana, nell'ambito della catalogazione partecipata in SBN la Biblioteca di storia moderna e contemporanea ha assunto da qualche tempo le funzioni di capofila del Polo IEI, nato nel 1987 presso l'Istituto dell'Enclopedia italiana Treccani e formato attualmente da 36 biblioteche di istituti culturali romani, confermando ulteriormente il suo pieno inserimento nel circuito culturale degli studi storici.

Come si è visto, le tre biblioteche del Ministero per i beni e le attività culturali, cui il regolamento del 1967 ha riconosciuto le funzioni di biblioteca specializzata (art. 10: «La Biblioteca dell'Istituto di archeologia e storia dell'arte, la Biblioteca dell'Istituto di storia moderna e contemporanea, la Biblioteca medica statale di Roma curano l'integrazione e l'aggiornamento delle raccolte delle rispettive discipline»), sono biblioteche diverse, per nascita e per vocazione, e le loro funzioni non sono certo facilmente assimilabili, in quanto frutto di storie e sviluppi differenti. Tuttavia - pur conservando ognuna la propria identità - sono riscontrabili in esse alcune caratteristiche comuni: hanno perseguito nel tempo l'obiettivo di tenere il passo con le mutate esigenze della ricerca e, nonostante le difficoltà, sono rimaste agganciate alle richieste bibliografiche del proprio pubblico, svolgendo attività, creando servizi e utilizzando strumenti e metodi più aderenti possibile ai bisogni espressi dal mondo degli studi; hanno tenuto vive tutte le possibilità di dialogo con istituti affini o con settori specifici di biblioteche di più grandi dimensioni; hanno offerto strumenti tecnologicamente avanzati per un pubblico formato da specialisti; hanno tentato insomma di realizzare quell'idea di biblioteca «come sistema di trasferimento dinamico di informazioni» di cui parlava già Maltese nel lontano 198566.
Anche in tempi di crisi come quello in cui viviamo (e si sa che «nei momenti di difficoltà economica le istituzioni e le attività67 culturali si presentano facilmente come candidate a vittime sacrificali, considerate non strettamente necessarie, o comunque meno necessarie di altre attività»), queste linee di azione costituiscono ancora la base del funzionamento delle biblioteche speciali, sia pure senza un preciso coordinamento scientifico e gestionale, ma con la convinzione di rappresentare una valida offerta culturale e di servizio al pubblico.
Evidentemente, il fatto stesso di essere depositarie di un orizzonte disciplinare almeno teoricamente limitato ha favorito nel tempo la fissazione di obiettivi di sviluppo settoriali ma sostenibili, nonostante la riduzione delle risorse, sia economiche che di personale, che da anni ha investito l'intero sistema delle biblioteche pubbliche italiane68.

In particolare i dati quantitativi raccolti e pubblicati dall'Ufficio di statistica del Ministero per i beni e le attività culturali69 presentano, nel quadro generale di una significativa e progressiva perdita di pubblico da parte delle biblioteche nell'ultimo quinquennio70 (paragonabile per intensità solo alla drastica riduzione delle risorse economiche a esse destinate), alcuni chiari segnali di resistenza delle tre specializzate rispetto ai loro utenti di riferimento: buona tenuta, anzi lieve incremento del numero delle presenze e dei prestiti per la Biblioteca medica71, elevato numero di consultazioni in sede e di copie da banche dati digitali per la Biblioteca di archeologia e storia dell'arte, numerosi prestiti per la Biblioteca di Storia moderna, alla quale va anche riconosciuto il primato di una sempre crescente affluenza di pubblico in sede, oltre che di visitatori da remoto72.
Ciascuna facendo leva sui propri punti di forza, queste biblioteche hanno dato una loro personale risposta a una situazione di crisi che oggi è chiara, conclamata e perfino comunemente accettata, ma che, per quanto riguarda il settore delle biblioteche, viene da lontano73. È infatti dall'inizio degli anni Novanta che gli indicatori registrano una discesa costante delle risorse di personale nelle biblioteche pubbliche statali, mentre dopo qualche anno di oscillazioni, dal 2003 lo stanziamento per le spese di gestione degli istituti risulta palesemente in caduta libera. Sarebbe ingenuo considerare un trend negativo di queste proporzioni solo come un accidente doloroso ma inevitabile, legato alla attuale delicata situazione di crisi economico-finanziaria di carattere mondiale che ha investito i mercati negli ultimi anni. Le cifre, del resto, parlano chiaro: 2160 impiegati in servizio alla fine del 2010 contro i 3342 del 1992; 26,6 milioni di euro investiti per le spese di gestione delle biblioteche pubbliche statali nel 2010, contro i 48 milioni registrati del 2003. Se la riduzione di personale ha determinato una grave soluzione di continuità nella trasmissione delle conoscenze tecnico-scientifiche all'interno degli istituti (una frattura già oggi ben evidente, ma i cui effetti più deteriori dovranno purtroppo ancora manifestarsi), il mancato sostegno economico ha investito in pieno innanzitutto la politica degli acquisti delle biblioteche che - dopo aver dovuto rinunciare all'aggiornamento della letteratura scientifica straniera - si sono dovute confrontare drammaticamente con i tagli degli abbonamenti alle pubblicazioni periodiche, creando lacune nella documentazione che difficilmente sarà possibile colmare. Il fenomeno che ha già da tempo assunto proporzioni vistose e preoccupanti in tutte le biblioteche (dalle 75.633 testate correnti possedute nel 2006 si è passati in soli 4 anni a 53.04274), ma per le specializzate, che non godono del deposito legale, rappresenta un danno permanente e incalcolabile, dato che l'aggiornamento degli studi su aree disciplinari specifiche non può essere perseguito in modo approssimativo e non sopporta selezioni inevitabilmente arbitrarie e discrezionali. La documentazione in materia di letteratura periodica, che ha rappresentato nel tempo il principale punto di forza delle biblioteche specializzate, rischia di rappresentare a breve il loro principale punto di debolezza.

Se sul piano generale non si può che essere d'accordo con le insistenti richieste di una nuova politica di rilancio occupazionale e di nuovi investimenti in favore delle biblioteche, una riflessione particolare sulle contromisure adottabili per attutire le conseguenze di una situazione tanto delicata si impone, se non altro per continuare a pensare al futuro.
Come si è detto, le tre biblioteche specializzate dello Stato, pur nella loro diversità e nell'alternanza degli esiti a seconda dei periodi, si sono poste precocemente sulla strada della "biblioteconomia speciale", dunque sulla strada della fornitura di servizi particolari destinati a un'utenza particolare, e nel corso della loro storia si sono trovate a incrociare le proprie attività istituzionali con quelle di università, enti, istituti di cultura e fondazioni, realizzando, sia pure occasionalmente, un modello di integrazione dei servizi a livello territoriale e interistituzionale.
Col passare del tempo, su entrambe le direzioni, la rete ha rappresentato il loro principale strumento d'azione per lo sviluppo e la diffusione della memoria storica, sociale e culturale attraverso il recupero e la salvaguardia della documentazione testuale, visiva e multimediale e per favorire l'accesso alle fonti di difficile reperimento.
I progetti di digitalizzazione delle biblioteche specializzate (si pensi in particolare ai 117 periodici italiani digitalizzati dalla Biblioteca di archeologia e storia dell'arte e alle banche dati "mirate" sulla Repubblica romana del 1849 e sulla Grande guerra della Biblioteca di storia moderna e contemporanea) hanno trovato, più facilmente di quanto non sia accaduto per le biblioteche cosiddette "generali", il favore del pubblico e la sua considerazione, proprio perché pensati in modo organico rispetto alla missione specifica della biblioteca, dunque immediatamente riconoscibili e al riparo dai problemi di impostazione logica e organizzativa che, specie agli esordi, ha condizionato le campagne di digitalizzazioni di diversi istituti "generalisti" italiani.
Prendendo spunto dalla compattezza del proprio patrimonio le biblioteche specializzate potrebbero ipotizzare di utilizzarlo in modo sempre più sistematico per elaborare progetti repertoriali ispirati a temi particolari, presentare online contenuti già organizzati, fornire ipertesti e approfondimenti, facilitando un approccio creativo alla ricerca scientifica.
Risorse digitali di materiali speciali e banche dati tematiche potrebbero a loro volta ampliare quella rete di relazioni collaborative fra istituti specializzati, già positivamente sperimentata, per mettere a fattore comune le proprie risorse con quelle degli altri e realizzare un modello innovativo di integrazione virtuale e aperta, quindi ampiamente interistituzionale, delle numerose collezioni speciali presenti sul territorio nazionale, indipendentemente dalla loro appartenenza amministrativa.

È stato detto che, proprio a causa della crisi in atto, «l'agire culturale pubblico oggi richiede un più e non un meno di politica culturale, un disegno di medio e lungo periodo che non si accontenti di far quadrare le somme sulle colonne di una partita doppia, ma ricerchi forme di risparmio non solo economico ma energetico, ad esempio valorizzando la rete, anche quella delle biblioteche, come intelligenza collettiva»75. Il passo successivo - nella direzione indicata - potrebbe essere quello dell'integrazione documentaria: integrare microfilm, risorse digitali, materiali di genere diverso nel catalogo collettivo SBN è un'operazione certo complessa, ma potrebbe rappresentare la via maestra verso la quale dirigersi, sia per stare al passo con gli attuali bisogni dell'utenza, sia per procedere a una drastica, ma non riduttiva, semplificazione delle attività gestionali interne alle biblioteche.
«Questo sarebbe di grandissima utilità non solo per chi fa ricerca, ma per le biblioteche stesse. Segnalando ai loro utenti che certo materiale è disponibile in rete [...], non solo si facilita il lavoro all'utente, che sarà ben contento di poterselo scaricare e salvare quando e come vuole, ma si riducono oneri e inconvenienti per la biblioteca stessa»76, scrive Alberto Petrucciani a sostegno della ricerca scientifica nell'universo dell'offerta digitale77.
In questa delicata fase storica, è necessario che le biblioteche specializzate puntino sulla propria identità, difendendola e rinforzandola quanto più possibile, ma la garanzia della loro sopravvivenza è affidata soprattutto alla capacità di andare oltre e trasformarsi da soggetti eminentemente passivi (luoghi ai quali l'utente si rivolge per consultare un libro) a soggetti attivi, motori di cultura e di diffusione delle conoscenze, veri e propri laboratori del sapere, «centri di produzione culturale, e non solo di distribuzione»78.

Senza perdere la propria natura, senza negare la propria storia, oggi le biblioteche specializzate possono diventare un luogo aperto al dialogo, proponendosi come laboratorio di realizzazione e diffusione di prodotti culturali nuovi, secondo un «modello, altamente collaborativo e avanzato, [che] colloca la professione bibliotecaria al centro di processi condivisi di creazione (oltre che di acquisizione e distribuzione) della conoscenza»79. Il che significa, come sottolinea ancora Petrucciani, «ridare centralità alla loro funzione culturale (non semplicemente informativa)» e «rinvigorire rapporti spesso allentati con la produzione e l'elaborazione della cultura»80, facendo sistema e costruendo reti con altri interlocutori, territoriali o disciplinari che siano, di cui nessuna biblioteca oggi può fare a meno, se non vuole trovarsi in una condizione di emarginazione dovuta alla propria autoreferenzialità.
Ogni biblioteca avrà il suo modello di sviluppo, perché evidentemente non esiste un modello innovativo di portata generale, valido per tutte, ma tutte hanno oggi più che mai il bisogno di seguire una via segnata dall'esistenza di una propria, specifica tradizione: «L'esperienza/chiave su cui lavorare [...] è quella conoscitiva: non possiamo perdere di vista questo obiettivo, altrimenti la biblioteca perde le caratteristiche di base della sua mission e si trasforma in altro, un, magari splendido, luogo di incontro e di relax, ma non un luogo in cui si mira a migliorare la propria conoscenza, ad accrescere la propria capacità di dare senso alla realtà attraverso il legame fra testi e propri schemi mentali»81.
Le biblioteche specializzate hanno difeso fino a oggi questa loro tradizione speciale: il loro futuro non potrà che essere fondato sui quei valori che hanno già garantito nel tempo una certa stabilità e continuità della loro funzione culturale, ma con le radici ben salde nelle caratteristiche peculiari di ciascun istituto, dovute alla storia, al patrimonio, ai processi di accrescimento, al rapporto instaurato nel tempo con il pubblico: nella propria speciale esperienza storica.

Ultima consultazione siti web: 25 settembre 2012.


NOTE

[1] Cfr. Enrico Novari - Matilde Salimei, Strumenti bibliografici per le biblioteche speciali: una rassegna della letteratura 1978-1982, «Bollettino d'informazioni AIB», 23 (1983), n. 1, p. 42-58. Il fascicolo monografico della rivista reca il titolo Biblioteche speciali, a cura di Maria Pia Carosella, e contiene numerosi interventi, ben documentati, su alcune realtà presenti in Italia e sulle relative metodologie gestionali.

[2] Cfr. Giovanni Lazzari, Il Gruppo di studio sulle biblioteche speciali dell'AIB-Sezione Lazio, ivi, p. 36-40.

[3] Biblioteche speciali: atti del Convegno di studio "La biblioteca speciale e specializzata": Vinci, Biblioteca Leonardiana, 3-4 ottobre 1985, realizzato in collaborazione con AIB Sezione Toscana, Associazione intercomunale n. 18, «Biblioteche oggi», Regione Toscana, a cura di Mauro Guerrini, Milano: Editrice Bibliografica, 1986.

[4] Giovanni Solimine, Le raccolte delle biblioteche e la "connessione locale", «Bollettino d'informazioni AIB», 30 (1990), n. 3-4, p. 229-246. La citazione è a p. 230.

[5] Alfredo Serrai, Guida alla biblioteconomia, Firenze: Sansoni, 1981, p. 29.

[6] Mauro Guerrini, Nota introduttiva, in: Biblioteche speciali cit., p. 6-8.

[7] Ivi, p. 6.

[8] Carlo Revelli, La catalogazione del materiale speciale, in: Biblioteche speciali cit., p. 143-161. La citazione è a p. 143.

[9] Diego Maltese, Biblioteche speciali o biblioteconomia speciale?, in: Biblioteche speciali cit., p. 11-14.

[10] Ivi, p. 12.

[11] Ivi, p. 13.

[12] Guida indispensabile in questo rapido percorso di sintesi rimane il fondamentale volume di Paolo Traniello, Storia delle biblioteche in Italia: dall'Unità a oggi, con scritti di Giovanna Granata, Claudio Leombroni, Graziano Ruffini, Bologna: Il mulino, 2002.

[13] Su Pietro Maestri e sulla nascita della statistica pubblica cfr. Guido Melis, Storia dell'amministrazione italiana, 1861-1993, Bologna: Il mulino, 1996, p. 108-113.

[14] Statistica del Regno d'Italia: biblioteche, anno 1863, Firenze: Tip. dei successori Le Monnier, 1865.

[15] Ne sono la riprova le lettere inviate dal responsabile della statistica a Tommaso Gar, in quegli anni il maggior esperto del settore, per avere dati e notizie sugli istituti da lui direttamente conosciuti. Si veda in particolare la lettera di ringraziamento del 9 novembre del 1864 pubblicata in: Arnaldo Ganda, Un bibliotecario e archivista moderno: profilo bio-bibliografico di Tommaso Gar (1807-1871) con carteggi inediti, Parma: Università degli studi, Facoltà di lettere e filosofia, 2001, p. 513-514.

[16] Statistica del Regno d'Italia cit., p. XXVIII.

[17] Ivi, p. [V].

[18] Guido Biagi, Per una legge sulle biblioteche, «Nuova antologia», 1906, p. 207-216.

[19] Cfr. Virginia Carini Dainotti, Biblioteche generali e biblioteche speciali nelle discussioni parlamentari, in: Miscellanea di scritti di bibliografia ed erudizione in memoria di Luigi Ferrari, Firenze: Olschki, 1952, p. 117-167. In particolare si legga p. 118, dove si ricorda come anche Marco Minghetti, relatore al bilancio per il 1867 e il 1868, avesse invano tentato di far passare la proposta di concentrare le raccolte a favore di poche, grandi biblioteche.

[20] Desiderio Chilovi, Il Governo e le biblioteche, «Il Politecnico», 30 (1867), n. 1, p. 71-85; n. 2, p. 173-197.

[21] Ivi, p. 75.

[22] Ivi, p. 76.

[23] Un ampio stralcio della relazione presentata dalla Commissione Cibrario su questo tema è pubblicato in Paolo Traniello, Storia delle biblioteche in Italia cit., p. 20-22.

[24] Cfr. Guido Melis, Storia dell'amministrazione italiana cit., p. 75-90. Nel cap. Le contraddizioni del "centralismo debole" molte pagine illuminanti sono dedicate proprio al Ministero della pubblica istruzione. Sugli effetti del centralismo debole sul nascente sistema bibliotecario italiano si veda inoltre Paolo Traniello, Storia delle Biblioteche in Italia cit., p. 48-58.

[25] Regio decreto che approva il riordinamento delle biblioteche governative del Regno, 25 novembre 1869, n. 5368.

[26] Art. 3.

[27] R.d. 22 giugno 1873, n. 1482, Regio decreto relativo al riordinamento delle Biblioteche governative, art. 1.

[28] Cfr. Maria Iolanda Palazzolo, Bonghi e il sistema delle biblioteche, in: Ruggero Bonghi fra politica e cultura, a cura di Luca Bellingeri e Maria Gaia Gajo Mazzoni, Roma: Biblioteca nazionale centrale, 1996, p. 27-34.

[29] Sull'intensa ma anche relativamente breve attività politica di Bonghi in favore delle biblioteche - fra la discussione sul bilancio della pubblica istruzione del 1869 e il 29 febbraio del 1880, data del suo ultimo articolo sul tema in «Il Fanfulla della domenica» - si veda Luca Bellingeri, Bonghi e le biblioteche nelle carte conservate alla Biblioteca nazionale centrale di Roma, in: Ruggiero Bonghi: la figura e l'opera attraverso le carte dell'archivio privato: atti del Convegno di studi, Archivio di Stato, Napoli 20-21 novembre 1998, Roma: Ministero per i beni e le attività culturali, Direzione generale per gli archivi, 2004, p. 77-87.

[30] Ivi, p. 80.

[31] Virginia Carini Dainotti, Biblioteche generali e biblioteche speciali cit.

[32] Ivi, p. 124.

[33] Ivi, p. 127.

[34] Ivi, p. 129.

[35] Ivi, p. 126.

[36] Discussione parlamentare del 17 dicembre 1883. Si veda Maria Iolanda Palazzolo, Bonghi e il sistema delle biblioteche cit, p. 27-34.

[37] Ivi p. 32.

[38] R.d. n. 733 del 24 ottobre 1907 pubblicato sulla «Gazzetta ufficiale», n. 286 del 4 dicembre 1907.

[39] Franca Arduini, Troppi regolamenti nessuna legge: dalla storia della legislazione bibliotecaria l'assenza di un organico progetto di sistema nazionale, «Biblioteche oggi», 5 (1987), n. 4, p. 25-41.

[40] Ettore Apollonj, Guida alle biblioteche italiane, Milano: Mondadori, 1939, p. 15.

[41] Ivi, p. 21.

[42] Itala Santinelli Fraschetti, La Biblioteca del reale Istituto di archeologia e storia dell'arte in Roma, «Accademie e biblioteche d'Italia», 8 (1934), n. 1, p. 16- 38.

[43] Ivi, p. 16. Sulla storia della Biblioteca e delle sue collezioni cfr. anche Amedeo Benedetti, Biblioteca di archeologia e storia dell'arte, «Biblioteche oggi», 23 (2005), n. 10, p. 33-39 e bibliografia ivi citata. Sulla carriera di Itala Santinelli Fraschetti cfr. Dizionario bio-bibliografico dei bibliotecari italiani del XX secolo, a cura di Simonetta Buttò, http://www.aib.it/aib/editoria/dbbi20/dbbi20.htm, ad vocem.

[44] Su Croce e le biblioteche cfr. Leonardo Lattarulo, Un aspetto della politica culturale crociana: la questione delle biblioteche, in: Biblioteca nazionale centrale Vittorio Emanuele II, I fondi, le procedure, le storie: raccolta di studi della Biblioteca, Roma: Tip. della Biblioteca nazionale centrale, 1993, p. 259-276.

[45] Luigi De Gregori era stato incaricato durante la guerra della confisca dei beni dell'Istituto archeologico germanico e del loro trasporto in Castel Sant'Angelo; alla fine del conflitto ne curò la restituzione alla Germania. Dopo la seconda guerra mondiale, fu ancora De Gregori a ricevere dal ministro Arangio Ruiz, con lettera del 20 aprile 1945, l'incarico di Commissario straordinario per la sistemazione della Biblioteca di archeologia e storia dell'arte nella sede di palazzo Venezia, dopo il trasferimento per motivi di sicurezza nei locali dell'Accademia d'Italia in via della Lungara: cfr. Giorgio De Gregori, Vita di un bibliotecario romano: Luigi de Gregori con i suoi diari, documenti inediti, note e figure, con la collaborazione di Andrea Paoli, Roma: AIB, 1999, p. 22-25. Vedi da ultimo Andrea Paoli, Luigi De Gregori, in: Dizionario biografico dei soprintendenti bibliografici, Bologna: Bononia University Press, 2011, ad vocem.

[46] Itala Santinelli Fraschetti, La Biblioteca del reale Istituto di archeologia e storia dell'arte cit., p. 24.

[47] Ivi, p. 25.

[48] Ibidem.

[49] Ivi, p. 28.

[50] Ibidem.

[51] Ivi, p. 29.

[52] Ivi, p. 28.

[53] Specialista di "cataloghi reali" (o, come diremmo oggi, semantici), Itala Santinelli pubblicò per l'Enciclopedia del libro il primo manuale italiano di soggettazione: cfr. Itala Santinelli Fraschetti, Il catalogo alfabetico per soggetti, Milano: Mondadori, 1941. Una specifica riflessione sulle articolazioni della voce "Roma" del catalogo della Biblioteca di archeologia e storia dell'arte si legge in: Itala Fraschetti Santinelli, L'ordinamento della voce "Roma" nel catalogo per soggetti, in: Studi di bibliografia e di argomento romano in memoria di Luigi De Gregori, Roma: F.lli Palombi, 1949, p. 151-163.

[54] Sul trasferimento e nuovo allestimento della Biblioteca si veda l'estratto della relazione inviata al Ministero da Itala Santinelli Fraschetti (La nuova sede della Biblioteca del r. Istituto di archeologia e storia dell'arte), pubblicato in «Accademie e biblioteche d'Italia», 15 (1940), n. 1, p. 57-62 e Laura Olivieri Sangiacomo, La nuova sistemazione della Biblioteca di archeologia e storia dell'arte (problemi di una moderna biblioteca specializzata), in: Studi di bibliografia e di argomento romano in memoria di Luigi De Gregori cit., p. 333-346. Sulla Olivieri cfr. Dizionario bio-bibliografico cit., ad vocem.

[55] Ringrazio l'amico e collega Giovanni Arganese, che ha diretto la Biblioteca medica per molti anni, dal 2 gennaio 1997 al 20 dicembre 2010, per le notizie storiche e per i dati che mi ha gentilmente messo a disposizione.

[56] Su Maria Schellembrid cfr. Dizionario bio-bibliografico dei bibliotecari cit., ad vocem, e Laura Businaro, Maria Schellembrid Buonanno, in: Dizionario biografico dei soprintendenti bibliografici cit., ad vocem.

[57] Sulla figura di Arturo Di Cesare cfr. Andrea Paoli, Arturo Di Cesare, in: Dizionario biografico dei soprintendenti bibliografici cit., ad vocem.

[58] Cfr. Virginia Carini Dainotti, Biblioteche generali e biblioteche speciali cit., p. 138-139. Sulla Carini direttrice di biblioteca, dirigente dell'amministrazione centrale della pubblica istruzione e sulla sua azione politica in materia di biblioteche cfr. Virginia Carini Dainotti e la politica bibliotecaria del secondo dopoguerra: atti del convegno, Udine, 8-9 novembre 1999, a cura di Angela Nuovo, Roma: AIB, 2002.

[59] Le vicende della costituzione della raccolta risorgimentale, della costruzione del Vittoriano in memoria del primo re, e della nascita del Museo archivio biblioteca del Risorgimento sono analiticamente narrate, sulla base di un'ampia selezione delle discussioni parlamentari sul tema, in Virginia Carini Dainotti, Biblioteche generali e biblioteche speciali cit., p. 138-167. Si veda anche Archivi di biblioteche: per la storia delle biblioteche pubbliche statali, Roma: Edizioni di Storia e letteratura, 2002, p. 219-230.

[60] Ridotto però della metà a partire dal 1890: cfr. Virginia Carini Dainotti, Biblioteche generali e biblioteche speciali cit., p. 143.

[61] Su Domenico Gnoli si veda la voce di Claudio Zambianchi in Dizionario biografico degli italiani, v. 57 (2002), http://www.treccani.it/enciclopedia/domenico-gnoli_(Dizionario-Biografico). Sulla sua carriera di direttore di biblioteca cfr. Giorgio de Gregori - Simonetta Buttò, Per una storia dei bibliotecari italiani del XX secolo: dizionario bio-bibliografico 1900-1990, con la collaborazione di Giuliana Zagra, Roma: AIB, 1999, ad vocem e Dizionario bio-bibliografico dei bibliotecari cit., ad vocem.

[62] Cfr. la scheda sulla sua carriera in: Dizionario bio-bibliografico dei bibliotecari italiani cit., ad vocem.

[63] Cfr. Giorgio de Gregori - Simonetta Buttò, Per una storia dei bibliotecari italiani del XX secolo cit., p. 39-40 e da ultimo Giuliana Zagra, Giuliano Bonazzi, in: Dizionario biografico dei soprintendenti bibliografici cit., ad vocem.

[64] Rimasero tuttavia alla Biblioteca gli autografi della Collezione mazziniana.

[65] Cfr., per esempio, Valeria Cremona - Lauro Rossi, Un fondo speciale della Biblioteca di storia moderna e contemporanea, in: Biblioteche speciali: atti del Convegno di studio "La biblioteca speciale e specializzata" cit., p. 253-258.

[66] Diego Maltese, Biblioteche speciali o biblioteconomia specializzata? cit., p. 13.

[67] Carlo Revelli, Bilanci magri e risorse alternative, «Biblioteche oggi», 27 (2009), n. 5, p. 44.

[68] Sulla "crisi" di lunga data del settore delle biblioteche pubbliche statali cfr. Simonetta Buttò, Funzionamento e criticità delle biblioteche pubbliche statali, in: Il pane della ricerca: luoghi, questioni e fonti della storia contemporanea in Italia, a cura di Marco De Nicolò, Roma: Viella, 2012, p. 171-179.

[69] http://www.statistica.beniculturali.it.

[70] Cfr. http://www.statistica.beniculturali.it/rilevazioni/BIBLIOTECHE%20SITO/BIBLIOTECHE%202010/quinqbiblio2010.pdf. Si veda anche Simonetta Buttò, Funzionamento e criticità delle biblioteche pubbliche statali cit., dove vengono sinteticamente presentati i dati statistici riassuntivi degli ultimi anni e il loro effetto sulla gestione ordinaria degli istituti.

[71] Ringrazio Giovanni Arganese per avermi messo a disposizione il dettaglio dei dati mensili relativi all'affluenza di pubblico e ai prestiti del 2010.

[72] Il dato dell'Ufficio di statistica relativo alle consultazioni presso la Biblioteca di storia moderna e contemporanea nel 2010 riporta per errore il solo dato delle richieste da magazzino (61.831): a esso invece va aggiunto il numero delle consultazioni di opere a scaffale aperto (33.300) che del resto figura sempre integrato in tutte le altre statistiche annuali. La tendenza alla crescita della frequentazione della Biblioteca da parte del pubblico è confermata anche nella relazione d'ufficio per il 2011 che censisce 104.115 consultazioni e 11.460 prestiti per 28.396 utenti annuali.

[73] Cfr. Simonetta Buttò, Funzionamento e criticità delle biblioteche pubbliche statali cit., p. 171-174.

[74] http://www.statistica.beniculturali.it/rilevazioni/BIBLIOTECHE%20SITO/BIBLIOTECHE%202010/quinqbiblio2010.pdf.

[75] Luca Ferrieri, La biblioteca tascabile: che ci faccio con l'e-book?, «Bollettino AIB», 50 (2010), n. 4, p. 365-380. La citazione è a p. 369.

[76] Alberto Petrucciani, La bancarella planetaria e la biblioteca digitale: il punto di vista della ricerca e una possibile agenda per l'Italia, «DigItalia», 5 (2010), n. 1, p. 9-32. La citazione è a p. 27.

[77] Nell'articolo Petrucciani ricorda anche che la possibilità di segnalare le risorse digitali direttamente nel record bibliografico, e quindi nell'Indice di SBN, è oggi esplicitamente prevista dalle nuove Regole italiane di catalogazione (REICAT). In questa direzione, per esempio, si sta già muovendo la Biblioteca di storia moderna e contemporanea, che sta mettendo a disposizione degli utenti del catalogo il link diretto alle risorse digitali esistenti.

[78] Luca Ferrieri, La biblioteca tascabile cit., p. 369.

[79] Giovanni Di Domenico, Perché un'economia della biblioteca?, in: Verso un'economia della biblioteca: finanziamenti, programmazione e valorizzazione in tempo di crisi, a cura di Massimo Belotti, Milano: Editrice bibliografica, 2011, p. 24-38. La citazione è a p. 31.

[80] Alberto Petrucciani, La biblioteca pubblica italiana: memoria della comunità e produttrice di cultura, in: L'Italia delle biblioteche: scommettendo sul futuro nel 150° anniversario dell'Unità nazionale, a cura di Massimo Belotti, Milano: Editrice Bibliografica, 2012, p. 195-201. La citazione è a p. 201 e i corsivi sono dell'autore.

[81] Michele Rosco, Il marketing territoriale e culturale della biblioteca, in: Verso un'economia della biblioteca cit., p. 192-204. La citazione è a p. 201.