di Loretta De Franceschi
Elizabeth L. Eisenstein, oggi professore emerito presso l'università del Michigan, è autrice ben nota anche al pubblico italiano grazie ai suoi importanti lavori che hanno indagato la nascita della stampa, in particolare negli aspetti socio-culturali. Il suo primo libro, The printing press as an agent of change (Cambridge University Press, 1980), è uscito in Italia nel 1986 presso il Mulino con il titolo La rivoluzione inavvertita: la stampa come fattore di cambiamento. Il successivo, The printing revolution in early modern Europe (medesima casa editrice, 1983; impressionante la sequenza delle ristampe, con cadenza annuale quasi ininterrotta fino al 2000, e poi ancora nel 2005), è stato tradotto dopo oltre un decennio in Le rivoluzioni del libro: l'invenzione della stampa e la nascita dell'età moderna (il Mulino, 1995).
Nell'insieme i due testi hanno rappresentato sia un punto di partenza, sia uno snodo di svolta nella riflessione critica intorno ai mutamenti innescati dal nuovo processo produttivo, dal quale emergeva un diverso manufatto - il libro tipografico - che si diffonderà rapidamente in tutta Europa modificando in maniera radicale il sistema della comunicazione scritta. L'analisi della stampa complessivamente condotta da Eisenstein non sempre ha trovato pienamente concordi gli studiosi del settore - propendendo, alcuni, per un ridimensionamento della portata innovativa e rivoluzionaria - ma, indipendentemente da questo, le conclusioni avanzate continuano a costituire una tappa fondamentale e imprescindibile nello studio del fenomeno.
L'impatto del nuovo modo d'impressione dei documenti sulla circolazione delle idee, saldamente connesso alle sue conseguenze nel circuito insegnamento-apprendimento-diffusione della conoscenza, nonché in quello della lettura, rappresenta quindi la grande passione intellettuale di Elizabeth L. Eisenstein: a questo tema, l'ormai anziana ma vivace studiosa ha voluto dedicare ulteriori energie, presentando ora Divine art, infernal machine: the reception of printing in the west from first impressions to be sense of an ending, Philadelphia: PennPress, 2011, 384 p., ISBN 13:978-0812242805.
Il lavoro è ospitato nella prestigiosa collana «Material Texts» - del cui comitato scientifico è membro, tra gli altri, Roger Chartier - e le sue oltre trecento pagine, in veste rigida, sono corredate da un apparato illustrativo di ventiquattro riproduzioni in bianco e nero (immagini tratte da materiali storici, compresa la classica Encyclopédie, frontespizi, caricature ecc.). Le abbondanti note, poste tutte a fine volume (scelta meno agevole rispetto a quella di collocarle a chiusura dei singoli capitoli), vengono seguite da una ricca bibliografia e dall'indice analitico.
Questi ultimi due elenchi restituiscono un ventaglio di autori estremamente variegato - comprensivo di filosofi, umanisti, storici, bibliografi, scienziati, ecclesiastici, sia antichi sia contemporanei - a conferma delle numerose fonti a cui l'autrice si è rivolta, molte delle quali italiane. Ad esempio, oltre ad alcuni dei personaggi che menzioneremo più avanti: Platone, Tacito, Montaigne, Bacon, Montesquieu, Rousseau, Hume, Carlyle, Kant, Hegel; il filologo gesuita Philippe Labbé; inoltre, Benjamin Franklin, Karl Marx, Jacques Deridda, Jean Starobinski, e lo storico del libro Frédéric Barbier. Moltissimi i riferimenti letterari che spaziano tra i vari secoli, come quelli a Rabelais, Hugo, Balzac, Cyrano de Bergerac, Novalis; e poi Dickens, Defoe, Swift, Wilde, Tolstoj, Virginia Woolf ecc.
Tra gli italiani appaiono soprattutto figure rilevanti del nostro umanesimo, a cui si affiancano pensatori, scienziati, letterati, tipografi e studiosi delle discipline del libro: si va da Sant'Agostino a Dante Alighieri, da Leon Battista Alberti a Pietro Aretino e Poggio Bracciolini, da Giordano Bruno a Girolamo Savonarola e Galileo Galilei, da Giovanni Torelli - autore del De Orthographia e collaboratore di Tommaso Parentucelli (poi Niccolò V), a cui si deve il noto canone bibliografico quattrocentesco - a Filippo Tommaso Marinetti - rappresentante di quella ventata di novità che per prima andava a scardinare e scomporre anche la linearità del testo scritto - e Giovanni Mardersteig; inoltre, tra gli esperti viventi, Luigi Balsamo e Armando Petrucci.
In questo volume colto e raffinato, Eisenstein ha condotto un'ampia e approfondita analisi prendendo in considerazione molteplici fonti - non esclusivamente testuali - al fine di dimostrare l'ambivalenza e il dualismo di opinioni che l'invenzione della tipografia ha suscitato nel corso del tempo. Ambiguità che si rincorre, si intreccia agli interessi politici, muta con il progresso delle scienze, il trascorrere dei secoli e a seconda delle posizioni sociali, ma che nella sostanza resta ancorata alle due parole chiave di ostilità e glorificazione. Nella Prefazione, infatti, l'autrice afferma di aver voluto far luce sulle reazioni e considerazioni mosse nei confronti della stampa non solo da parte dei soggetti che ne erano direttamente coinvolti a vario titolo, ma più in generale ha mirato a recuperare anche le voci provenienti dalla comunità delle lettere, dall'ambiente religioso, scientifico, e da altri contesti a latere. Un programma di lavoro ambizioso, inerente a un contesto geografico e a un arco temporale deliberatamente molto estesi, coinvolgendo tutto il mondo occidentale degli ultimi cinque secoli. Una sfida che - come afferma Eisenstein - ha permesso di cogliere nelle trasformazioni del processo stesso - dal torchio ligneo e manuale, a quello metallico e meccanico, alle rotative a vapore - elementi di continuità sconosciuti, accanto a cesure prevedibili. Inoltre, il discorso si fa più complesso rispetto all'indagine delle fonti storiche, ma anche più sfuggente nell'affrontare il problema della comunicazione scritta così come si configura attualmente, questione che deve tener conto del dilagante ma acritico trionfalismo per la tecnologia delle reti, dell'emarginazione di quanti non ne hanno accesso, dei risvolti giuridici e commerciali connessi al copyright ecc.
La premessa alle varie argomentazioni è costituita dall'assunto che, se pure è vero che in Oriente i cinesi avevano iniziato a stampare prima di tutti gli altri popoli, è però nell'Europa occidentale che il lungo cammino intrapreso per giungere all'invenzione della stampa viene portato a compimento e il processo si perfeziona, ed è qui che difatti nasce il suo mito; un mito intramontabile che allo stato attuale va comunque opportunamente e necessariamente inserito in una prospettiva multiculturale. A partire così dall'eloquente epigrafe del primo capitolo, «The Presse, the most-honorable Presse, the most-villainous Presse» (Gabriel Harvey, 1593), Eisenstein chiama in causa i principali protagonisti dell'impresa, innanzi tutto il finanziatore Johann Fust, altrimenti citato in molte fonti del tempo come Faustus, personaggio il cui patronimico si rivela determinante nel suscitare e nell'alimentare la dimensione soprannaturale della stampa al suo apparire. Il facoltoso orafo divenuto stampatore veniva infatti spesso associato e confuso con quell'oscuro Johann Georg Faustus, negromante e presunto medico, la cui vita è alla base del racconto popolare tedesco che da lui prende nome. La studiosa pone tale ambiguità quale presupposto alla duplice valenza che andrà a rivestire la stampa nel corso delle varie epoche. L'opera che vede il personaggio di Faust vendere la sua anima al diavolo per ottenerne in cambio sapienza assoluta e dominio dello scibile è una trama profondamente suggestiva, oggetto di innumerevoli versioni, adattamenti, sfaccettature, prima fra tutte - per lo spessore dell'interpretazione che scava nell'animo umano - quella di Goethe. Ma le tante riletture del Faust non sono solo letterarie, e a dimostrazione della longevità di questo mito moderno si può citare il recentissimo film di Aleksandr Nikolaeviè Sokurov (ultima pellicola della sua tetralogia sul potere), premiato con il Leone d'oro alla 68a Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia nel 2011.
Quale fu in pratica - si interroga Eisenstein - l'atteggiamento dei contemporanei di Gutenberg - i primi lettori di stampati, gli uomini colti, gli stessi tipografi - di fronte a incunaboli e cinquecentine? La storiografia ci informa in merito a risposte molto differenti riconducibili, superato l'impatto dell'enorme stupore, al netto dualismo tra entusiasmo e rifiuto. Fin da subito è sembrata prevalere l'accettazione, il favore, l'ottimismo verso l'impressione tipografica, ma non mancavano comunque posizioni di sospetto oppure nettamente contrarie, più forti ed evidenti, come è logico, in ambito monastico, conventuale, clericale. Tale avversione per la stampa coinvolgeva in prima istanza una parte degli addetti ai lavori, amanuensi e copisti, le cui opinioni sono state bene espresse dal monaco benedettino e abile bibliografo Johann Tritheim (1462-1516) il quale, pur nella contiguità geografica con Gutenberg - appartenendo alla diocesi di Magonza - non ne condivideva invece le prospettive culturali. Trithemius motivava in modo articolato la sua avversione per la stampa, unitamente alla sfiducia per il supporto materiale che la rendeva possibile, la carta, componendo nel 1492 un'opera significativamente intitolata Elogio della scrittura manuale (De laude scriptorum manualis). Schierandosi a favore del metodo di copia manuale, egli lanciava un appello a sostegno della tradizione manoscritta, non intendendo rassegnarsi alla progressiva perdita d'importanza a cui gli amanuensi e i codici da loro prodotti andavano incontro. Le novità introdotte dall'impressione a caratteri mobili avrebbero causato, a suo parere, effetti negativi e danni gravi all'intero sistema della circolazione delle idee, declinando il suo punto di vista in base a tre precise ragioni. La prima era di carattere estetico, inerente alla rozzezza della stampa, la quale, soprattutto in questa prima fase, produceva pagine poco eleganti, prive di quella grazia e raffinatezza che caratterizzavano i codici trascritti a mano. La seconda motivazione era di natura materiale, relativa alla deperibilità della carta, supporto scrittorio fragile, leggero, poco robusto se paragonato alla pergamena, e quindi incapace di garantire una lunga conservazione nel tempo dei volumi. Infine, egli prefigurava uno scenario problematico dal punto di vista socio-culturale, perché solo la produzione manoscritta poteva assicurare la completa libertà intellettuale degli autori, l'indipendenza del pensiero, mentre la stampa - necessitando di un capitale iniziale e della fiducia di un tipografo - li rendeva meno liberi e più condizionabili. Previsione non del tutto inopportuna - al pari di quella sulla carta, il cui processo di acidificazione ne riduce sensibilmente la durata - se si pensa al fenomeno del mecenatismo.
Comunque, al di là delle posizioni controtendenza manifestate da Tritheim, l'iniziale sospetta uniformità e la grossolana fattura delle pagine tirate sotto il torchio - contrapposte alla bellezza e alla personalità racchiuse in ogni inimitabile manoscritto - ha rappresentato all'epoca uno dei maggiori fattori di resistenza culturale. Fattore inseparabile da quello della celerità con cui i libri si moltiplicavano, diffusi in copie una uguale all'altra e in centinaia di esemplari grazie alle matrici composte con i caratteri mobili. Ma proprio da qui deriva, per Eisenstein, l'alone di mistero che aleggiava intorno alla stampa ai suoi primordi, da qui il timore che il nuovo procedimento potesse essere opera del diavolo, da qui lo scetticismo per un'invenzione ancora incomprensibile al grande pubblico avvalorati, particolarmente in sede locale, dalla confusione più o meno latente tra i personaggi di Johann Fust e del dottor Faustus. Il cognome del finanziatore dell'impresa di Gutenberg, quasi identico a quello dell'altro personaggio, si prestava così a fornire un'interpretazione della stampa in chiave magica, soprannaturale, maligna, sfruttando la somiglianza e sovrapposizione con il protagonista che cede al diavolo nella celebre storia.
Senza brusche fratture e con la necessaria gradualità, l'omologazione al modello rappresentato dal manoscritto veniva comunque progressivamente abbandonata e sostituita da un differente canone formale, passaggio che si accompagnava a un'espansione e diversificazione dei generi, dei contenuti, nonché dei formati del libro. Gli umanisti, superate le resistenze dovute al problema della corruzione testuale - quel "rossore dei tipografi" derivante da errori di composizione e scadente qualità dell'impressione - valutavano in gran parte positivamente l'avvento della stampa, che di fatto agevolava il recupero delle opere classiche. Così pure la pensava, in ambito ecclesiastico, il pontefice Pio II (Enea Silvio Piccolomini), ritenuto l'unico papa a mostrarsi apertamente favorevole al procedimento tipografico, cogliendone appieno l'enorme portata in termini di rapida circolazione della parola di Dio, di standardizzazione della liturgia, nonché di tornaconto economico frutto della commercializzazione dei libri religiosi. I suoi successori, infatti, entreranno proficuamente in questo nuovo reparto merceologico, istituzionalizzando e centralizzando la produzione di testi sacri tramite la Stamperia del popolo romano, editrice creata da Pio IV nel 1561, poi trasformata - con Sisto V nel 1587 - in Tipografia Vaticana.
A questo punto, gettato alle spalle l'immediato sconcerto, la tendenza dominante risultava essere quella opposta che vedeva nella stampa un'arte sacra, divina, santa (haec sancta ars), e come tale veniva piegata a utile strumento apostolico. Inoltre, in una fase storica lacerata dalle cruente guerre di religione, l'impressione tipografica modificava ancora il suo status venendo recepita non solo come uno strumento divino, ma altresì guerriero. Anche al di fuori dei confini della Chiesa romana, infatti, e soprattutto nel suo paese d'origine, essa veniva subito sfruttata per le intrinseche potenzialità comunicative da Lutero - seguito dagli altri riformatori - i quali combatterono una battaglia per l'emancipazione dal cattolicesimo e dal potere dei papi con un massiccio impiego di stampati. Quel grande dono di Dio che la stampa era agli occhi di Lutero, risultava fondamentale non solo per la missione di proselitismo intrapresa, ma anche perché permetteva ai fedeli di stabilire un contatto diretto con i testi sacri. Un'azione di propaganda che si avvarrà della traduzione in lingua tedesca del Nuovo Testamento (1522), seguita da quella integrale della Bibbia (1534), nonché dalla stesura di un Piccolo e di un Grande Catechismo entrambi redatti dallo stesso Lutero nel 1529 al fine di fornire una facile chiave d'interpretazione. Nel cuore dell'Europa numerosi laboratori si concentravano in quelle che diverranno sedi trainanti dell'editoria protestante, come la Zurigo di Zwingli, la Ginevra di Calvino, le città di Strasburgo, Basilea, Berlino, ma anche Berna, Bonn, Anversa, Lione si trasformeranno in centri propulsori della Riforma; mentre, al contrario, la produzione predominante a Colonia, così come a Lovanio e Bruxelles, conservava una forte matrice cattolica.
Varcata la soglia del Cinquecento, la stampa aveva inesorabilmente conquistato il suo primato quale veicolo privilegiato per la circolazione del sapere e della comunicazione scritta, provocando reazioni entusiastiche dettate dalla sua superiorità tecnica, dalla standardizzazione dei testi, dalla leggibilità delle pagine, dalla maneggevolezza dei formati ridotti. Attraverso lo stralcio di ampi brani di citazione da autori coevi e da varia documentazione, la studiosa ha evidenziato il grande favore progressivamente riscosso dai libri tipografici unitamente al loro imporsi in fasce sempre più allargate di pubblico, considerandone poi gli effetti positivi e le ricadute sul piano socio-culturale.
Passando in rassegna cinque secoli di pensiero ambivalente e di opinioni controverse sulla stampa, Eisenstein ha scavato nella memoria delle fonti per intessere una trama da cui emergono - a seconda del momento e del contesto storico - i rapporti, le peculiarità, le ripercussioni di un'innovazione in grado d'innescare una serie di radicali cambiamenti nell'intero sistema della conoscenza: dal piano della didattica a quello della lettura individuale, dalla ricerca scientifica alla produzione delle prime bibliografie e alla nascita di biblioteche con differenti vocazioni. E sempre per quanto concerne il Cinquecento, se da un lato la stampa aveva indotto a un inasprimento delle guerre di religione in atto - determinando l'insorgenza della censura e di un controllo bibliografico da parte delle autorità ecclesiastiche o politiche - dall'altro, con Erasmo e i suoi seguaci, era però maturata l'esigenza di una maggiore libertà culturale, sostenuta da un mercato librario più ampio, ricco, diversificato.
Già nel secolo in cui si festeggiava il primo centenario della sua nascita, la stampa era percepita quale uno degli elementi principali che caratterizzavano l'età moderna, insieme ad altre invenzioni particolarmente significative che, con il loro forte impatto, avevano mutato il corso della storia. Innanzi tutto, appunto, l'impressione tipografica accompagnata dalla bussola - che aveva permesso le scoperte di nuovi mondi ridisegnando la geografia mondiale - e dalla polvere da sparo, da cui derivarono le armi da fuoco e nuovi rapporti di forza tra i popoli: un concentrato di novità riconosciute già da Gabriel Naudé come potenti fattori di turbamento nell'assetto delle dinamiche internazionali.
Con il libro tipografico si era inaugurato un canale imprescindibile per la circolazione delle idee, con i suoi mestieri, le sue professionalità sempre più specializzate e una gamma crescente di prodotti, fino a giungere nel Settecento all'esplosione dei periodici, i quali miravano a penetrare anche nei ceti popolari, tra i lettori di più recente alfabetizzazione. Illuminismo e rivoluzione francese avranno nella produzione a stampa un valido alleato contro superstizione, credulità, approssimazione scientifica, combattendo a colpi di pagine di giornale una battaglia in chiave antidogmatica, anticlericale, antimonarchica. Gutenberg veniva così posto fra gli eroi del progresso civile - accanto a Cristoforo Colombo, Galileo Galilei, Isaac Newton - mentre negli ambienti più progressisti il mito della cultura, intesa come leva inequivocabilmente portatrice di positività, guadagnava convinte adesioni.
Ma in questo continuo duplice sentire nei confronti della stampa - rileva l'autrice - non mancavano atteggiamenti più cauti, come quelli adottati da alcuni colonizzatori delle Americhe, i quali la reputavano un fattore socialmente pericoloso, da tenere celato a quelle popolazioni semi-sconosciute per poterle così meglio controllare. Inoltre, l'ampia scelta disponibile di letture, da effettuarsi in assoluta libertà, è stata altresì considerata da alcuni come un'opportunità potenzialmente alienante, da concedere e concedersi con cautela, potendo favorire - soprattutto nei soggetti intellettualmente più deboli - un certo distacco dalla vita reale nonché da quella interiore. Opinione che andava a colpire innanzitutto il pubblico femminile, ma in parte condivisa ad esempio anche da John Stuart Mill, come egli afferma nella sua autobiografia. Altro fenomeno emergente e tipico di quel periodo diveniva il collezionismo - con i suoi illustri protagonisti che accorpavano prestigiose raccolte private - il quale sanciva il pregio e il valore commerciale degli stampati usciti dai torchi nei due secoli precedenti. Libri antichi che divenivano oggetto di desiderio, passione, possesso, e il cui scambio sul mercato veniva sottoposto a una regolamentazione che tentava di fissare prezzi, peculiarità, fisionomia bibliologica degli esemplari in circolazione.
Un riconoscimento economico e sociale che invece gli scrittori di monografie e soprattutto i collaboratori alle testate periodiche faticavano a ottenere; debolezza che aveva indotto al mecenatismo e da cui progressivamente gli autori prenderanno le distanze, come testimoniano ad esempio le voci di Alfieri, Leopardi, Voltaire. Una strada tutta in salita, quindi, quella del rispetto della paternità intellettuale, rivendicazione che approderà a una prima formulazione del concetto di diritto d'autore - nonché di proprietà editoriale - in Gran Bretagna, grazie al Copyright Act emanato fin dal 1709. Gli altri Stati europei ne seguiranno le orme con notevole ritardo, in special modo l'Italia, ove la convenzione austro-sarda veniva stipulata solo nel 1840. Il trattato però non veniva sottoscritto dal Regno delle Due Sicilie, rifiuto che apriva le porte alla contraffazione libraria e al mercato delle copie pirata, il cui fulcro si stabilizzerà a Napoli e dintorni. La percezione sociale dello status di scrittori e giornalisti si manteneva comunque su un livello ambiguo e sottostimato anche lungo il corso di tutto l'Ottocento, non venendone pienamente apprezzato e adeguatamente ricompensato il lavoro fatto. Nel contempo, la stampa si legava sempre più ai poteri forti, ai governi in carica oppure ai partiti maggiormente solidi, divenendo un duttile ed efficace strumento di propaganda, finalizzato essenzialmente alla crescita del consenso.
Ed era proprio tra la fine di quel secolo e il primo Novecento, con la nascita della classe operaia e il crescente agitarsi delle masse popolari, che la stampa poteva dispiegare tutto il suo coefficiente di penetrazione culturale, influenzando la strategia politica, le dinamiche sociali, e portando al vertice in Italia quello che era stato in origine proprio un giornalista, Benito Mussolini. Questo esempio scelto da Eisenstein va nella direzione di una stampa che ormai rientrava tra i grandi mass-media, veicolo della cultura ufficiale e dominante, mentre - in un gioco continuo di rovesciamento delle parti - quella clandestina e d'opposizione era forzata a riscoprire la modalità manoscritta, o comunque al recupero di forme piuttosto rudimentali di produzione del testo. Il dualismo veniva rinnovato anche perché, sempre in quel periodo, il processo di impressione era investito da notevoli cambiamenti tecnologici, a cominciare dalle rotative a vapore, le quali, impiegate per prime nelle tipografie dei giornali, consentivano di sfornare migliaia di copie a una velocità allora sbalorditiva. Dopo la lunga supremazia del torchio, con la forza vapore giungeva al termine l'era della tipografia manuale, un'attività dal fascino duraturo a cui in seguito guarderanno abili e colti stampatori, determinati a recuperare una produzione artigianale di nicchia. Il percorso inaugurato si rivelerà ricco di innovazioni nel secolo successivo, con macchinari sempre più sofisticati che conducono a un raffinamento degli stampati declinandoli in versioni molteplici e cangianti. Infine, è l'avvento dell'informatica a scatenare un'altra rivoluzionaria accelerazione, ponendoci oggi di fronte alle sfide, alle incognite, alle mutazioni del mondo digitale, con tutto l'enorme bagaglio di materiale elettronico da gestire, organizzare, conservare.
Di fatto, comunque, quel senso di smarrimento provocato dalla mole di informazioni attualmente disponibile in rete, era già stato avvertito molto prima del Web, a un secolo dall'introduzione della stampa. Konrad Gesner, nella sua opera Pandectae (Zurigo, 1548-1549) - in cui riordinava in maniera sistematica i titoli elencati alfabeticamente nel primo lavoro, la Bibliotheca Universalis - si accingeva a questa operazione con la consapevolezza dell'assoluta necessità di una guida bibliografica articolata per materie, repertorio classificato indispensabile per fronteggiare il problema da lui definito della "poligrafia": ovvero, un eccesso di pubblicazioni, una massa esuberante e in continua proliferazione di volumi che inondavano il mercato e di cui era divenuto arduo sia avere notizia sia mantenerne memoria.
Le odierne questioni inerenti all'ordinamento e alla tracciabilità del materiale digitale, unite a quelle riguardanti la sua volatilità e conservazione nel tempo - anche se non più compromesse da guerre e devastazioni, bensì da fattori meno appariscenti di tutt'altra natura - non risultano quindi nuove agli occhi di Eisenstein. L'ansia di conoscenza bibliografica affiancata al timore per la perdita dei testimoni della nostra cultura, rappresenta pertanto un problema noto e universale che ha sempre investito la comunità scientifico-letteraria, atteggiamento che sopravvive infatti al trasformarsi dei supporti fisici.
Non hanno quindi molto senso, per l'autrice, le previsioni pessimistiche relative alla sparizione del volume cartaceo - come peraltro già si era ipotizzato nel Settecento con l'enorme incremento delle testate giornalistiche - poiché l'evolversi degli strumenti della conoscenza non compromette, di fatto, il rapporto che l'uomo instaura con essi. Un bisogno di accesso ai documenti, alle risorse informative, comunque esse si configurino, che si è consolidato e persiste nel tempo; un'esigenza intellettuale imprescindibile che, pur modificando inconsapevolmente e impercettibilmente le modalità di approccio al testo, non scalfisce la nostra necessità. Dopo aver toccato alcune delle questioni più urgenti relative alla fruizione cultuale online, Eisenstein - da storica del libro - sorvola sui fenomeni più recenti e innovativi dell'editoria elettronica, del self-publishing, delle comunità di lettori: si tratta di processi che stanno massicciamente investendo la catena di produzione e commercializzazione del libro, trasformando il ruolo rivestito dagli editori, finora garanti in qualche modo della qualità dei contenuti e dell'autorevolezza dei loro autori. Passaggi di consegne e inversione di circuiti che configurano gli e-books non solo come nuovi prodotti ma come aggregati di servizi, e in cui il rapporto tra le parti coinvolte sembra ormai prevedere la cessione obbligatoria dei diritti digitali.
Comunque, il corso del tempo ha dimostrato come la stampa sia stata un potente fattore di democratizzazione del sapere e di emancipazione dei popoli, opportunità suscitate fondamentalmente dalla desacralizzazione del libro, il quale, perdendo la sua aurea di prezioso unicum assume i connotati di oggetto moltiplicabile e facilmente accessibile. Per effetto di questa produzione su vasta scala - prosegue l'autrice - le autorità hanno fatto e fanno un uso politico della stampa a fini di consenso: laddove essa è pesantemente controllata, lo scontro con le istanze di libertà della società civile diviene inevitabile, come ancora accade in alcuni paesi in cui regnano governi totalitari e integralisti. Per la studiosa, nel clima delle democrazie stabili la stampa comunque mantiene la sua spiccata vocazione di peaceful art e in tale veste viene esportata in quelle zone del mondo ove persiste un certo oscurantismo, contribuendo così all'emancipazione dei popoli e al consolidamento di un'opinione pubblica critica e autorevole. La stessa valenza dovrebbero rivestire pure le reti digitali, canali indipendenti di circolazione dell'informazione e delle idee, libere da vincoli e aperte a tutti: allo stato attuale, in realtà, è il digital divide a costituire un grave problema, soprattutto in alcuni territori della sfera non occidentale, oppure nei ceti sociali meno abbienti.
L'attento sguardo con cui Eisenstein si è soffermata a considerare cinque secoli di vita dell'arte tipografica le ha fornito ispirazione e materia anche per una delle conferenze plenarie tenute all'interno del convegno annuale organizzato dalla Society for the History of Authorship, Reading and Publishing (SHARP). Il congresso, dedicato a "The book in art and science", si è svolto nel luglio 2011 a Washington D.C. ove, nella prestigiosa sede della Library of Congress, la studiosa ha tenuto il suo intervento intitolandolo, appunto, From divine art to printing machine and beyond. Per concludere, ripensando alle parole da lei pronunciate in merito all'insuperabile potere acquisito dalla stampa e alla sua imponente forza di irradiazione, valga il semplice detto «If God invented the sun, men invented the print».