di Riccardo Ridi
Umberto Eco pubblicò presso Bompiani, nel 1964, una raccolta di saggi il cui titolo (Apocalittici e integrati) divenne istantaneamente un'espressione quasi proverbiale per indicare, contrapponendoli, coloro che contrastavano criticamente (sebbene consapevoli delle proprie esigue speranze di vittoria) e coloro che invece accettavano entusiasticamente una determinata novità che stesse per rivoluzionare lo status quo, soprattutto (ma non esclusivamente) in ambito culturale. L'agente del cambiamento studiato mezzo secolo fa da Eco era la comunicazione di massa, rappresentata all'epoca dai relativamente nuovi strumenti della televisione, della radio, del cinema, dei fumetti, della pubblicità, della letteratura di consumo e della musica leggera, mentre oggi è internet che più di qualsiasi altra innovazione relativa alla comunicazione scatena da circa un ventennio reazioni estremamente (e, a mio avviso, esageratamente) polarizzate, che hanno prodotto, fra l'altro, un vero e proprio filone editoriale dedicato per metà all'agiografia delle virtù e per metà alla denuncia dei vizi della rete.
I due recenti libri americani qui presi in considerazione fanno entrambi parte di un ulteriore sottogenere, che si focalizza soprattutto sugli effetti (alcuni dei quali persino permanenti) che l'uso intensivo e pervasivo di strumenti informatici e telematici produrrebbe sulle strutture conoscitive e sulla stessa mente degli esseri umani e che annovera nelle proprie fila anche prodotti italiani come ad esempio gli ultimi libri di Raffaele Simone (Presi nella rete. La mente ai tempi del web, Garzanti, 2012, schierato fra gli apocalittici) e di Giuseppe Granieri (Umanità accresciuta. Come la tecnologia ci sta cambiando, Laterza, 2009, decisamente integrato). La scelta è però caduta sull'apocalittico Carr e sull'integrato Weinberger piuttosto che su altre coppie di testi perché entrambi citano spesso le biblioteche (una quindicina di volte il primo e circa il doppio il secondo, sebbene entrambi senza mai tematizzarle specificamente), perché il libro di Weinberger analizza e critica quello di Carr e soprattutto perché - come spero di riuscire a mostrare - entrambi paradossalmente condividono lo stesso approccio, che li conduce però a due esiti diametralmente diversi, ambedue suggestivi ma sostanzialmente errati.
La tesi fondamentale di Carr è che il dilagante (e sempre più spesso esclusivo) uso di strumenti elettronici per leggere, scrivere e - più in generale - comunicare ed informarci, rischi di indebolire (e, a lungo andare, forse anche di cancellare irreversibilmente) la nostra capacità di produrre e di comprendere argomentazioni lunghe, complesse e approfondite come quelle che storicamente sono state veicolate e stimolate dai libri cartacei e che erano (e restano) fondamentali per lo sviluppo della civiltà umana. L'ambiente digitale, per Carr, con la sua ipertestualità, malleabilità, multimedialità ed evanescenza, ci spingerebbe a privilegiare lo scambio convulso e spesso contemporaneo di una miriade di informazioni brevi, rapide, superficiali, incomplete e frammentarie, distogliendoci dalla possibilità - se non addirittura dalla capacità - di concentrarci volta per volta su un unico documento esteso e complesso, che per essere creato o fruito ha bisogno di più tempo, di più capacità cognitive e di attenzione esclusiva. La rete, in particolare, sarebbe letale perché bidirezionale, ovvero perché permette scambi di informazioni in tempo reale, che nella maggioranza dei casi prendono la forma di futilità: «grazie all'interattività, internet è diventata il luogo di riunione del mondo: la gente si trova per chiacchierare, spettegolare, discutere, mettersi in mostra e amoreggiare su Facebook, Twitter, MySocial1 e ogni altro tipo di social (a volte antisocial) network» (p. 109-110). Inoltre i link (che distraggono dal testo principale), i motori di ricerca (che decontestualizzano parole e frasi) e gli avvisi automatici (che non rispettano le nostre priorità) contribuiscono a creare un vero e proprio «ecosistema di tecnologie dell'interruzione» (p. 116) che rende sempre più difficile dedicare un paio di ore continuative alla lettura di un libro o alla visione di un film, immergendosi completamente nel mondo creato dai rispettivi autori. Persino gli e-book, che ospitano anche testi impegnativi, per colpa di internet e della sempre maggiore capienza dei relativi e-reader sono soggetti a forze centrifughe e dispersive molto più potenti di quelle che lambiscono appena i loro equivalenti cartacei a causa dei link verso l'esterno, delle ricerche testuali e della possibilità di condividere le proprie librerie, sottolineature, recensioni e commenti con sterminati "gruppi di lettura" sparsi per il mondo.
Tutto ciò avrà per Carr delle conseguenze devastanti sulla cultura umana, non solo perché renderà sempre più rara quella lettura solitaria e concentrata che resta il metodo migliore (se non addirittura l'unico) per assimilare in modo critico delle conoscenze estese e complesse, ma anche perché sul lungo periodo tale processo influenzerà inevitabilmente anche gli autori, che invece di limare in privato pochi e lunghi testi permanenti ignorati dai più tenderanno sempre più spesso ad improvvisare in pubblico tanti brevi testi indefinitivamente emendabili e commentabili, col risultato che le conoscenze estese e complesse semplicemente non esisteranno più. E persino la struttura della nostra mente potrebbe venire rivoluzionata (ovvero rovinata) da questa tendenza, perché il cervello umano avrebbe già rivelato più volte in passato la propria estrema plasticità rispetto ai cambiamenti avvenuti nelle tecnologie della comunicazione, ad esempio quando Sumeri ed Egizi idearono l'alfabeto, quando i Greci lo perfezionarono e quando Gutenberg inventò la stampa tipografica. Molto probabilmente, anche secondo gli studi dei noti esperti citati da Carr (fra cui Darnton, Goody, Havelock e Ong) nessuna di tali innovazioni si è limitata a svolgere un ruolo esclusivamente tecnico nella conservazione, organizzazione, diffusione e ricezione dell'informazione, ma tutte hanno determinato (o comunque accompagnato) importanti cambiamenti nelle culture e nelle società dove si sono realizzate e in quelle che le hanno ereditate, coinvolgendo anche il modo in cui gli esseri umani pensavano se stessi e il mondo circostante e quello in cui interagivano fra loro.
Carr però si azzarda a compiere un passo ulteriore - non altrettanto suffragato da autorevoli pareri - sostenendo che le principali tappe dell'evoluzione tecnologica della scrittura e della lettura avrebbero modificato non solo le modalità del pensiero, ma anche il suo organo, ovvero la struttura biologica del cervello umano. In effetti Carr nel secondo capitolo chiama in causa a proprio favore vari psicologi e neuroscenziati, ma in realtà le loro citazioni: a) riguardano tipologie di plasticità molto diverse fra loro (cellulare, anatomica oppure configurazionale, e relative talvolta al sistema nervoso centrale e talvolta a quello periferico), che Carr più o meno volutamente confonde; b) sono in gran parte relative a cambiamenti radicali nell'anatomia (mutilazioni) o nella salute (gravi patologie) degli organismi studiati; c) in ogni caso nessuna di esse riguarda in alcun modo cambiamenti nelle abitudini di lettura o di scrittura; d) nessuna sostiene neppure l'irreversibilità di tale plasticità, che talvolta viene piuttosto definita come mera "adattabilità", concetto che in neurologia implica un livello di cambiamento molto meno stabile e profondo. Non risulta quindi sufficientemente giustificata dal punto di vista biologico neppure la tesi che l'avvento di internet e del digitale, allo stesso modo delle precedenti rivoluzioni nel mondo della comunicazione, comporterebbe una ristrutturazione fisica tanto rapida quanto radicale e permanente del nostro sistema nervoso, nonostante nel settimo capitolo Carr si sforzi di passarne in rassegna numerosi esempi e testimonianze, che però potrebbero anche essere tutti interpretati, con maggior realismo e cautela, come riorganizzazioni culturali o, tuttalpiù, come riconfigurazioni temporanee delle nostre connessioni nervose, tanto rapide ad adattarsi ad una nuova situazione quanto a ripristinare quella precedente.
D'altronde, come non manca di notare ironicamente anche Weinberger, la terribile devastazione causata da decenni di esposizione al computer e da lustri di navigazione online al cervello di Nicholas Carr non deve poi essere stata così grave e irreparabile, se gli ha consentito di scrivere e farsi pubblicare un libro di oltre trecento pagine, e se - nelle parole dello stesso autore di Internet ci rende stupidi? - a tale scopo gli è bastato trasferirsi per qualche mese «da un quartiere di Boston altamente connesso alle montagne del Colorado [dove] non c'era telefono cellulare e internet arrivava attraverso una connessione piuttosto precaria» perché, sebbene con un po' di fatica, tornassero «in funzione alcuni vecchi circuiti neuronali ormai in disuso, mentre alcuni di quelli più nuovi legati al web si stavano placando. [...] Il cervello era tornato a respirare» (p. 236).
Certo, cambiamenti fisici nelle strutture biologiche che stanno alla base delle nostre modalità conoscitive possono anche avvenire, ma coi tempi lunghissimi dell'evoluzione naturale e attraverso meccanismi ben diversi da quelli descritti da Carr2. Troppo lunghi probabilmente per il nostro apocalittico, che ne intravede una bizzarra scorciatoia in una sorta di evoluzione culturale lamarckiana, ipotizzando che «quando trasmettiamo i nostri abiti mentali ai figli, attraverso gli esempi che proponiamo, l'istruzione che forniamo loro e i media che usiamo, tramandiamo anche tutte le modifiche nella struttura del cervello» (p. 69-70). Quindi non solo basterebbero pochi anni di uso eccessivo di internet (ma a p. 149-150 parrebbe che anche solo un'ora quotidiana per cinque giorni consecutivi potrebbe essere sufficiente) per modificare stabilmente le strutture fisiche del cervello di un essere umano adulto, ma tali modifiche verrebbero ereditate - altrettanto fisicamente e stabilmente - dai suoi figli, proprio come secondo lo zoologo predarwiniano Jean-Baptiste de Lamarck (1744-1829) le giraffe erediterebbero i colli che i loro genitori avrebbero allungato durante la propria vita nello sforzo di brucare le foglie più alte, sebbene tale ormai screditata «ereditarietà dei caratteri acquisiti» avverrebbe per Lamarck attraverso la procreazione e per Carr attraverso l'educazione.
David Weinberger - nonostante sia più anziano di una decina di anni rispetto a Carr - non si limita a sdrammatizzarne l'eccessivo allarmismo nei confronti degli effetti deleteri delle tecnologie digitali, ma è a tal punto convinto della loro positività nell'ampliare e potenziare le capacità conoscitive della specie umana da sostenere che la mera possibilità di accesso istantaneo - dai propri computer, smartphone e tablet - all'enorme massa di informazioni e di scambi comunicativi disponibili in rete renda chiunque di noi potenzialmente più capace di risolvere qualsiasi problema rispetto ad un tradizionale "esperto" che possa fare affidamento solo sulla propria formazione culturale e professionale e sulla consultazione di un ridotto numero di tradizionali fonti informative e consulenti. Attingendo dalla miriade di pagine web personali, aziendali ed istituzionali, di banche dati, di enciclopedie, di libri e periodici digitali (sia nativi che digitalizzati), di lezioni e conferenze e di altre mille tipologie di fonti informative liberamente disponibili in rete, soprattutto se strutturate sotto forma di conversazioni (come spesso capita nei blog, nei forum e nei social network) ciascuno di noi può scoprire facilmente, velocemente e gratuitamente enormi quantità di informazioni, che affrontano ogni possibile questione da una pluralità di punti di vista e a svariati livelli di approfondimento, permettendoci di trovare risposta alla maggior parte dei nostri dubbi. E, se proprio non trovassimo la risposta desiderata già pronta, potremmo sempre chiederla ai nostri numerosi e crescenti contatti umani online, che faranno a gara (molti di loro non si qualificano forse come nostri "amici" sui social network?) per fornircene rapidamente e gratuitamente quante ne vogliamo, in gran parte corrette, esaurienti o comunque utili. Come potrebbe mai competere con tale cornucopia informativa un semplice esperto che ha studiato un certo argomento molti anni fa e da allora si è limitato a lavorare continuativamente nel settore, a leggere ogni anno qualche libro pertinente, a seguire qualche corso di aggiornamento e a frequentare una dozzina di colleghi nelle sue stesse condizioni, oppure un banale bibliotecario che potrebbe solo indirizzarci verso qualche bibliografia, catalogo e similari opere di consultazione, senza cercare, leggere, capire, riassumere, valutare e scegliere - al posto nostro - tutti i documenti rilevanti disponibili nella sua biblioteca e in tutto il resto del mondo? Ma Weinberger si spinge addirittura oltre, mettendo in dubbio l'efficacia non solo degli esperti ma anche dell'intera struttura della conoscenza tradizionale, che sarebbe obsoleta in quanto basata sul rigido ed univoco supporto cartaceo, ormai superato dalla fluida e poliedrica connessione in rete di tutti con tutto e (soprattutto) con tutti, capovolgendo quindi la valutazione di Carr anche su questo fronte.
Con un certo afflato poetico Weinberger si spinge a dire che la situazione attuale equivale a quella in cui «la conoscenza è una proprietà della rete» (p. xiv) e «la persona più intelligente nella stanza è la stanza stessa» (p. xv), ma l'unico significato effettivamente comprensibile di tali slogan ad effetto - una volta rassicurati dal loro stesso autore che «questo non significa che la rete stia diventando un supercervello dotato di coscienza», né che il riferimento sia «alla saggezza collettiva delle persone presenti nella stanza» (p. xv) - è che la connessione ad internet rappresenti di per sé il principale - se non addirittura l'unico - strumento di conoscenza realmente efficace nel mondo contemporaneo e che il solo fatto di essere collegati online fra loro e con una vasta gamma di fonti informative renda automaticamente le persone più intelligenti. Tali tesi, così come lo scenario su cui si basano, sono a mio avviso profondamente errate e persino pericolose, o comunque eccedono esageratamente l'ormai pacifica e ampiamente condivisa constatazione che internet sia oggi uno strumento eccezionale per informarsi e comunicare, purché venga utilizzato con sufficiente competenza, correttezza e - aggiungerebbe Carr - moderazione. Fra i tanti argomenti opponibili a Weinberger mi limiterò intanto ad elencare schematicamente quelli che mi sembrano i principali e che ho già sviluppato più distesamente in altre sedi, lasciandomi un paio di ulteriori critiche (rivolgibili anche a Carr) per i paragrafi conclusivi.
In fondo, paradossalmente, sia Carr che Weinberger attribuiscono troppa importanza alla tecnologia della carta stampata e rilegata, anche se poi il primo la rimpiange e l'altro è invece sollevato che stia scomparendo. E, analogamente, entrambi hanno troppa fiducia nelle capacità rivoluzionarie delle tecnologie digitali, anche se Carr teme che tale rivoluzione si riveli una apocalisse mentre Weinberger spera che si risolva in una palingenesi. In realtà esistono modalità conoscitive e forme di organizzazione del sapere (entrambe basate su profonde radici sia biologiche che sociali ed entrambe con esiti talvolta positivi e talvolta negativi) che trascendono le tecnologie, che sono nate prima di internet e che continuano a svilupparsi con e in internet, ovviamente influenzate dalle tecnologie del momento ma che non si risolvono completamente in esse. Tali modalità e forme probabilmente non sono immutabili (anche se in passato non sono mancati i filosofi che l'hanno sostenuto, almeno per quelle fondamentali), ma cambiano gradualmente, seguendo le complesse leggi e i lunghi tempi dell'evoluzione naturale (che agisce sulle strutture conoscitive di tipo biologico) e dell'evoluzione culturale (che plasma quelle sociali), senza che singole innovazioni tecnologiche possano, da sole ed istantaneamente, cambiare più di tanto il quadro complessivo spingendolo necessariamente verso una sola direzione indipendentemente da concause di tipo storico, geografico, sociale, culturale, religioso, politico, economico ecc. Negarlo è una fallacia nota come «determinismo tecnologico», una dottrina che entrambi i nostri autori prima illustrano e poi ricusano esplicitamente (Carr più timidamente a p. 66-68 e Weinberger più decisamente a p. 155, accusando poi a p. 225 Carr di incappare invece in tale errore), ma che in realtà permea quasi tutti i loro ragionamenti e la cui credibilità potrebbe venire ulteriormente minata proprio dagli esiti specularmente opposti a cui li conduce.
La scarsa sensibilità (o interesse) di entrambi gli autori per le strutture più profonde e stabili della conoscenza umana è d'altronde ampiamente dimostrata dal gran numero di passaggi in cui essi criticano certi mezzi di comunicazione o ne esaltano altri utilizzando argomentazioni ed esempi che in realtà sono perfettamente applicabili sia agli strumenti digitali che a quelli tradizionali.
Quasi tutte le caratteristiche negative che Carr attribuisce a internet sono ancora più presenti nella televisione, ed in particolare lo zapping col telecomando è sicuramente più distraente e ipnotizzante del linking col mouse o il touch screen. Le telefonate e gli SMS che continuamente arrivano anche sui cellulari più antiquati interrompono e reclamano la nostra attenzione almeno quanto gli RSS e i tweet che bersagliano i nostri computer e smartphone. Futilità e pettegolezzi non vengono creati ma solo resi più visibili e persistenti dai social network. Non solo il web, ma anche una ricca biblioteca cartacea o un ampio apparato di note erudite rischiano di distrarre chi volesse concentrarsi sulla lettura continuativa di un unico testo. E non solo i documenti brevi, digitali e interattivi, ma anche quelli lunghi, cartacei e rigidi costituiscono una forma di conoscenza "indiretta" rispetto all'esperienza personale.
Anche gran parte delle caratteristiche, sia positive che negative, che Weinberger vede nel web erano già presenti nei supporti cartacei e nell'organizzazione della comunicazione scientifica predigitale. Chi riceve migliaia di consigli dai suoi contatti su Facebook o su Twitter dovrà comunque trovare un modo per filtrarli senza leggerli tutti, proprio come accade coi libri e con gli esperti tradizionali. Non tutte le tipologie di rete "funzionano", proprio come non tutti i libri sono utili e non tutte le organizzazioni fanno circolare al prorio interno le informazioni nel modo migliore. Non solo i link collegano fra loro le pagine web, ma anche le citazioni e le bibliografie collegano fra loro i libri e gli articoli (ed entrambi sono conteggiabili). Non riuscire più a ritrovare un documento digitale che si era messo da parte è comune almeno quanto perderne uno cartaceo. Le pagine web scarsamente linkate restano comunque potenzialmente raggiungibili, proprio come i libri scarsamente recensiti e pubblicizzati. In rete ci sono molte più informazioni di quante riusciremmo mai ad assorbirne in cento vite, esattamente come in una grande biblioteca. Le divergenze di opinione, le critiche, le polemiche, le recensioni, le collaborazioni, i commenti e le risposte ai commenti, sono tutte forme di dialogo fra scienziati (e, più in generale, fra persone) che il web non ha inventato di sana pianta, ma solo facilitato, potenziato e velocizzato. E persino Weinberger deve ammettere che, in determinati ambiti, sia meglio fidarsi di una singola persona che può dimostrare di aver compiuto studi formali nel settore, superando esami e ottenendo riconoscimenti ufficiali per il proprio operato, piuttosto che di un gruppo di casuali frequentatori di un social network. Mi fermo qui, ma potrei continuare con altre decine di esempi presi da entrambi i libri.
A mio avviso sia i rischi denunciati da Carr che le opportunità enfatizzate da Weinberger sono reali, ma entrambi vanno affrontati più sul piano culturale e sociale che non su quello biologico (Carr) o tecnologico (Weinberger), come del resto loro stessi talvolta ammettono, quando a tratti attenuano la radicalità delle rispettive tesi, quasi rendendosi conto che gli scenari da loro prospettati costituiscono una possibilità (in determinati contesti) piuttosto che una necessità (per chiunque e in qualunque situazione). Sicuramente - da una parte - le continue distrazioni riducono la capacità di concentrazione e gran parte delle conversazioni che avvengono online non sono molto più intelligenti di quelle del bar sotto casa, e - dall'altra - altrettanto sicuramente la collaborazione offre utili spunti per incrementare la conoscenza e sul web ci sono enormi quantità di documenti utilissimi per chi sa trovarli e valutarli, ma (con internet o senza internet) sta a ciascuno di noi trovare il giusto equilibrio fra forze centrifughe e centripete, fra lettura intensiva ed estensiva, fra approfondimento e aggiornamento, fra lavoro solitario e cooperativo, fra meditazione e dialogo. E - per rispondere alla domanda posta dal titolo di questo contributo - personalmente credo che internet non ci renda necessariamente tutti né più stupidi né più intelligenti, ma che sia un potentissimo strumento che permette sia agli stupidi che agli intelligenti di moltiplicare enormemente sia gli effetti che la visibilità di tali qualità.
Ringrazio Francesco Dell'Orso, Claudio Gnoli e Juliana Mazzocchi, che hanno commentato una precedente versione di questo testo.
[1] Nell'edizione originale americana viene correttamente citato "MySpace" e non l'inesistente "MySocial".
[2] Lo spiega bene Konrad Lorenz nel suo classico L'altra faccia dello specchio. Per una storia naturale della conoscenza del 1973, tradotto l'anno successivo in Italia da Adelphi e da allora costantemente ristampato, un libro molto più rilevante per le scienze dell'informazione di quanto si possa comunemente pensare.