di Maurizio Vivarelli
I contributi ospitati in questo fascicolo di «AIB Studi», come spiega l'introduzione di Maria Cassella, traggono origine da una specifica occasione convegnistica. Sono contributi interessanti per due ordini principali di motivi. I primi riguardano più direttamente il contesto dal quale provengono, e sono dunque riconducibili al dibattito sviluppato intorno alle identità e alle funzioni della biblioteca accademica e di ricerca, e delle figure professionali che in essa operano; i secondi si correlano invece ad un più ampio quadro di riflessioni, riferibili al tema generale della formazione del bibliotecario, di particolare attualità anche in seguito alla recente approvazione della legge 1 4 gennaio 201 3, n. 4, Disposizioni in materia di professioni non organizzate. Questi temi sono stati affrontati anche nei recenti Stati generali dei professionisti del patrimonio culturale, organizzati a Milano il 22 e 23 novembre 201 2 a cura del MAB (Musei archivi biblioteche), federazione promossa congiuntamente da AIB (Associazione italiana biblioteche), ANAI (Associazione nazionale archivistica italiana) e ICOM Italia (International Council of Museum, Comitato nazionale italiano)1 .
Non vi è alcun dubbio che i profili di competenze del bibliotecario accademico siano stati sottoposti negli ultimi anni a sollecitazioni molto intense, derivanti da numerosi fenomeni concomitanti connessi alla progressiva e sempre maggiore diffusione delle informazioni documentarie digitali.
La diffusione del fenomeno dell'open access, la gestione delle risorse elettroniche, la costituzione e manutenzione degli archivi istituzionali, la natura evolutiva degli strumenti di recupero delle informazioni stanno proponendo elementi non eludibili di novità, che vanno adeguatamente compresi, concettualizzati e gestiti nel più generale contesto delle complesse problematiche riferibile alla natura, in fase di continuo assestamento, della biblioteca digitale.
A partire da questi ambiti di attività la comunità dei bibliotecari accademici avverte dunque, e per motivi assai fondati, l'esigenza di aggiornare le proprie competenze, ridefinendo in tal modo la fisionomia della propria professionalità. Sulla base di questa evidente esigenza si situa la proposta di formalizzare i tratti dei profili di competenza ritenuti necessari per gestire adeguatamente il cambiamento, individuati nel discovery services librarian, nel repository manager, nell'electronic resources librarian, fino alla evocazione degli ancor più specifici ambiti dello scholarly communication librarian, del copyright & licensing librarian, del data librarian, del semantic librarian. Questo spazio di esigenze, in linea generale, è indubbiamente inseribile nell'ambito della formazione e dell'aggiornamento professionale (contingente e continua), e in questa sede deve trovare le prime e più adeguate risposte direttamente e immediatamente utilizzabili nei diversi contesti organizzativi.
Più complesso e delicato, invece, è il terreno della eventuale stabilizzazione formativa di questi profili, in particolare per quanto attiene ai compiti attuali e futuri dell'università nel suo ruolo di istituzione che si occupa della formazione di base, culturale e disciplinare; e se non vi è dubbio che questi problemi siano tra loro connessi, è altrettanto evidente che non possono essere riduttivamente omologati2 .
Il tema generale della formazione dei bibliotecari non ha mai cessato di essere d'attualità; tuttavia spesso, per motivi di natura contingente, si ritiene che questa attività attraversi oggi un periodo di particolari turbolenze, derivanti principalmente dalla diffusione delle tecnologie digitali, le cui origini possiamo rintracciare intorno agli anni Sessanta del secolo scorso, prima in ambito anglo-americano e poi, in tempi e con modalità diverse, nel resto del mondo, digital divide permettendo. Naturalmente, come nel caso di tutti i fenomeni articolati e complessi, il tema non può essere affrontato in modo schematico e semplificato, ritenendo ad esempio che sia sufficiente dotare i bibliotecari, e in particolare i bibliotecari accademici, di massicce dosi di competenze e abilità tecno-informatiche per risolvere il problema.
È dunque indispensabile, per affrontare la questione secondo un'ottica radicata non solo nella più immediata contemporaneità, adottare un punto di vista più ampio; proviamo dunque a prendere le mosse da tre quadri argomentativi, situati in ambiti storici e culturali tra loro assai diversi.
In un testo che deve continuare ad essere un punto di riferimento essenziale per chi si muove entro la nostra frastagliata e complessa tradizionale disciplinare, pubblicato in prima edizione nel 1627, il giovanissimo Gabriel Naudè (era nato a Parigi nel 1600), in quel periodo bibliotecario di Henri de Mesme, presidente del Parlamento di Parigi, individua una serie di principi e di criteri di cui è opportuno avvalersi per dresser una biblioteca pubblica. A suo parere il bibliotecario deve essere un uomo "onesto", "dotto" e infine "ben istruito sul mondo dei libri"; avvalendosi di queste qualità di base, che certamente allora come ora non trovavano il loro corrispettivo in un curriculum esattamente definito e strutturato, il bibliotecario se da un lato «si sforzerà di praticare questi metodi» finalizzati alla migliore gestione dei libri, dall'altro non dovrà mai perdere di vista l'obiettivo di «donarne e consacrarne l'uso al pubblico e di non negarli mai a nessun uomo che ne potrebbe aver bisogno»3 .
Alcuni secoli dopo, nel 1935, quando la biblioteconomia si è ormai costituita con un proprio ambito di principi e di procedure, un celebre filosofo, José Ortega y Gasset, in occasione del II Congresso dell'IFLA propone la sua visione, alta e profetica, della missione del bibliotecario. Egli sostiene anzitutto che «ci sono ormai troppi libri» e, anche se si riducesse drasticamente il numero, «la quantità di libri che [ogni uomo] ha bisogno di ingerire è così grande che oltrepassa i limiti del tempo di cui dispone e della sua capacità di assimilazione». Afferma, inoltre, che i libri continuano incessantemente ad essere prodotti «con abbondanza torrenziale» e, soprattutto, che «molti di essi sono inutili e stupidi, e la loro presenza e conservazione costituisce un'ulteriore zavorra per l'umanità che è già abbastanza curva sotto il peso di altri carichi»; conclude infine che «il bibliotecario dell'avvenire dovrà orientare il lettore non specializzato nella selva selvaggia dei libri ed essere il medico, l'igienista delle sue letture». La conclusione cui giunge è che la missione del bibliotecario non dovrà essere limitata alla "amministrazione" della "cosa libro", ma dovrà confrontarsi la ben più delicata «mise au point di quella funzione vitale che è il libro»4 .
Nel 1999, infine, durante il convegno annuale che da molti anni si svolge al Palazzo delle Stelline, a Milano, la prolusione inaugurale è affidata da Frederick Wilfrid Lancaster, studioso di biblioteconomia assai accreditato, cui si devono tra l'altro alcune delle opere più conosciute nel campo della misurazione e valutazione dei servizi bibliotecari. Leggiamone una breve citazione:
«Io credo che molti bibliotecari abbiamo fortemente esagerato i benefici della tecnologia [...]. Mettere database elettronici a disposizione degli utenti non necessariamente implica che essi saranno capaci di usarli efficacemente [...]. Cumulare diversi cataloghi in uno crea database molto più grandi che sono spesso anche meno utili per l'accesso per soggetto che i loro componenti individuali. Sfortunatamente, molti bibliotecari sembrano ritenere che più accessi equivalgano a migliori accessi. Questo non è necessariamente vero [...] la maggior parte del tempo dei bibliotecari professionisti è utilizzato per apprendere nuove tecnologie, aggiornare il proprio sapere e le proprie competenze tecnologiche, partecipare a riunioni di comitati e gruppi di lavoro alle prese con problemi legati al cambiamento tecnologico - tutte cose che li portano progressivamente sempre più lontani dalla diretta interazione con gli utenti [...]. Oggi sembra più importante avere conoscenza di nuovi database, nuovi motori di ricerca, nuovi sistemi di elaborazione testi, nuovi protocolli di comunicazione [...]. La tecnologia da sola non migliorerà il valore dei nostri servizi percepito dagli utenti. Noi dobbiamo ridurre le nostre preoccupazioni per la tecnologia e aumentare il nostro interesse per gli utenti come individui con bisogni individuali. Noi dobbiamo riconoscere che l'etica del servizio pubblico dovrebbe essere al centro della nostra formazione professionale»5 .
Lancaster, va aggiunto, era stato uno degli autori cui maggiormente si doveva l'elaborazione di nuovi modelli di biblioteca, capaci di inserirsi negli scenari della società dell'informazione; egli aveva scritto, tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni Ottanta, numerosi studi in cui era stato elaborato e proposto un nuovo paradigma - nel senso di Kuhn6 - di biblioteca entro il quale le potenzialità offerte dalle tecnologie informatiche giocavano un ruolo decisivo, rendendola anzitutto paperless, e dunque auspicabilmente sganciata dal terreno del proprio fondamento bibliografico e documentario. Società dell'informazione e biblioteche paperless, va aggiunto, si costituivano come province della società post-industriale preconizzata e discussa dai primi anni Sessanta dal sociologo Daniel Bell7 . Tra le posizioni di Lancaster e quelle di Bell sono ravvisabili evidenti analogie. L'uno e l'altro descrivono le proprie elaborazioni a volte come generici scenari, a volte come descrizioni puntuali della realtà e, soprattutto, ambedue descrivono la futura società in termini accentuatamente tecnocratici. Il bibliotecario della società dell'informazione, a parere di Lancaster, può divenire un apprezzato professionista e nei nuovi contesti informativi e tecnologici potrà godere di uno status professionale più elevato, cui corrisponderanno anche più rilevanti compensi8 .
Vent'anni dopo, come abbiamo visto, Lancaster approdava a un disincantato e lucido pessimismo. L'eccessivo entusiasmo tecnologico che ne aveva precedentemente caratterizzato le posizioni, con le sue forti implicazioni tecnocratiche, aveva rischiato di attenuare la consapevolezza del valore strumentale delle tecnologie rispetto agli obiettivi delle biblioteche, il cui compito continua ad essere quello di selezionare, conservare, rendere fruibili, nei nuovi contesti comunicativi, gli oggetti documentari attraverso cui avviene l'elaborazione delle informazioni e la loro trasformazione in conoscenza. La crescente complessità dell'utilizzo delle tecnologie informatiche per la rappresentazione e il recupero delle informazioni documentarie può, dunque, far scivolare in secondo piano la centratura delle procedure sulla qualità dei valori conoscitivi selezionati e resi disponibili. Credo, insomma, che il punto d'arrivo cui le attività del bibliotecario devono tendere è la realizzazione e la delimitazione, concettuale ed operativa, di uno spazio documentario che Ross Atkinson, in un suo tuttora validissimo contributo, ha efficacemente definito control zone, definendola come «a single, virtual, distributed, international digital library, a library that has (conceptual, virtual) boundaries, that defines its services operationally on the basis of the opposition between what is inside and outside those boundaries, and that bases that service on the traditional social ethic that has motivated all library operations in modern times»9 .
Questi temi, nella loro più ampia e generale dimensione, hanno trovato poi un'articolata sistematizzazione nelle opere più recenti di Michael Gorman, che sintetizzano gli elementi migliori di una tradizione biblioteconomica interpretata a partire proprio dall'esercizio consapevole della professione10 .
Nel corso degli ultimi anni, in questo scenario in forte movimento, il mondo delle biblioteche ha continuato ad essere investito da trasformazioni profonde, a vario titolo connesse alla diffusione delle tecnologie digitali; il sostantivo "biblioteca", nel lessico scientifico e professionale corrente, da tempo è integrato con elementi aggettivali (elettronica, ibrida, digitale) con l'obiettivo di marcare la natura evolutiva delle relazioni tra biblioteche e tecnologie digitali. Limitandoci alla sola recente produzione italiana, autori da tempo attenti a queste problematiche come Michele Santoro, Riccardo Ridi, Alberto Salarelli hanno proposto nuove modellizzazioni interpretative dell'identità della biblioteca, in grado di definirne e aggiornarne la fisionomia11 . Infine, nell'ambito delle riflessioni sulla diffusione del cosiddetto Web 2.0, si è iniziato a parlare di Library 2.0 e di biblioteche come conversazioni facendo riferimento, in quest'ultimo caso, alle teorie del cibernetico e psicologo inglese Gordon Pask e al diffondersi delle tecnologie del Web sociale, che nell'insieme convergono sull'idea, certo assai problematica, dell'utente come co-produttore dei servizi12 .
Le brevi digressioni storiche qui proposte e le sintetiche linee di riflessione che le accompagnano mostrano con chiarezza che stanno comunque accadendo, e continueranno ad accadere, fenomeni complessi e interagenti che modificano, più o meno percettibilmente, la fisionomia e la struttura dei curricula; fenomeni che lo storico Peter Burke ha descritto nella loro dimensione storica originaria, configurata agli esordi dell'età moderna13 . Le biblioteche, argomenta Burke, potevano, allora come ora, essere percepite e immaginate come una delle gambe, mutuamente dipendenti, di un tripode, i cui altri sostegni erano costituiti dalle università e dalle enciclopedie. In ognuno di questi ambienti, secondo forme e modalità diversi, veniva rappresentato il sapere che nel primo Cinquecento, per la crisi della scolastica e l'emersione della philosophia naturalis, viene profondamente reinterpretato. Le modalità di rappresentazione del sapere in una delle gambe del tripode influenzavano le modalità secondo cui quello stesso sapere veniva recepito e interpretato negli altri contesti. Le università, va aggiunto, non erano gli ambiti d'elezione in cui il sapere e i suoi campi venivano metaforicamente dissodati e coltivati; ciò accadeva principalmente nelle accademie e, solo ad una distanza rassicurante dall'emersione potremmo dire pre-paradigmatica di un nuovo profilo di un nuovo campo disciplinare, se ne poteva completare il processo di stabilizzazione e istituzionalizzazione attraverso la creazione di una specifica cattedra, che ne sanciva definitivamente il riconoscimento.
Ciò implica, dunque, che è indispensabile tener conto del fatto che i fenomeni si influenzano vicendevolmente, e tuttavia che da ciò non necessariamente consegue l'accettazione, alla fine passiva, di un determinismo oggi orientato dalle tecniche e dalle tecnologia. Ci servono, dunque, anzitutto strumenti per interpretare il cambiamento, e su di essi fondare le procedure di una gestione consapevole e critica.
In questa sede, richiamate brevemente alcune linee generali del dibattito, vorrei semplicemente limitarmi a rilevare che, in un contesto certamente molto problematico, si differenziano le posizioni di coloro che ritengono che sia comunque opportuno garantire evidenza agli elementi di continuità tra tradizioni pre-digitale e post-digitale, e coloro che invece puntano maggiormente in direzione della discontinuità, ritenendo che la gestione e l'elaborazione delle informazioni da parte delle macchine dia origine di per sé a fenomeni sui quali fondare una tradizione disciplinare che, se non del tutto diversa rispetto a quella classica, dia valore anzitutto alle differenze. Nel quadro di queste tensioni si situano le tensioni e le torsioni che generalmente investono il dibattito sulla individuazione dei contenuti sui quali dovrebbe vertere la formazione del bibliotecario, in particolare di quei bibliotecari che con queste dinamiche debbono quotidianamente confrontarsi.
Personalmente ritengo che la via giusta, o almeno la meno sbagliata, non possa che situarsi in una metaforica terra di mezzo nella quale, in linea teorica, siano equamente legittimate le diverse tipologie di istanze e di problemi teorici e tecnico-applicativi. E dunque, poste queste premesse, non è certamente sufficiente orientare il curriculum del bibliotecario digitale in una prospettiva esclusivamente tecno-informatica, se essa non si radica su adeguate conoscenze disciplinari di base.
Anche il bibliotecario digitale, insomma, deve in primo luogo essere un bibliotecario. In questo senso è senz'altro utile tenere conto di quanto scrive Anna Maria Tammaro in un suo recente contributo, nel quale vengono trattate sia le dinamiche generali relative alla formazione di ambito universitario, sia l'impostazione curriculare del master Digital Library Learning (DILL), il primo corso europeo per la biblioteca digitale, promosso congiuntamente dalle università di Oslo, Tallin e Parma14 . Questo curriculum, tuttavia, riguarda un master, e dunque non dà conto delle caratteristiche e dei contenuti che si ritengano fondanti del percorso formativo di base su cui il master stesso si situa. Per questo sarebbe utile e opportuno prendere in considerazione, nella sua più ampia dimensione, un modello simile a quello dell'ENSSIB (École Nationale Supérieure des Sciences de l'Information et des Bibliothèques)15 , le cui basi sono costituite dalle figure dei conservateurs e dei bibliothécaires sulle quali si innestano, per l'ambito tecnologico e digitale, una serie di master (Science de l'information et bibliothéques; Information scientifique et technique; Publication numérique; Archives numérique).
L'importante, in ogni caso, è definire dei percorsi i cui esiti consistano nel dotare le future generazioni di bibliotecari delle conoscenze e delle competenze necessarie per orientarsi in uno scenario che continuerà ad essere incerto e mutevole, e che proporrà indubbiamente evoluzioni sempre più rapide delle tecnologie digitali nel loro insieme; è molto probabile che quello in cui ci stiamo addentrando sia un secolo "brevissimo", dopo quello "breve" che lo ha preceduto16 . Credo, dunque, che il cambiamento indotto dalla diffusione delle tecnologie digitali in ambito documentario possa e debba essere affrontato, sotto il profilo formativo, con equilibrio e cautela. Innanzitutto, in qualunque tipo di curriculum destinato alla formazione di operatori da destinare alla progettazione e/o realizzazione di questi ambienti documentari deve essere garantita un'adeguata presenza di generali competenze culturali di base, prevalentemente di area storico-letteraria e dunque, in senso ampio, umanistico. Su questa base culturale si deve innestare una altrettanto solida cultura disciplinare entro la quale sia garantita la comprensione delle modalità, storicamente e culturalmente determinate, secondo cui sono stati elaborati princìpi e, a partire da essi, sono state sviluppate applicazioni. Infine, all'ultimo livello di questa metaforica piramide, debbono necessariamente situarsi le competenze tecnico-gestionali.
Quale può essere, in questo scenario certamente molto mosso e movimentato, un possibile ruolo per il sistema universitario? In primo luogo, direi, farsi carico di queste problematiche. Una università autoreferenziale e arroccata su una dimensione esclusivamente storico-bibliografica non può certamente qualificarsi come ambito efficace di elaborazione di questi campi tematici. Tuttavia, ritengo che neppure l'estremo opposto, e cioè lo sradicamento di questi temi dal tessuto umanistico che ne ha contraddistinto la genesi e il loro reinnesto in ambito tecnico-scientifico, possa costituire una soluzione soddisfacente.
Diviene allora indispensabile acquisire la stabile consapevolezza che sarà anzitutto necessaria, nei bibliotecari del presente e del futuro, la capacità di orientarsi nei "sentieri interrotti" della complessa e a tratti convulsa documentarietà contemporanea17 . In questo senso, mi permetto sommessamente di suggerire, la risposta non può consistere, a livello curriculare e formativo, nel rafforzamento esclusivo e autofondato delle sole competenze tecnico-informatiche, la cui adeguata conoscenza deve tuttavia, per ovvi motivi, essere garantita.
Alla luce di queste opinioni mi piace dunque immaginare un bibliotecario del futuro, digitale e non digitale, che disponga anzitutto degli strumenti di base necessari per interpretare fenomeni complessi; un bibliotecario che sappia efficacemente confrontarsi con i problemi connessi alla rappresentazione finalizzata ai bisogni degli utenti, di specifici e peculiari contenuti informativi; un bibliotecario che, con occhio equidistante, sappia guardare con uguale interesse lungo i due assi (questi sì davvero virtuali) del passato e del futuro; un bibliotecario che alla fine sappia consapevolmente radicarsi nell'ambito per lui più proprio, quello del presente, contribuendo a conferirgli ordine, equilibrio, misura e andando dunque in cerca di quel nomos della biblioteca che, oggi più che mai, costituisce il terreno comune di tutti coloro che si occupano di biblioteche, nelle loro varie e cangianti forme esteriori.
Ultima consultazione siti web: 21 marzo 2013.
[1] Relazioni e abstract degli interventi proposti sono consultabili alla pagina Archivi, biblioteche e musei: agenda per un futuro sostenibile, http://www.mab-italia.org/index.php/stati-generali-cultura-2012/presentazione.
[2] La letteratura su questo argomento naturalmente è molto ampia. Tra i contributi di sintesi più utili per una visione d'insieme ci limitiamo a segnalare: Bibliotecario nel 2000: come cambia la professione nell'era digitale, a cura di Ornella Foglieni, Milano: Editrice Bibliografica, 1999. Il volume, che raccoglie gli atti dell'omonimo convegno svoltosi a Milano il 12 e 13 marzo 1998, include tra l'altro: Luigi Crocetti, Bibliothecarius technologicus. Rivoluzione quantitativa o nascita di una nuova specie?; Stefen Ruckl, Come cambia la formazione del bibliotecario: una panoramica internazionale; Piero Innocenti, I contenuti culturali della professione del bibliotecario; Riccardo Ridi, Dal canone alla rete: il ruolo del bibliotecario nell'organizzazione del sapere digitale; Carlo Revelli, Fughe in avanti; Michele Santoro, Il terminale uomo: i bibliotecari e le nuove tecnologie fra passione e ossessione. Tra i numerosi contributi di aggiornamento pubblicati in «Biblioteche oggi», 28 (2010), n. 9, p. 57-61 , nella rubrica Osservatorio internazionale, si richiama inoltre Carlo Revelli, Il bibliotecario, oggi.
[3]Gabriel Naudè, Consigli per la formazione di una biblioteca, a cura di Massimo Bray, presentazione di Jacques Revel, Napoli: Liguori, 1992, p. 96-97.
[4]José Ortega y Gasset, La missione del bibliotecario e miseria e splendore della traduzione, Milano: SugarCo, 1984.
[5]Frederick Wilfrid Lancaster, Bibliotecari, tecnologia, servizi per il pubblico, in: La biblioteca amichevole. Nuove tecnologie per un servizio orientato all'utente, a cura di Ornella Foglieni, Milano: Editrice Bibliografica, 2000.
[6]Thomas S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino: Einaudi, 1995.
[7]Daniel Bell, The coming of post-industrial society. A venture in social forecasting, New York: Basic Books, 1973.
[8]Frederick Wilfrid Lancaster, The future of libraries in the age of telecommunications, in: Changing information concepts and technologies, New York: Knowledge Industries, 1982, p. 137-156.
[9]Ross Atkinson, Library functions, scholarly communication, and the foundation of the digital library: laying claim to the control zone, «Library Quarterly», 66 (1996), n. 3, p. 239-265.
[10]Michael Gorman, I nostri valori: la biblioteconomia nel 21. secolo, a cura e con presentazione di Mauro Guerrini, postfazione di Alberto Petrucciani; Id., La biblioteca come valore: tecnologia, tradizione e innovazione nell'evoluzione di un servizio, a cura e con prefazione di Mauro Guerrini; postfazione di Alberto Petrucciani, Udine: Forum, 2004.
[11]Michele Santoro, Biblioteche e innovazione. Le sfide del nuovo millennio, Milano: Editrice Bibliografica, 2006; Riccardo Ridi, La biblioteca come ipertesto. Verso l'integrazione dei servizi e dei documenti, Milano: Editrice Bibliografica, 2008; Alberto Salarelli, Biblioteca e identità. Per una filosofia della biblioteconomia, Milano: Editrice Bibliografica, 2008; Id., Introduzione alla scienza dell'informazione, Milano: Editrice Bibliografica, 2012.
[12]Cfr. Gordon Pask, Conversation, cognition e learning: a cybernetic theory and methodology, Amsterdam: Elsevier, 1975; R. David Lankes - Joanne Silverstein - Scott Nicholson, Le reti participative, la biblioteca come conversazione, http://www.aib.it/aib/cg/gbdigd07.htm3, testo cui si correla anche il Manifesto per le biblioteche digitali, curato dal Gruppo di studio sulle biblioteche digitali dell'AIB, http://www.aib.it/aib/cg/gbdigd05a.htm3.
[13]Cfr. Peter Burke, Storia sociale della conoscenza. Da Gutenberg a Diderot, Bologna: Il Mulino, 2002.
[14]Anna Maria Tammaro, Caratteristiche e valori della formazione universitaria per i bibliotecari in Italia da condividere con la comunità internazionale: un curriculum per la biblioteca digitale, in: Books seem to me to be pestilent things: studi in onore di Piero Innocenti per i suoi 65 anni, promossi da Varo A. Vecchierelli, raccolti, ordinati, curati da Cristina Cavallaro, Manziana: Vecchiarelli, 2011 , p. 783-794.
[15]Sito web: http://www.enssib.fr/.
[16]Il riferimento, come è evidente, è a Il secolo breve, titolo della fortunata opera dello storico inglese Eric J. Hobsbawm (scomparso nel mese di ottobre del 2012), pubblicata in prima edizione italiana da Rizzoli nel 1995 (ed. originale The Age of Extremes, 1994).
[17]Il riferimento è ai sei saggi che compongono la raccolta di Martin Heidegger Sentieri interrotti, scritta nel 1950 e pubblicata in prima edizione italiana a Firenze da La Nuova Italia, con presentazione traduzione di Pietro Chiodi.