di Gabriele Mazzitelli
Quanto si dovrà ancora attendere prima che le nostre università diventino "normali"? E ha senso questa attesa? Come Giovanni Drogo, protagonista de Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati, aspettiamo, chiusi nella Fortezza Bastiani dei nostri atenei. Ma cosa aspettiamo? Cosa ci aspettiamo? Come vincere la tentazione che un qualsiasi medico Rovina certifichi una malattia immaginaria e ci consenta di essere trasferiti da qualche altra parte, per tornare alla vita civile? Poi, malgrado tutto, non si riesce ad andarsene, gli anni passano e si procede nella carriera. Si passa di grado, da tenente si diventa quasi generale. Nel mondo circostante la vita prosegue. Abbiamo sempre maggiore bisogno di password per superare gli sbarramenti frapposti da molte sentinelle. E va adeguato anche l'armamentario. Devono migliorare le nostre conoscenze. Richiediamo giustamente che il nostro lavoro venga riconosciuto. Perché il nostro lavoro cambia, deve essere al passo coi tempi, seguire o inseguire la tecnologia e i nuovi media. Opporvisi sarebbe infantile. Chiediamo che anche i generali se ne rendano conto e che facciano in modo che i regolamenti riflettano le novità che viviamo sulla nostra pelle. Aspettiamo che i profili professionali vengano aggiornati. È giusto così. E anche questa una dimostrazione che ci accorgiamo e siamo partecipi dei mutamenti del mondo che ci circonda. Che non siamo asserragliati nella nostra Fortezza solo in attesa di non si sa cosa.
Eppure da tempo il rovello di una domanda mi assilla: a cosa servono i profili professionali negli atenei italiani? L'interessante dossier pubblicato sul n. 1 del 2013 di «AIB Studi»1 e le altrettanto utili riflessioni di Maurizio Vivarelli2 sul tema della formazione nel nuovo contesto in cui operano i bibliotecari delle università, non fanno che aumentare la forza dell'interrogativo. Non diversamente dal documento redatto dalla Commissione azionale Università ricerca dell'AIB dal significativo titolo Rilanciare le biblioteche universitarie e di ricerca italiane3. Sia detto subito per fugare ogni dubbio: la domanda che mi pongo non contiene alcuna vis polemica nei confronti delle considerazioni e delle problematiche sollevate. Tutte, per altro, condivisibili. Anzi, personalmente comprendo benissimo la necessità di queste riflessioni e la loro opportunità.
Ma se mi guardo attorno vedo il dipanarsi di una giornata lavorativa in cui bisogna fare i conti con carenze strutturali che paiono insanabili e, a causa delle quali, per far andare avanti la baracca è necessario spogliarsi di qualsiasi competenza e rimboccarsi le maniche per diventare una sorta di factotum.
Il nodo della questione a me sembra essere sempre lo stesso. Da un lato la "norma", la previsione astratta di una fattispecie concreta, dall'altro il mondo reale. Con l'aggravante che la realtà lavorativa ha due facce: il contesto in cui si opera, la professione "materiale", e la professione che evolve seguendo le strade delle novità che a mano a mano si vanno imponendo. Ed è appunto la professione con la "P" maiuscola che muove le riflessioni di chi giustamente vuole richiamare l'attenzione sul fatto che il mondo delle biblioteche accademiche è cambiato. È l'evoluzione della specie "bibliotecario" che porta a considerare la possibilità di imitare il modello americano come suggerisce l'elenco dei "ruoli emergenti" presente nel documento della CNUR, la cui lettura porta senz'altro molti a riconoscersi perfettamente in quelle funzioni, avendo dovuto nel corso degli ultimi anni adeguare le proprie competenze.
Perché si può anche non essere pessimisti. Qualcosa è cambiato. Dei progressi sono stati fatti. Ma non appena la crisi economica ha attanagliato gli atenei, le biblioteche hanno dovuto sopportare dei tagli che, in alcuni casi, rischiano di decretarne una lenta agonia, facendo sì che oggi la funzione principale riconosciuta a molte di queste strutture sia quella di tenere aperto il più a lungo possibile, in modo da garantire agli studenti delle sale di letture "protette". In un contesto del genere di quali profili professionali c'è bisogno se non di quello che una volta era ricoperto dagli uscieri? Il paradosso è che di uscieri ormai nelle pubbliche amministrazioni non ce ne è quasi più. Per fortuna, per ogni eventualità, ci sono gli studenti part-time, utilissimi, ma troppo spesso evocati come la soluzione di tutti i problemi, qualunque sia la mansione che si debba svolgere.
Sto esemplificando casi limite? Si tratta solo della sfortuna che magari tocca ad atenei periferici, mentre il panorama italiano è di gran lunga migliore? Di sicuro vi sono situazioni più rosee. Ma il nodo fondamentale resta. Quali sono le procedure per il reclutamento del personale bibliotecario? Sono finiti i tempi in cui in biblioteca si capitava per caso? Le contrattazioni nazionali e quelle locali tengono in debito conto le specificità oppure, come a me sembra (da sempre, per altro), le qualifiche, i mansionari, gli attuali livelli B, C, D o EP sono delle semplici finzioni, volte a giustificare un corrispettivo salariale, senza che poi vi si una reale rispondenza fra quanto previsto e il compito che si deve davvero svolgere? Al di là, poi, dell'inevitabile considerazione che eventuali adeguamenti possono valere solo per il personale già in servizio: di concorsi per assumere nuove unità chissà quando se ne riparlerà, vista l'attuale contingenza economica.
Non a caso nel documento della CNUR si fa riferimento alle offerte lavorative negli Stati Uniti. Ma è possibile paragonare quel sistema di reclutamento con il nostro? Le biblioteche universitarie e di ricerca italiane nella stragrande maggioranza sono pubbliche e come è noto «Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge», secondo quanto recita l'ultimo paragrafo dell'articolo 97 della nostra Costituzione. E se fosse questo uno degli ostacoli? A nessuno sfugge la ratio della norma, la volontà dei costituenti di dare pari opportunità, di premiare il merito attraverso una via tale da impedire l'accaparramento di posti "al servizio della nazione" solo per raccomandazione o conoscenze. Ma ancora di più: è evidente il desiderio di dare allo status di pubblico impiegato una qualificazione speciale, proprio perché la funzione pubblica esalta e eleva il compito di chi la svolge. Ma è stato così, è così? Tutti conosciamo la nomea che genericamente accompagna, a torto o a ragione, chi gode del mitico "posto fisso", per di più ottenuto sempre in maniera che ai più risulta sospetta. Il termine "parentopoli" è ormai entrato nel lessico quotidiano a designare un malcostume da cui nessuno è esente. I politici avranno dato il cattivo esempio, ma altre categorie li hanno subito entusiasticamente imitati. Nelle università la parentopoli è stata parimenti appannaggio sia dei docenti sia del personale non docente, con la complice accondiscendenza di tutti.
Quando potremo operare in strutture normali ("pubbliche" sia detto chiaramente, ma senza voler demonizzare quelle private), in cui l'intendimento principale dell'amministrazione, del Rettore, del Consiglio di amministrazione, insomma di chi le governa, sia quello di avere i docenti migliori per fornire un'offerta formativa seria e del personale non docente capace di rendere efficiente la macchina della didattica e della ricerca, offrendo il necessario supporto di managerialità e competenza?
A me pare che la giornata di un bibliotecario scorra segnata da gesti ripetuti. Il rito dell'apertura, sperando che non vi siano troppi colleghi assenti. Apre un B o un C o un D? Apre chi c'è. E chi chiuderà? Chiude chi c'è. E non per disorganizzazione, anzi al contrario, grazie a una non proprio consueta disponibilità del personale. Chi poi si occupi di inventario, di catalogazione o di document delivery non conta molto. Purtroppo le vicende del passato non ci fanno troppo ben sperare. Nel 1980 il pubblico impiego ha abbandonato la struttura gerarchica sostanzialmente modellata su quella dell'esercito. Ai gruppi A, B e C si sono sostituiti i livelli, fino ai cosiddetti ruoli speciali. Si è imposta l'idea che si dovesse premiare non l'anzianità di servizio, ma il merito, consentendo, per chi era già in servizio la possibilità di una mobilità verticale. Profili, mansioni, livelli salariali. Tutto accompagnato da buone intenzioni. Così per venti anni. Poi dai livelli contrassegnati da numeri siamo tornati alle lettere. Ed ad un'idea più dinamica delle competenze, sebbene la precedente riforma avesse come obiettivo proprio il raggiungimento di questo dinamismo. Nel frattempo le università sono aumentate di numero e hanno assunto sempre più l'aspetto di uffici di collocamento, più che di centri nevralgici per la formazione delle future classi dirigenti. E non c'è riforma che tenga. Nasce allora spontaneo il quesito: quale spazio c'è per un'organizzazione del lavoro in biblioteca che tenga conto delle nuove competenze? E ammesso che questa possibilità ci sia e si realizzi nei fatti di una struttura complessa che riesce a stare al passo coi tempi, quante speranze ci sono che norme, regolamenti, contrattazioni, ne tengano davvero conto? E laddove ne tengano conto quale è il principio economico che le sorregge? Per meglio dire: il compenso, lo stipendio in che modo viene determinato? Anche questo dovrebbe essere oggetto di riflessione se si prende come pietra di paragone la joblist dell'ALA. Quello attuale è un sistema sostanzialmente "chiuso", pensato per dispensare un po' a tutti, in un'ottica di spartizione il più possibile paritaria delle risorse perché tra dipendenti dello stesso livello non si creino troppe sperequazioni (senza che manchino le debite eccezioni anche in questo caso). Con l'idea di fondo che è sempre possibile qualche perverso favoritismo che premii non chi merita, ma chi è più "amico" di chi controlla i cordoni della borsa. In questo clima di sospetto e sfiducia, il livellamento verso il basso sembra essere la scelta più indolore, anche se produce un inevitabile abbassamento della qualità della prestazione lavorativa. Ma non considerare assieme i livelli professionali e i compensi stipendiali è un errore. Quanto vale una nuova competenza lavorativa? Quale è il reale rapporto tra l'inserimento in una fascia e il lavoro che si svolge? Oggi spesso è debolissimo, se non inesistente. E in più il sistema è pensato per tutelare chi in un modo o nell'altro è riuscito ad occupare quel posto di lavoro. Di ricambio generazionale è impossibile parlare. Alcuni atenei sono così "ingolfati" di personale docente e non docente, i cui stipendi assorbono tutto il budget trasferito dal Ministero, che "per fare cassa" l'unico modo è sperare in rapidi pensionamenti, che, a causa delle recenti normative, tanto rapidi non possono più essere. Si innesca così una guerra tra "poveri": i "garantiti" che si sentono sempre meno garantiti e cominciano a rischiare il posto fisso (la Grecia ne è un esempio tragico), ma che vengono visti come colpevoli dell'impossibilità per i giovani di coronare l'obiettivo di trovare l'agognato posto di lavoro, raggiunto dopo un percorso formativo, che pur con tutti i limiti e le carenze del nostro sistema, di sicuro è più adeguato che in passato.
A fronte di queste dolenti considerazioni, so bene che può essere avanzata la richiesta di non limitarsi ad elencare ciò che non va, ma di suggerire delle soluzioni. Sarò sincero: non ne ho. Non ho idee per cambiare questo stato di cose. L'intreccio di problemi che si solleva ogni qualvolta si tenti di mettere mano a un mutamento è tale da far perdere ogni speranza. E come tagliare il debito pubblico. Pare impossibile. Così come la lotta contro gli sprechi nella pubblica amministrazione che non c'è governo che non proclami di voler attuare, senza riuscirvi.
L'unica soluzione che mi sembrerebbe percorribile sarebbe quella di azzerare tutto e ricominciare daccapo. Ma anche questa radicale tabula rasa non garantirebbe affatto che quanto si va a ricostruire sia effettivamente esente dagli errori del passato.
Ecco perché nelle nostre università da tantissimi anni si continua ad assistere a riforme epocali che in genere portano a un peggioramento della situazione. Senza che ve ne sia una plausibile spiegazione, se non il dato di fatto di un costume, di un modo di essere, di un adeguamento al "così fan tutti" che, al di là dei proclami, alla fine ci costringe a compromessi quotidiani per mandare avanti la baracca. In questo modo la missione del bibliotecario a cui molti hanno sinceramente creduto e ancora credono, scolora nel fallimento di una generazione, mentre le discipline umanistiche languono, e non c'è nemmeno bisogno di andare in biblioteca per scrivere una tesina risibile, utile per conseguire una laurea breve: basta un "taglia incolla" usando il più famoso motore di ricerca, il cui nome ho sempre pensato nasca da un'involontaria corruzione del cognome di Nikolaj Gogol', unico scrittore che avrebbe saputo rappresentare, con la sua penna geniale, la grottesca farsa di queste finte prove d'esame finali.
Il documento della CNUR non a caso si intitola Rilanciare le biblioteche universitarie e di ricerca italiane, a testimonianza che queste biblioteche che da metà degli anni Ottanta del secolo scorso per un buon ventennio hanno rappresentato la punta avanzata della professione, oggi vivono una crisi di identità. A questo ha senz'altro contribuito la rivoluzione digitale che, ne sono convinto, ha portato a dei mutamenti molto positivi dal punto di vista dell'utente. Ma è il sistema delle biblioteche che non ha saputo o potuto affrontarla come si doveva. Non tanto per un problema di finanziamenti, che all'inizio non sono mancati, ma per l'incapacità della governance degli atenei di far fronte a questa sfida. Una straordinaria e roboante impreparazione tipica di chi ha altro "di più importante" a cui pensare. Anche in questo caso generalizzare può essere errato, ma le felici eccezioni non cambiano, a mio avviso, il quadro generale.
È riscrivendo i profili professionali in un più ampio contesto di una nuova considerazione "strategica" della funzione dei sistemi bibliotecari d'ateneo che si risolve il problema? Temo che abbiamo a che fare con chi non capisce e nemmeno vuole capire di cosa si stia parlando. Non credo di scorgere barlumi di interesse su questi argomenti. La risposta più probabile potrebbe essere quella di creare l'ennesimo sottolivello o di riconoscere la dirigenza anche per la carriera bibliotecaria. O magari di tornare dalle lettere ai numeri. Forse sarà il massimo che si potrà ottenere, ma non adesso. Più in là, quando si ricomincerà ad avere risorse. Le università italiane, purtroppo, hanno avuto la capacità di strutturarsi come delle scatole cinesi a tenuta stagna. Ogni scomparto ha una sua vita autonoma che fa dell'incomunicabilità con gli altri la propria forza. Tutto condito da una visione personalistica del proprio mandato. Si chiede e si dà per sé, per la propria cattedra, per il proprio dipartimento, senza che nessuno abbia una visione istituzionale degli obiettivi che ci si propone e di quanto serva per realizzarli.
L'attuale crisi economica ha ancor di più esasperato questi aspetti, riducendo l'universitas studiorum a una sorta di "stipendificio". Scrive Brecht: «Mangia e bevi - dicono - e sii contento di averne». A noi, più o meno dicono: «Prendetevi lo stipendio e siate contenti di averne». Riteniamoci fortunati, dunque.
E allora a me nasce spontaneo il quesito: ma a cosa servono i profili professionali nelle università italiane? A cosa serve immaginarne di nuovi? Mi rispondo come credo sia giusto rispondersi: le difficoltà quotidiane non devono farci smettere di rappresentare ai decisori politici e alla dirigenza amministrativa le novità di una professione in continua evoluzione. Evoluzione di cui siamo non solo testimoni, ma anche partecipi, pure in un contesto complesso come quello che viviamo ogni giorno.
Anche se domani, nella mia consueta giornata lavorativa, sono convinto che non mi si chiederà di dimostrare le mie nuove competenze ma, come al solito di trasformarmi, per l'ennesima volta, in un factotum. O di restare in attesa di una riforma epocale come Giovanni Drogo, circondato da un invincibile deserto dei Tartari.
[1] Maria Cassella - Paola Gargiulo - Pierfranco Minsenti - Maddalena Morando - Ellis Sada - Liliana Gregori - Paolo Sirito, Le professioni per le biblioteche accademiche di ricerca, «AIB Studi», 53 (2013), n. 1, p. 63-100.
[2] Maurizio Vivarelli, Alcune osservazioni a proposito della formazione del bibliotecario, «AIB Studi», 53 (2013), n. 1, p. 101-108.
[3] Disponibile all'indirizzo http://www.aib.it/struttura/commissioni-e-gruppi/2013/36257-rilanciare-le-biblioteche-universitarie-e-di-ricerca-italiane/.