di Stefano Parise
Non si era ancora del tutto sopita l'eco del 58° Congresso nazionale AIB che il tema del lavoro - uno dei motivi dominanti dell'assise romana - si è riproposto nella sua cruda attualità per via dell'annunciato bando "500 giovani per la cultura", suscitando le proteste di tutta la comunità degli operatori dei beni culturali e le prese di posizione critiche delle maggiori associazioni del settore, compresa la nostra.
La vicenda, figlia delle previsioni contenute nel decreto "Valore Cultura" e resa ulteriormente indigeribile a causa dei vincoli d'accesso disseminati da una burocrazia ministeriale che vive a distanza siderale dalla realtà, è emblematica della prospettiva occupazionale offerta in Italia alle migliaia di operatori della cultura che, dopo aver passato lunghi anni a formarsi, dopo aver accettato di svolgere innumerevoli lavori privi di prospettiva (e, spesso, di retribuzione) pur di fare esperienza e "curriculum", aspirano a una collocazione professionale stabile. Una speranza, al momento, totalmente mortificata.
L'art. 2 del Decreto 91/2013, infatti, stanzia 2,5 milioni di euro, eventualmente integrabili con risorse comunitarie, per l'attuazione da parte del Ministero dei beni e delle attività culturali e del Turismo di un programma straordinario finalizzato alla prosecuzione e allo sviluppo delle attività di inventariazione, catalogazione e digitalizzazione del patrimonio culturale, da realizzare attraverso il reclutamento presso gli istituti e i luoghi della cultura statali di cinquecento giovani under 35, laureati nelle discipline afferenti al programma o diplomati nelle scuole di Archivistica, Paleografia e Diplomatica, da formare per dodici mesi nelle attività di inventariazione e di digitalizzazione. L'impegno richiesto è di 35 ore settimanali, per un compenso forfetario di 416 euro lordi al mese - poco meno di 3 euro l'ora - e la promessa di una ricompensa a valere sul futuro: un attestato di partecipazione, valutabile ai fini di eventuali successive procedure selettive del Ministero e degli Istituti da esso vigilati.
Se vivessimo in un paese normale, l'iniziativa sarebbe da salutare con favore: attraverso l'istituto del tirocinio di inserimento lavorativo, introdotto nell'ordinamento italiano nel 1998 dall'art. 18 della L. 24 giugno 1997 n. 196 (Norme in materia di promozione dell'occupazione, meglio nota come Legge Treu), viene offerto a cinquecento giovani meritevoli la possibilità di effettuare una concreta esperienza lavorativa post formazione, cioè di fortificare e vivificare con l'esperienza e l'affiancamento di colleghi esperti le conoscenze acquisite all'università prima di accedere ai ruoli del ministero o di qualche altro ente pubblico o privato come catalogatore, bibliotecario, archivista, secondo un processo fisiologico di sostituzione progressiva e continua degli operatori in grado di garantire innovazione nella continuità, ricambio generazionale, valorizzazione dell'esperienza, possibilità di garantire lo svolgimento regolare del lavoro necessario per il buon funzionamento degli istituti.
Nel paese alla rovescia in cui ci troviamo, al contrario, l'ultimo concorso per l'assunzione di personale qualificato a svolgere le attività di cui sopra nelle biblioteche statali è stato espletato nel 1983, il personale esperto che dovrebbe garantire l'attività di tutoring ai 500 giovani o non esiste più causa pensionamento senza prospettiva di sostituzione o deve sopperire alle lacune degli organici e non ha il tempo necessario da dedicare al loro apprendistato, i tagli ai bilanci non consentono più come una volta di ricorrere a personale esterno per sopperire alle carenze delle piante organiche. In questa situazione di desertificazione occupazionale, ritenere che i 500 giovani siano destinati a un periodo di "formazione" è un insulto al buon senso e la manifestazione indetta l'11 gennaio per protestare contro un bando che ha - certo contro le intenzioni del Ministro - tutte le caratteristiche dello sfruttamento di manodopera qualificata appare una reazione troppo blanda, insufficiente persino per categorie ben educate e remissive come quelle degli operatori della cultura.
Al di là del merito di questa vicenda, la circostanza evidenzia - se mai ce ne fosse bisogno - che una riflessione seria sul tema delle prospettive e delle condizioni di lavoro nelle biblioteche e sul rapporto fra formazione professionale e prospettive occupazionali è ineludibile, pur con le difficoltà, le ambiguità e le recriminazioni a cui ci si espone trattandolo, come è chiaramente emerso anche nelle due giornate congressuali. La sclerosi del circuito che dovrebbe legare la formazione curricolare e l'accesso al mondo del lavoro attraverso periodi-cuscinetto di apprendistato produce effetti distorcenti e dirompenti su tutti gli anelli di questa catena. Il delicato rapporto fra formazione delle future maestranze bibliotecarie e immissione nei ruoli risulta profondamente compromesso.
La riforma dell'Università varata nel 2010, che sta portando gli atenei a un riassetto fondato sui "dipartimenti", non ha fatto altro che accentuare e rendere ancora più evidente la situazione di marginalità degli insegnamenti legati alle discipline del libro (e alla biblioteconomia in senso stretto) all'interno dell'accademia italiana: la mancata conquista di un profilo disciplinare forte e riconoscibile, la fragilità del legame con il mondo delle professioni del libro e dell'informazione e la lentezza (quando non la ritrosia) nel raccoglierne ed elaborarne le istanze e i bisogni come stimolo al rinnovamento degli insegnamenti (fatte salve, naturalmente, le buone pratiche riscontrabili in molti atenei) stanno conducendo diversi corsi di laurea ad indirizzo archivistico-biblioteconomico alla chiusura o a confluire all'interno di altri indirizzi di studi non specialistici, e riducendo fortemente i già scarsi spazi dedicati alla preparazione dei futuri bibliotecari. Questi ultimi, una volta raggiunto il traguardo della laurea, si trovano gettati nell'arena di un mercato del lavoro privo di occupazione a competere per un periodo di stage non retribuito o per un contratto con una delle aziende che operano nel settore, con scarse o nulle garanzie di continuità e stabilizzazione, nemmeno a lungo termine. L'assenza di prospettive occupazionali si riflette negativamente sull'appeal dei corsi di laurea del settore, alimentando un circolo vizioso che scoraggia i giovani dall'intraprendere determinati percorsi formativi, restringendo l'afflusso di matricole e indebolendo gli insegnamenti universitari che afferiscono al settore.
È questo il quadro drammatico, emergenziale, potenzialmente devastante, che rischia di inghiottire come un triangolo delle Bermuda ciò che resta del sistema bibliotecario italiano, di cui bisogna prendere atto a tutti i livelli (soprattutto se di responsabilità, in ambito politico, accademico, professionale) e che porta i tanti che per anni, a volte decenni, hanno cercato di resistere ottenendo invariabilmente lavoro precario, a considerare un intollerabile privilegio il tirocinio retribuito offerto con il bando "500 giovani per la cultura" e il bonus ad esso collegato, un attestato spendibile per future selezioni presso il MiBACT.
La percezione di aver chiuso la porta alla speranza è certamente più forte oggi che sette anni fa, quando l'AIB ha dedicato al tema della professione bibliotecaria un altro congresso nazionale, il 53° della serie. Il fenomeno del lavoro "atipico" che allora veniva per la prima volta posto al centro dell'attenzione in quanto fenomeno in ascesa, è oggi diventato il paradigma dell'offerta di lavoro in ambito culturale e non solo, perdendo quel carattere di eccezionalità che l'attributo "atipico" sembrava adombrare. L'atipicità del lavoro è diventata un prodotto tipico della società italiana d'inizio millennio, un marchio di fabbrica. Il combinato disposto della discontinuità dei rapporti di lavoro - termine forbito e gentile utilizzato per nascondere la crudeltà di una condizione professionale senza prospettive in un mercato del lavoro bloccato - e dei tagli ai bilanci delle biblioteche sono i fattori che producono la svalutazione delle competenze e lo sfruttamento del lavoro intellettuale. Il 58° congresso nazionale dell'AIB si è proposto di recare un contributo di riflessione su questo grumo di problematiche fortemente interconnesse e difficilmente interpretabili come sequenze lineari di cause ed effetti, cercando di allargare la panoramica a territori affini a quello bibliotecario per individuare le similitudini che possono far sentire i bibliotecari meno soli in questa battaglia per il diritto al futuro.
Non esistono ricette pret-à-porter per risolvere un problema che riguarda tutto il nostro paese e in particolare i giovani. Resta tuttavia l'obbligo morale e politico di cercare soluzioni per evitare di essere inghiottiti da questo inedito triangolo delle Bermuda e le direzioni principali da esplorare sono a mio giudizio le seguenti:
Un impegno che interroga i vertici dell'AIB, presenti e prossimi venturi, e tutti coloro che hanno a cuore le sorti delle biblioteche e dei bibliotecari italiani. Possiamo ragionare sulle modalità attuative e sull'ordine di priorità, non sulla necessità di un impegno corale. Dubitarne è un po' come gettare la spugna.